REDDITI Politica dei
Definizione e obbiettivi della politica dei redditi. - Uno dei cambiamenti più rilevanti avvenuti nel mondo occidentale a partire dalla seconda guerra mondiale riguarda i compiti assegnati alla politica economica. Dalla semplice difesa di un quadro istituzionale e legislativo nell'ambito del quale potessero liberamente operare le "forze di mercato" si è passati all'individuazione di ruoli positivi per la politica economica, ruoli che si configurano come una manipolazione diretta di tali forze.
È ben noto che, sotto l'influenza della Teoria generale di J. M. Keynes, uno degli obiettivi principali della politica economica è divenuto quello di garantire, attraverso l'impiego di strumenti fiscali e monetari, la piena occupazione delle risorse disponibili. La circostanza che il perseguimento di tale obiettivo abbia implicazioni sociali positive (sostegno del livello di occupazione) e nel contempo non richieda cambiamenti radicali nel quadro istituzionale dell'economia di mercato contribuisce certamente a spiegare la ragione del successo del messaggio keynesiano, che è stato fatto proprio dalla. maggior parte dei governi dei paesi occidentali. Era inevitabile peraltro che, una volta assuntasi questa responsabilità, i governi medesimi dovessero assumersi anche quella relativa ad "altri aspetti vitali dell'economia necessari a rendere fattibile la politica di piena occupazione" (Kaldor): l'equilibrio della bilancia dei pagamenti, la stabilità dei prezzi e lo sviluppo dell'economia.
Altrettanto inevitabile era che nel perseguimento dei vari obiettivi sorgessero problemi di compatibilità, tanto più gravi quanto più stridente si manifesti nei fatti il contrasto tra i "traguardi ideali del pieno impiego, della stabilità dei prezzi e dell'equilibrio esterno [... e le] condizioni effettive [...] di elevata disoccupazione, di persistente inflazione e di accentuati squilibri nei rapporti con l'estero" (Caffé).
Uno degli strumenti di cui si propone l'adozione nell'ambito di quella che può essere chiamata la politica delle compatibilità - un tema intorno al quale si è sviluppata un'abbondante letteratura - è rappresentato dalla politica dei r. (o politica dei r. e dei prezzi). Più specificamente il ruolo che è in prevalenza attribuito alla politica dei r. attiene alla compatibilità tra sviluppo dell'economia e stabilità dei prezzi, cioè tra crescita del r. e dell'occupazione e mantenimento di un livello dei prezzi costante (o contenimento entro limiti tollerabili delle pressioni inflazionistiche). Per questo motivo, in quanto segue sono omesse considerazioni riguardanti le pur rilevanti connessioni tra politica dei r. e vincolo della bilancia dei pagamenti: una volta chiarito il ruolo della politica dei r. e le difficoltà di vario ordine che la sua applicazione incontra, il discorso può essere esteso ai problemi di un'economia aperta.
Per chiarire in cosa consista la politica dei r. è opportuno far riferimento da un lato a quella interpretazione dell'inflazione che va sotto il nome di "inflazione da costi"; e dall'altro al concetto di sviluppo economico in condizioni di equilibrio dinamico (età dell'oro).
La prima interpretazione - sulla quale, secondo alcune autorevoli opinioni, starebbe manifestandosi un sempre maggiore consenso - individua l'origine del processo inflazionistico non in eccessi della domanda rispetto all'offerta globale, ma in aumenti eccessivi dei costi di produzione, e segnatamente dei costi di lavoro. In effetti se - in condizioni di concorrenza perfetta, in cui le imprese non hanno possibilità d'influire sui prezzi di vendita dei loro prodotti - l'incremento relativo dei salari è maggiore dell'incremento relativo della produttività media del lavoro, il saggio di profitto subisce una riduzione. Se invece la struttura del mercato non è concorrenziale e consente quindi alle imprese una possibilità di manovra sui prezzi, la loro reazione all'ipotizzato squilibrio tra variazione percentuale dei salari e variazione percentuale della produttività è rappresentata appunto da un aumento dei prezzi in difesa del margine di profitto precedentemente realizzato: il fenomeno inflazionistico sarebbe in tal senso provocato da una variazione "eccessiva" di una delle componenti del costo di produzione.
Lo sviluppo di un'economia secondo una linea di equilibrio dinamico - o età dell'oro - (che rappresenta, come si è detto, il secondo punto di riferimento per la definizione del ruolo della politica dei r.) avviene quando, in presenza di valori positivi dei saggi d'incremento della forza di lavoro e della produttività del lavoro, le variabili fondamentali (r., consumi, investimenti) crescono a un tasso pari alla somma dei saggi summenzionati; il salario monetario cresce al saggio a cui aumenta la produttività del lavoro e il salario reale, con prezzi costanti (il volume di risparmio è sempre esattamente sufficiente a finanziare gl'investimenti necessari per lo sviluppo in situazione di piena occupazione), segue il medesimo andamento nel tempo del salario monetario. Il saggio di profitto e la distribuzione del r. tra salari e profitti rimangono costanti.
È proprio questo insieme di condizioni - il cui carattere di astrazione è peraltro ben sottolineato dall'espressione usata da J. Robinson, "età dell'oro" - che la politica dei r. tende, almeno approssimativamente, a realizzare. Tale politica può così essere definita come quell'insieme d'interventi di politica economica volti ad assicurare, nel processo di sviluppo, la stabilità del livello dei prezzi attraverso il mantenimento della stabilità delle quote distributive attribuite alle categorie, o classi, sociali. Il presupposto del discorso è che nell'odierna realtà economica prevalgono forme di mercato non concorrenziali, in presenza delle quali l'abbandono della regola di crescita "equilibrata" del salario implicherebbe, per la difesa del precedente assetto distributivo, il prodursi di fenomeni inflazionistici.
La circostanza che le condizioni di crescita ideali di equilibrio dinamico siano ricavate dall'analisi di modelli di sviluppo "aggregati" consente nel contempo di chiarire - con riferimento alle ipotesi che in generale circoscrivono la validità di tali modelli - taluni dei principali limiti che la possibilità di applicare la politica dei r. incontra in concreto.
2. Difficoltà di attuazione della politica dei redditi.- Un primo gruppo di difficoltà è collegato con il fatto che nelle economie reali - a differenza di quanto si suppone di norma nei modelli teorici di sviluppo - esiste una pluralità di settori produttivi nei quali la produttività del lavoro non cresce allo stesso ritmo. Nei settori in cui la produttività cresce di più si rendono così possibili - senza variazioni dei prezzi e del tasso di profitto - aumenti di salari che negli altri settori non sarebbero attuabili: ne nascerebbero sperequazioni tra gli andamenti delle retribuzioni nei vari settori, contro le quali è presumibile un impegno delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Nella misura in cui tale impegno avesse successo, e consentisse così di assicurare a tutti i lavoratori operanti nel sistema i medesimi incrementi percentuali del salario, si renderebbe inevitabile - nei settori meno "progressivi" - o un aumento dei prezzi (in difesa del preesistente saggio di remunerazione del capitale) o l'accettazione di una riduzione del tasso di profitto. Con le forme di mercato oggi prevalenti - e, ripetiamo, in assenza di commercio estero - è la prima delle due alternative quella che presumibilmente troverebbe realizzazione: l'obiettivo della stabilità di tutti i prezzi non verrebbe realizzato. Prendendo allora atto della diversità dei ritmi di crescita della produttività nei vari settori, l'obiettivo della politica dei r. diventa quello di mantenere costante il livello generale dei prezzi (non più tutti i prezzi di tutti i beni prodotti) attraverso l'adozione di due canoni: 1) aumento dei salari monetari di tutti i settori in misura pari all'aumento della produttività media del sistema economico; 2) riduzione dei prezzi dei prodotti offerti dai settori in cui la produttività cresce oltre la media in modo da mantenere costante il tasso di profitto realizzato dalle imprese (questo tasso chiaramente aumenterebbe qualora i prezzi dei prodotti si mantenessero costanti nelle condizioni ipotizzate); e parallelamente aumento dei prezzi dei beni prodotti in settori in cui la produttività del lavoro aumenta meno della media (anche qui l'obiettivo è quello di mantenere costante il tasso di profitto delle imprese, obiettivo che non sarebbe possibile realizzare ove per ipotesi i prezzi dei prodotti di questi settori rimanessero costanti).
Occorre osservare che l'adozione concreta di tali regole incontra ulteriori difficoltà: in primo luogo, poiché verrebbero evidentemente perpetuate eventuali differenze settoriali o geografiche esistenti tra remunerazioni salariali (la crescita allo stesso tasso di salari inizialmente diversi implica infatti il mantenimento della sperequazione) potrebbero manifestarsi resistenze e obiezioni sia da parte dei responsabili delle scelte di politica economica, sia da parte degl'interessati e quindi pressioni dirette all'eliminazione delle differenze retributive. Nella misura in cui queste pressioni riuscissero ad avere successo l'accettazione delle regole di comportamento da parte delle altre componenti potrebbe essere posta in discussione e l'obiettivo della costanza del livello dei prezzi potrebbe divenire irraggiungibile.
In secondo luogo, data la prevalente struttura non concorrenziale dei mercati, si può presumere che i prezzi dei beni offerti dai settori in cui la produttività aumenta in misura inferiore alla media aumentino (per mantenere invariato il tasso di profitto di fronte agli aumenti salariali), mentre è assai improbabile - per non dire impossibile - che si riducano i prezzi di quei prodotti che sono offerti dai settori in cui la produttività è cresciuta più della media. In queste condizioni, evidentemente, anche l'accettazione della regola di comportamento da parte dei sindacati non sarebbe sufficiente a garantire il raggiungimento dell'obiettivo della stabilità monetaria. Le imprese tecnologicamente più efficienti (quelle che operano, con poteri monopolistici, nei settori con più elevati aumenti della produttività) registrerebbero un aumento del margine di profitto, che sarebbe presumibilmente utilizzato per un rafforzamento della loro posizione sui mercati; e la politica dei r. assumerebbe i contorni, difficilmente accettabili da parte sindacale, di una politica di contenimento dei salari reali.
Con riferimento alle ipotesi dei modelli di sviluppo può essere posta in risalto ancora una difficoltà di applicazione della politica dei redditi. Le uniche due categorie di r. considerate normalmente nei modelli di sviluppo economico e nel discorso della politica dei r. sono i profitti e i salari. Nella realtà concreta invece vengono distribuiti anche r. che hanno natura diversa da profitti e salari, e ai quali - nonostante le considerevoli difficoltà di classificazione e di qualificazione - si usa fare riferimento con l'espressione "rendita"; i principali fenomeni di questo tipo possono individuarsi nel settore edilizio e urbanistico, nel settore della distribuzione commerciale, in fenomeni collegati con talune inefficienze dell'apparato fiscale, nel settore di talune professioni "liberali", e nell'assetto e nella struttura del bilancio dello stato e degli enti pubblici.
Nella misura in cui le pressioni inflazionistiche siano dovute a fenomeni di questo tipo, anche la più scrupolosa attuazione delle suaccennate regole di comportamento della politica dei r. non sarebbe sufficiente ad assicurare il mantenimento della stabilità dei prezzi, cioè la finalità dichiarata di questo tipo di politica.
Ma la difficoltà maggiore che l'attuazione della politica dei r. incontra nella realtà è collegata con la sua "filosofia" di fondo, che è rappresentata - come si è detto - dal mantenimento dell'assetto distributivo già esistente. Poiché non esistono criteri di alcun tipo per definire aprioristicamente la giustezza, o equità, di una qualsiasi situazione della distribuzione del r. tra categorie di percettori, e poiché il movimento sindacale è sorto con il preciso scopo di modificare l'assetto distributivo attribuendo ai lavoratori una quota maggiore del r. prodotto, è difficile presumere in via generale che i sindacati operai - anche a prescindere da questioni attinenti alla loro adesione al quadro istituzionale e politico - accettino le prescrizioni della politica dei r. come un canone fondamentale della loro strategia e quindi delle scelte di comportamento concrete che da tale strategia discendono. Accettare tali criteri significherebbe infatti considerare come "giuste" o "eque" le quote distributive che caratterizzano la situazione di partenza - cosa che per motivi, si potrebbe dire, "istituzionali" il sindacato trova difficoltà a fare.
La presenza di elementi di carattere non concorrenziale, che consentano alle imprese di trasferire sui prezzi eventuali aumenti dei costi in difesa del tasso di profitto, induce inoltre i sindacati a considerare tali elementi responsabili dei fenomeni inflazionistici allo stesso titolo degli aumenti salariali.
A tali difficoltà di accettare la logica interna della politica dei r. si accompagna peraltro, per i sindacati, la necessità di misurarsi consapevolmente e pragmaticamente con una serie di temi, che possono qui essere solo brevemente enunciati: in primo luogo, la questione delle conseguenze che - a prescindere dalla questione della "responsabilità" dell'inflazione - un aumento dei salari in misura notevolmente superiore alla produttività tenderebbe secondo realistiche previsioni a provocare sul livello dei prezzi e quindi sul potere di acquisto dei lavoratori; in secondo luogo la questione degli effetti che una riduzione permanente del tasso di profitto può avere sul ritmo dell'accumulazione, e quindi dello sviluppo e dell'occupazione.
I suggerimenti alternativi di politica economica fanno in generale perno sull'uso dello strumento fiscale a fini redistributivi, rispetto al quale resta tuttavia aperto il problema dell'effettiva manovrabilità.
3. Conclusione. - Se è vero che la politica dei r. può essere inefficace ai fini della lotta all'inflazione ed è sempre uno strumento per il mantenimento dello status quo, è dunque vero anche che problemi di compatibilità - specie in società caratterizzate da forti squilibri sociali - esistono sempre; ignorarli significa accettare il rischio di pressioni inflazionistiche destabilizzanti e quello di spirali depressive da cui deriverebbe tra l'altro un aggravamento degli squilibri strutturali.
Nell'ambito delle ipotesi che circoscrivono il ragionamento sin qui fatto, si può dire in altri termini che sono concepibili solo due alternative al rifiuto di affrontare consapevolmente il problema delle compatibilità tra l'evoluzione dei r. e il raggiungimento di obiettivi di produzione e d'impiego delle risorse e di realizzazione di finalità programmate di riforme "strutturali".
La prima è quella di considerare come fisiologica una situazione in cui il livello di occupazione del lavoro sia inferiore alla piena occupazione e/o il livello dei prezzi aumenti assai velocemente; per quanto riguarda in particolare l'inflazione, tale alternativa consiste nel considerare la creazione di severe condizioni depressive (e quindi di elevati livelli di disoccupazione) come l'unico strumento per il controllo del livello dei prezzi.
Non sembra inutile ricordare incidentalmente a questo proposito che J. M. Keynes, decisamente contrario ad atteggiamenti rinunciatari di questo tipo, chiedeva in una lettera indirizzata a F. Graham, professore all'università di Princeton: "Quale livello di disoccupazione - altrimenti evitabile - propone di determinare per tenere i sindacati sotto controllo? Crede che un obiettivo di questo genere sia politicamente possibile nel momento in cui i sindacati si rendono conto di quali sono le intenzioni? La mia opinione preliminare è che altri strumenti più ragionevoli e meno punitivi debbano essere trovati" (lettera del 31 dicembre 1943- sottolineatura nostra). Non pare dubbio che con l'espressione "metodi più ragionevoli e meno punitivi" per il controllo dell'inflazione Keynes intendesse riferirsi a politiche di ricerca del consenso delle parti sociali. In questo senso cfr. anche J. M. Keynes, The economic consequences of Mr. Churchill, 1925 (la versione italiana è nel volume di scritti di Keynes, Esortazioni e profezie, Milano 1968; v. specialmente p. 197 segg.). L'accettazione della mancata piena occupazione e/o della persistenza di destabilizzanti fenomeni inflazionistici si traduce peraltro in un'aperta ammissione del fallimento della politica economica perché implica - specie sotto il profilo occupazionale - una scelta deliberata d'inefficienza economica.
La seconda alternativa è quella di un mutamento radicale del quadro istituzionale dell'economia, cioè la creazione di una società in cui tutti i mezzi di produzione siano di proprietà dello stato: la quota di r. non pagata sotto forma di salari non verrebbe attribuita a una determinata categoria sociale, "ma... all'intera comunità sotto forma di consumo collettivo e di accumulazione di capitale....."; "in questa situazione la politica dei redditi, come scelta di rapporti predeterminati tra produttività e salari in ogni settore e nell'economia nel suo complesso.... [sarebbe] semplicemente uno strumento della pianificazione nazionale" (Nuti).
Nella misura in cui ambedue queste alternative vengano scartate (la prima per la sua inefficienza; la seconda per i dubbi che possono riferirsi da un lato alla delicata e lungamente dibattuta questione del collegamento tra libertà economica e libertà politica - o tra pluralismo economico e pluralismo politico - e dall'altro alla possibilità di assicurare che la "comunità" eserciti un controllo economicamente efficiente della quota "profitti" per fini di consumo sociale e accumulazione di capitale), il problema delle compatibilità sopra accennato non può essere eluso.
In questo caso il circolo vizioso - cioè il legame di reciproca dipendenza tra autodisciplina salariale, eliminazione degli squilibri sociali più accentuati e processo ordinato di accumulazione - può essere spezzato (e trasformato in "virtuoso") solo a condizione che si riesca a determinare un sufficiente grado di adesione delle forze sociali al quadro in cui operano; in altri termini una loro sufficiente "fiducia" nella capacità operativa della classe politica e del governo che di quest'ultima è espressione. È questo il discorso - di cui alcuni contestano la legittimità - delle "contropartite", che non può peraltro esaurirsi (pena la sua totale inutilità) in meri ammonimenti; cioè in avvertimenti che un comportamento difforme dalle "regole" provocherebbe danni per tutti e in primo luogo per le categorie sociali di cui si vuole difendere la posizione.
La questione dei contenuti positivi delle "contropartite" diventa così condizionante ed essenziale.
Si può solo accennare, in estrema sintesi, ad alcuni dei possibili contenuti di tali contropartite. Anzitutto esse potrebbero essere rappresentate da un impegno per la riduzione e l'eliminazione di quella quota del prodotto nazionale non assorbita da salari e da profitti che è riferibile a fenomeni d'inefficienza: con un'espressione sintetica quanto imprecisa, la "lotta alle rendite". Anche se - come si è ricordato - esistono su questo terreno gravi difficoltà di definizione e conseguentemente di quantificazione, un impegno del genere, assumendo il senso di un impegno di lotta contro le manifestazioni di spreco delle risorse, può rappresentare un obiettivo politico sufficientemente preciso e accettabile. Vale qui la tesi secondo cui un sistema capitalistico - o a economia mista - riesce a sopportare il peso che gli deriva dall'esistenza di questi "r. da inefficienza" solo nella misura in cui i salari pagati siano inferiori nella media a quelli dei paesi con i quali il sistema stesso è in contatto sui mercati internazionali. Quando questa condizione venga meno, la contraddizione emerge con tutta la sua forza: se da un lato il peso del processo di aggiustamento nel breve periodo non può farsi interamente ricadere sulla categoria dei lavoratori, non sembra d'altro lato neppure ipotizzabile - sempre che, come si è supposto, non si voglia scegliere la via del cambiamento radicale del quadro istituzionale - un'esasperazione dell'atteggiamento sindacale come strumento per provocare la necessità di un impegno contro la categoria di r. di cui si parla. Anche qui l'uscita dal dilemma sembra risiedere unicamente nelle prove concrete di capacità operativa da parte di chi ha la responsabilità delle scelte di politica economica.
Un secondo ordine di contenuti concreti della "politica delle contropartite" è rappresentato dalla creazione di un contesto sociale civile e accettabile dal punto di vista dell'efficienza della pubblica amministrazione, dell'adeguatezza dei servizi sociali (istruzione, ospedali, trasporti) - tale adeguatezza consente ovviamente un aumento del r. reale dei lavoratori - dell'equità nella ripartizione effettiva del carico tributario, dell'attuazione di una normativa adeguata nel settore urbanistico, della tutela ambientale, ecc.
Un terzo ordine di contenuti può infine essere rappresentato dalla messa in atto di condizioni adatte alla "partecipazione" dei sindacati operai al processo di definizione delle scelte di politica economica, anche per quanto attiene ai delicati problemi relativi alla "gestione" del mercato del lavoro; una partecipazione che non può e non deve peraltro condurre a una confusione di ruoli, né implicare una perdita di autonomia da parte sindacale.
Nell'ambito di una politica economica "contrattata" tra governo e parti sociali dovrebbe forse essere possibile concordare qualche forma di "andamento controllato" della quota dei salari sul r. nazionale; un andamento che non dovrebbe necessariamente coincidere con la costanza nel tempo di tale quota e che comunque non dovrebbe escludere la possibilità di una redistribuzione all'interno della quota medesima, allo scopo di eliminare, o quanto meno di attenuare, le eventuali differenze settoriali o geografiche tra remunerazioni salariali.
Nonostante l'estrema rapidità del logorio cui vanno soggette locuzioni di questo tipo, l'espressione "patto sociale" può forse essere usata per sottolineare il passaggio dai criteri rigidi della politica dei r. a quelli - non suscettibili di precise definizioni a priori - di una politica economica contrattata.
In questo tipo di "dialogo" tra le forze sociali sarebbe inoltre possibile e doveroso chiedere ai sindacati precise assunzioni di responsabilità per quanto riguarda la realizzazione degli obiettivi di sviluppo senza inflazione - con particolare riferimento all'abbandono di ogni eventuale difesa, di tipo corporativo, di posizioni parassitarie e di atteggiamenti assenteistici.
La capacità di creare condizioni del tipo di quelle brevemente ora tratteggiate rappresenta certamente un problema cruciale; un sistema economico che non riesca a coagulare attorno a sé una sufficiente fiducia delle parti sociali appare in realtà privo di prospettive di sopravvivenza nell'ambito del suo quadro istituzionale e, a maggior ragione, di crescita entro tale ambito.
Nella difficile ricerca delle "condizioni di partecipazione" occorre peraltro essere assistiti dalla consapevolezza che non esistono, nella gestione della cosa economica, formule magiche per la soluzione dei problemi. La politica dei r. non è certamente una di queste formule.
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