Referendum e partecipazione popolare
In un contesto in cui emerge con sempre maggiore necessità l’esigenza di rivitalizzare istituti di democrazia diretta, quali strumenti correttivi della democrazia rappresentativa, per garantire l’equilibro complessivo del sistema, in perenne evoluzione, il disegno di legge di riforma costituzionale cd. Renzi-Boschi introduce significative novità, relative alle forme di partecipazione popolare a maggiore tasso di politicità.
Sin dai tempi dell’antica Grecia, sappiamo bene che la democrazia non può realizzarsi in maniera compiuta, è in continua evoluzione. Del resto, «una democrazia statica sarebbe … un controsenso, essendo implicito nella nozione di democrazia la conformità del governo alle esigenze sociali, le quali sono mutevoli»; la democrazia «è tale solo, solo se muove verso forme vieppiù consolidate», verso «un affinamento degli strumenti ed una sempre maggiore salvaguardia dai pericoli permanenti e dalle immanenti insidie»1. Come noto, peraltro, pur essendo ben presto diventato «un titolo di rispettabilità al quale nessun governante vuole e può rinunciare», una sorta di «passaporto senza il quale non si è ammessi al consesso dei popoli, dei governanti, degli Stati civili», la democrazia, concepita nell’accezione più rigorosa del termine, come regime che trova il suo fulcro nel popolo, non è mai davvero esistita, né forse, nella sua forma pura, potrà mai esistere, se non come «fugace meteora»2. L’unica forma di democrazia, effettiva, realistica e non utopistica è quella in cui, a differenza delle «altre forme di governo in cui si è attivati, … ci si deve poter attivare», una forma di «governo per il popolo», «in cui ai cittadini è attribuita una funzione attiva nelle decisioni che li riguardano»3. È in tale accezione che regimi democratici si sono susseguiti nel tempo, garantendo che siffatta attivazione potesse realizzarsi, sia pur con forme e limiti diversi. Diversi nel tempo, dalla polis ateniese ai giorni nostri, gli istituti e gli strumenti che hanno caratterizzato il cuore della democrazia4; molteplici le forme di manifestazione della partecipazione, tenuto conto anche dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione e almeno duplice la sua natura: confermativa od oppositiva al sistema; eterogenea, quindi, per gradi di intensità e livelli territoriali, la presenza dei cittadini nella vita politica. Petizione, iniziativa legislativa popolare, referendum, plebiscito, assemblee popolari sono solo alcuni degli istituti di democrazia partecipativa ai quali più di recente ne sono stati affiancati di nuovi, tecnologicamente più avanzati, per lo più indicati con espressioni di origine anglosassone, E-democracy, E-partecipation, E-voting. Indubbiamente, però, la forma di partecipazione popolare più ampia e diffusa, in senso diacronico e sincronico, più discussa e dibattuta nelle sue varie stagioni, è rappresentata dall’istituto referendario, sia esso concepito quale istituto di democrazia diretta o rappresentativa5.
L’indubbia consapevolezza di quanto sia prezioso il ruolo della partecipazione trova oggi conferma nell’esigenza, avvertita con sempre maggiore frequenza, di coinvolgere i cittadini nella vita politica in modo più intenso, efficace e vitale.
Molteplici le ragioni sottese a tale necessità, diversi i fenomeni che ne alimentano il ricorso.
A livello nazionale, basti pensare alla crisi della rappresentanza che attanaglia, ormai da decenni, il modello costituzionale italiano: i cittadini hanno perso fiducia nel Parlamento, stentano a riconoscere nei partiti efficaci strumenti di intermediazione e congiunzione tra cittadini ed istituzioni, come emerge da quei fenomeni, inequivocabili quanto allarmanti, quali l’astensionismo e la disaffezione6.
A livello europeo, per arginare gli effetti di quel destabilizzante deficit democratico che ha sempre pesato sull’Unione, il Trattato di Lisbona ha ridotto le distanze tra cittadini e istituzioni, consentendo ai cittadini dell’Unione di indurre la Commissione «a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei trattati» (art. 11, co. 4, TUE).
A livello virtuale, le nuove tecnologie della comunicazione non solo riducono le distanze, i tempi e gli spazi, ma rivelano potenzialità egualitarie: la comunicazione non avviene dall’alto verso il basso, come con i mass-media, tramite i quali la notizia si diffonde passivamente su una platea di destinatari, ma procede in senso orizzontale e dunque paritaria. La rete assicura indubbiamente una più ampia, rapida ed eguale partecipazione popolare.
In questo quadro, si inserisce il tentativo, del disegno di legge di riforma costituzionale, cd. Renzi-Boschi, volto a potenziare e ad arricchire gli strumenti di democrazia partecipativa.
La revisione costituzionale in itinere interviene, in maniera più incisiva, su quelle forme di partecipazione popolare «a più alto tasso di politicità»7, vale a dire su quelle destinate ad incidere, migliorandola a livello qualitativo, sulla democrazia rappresentativa, ovvero sull’iniziativa legislativa popolare e sulle varie forme di referendum. Ratio sottesa a tale riforma è l’esigenza di incrementare il coinvolgimento dei cittadini nel procedimento legislativo e nella vita politica, affidando loro migliori e più efficaci possibilità di accelerare (tramite l’iniziativa legislativa e le nuove forme di partecipazione popolare) o di “rivedere” (tramite il referendum abrogativo) scelte prese dalle assemblee rappresentative.
Affinché l’iniziativa legislativa non abbia solo carattere propositivo, ma diventi uno strumento effettivamente partecipativo, la nuova formulazione dell’art. 71 Cost. prevede che «Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta di almeno centocinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli. La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari».
Nell’ottica di garantire un maggior coinvolgimento dei cittadini alla vita politica del Paese e probabilmente anche per bilanciare il rafforzamento delle logiche maggioritarie sottese alla riforma costituzionale, all’art. 71 Cost. si propone di aggiungere un ultimo comma ove si legge che: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e di indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione». Trattasi, dunque, ancora di una norma in bianco, ma densa di aspettative.
Al fine di incrementare poi l’efficacia del risultato referendario e ovviare al patologico ricorso all’astensionismo politico, il disegno di legge di riforma prevede che il quorum funzionale sia variabile e dunque «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».
Sulla necessità di valorizzare le potenzialità degli strumenti di partecipazione popolare, sottesa al disegno di legge costituzionale, nulla quaestio.
Problematici e ancora incerti gli effetti, a fronte delle modalità prescelte.
Quanto all’iniziativa legislativa, due le novità, legate alla nascita e al destino dei disegni di provenienza popolare.
Innanzitutto aumenta sensibilmente il numero dei sottoscrittori: da 50.000 a 150.000. Un incremento significativo dovuto, con ogni probabilità, all’attuale consistenza del corpo elettorale, quasi raddoppiata rispetto a quella di riferimento ai tempi della Costituente. Anzi, forse, c’è chi sostiene che si sarebbe potuto elevare ulteriormente il numero dei sottoscrittori, qualora il legislatore avesse consentito il ricorso agli strumenti telematici per la raccolta delle firme, come si auspicava8.
Dovrebbe fungere da contrappeso all’incremento delle firme la seconda novità: adoperarsi affinché siano predisposti strumenti in grado di garantire che la proposta, avanzata con grande dispendio di energia, sia almeno discussa in Parlamento. Come noto, infatti, a dispetto della formale equiparazione delle iniziative legislative, astrattamente abilitate, con la medesima forza, a provocare l’attivazione del procedimento legislativo, quelle di derivazione popolare non sono mai state in grado di competere paritariamente con le altre iniziative, versando in una sorta di stato di minorità. Nonostante dette iniziative appartengano a quel ristretto numero di disegni non travolti dalla fine della legislatura, esse hanno sempre avuto una possibilità di successo davvero scarsa: rarissime, nella prassi, le occasioni in cui hanno concluso il proprio iter, senza perdersi nei meandri dei lavori parlamentari. Basti pensare che dal 1979 ad oggi, solo 3 delle 260 iniziative legislative popolari sono diventate leggi e ben 137 delle stesse totalmente ignorate.
L’intenzione del legislatore costituzionale sembrerebbe dunque quella di inserire l’istanza propositiva in una dinamica decisoria, in grado di garantire al corpo elettorale una più effettiva partecipazione alla produzione legislativa. Sulla carta, un decisivo passo in avanti, una nuova stagione per l’iniziativa popolare. Inevitabile però qualche dubbio sulla fattibilità di tale garanzia, a fronte delle modalità prescelte. Saranno i regolamenti parlamentari a disciplinare forme, tempi e limiti della discussione e della deliberazione definitiva. Lascia perplessi la scelta di rimandare la disciplina ad altra fonte ed, in particolare, ad una fonte normativa – peraltro, approvata dal Senato, non più rappresentativo – insindacabile e dunque priva della garanzia costituzionale e, come noto, cedevole. Difficile “accontentarsi” di questa garanzia come contropartita all’incremento del numero delle firme richiesto.
Quanto all’istituto referendario, la riforma non interviene sui referendum cd. territoriali di cui agli artt. 132 e 133 Cost., né sul referendum costituzionale ex art. 138 Cost., nonostante, peraltro, con riguardo a quest’ultimo, in passato, si sia a lungo dibattuto sull’opportunità di valorizzare l’istituto, tanto da spingere ad avanzare concrete proposte per elevare il quorum di garanzia o addirittura per rendere il referendum obbligatorio e non più soltanto (doppiamente) eventuale.
La riforma introduce, invece, con una disposizione del tutto nuova e potenzialmente davvero significativa, altre forme di partecipazione alla determinazione delle politiche pubbliche: referendum propositivi, di indirizzo e altre forme di consultazione (art. 71, ult. co., Cost.).
I primi, già noti nell’ordinamento svizzero e nella Repubblica di San Marino, assolvono ad una funzione di stimolo e di impulso nei confronti del potere decisionale ma, se inseriti nell’ambito di un procedimento legislativo, si configurano, con ogni probabilità, come speciali forme di iniziative. I referendum di indirizzo rappresentano, invece, nella sostanza, referendum consultivi; al pari di questi, spesso utilizzati nei Paesi del Nord-Europa e in Italia previsti da molti statuti di enti regionali e locali, sono forme di partecipazione popolare piuttosto deboli, capaci di produrre però effetti politicamente (anche se non giuridicamente) vincolanti. Un episodio, sia pur rimasto isolato si ricorda in Italia il 18 giugno 1989, con riguardo al conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo. «Altre» forme di consultazione sono quelle volte a migliorare ed integrare il processo decisionale pubblico con strumenti e modalità diversi rispetto a quelli espressamente disciplinati. Potrebbe trattarsi di questionari, consultazioni pubbliche, attivate tramite mezzi telematici o altri strumenti tecnologici. Siffatte consultazioni potrebbero coinvolgere anche formazioni sociali, mentre a livello soggettivo, per i referendum propositivi e di indirizzo unico requisito è lo status di cittadinanza. Si assiste dunque ad una significativa estensione della platea dei soggetti coinvolti nella consultazione: non solo le persone fisiche ma anche le formazioni sociali, nelle altre forme di consultazione, non solo gli elettori ma tutti i cittadini, nei referendum.
Nulla di più si può desumere dal testo della riforma essendo rimessa la disciplina delle condizioni e degli effetti delle nuove forme di partecipazione ad una successiva legge costituzionale e le modalità di attuazione delle stesse ad una successiva legge ordinaria. Nonostante sia stata avanzata qualche perplessità sulla scelta di procrastinare il perfezionamento delle nuove forme di partecipazione a successivi interventi legislativi, pare leggersi dietro la novella costituzionale una significativa apertura verso nuove forme di raccordo e consonanza tra istituzioni e cittadini che, pur prive di effetti giuridici vincolanti, esprimono una più intensa e vitale partecipazione popolare alla vita politica.
Quanto al referendum abrogativo, la disciplina di cui all’art. 75 Cost., subisce tre modifiche nel disegno di legge di riforma.
Due più formali che sostanziali, una più significativa e problematica.
A livello soggettivo, il diritto di partecipare al referendum è riconosciuto più genericamente a tutti gli elettori, piuttosto che ai cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati, a fronte, probabilmente, dell’inutilità di siffatta precisazione posto che, nel disegno di riforma, i cittadini sono chiamati all’elezione della sola Camera.
A livello oggettivo, l’espressione «valore di legge» sostituisce quella di «forza di legge» per indicare gli atti sottoponibili al referendum. Le aspettative di chi riteneva che dietro siffatta scelta si celasse un effettivo e ragionevole convincimento del legislatore costituzionale a precisare la categoria degli atti, oggetto del referendum, sono state deluse dalla lettura dei lavori preparatori del disegno di legge di riforma, ove appare chiaro e sorprendentemente disinvolto il ricorso alle due espressioni con valore assolutamente sinonimico.
Maggiormente discussa e, ancora oggi, oggetto di un vivace dibattito è l’introduzione di una possibile flessibilità del quorum di validità, in ragione del numero delle firme raccolte dai promotori. Qualora si raggiunga la soglia delle 500.000 firme, resta invariata la disciplina, con la necessità di raggiungere dunque la maggioranza degli aventi diritto al voto. Qualora invece si raggiunga un maggior numero di firme, almeno pari a 800.000, il quorum funzionale sarà determinato dalla maggioranza dei cittadini che hanno votato alla precedente elezione della Camera dei deputati e dunque scenderà di molto, tenuto conto delle ridotte percentuali di votanti alle ultime elezioni politiche.
Intuibile la ratio sottesa alla previsione, opinabile il margine di successo.
Che la spinta propulsiva dell’istituto referendario abbia perso la propria forza, il proprio vigore, il proprio dinamismo è ormai acclarato dalla storia referendaria degli ultimi vent’anni. I tentativi di aggiramento della vis abrogativa perpetrati dal Parlamento, gli ostacoli normativi, i rigidi confini all’ammissibilità del referendum, disegnati dal giudice costituzionale e soprattutto gli appelli all’astensionismo elettorale hanno finito per falsare la natura dello strumento9, tanto da interrogarsi sul se il referendum rappresenti «un’arma ormai spuntata»10.
In tale contesto, il disegno di legge di riforma introduce un meccanismo premiale per dare nuovo smalto all’istituto: raccolto un più elevato numero di firme, sarà sufficiente che si rechi alle urne la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni politiche per raggiungere il quorum funzionale. Tenuto conto del distacco degli elettori dalla politica, però, la raccolta di 300.000 ulteriori firme potrebbe rappresentare un ostacolo davvero insormontabile.
Effetto indiretto della nuova disposizione potrebbe essere quello di incentivare la partecipazione alle elezioni politiche, per evitare che, a fronte di un elevato numero di sottoscrittori, si possa giungere in futuro all’abrogazione di un atto normativo ad opera di una frazione anche assai esigua del corpo elettorale. Effetto indiretto auspicabile, ma forse poco realistico.
Che la determinazione del quorum di validità in ragione del tasso di partecipazione alle elezioni politiche possa esser un valido rimedio contro l’astensionismo non è peraltro un’idea nuova. Già in dottrina, riflettendo sul problema, si proponeva, «se non proprio l’eliminazione, quantomeno la riduzione del quorum, stabilendo una percentuale inferiore, adeguatamente calibrata ai nuovi valori di partecipazione democratica»11. In giurisprudenza, la stessa Corte costituzionale non riteneva irragionevole, «in un quadro di rilevante astensionismo elettorale, stabilire un quorum strutturale non rigido, ma flessibile, che si adegui ai vari flussi elettorali, avendo come parametro la partecipazione del corpo elettorale alle ultime votazioni del Consiglio regionale, i cui atti appunto costituiscono oggetto della consultazione referendaria» (C. cost., 2.12.2004, n. 372).
Quel che appare palesemente irrazionale è invece la correlazione tra effetto e presupposto12. Differenziare il quorum in ragione del “peso” dell’iniziativa non solo è astrattamente privo di logica, ma può provocare irragionevoli discriminazioni. In senso diacronico, si pensi all’anomala discrasia tra la validità di un referendum raggiunta nonostante un’esigua partecipazione dei votanti (anche inferiore al 40% degli stessi, tenuto conto dell’affluenza all’ultima tornata elettorale), soltanto perché piuttosto elevato il numero dei sottoscrittori (superiori agli 800.000) e l’invalidità di un referendum, richiesto da un numero, comunque, non esiguo di cittadini (anche in ipotesi di poco inferiore a 800.00) nonostante un’elevata partecipazione alla tornata elettorale (di poco inferiore al 50% degli aventi diritto). In senso sincronico, non può sottacersi poi l’evidente discriminazione nei confronti delle iniziative regionali, di cui all’art. 123, co. 3, Cost., rispetto alle quali rimane sempre invariata la necessità di raggiungere la maggioranza degli aventi diritto al voto.
Note
1 Lavagna, C., Istituzioni di diritto pubblico, II ed., Torino, 1973, 536.
2 Bobbio, N., Il futuro della democrazia, Torino, 2005, 74.
3 Zagrebelsky, G., L’essenza della democrazia, in paroledigiustizia.it, 2010, 1 s.
4 Allegretti, U., La democrazia partecipativa in Italia e in Europa, in Riv. AIC (rivistaaic.it), 2011, 1.
5 Luciani, M., Art. 75 Cost., in Comm. Cost. Branca (continuato da Pizzorusso), Bologna-Roma, 2005, 12 ss.
6 Celotto, A., in Le nuove “sfide” della democrazia diretta, a cura di A. Celotto e G. Pistorio, Napoli, 2015, VII.
7 Costanzo, P., Quale partecipazione popolare nel d.d.l. di riforma costituzionale (c.d. Renzi-Boschi), in Forum sul d.d.l. costituzionale “Renzi-Boschi”, a cura di P. Costanzo, A. Giovannelli e L. Trucco, Torino, 2016, 16.
8 Costanzo, P., op. cit., 18.
9 Fontana, G., Il referendum costituzionale tra processi di legittimazione politica e sistema delle fonti, in federalismi.it, 22 luglio 2016, 30 s.
10 Barbera, A.-Morrone, A., La Repubblica dei referendum, Bologna, 2003, 241.
11 Barbera, A.-Morrone, A., op. cit., 245.
12 Rossi, E., Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale, Pisa, 2016, 159.