Reformatio in peius in appello
Nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, il giudice d’appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio ex art. 603, co. 3, c.p.p., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
L’affermazione della sussistenza di un diritto dell’imputato alla riassunzione della prova nel giudizio di impugnazione ha progressivamente preso corpo nella giurisprudenza della C. eur. dir. uomo attraverso una serie di pronunce in cui si è affermato che in grado di appello – a fronte di un proscioglimento pronunciato in primo grado sulla base di prove dichiarative – l’affermazione di responsabilità è consentita solo previa nuova assunzione diretta dei testimoni, pena la violazione dell’art. 6, § 3, lett. d), CEDU, che assicura il diritto dell’imputato di «esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico»1. A fronte di tale consolidato indirizzo, come tale vincolante per il nostro ordinamento2, si è posto il problema di stabilire se il mancato rispetto dei parametri di legalità convenzionale – ove non dedotto dal ricorrente – sia rilevabile d’ufficio dalla Corte di cassazione.
Un primo orientamento ha prospettato una soluzione negativa considerando, da un lato, che la questione riferita alla violazione dell’art. 6 CEDU fosse riconducibile, sia pure con i dovuti adattamenti, alla nozione di «violazione di legge», da far valere, ex art. 581 c.p.p.,
mediante l’illustrazione delle ragioni di fatto e di diritto poste a sostegno della necessità di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale3; dall’altro, che la scelta dell’imputato di non proporre la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale determinasse, altresì, l’impossibilità di attivare il rimedio convenzionale, il cui presupposto è la «consumazione» di tutti i rimedi offerti dall’ordinamento processuale.
Un diverso indirizzo, invece, approda alla conclusione della rilevabilità d’ufficio, ex art. 609, co. 2, c.p.p., a partire da quelle decisioni dei giudici di Strasburgo in cui si è sottolineato che la regola del previo esaurimento dei rimedi interni vada applicata con flessibilità e senza eccessivo formalismo4; in tale ottica, pertanto, affinché possa dirsi osservato il requisito del previo esaurimento dei rimedi interni, è sufficiente che l’interessato abbia comunque impugnato la decisione, e ciò in quanto la mancata proposizione di un motivo specifico di gravame con cui si eccepisca la violazione del principio dell’equo processo, non può ostacolare un intervento officioso diretto a rimuovere una situazione di illegalità convenzionale5.
Sul contrasto sono intervenute le Sezioni Unite6. Sullo sfondo del percorso ermeneutico tracciato dalla Suprema Corte si collocano quelle decisioni della C. eur. dir. uomo in cui si afferma che – anche nell’ipotesi in cui, come nel caso sottoposto all’esame del Supremo Collegio, l’imputato ed il suo difensore non abbiano sollecitato una nuova escussione dei testimoni – si verifica una lesione della norma convenzionale7. Siffatto orientamento consolidato trova, peraltro, corrispondenza in quegli approdi della giurisprudenza interna in cui si evoca un particolare dovere di motivazione che incombe sul giudice di appello che affermi la responsabilità di un imputato prosciolto in primo grado8; un dovere da assolvere sia confutando specificamente gli argomenti più rilevanti della prima decisione che prospettando le ragioni poste a sostegno della riforma del provvedimento impugnato. La prospettiva è quella della cd. «motivazione rinforzata» nell’ipotesi di condanna in appello a seguito di reformatio dell’assoluzione; in altri termini, per riformare un’assoluzione non è sufficiente una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla valutazione del primo giudice9; al contrario, è necessaria «una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio»10 e ciò in quanto «la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza»11.
Le Sezioni Unite ribadiscono tali conclusioni e prospettano una soluzione che replica la proposta – in precedenza formulata dalla Commissione Canzio – di inserire dopo il co. 3 dell’art. 603 c.p.p. un co. 3-bis in cui si stabilisce che «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale»12 (d.d.l. n. 2067 «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario»).
Snodo centrale della prospettiva tracciata è la considerazione secondo cui il giudice di appello non possiede «una “autorevolezza maggiore”» del giudice di primo grado e per questa ragione è legittimato «a ribaltare un esito assolutorio, sulla base di un diverso apprezzamento delle fonti dichiarative direttamente assunte dal primo giudice» ma solamente a condizione «che nel giudizio di appello si ripercorrano le medesime cadenze di acquisizione in forma orale delle prove elaborate in primo grado». Da ciò discende che, nel caso in cui il pubblico ministero censuri l’assoluzione deducendo l’erronea valutazione della concludenza delle prove dichiarative, il giudice di appello non può procedere ad una affermazione di responsabilità senza avere proceduto – anche d’ufficio – a rinnovare l’istruzione dibattimentale, disponendo l’esame di coloro che abbiano reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini dell’esito assolutorio di primo grado. Nell’ottica della Suprema Corte, dunque, quando venga in rilievo il principio del «ragionevole dubbio» la rinnovazione è «assolutamente necessaria» (art. 603, co. 3, c.p.p.) perché collegata all’esigenza che il convincimento del giudice di appello si fondi – come in primo grado – su prove dichiarative direttamente assunte. Nell’economia della soluzione, non rileva lo specifico status assunto dal dichiarante, potendo trattarsi di testimone, anche assistito, o di coimputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso. Medesimo discorso viene prospettato con riferimento alle dichiarazioni rese dall’imputato in causa propria; anche se in questo caso, laddove l’imputato rifiutasse di sottoporsi ad un nuovo esame, viene condivisibilmente esclusa la sussistenza di preclusioni all’accoglimento dell’impugnazione, perché diversamente opinando si attribuirebbe all’imputato il potere di condizionare potestativamente l’esito del processo. Sulla doverosità della rinnovazione non incide neppure il fatto che l’impugnazione del pubblico ministero si diriga contro una sentenza di assoluzione emessa nell’ambito del giudizio abbreviato o si tratti di impugnazione della parte civile ai fini delle statuizioni civili.
Se procedere ex actis al ribaltamento dell’esito assolutorio di primo grado significa non rispettare il principio dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533, co. 1, c.p.p.), la sentenza con cui il giudice di appello affermi la responsabilità dell’imputato è affetta da vizio di motivazione ex art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p.; in tal caso, nell’atto di ricorso l’imputato, deve dirigere le sue censure sul punto della sentenza contenente l’affermazione della responsabilità penale e prospettare doglianze attinenti alla errata valutazione delle risultanze probatorie; invece non è necessario – conformemente agli approdi della giurisprudenza europea sul punto – che si effettui specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, § 3, lett. d), CEDU.
Note
1 In tal senso, tra le molte, v. C. eur. dir. uomo, 15.9.2015, Moinescu c. Romania.
2 Sulla forza vincolante della giurisprudenza della C. eur. dir. uomo nei confronti del giudice nazionale v., da ultimo, C. cost., 26.3.2015, n. 49.
3 In tal senso v., Cass. pen., sez. I, 9.6.2015, n. 26860, in CED rv. n. 263961, Bagarella.
4 Cfr., C. eur. dir. uomo., 19.3.1991, Cardot c. Francia.
5 Sul punto v., Cass. pen., sez. I, 3.3.2015, n. 24384, in CED rv. n. 263896, Mandarino.
6 Cass. pen., S.U., 28.4.2016, n. 27620, Dasgupta.
7 Sul punto v., in particolare, C. eur. dir. uomo, 4.6.2013, Hanu c. Romania.
8 Cfr., Cass. pen., S.U. 30.10.2003, n. 45276, in CED rv. n. 226093, Andreotti.
9 Per questo aspetto, in dottrina, Gaeta, P., Condanna in appello e rinnovazione del dibattimento, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, p. 628.
10 In questi termini, Cass. pen., sez. VI, 10.7.2012, n. 46847, in CED rv. n. 253718, Aimone.
11 Così Cass. pen., sez. VI, 3.11.2011, n. 40159, in CED rv. n. 251066, Galante.
12 In dottrina, su tali modifiche, Bargis, M., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del ddl n. 2798 approvato dalla Camera dei Deputati, in www.penalecontemporaneo.it, 19.10.2015; v., inoltre, Pollera, M., L’appello, in Marandola, A. La Regina, K. Aprati, R., Verso un processo penale accelerato, Napoli, 2015, 191 ss.