Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Reggae e hip hop sono due forme musicali popular dotate di un impatto tale che, nell’ultima parte del Novecento, a partire dai luoghi d’origine, rispettivamente Giamaica e metropoli statunitensi, hanno influenzato l’Europa e da lì l’intera scena mondiale. Caratterizzate, sul piano musicale, dall’assimilazione diretta della tecnologia elettrica ed elettronica all’interno di un assetto culturale tradizionale-orale e contraddistinto da performance verbali, entrambe sono correlate a un peculiare immaginario visivo, estetico e comportamentale e hanno prodotto efficaci forme di traduzione in differenti contesti locali.
La musica popular giamaicana, a differenza di altre espressioni afro-caraibiche, ha stabilito con l’Europa un vincolo strettissimo legando il proprio sviluppo e la propria diffusione a strutture produttive attive in Gran Bretagna sin dalla fine degli anni Cinquanta, nelle quali si ha una radicata presenza della comunità giamaicana immigrata. A partire dalla tradizione folklorica del mento derivano stili popular come lo ska (fine anni Cinquanta), il rocksteady (metà anni Sessanta), il reggae classico (o roots reggae, fine anni Sessanta), e le innovative correnti che si sono affermate dagli anni Settanta in poi (rocker reggae). Il termine reggae deriva da regular ed è inaugurato dal brano di Toots and The Maytals, Do the Reggay (1968). Caratteristiche fondanti della cultura musicale popolare giamaicana, da cui si originerà il reggae, sono specifici aspetti socio-antropologici. In primo luogo l’assimilazione diretta della tecnologia elettronica all’interno di un assetto culturale tradizionale-orale, con l’affermarsi dagli anni Cinquanta in Giamaica, e nelle comunità immigrate in Gran Bretagna, della cultura dei sound system. Quest’ultima è caratterizzata dall’utilizzo per feste popolari di giganteschi impianti mobili di riproduzione musicale, dotati di enormi diffusori acustici e di consolle discografiche. Qui intervengono performer che assumono la funzione di maestri di cerimonie intervenendo verbalmente nella riproduzione sonora attraverso vocalizzazioni dotate di una funzione di scansione ritmica. Una dimensione culturale che pone in forte rilievo il supporto discografico in quanto medium di una comunicazione musicale.
In Gran Bretagna la produzione industriale di una musica espressamente rivolta al pubblico di immigrati giamaicani ha origine in pionieristiche compagnie discografiche che inizialmente commercializzano musica ska, come ad esempio la Melodisc, di Emil Shallit, tramite l’etichetta Blue Beat (dal 1960); la Planetone Records, di Sonny Roberts (primo giamaicano immigrato a fondare una label discografica, nel 1962); la Starlite Records di Carlo Krahmer; la r’n’b di Rita e Benny Izons, con le etichette R&B (1963) e Giant (1967). Ma soprattutto, sull’onda della diffusione internazionale del reggae, vi sono la Pama Records dei fratelli Palmer (dal 1967) e la Trojan Records (dal 1974) di Lee Gophtal, partner della Island, trapiantata a Londra dalla Giamaica nel 1962 da Chris Blackwell, famoso per aver messo sotto contratto nel 1972 l’icona del reggae, Bob Marley (1945-1981). Il suo Catch A Fire (1973), con i Wailers, segna per il reggae il vero passaggio dal modello di produzione discografica basato sul singolo brano a 45 giri al progetto macrodimensionato dell’album a 33 giri. Tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960 viene pubblicato il primo esempio di “rhythm and blues giamaicano”: Aitken’s Boogie di Laurel Aitken (1927-2005). Il brano è uno ska dotato di un forte influsso del jump blues nello stile di Louis Jordan (1908-1975). È da sottolineare che in quel periodo in Europa lo ska è percepito semplicemente come blues giamaicano, in quanto i brani conservano la strumentazione e lo stile esecutivo del r’n’b e, in gran parte, la struttura metrico/armonica canonica di 12 misure del blues. Proprio da tale ricezione deriva la denominazione dell’etichetta Blue Beat (da cui l’omonima designazione dello ska anglosassone).
Sul piano puramente musicologico, soffermandoci sulle caratteristiche distintive dei vari linguaggi, notiamo che dal punto di vista armonico-testurale la progressione stilistica che avviene dallo ska al rocksteady segue, in linea di massima, quella omologa dal r’n’b al soul. Successivamente con il reggae classico si giunge a modelli assimilabili a quelli del rock. Questo parallelismo coinvolge anche gli aspetti extramusicali, con i diversi gradi implicati di autenticità, d’impegno estetico, politico/sociale e religioso (nel caso del reggae, il rastafarismo, movimento messianico fondato sul culto di Háyla Sellasye, imperatore d’Etiopia). Il problema maggiore sembra sorgere quando si cerca di definire l’immagine ritmica di queste musiche giamaicane liquidandone le caratteristiche con la formula “accenti nelle parti in levare della battuta realizzati dalla chitarra o dalla tastiera”. In realtà sono all’opera diverse stratificazioni metriche: nello ska la consueta battuta quaternaria viene ulteriormente articolata utilizzando elementi del metro trocaico e della musica afroamericana; nel rocksteady tale suddivisione della battuta diventa binaria, generando la sensazione di un generalizzato rallentamento, e nel reggae essa si articola ulteriormente. Ma spesso la realtà ritmica è ancora più sfaccettata: in Al Capone (1965) di Prince Buster sono all’opera sia le caratteristiche di pronuncia ternaria, nella sezione ritmica, sia binaria, nell’idiofono in primo piano, a dimostrazione del carattere di transizione stilistica del brano, a metà tra ska e rocksteady.
La prima ondata d’immigrazione di artisti giamaicani vede, oltre ai già citati, il trombonista Rico Rodriguez, con il Rico’s Combo, la house band della Planetone Records, Youth Boogie (1962); The Planets, Water Front (1963); i Bees, gruppo di Prince Buster, i Pioneers di Jackie Robinson e Sydney Crooks, Long Shot Kick de Bucket (1969); i cantanti Roy Shirley, Hold Them (1966); Pat Rhoden, Get to Get Off My Mind (1969).
Dagli anni Settanta emerge poi una nuova generazione di musicisti reggae formatisi nel Regno Unito. Tra i più significativi ricordiamo: Delroy Washington (I Sus, 1976); The Cimarons (Maka, 1978); Matumbi, con Dennis Bovell, (Seven Seals, 1978); Steel Pulse (Handsworth Revolution, 1978); Aswad (Aswad, 1976). Questi ultimi risultano a nostro parere i più interessanti, e vedono la loro origine come gruppo di supporto delle grandi star giamaicane, Bob Marley, Dennis Brown (1957-1999), Burning Spear (1945-), Black Uhuru. Un posto a parte merita invece il poeta e intellettuale Linton Kwesi Johnson (1952-) che traspone le vocalizzazioni ludiche dei selector in una dimensione di corrosiva critica sociale, innervata inoltre da una tesa drammaticità poetica (dub poetry), pensiamo ad esempio a Dread Beat An’ Blood (1978), con Dennis Bovell.
Per quanto riguarda lo ska, esso conoscerà almeno due revival: alla fine dei Settanta in Inghilterra, in particolare con l’etichetta Two Tone che propone una sintesi di ska e punk realizzata da gruppi come The Specials, 1979); Madness (One Step Beyond, 1979), The Selecter (Too Much Pressure, 1980); alla fine degli Ottanta, con la commistione di grunge e ska negli USA.
Dagli anni Ottanta il reggae si diffonde in tutta Europa, generando scene locali che ne abbracciano sia l’estetica sia il rastafarismo, con i connessi modelli comportamentali cui non è estraneo l’uso ideologico di droghe leggere: in Russia i Jah Division di Guera Morales (figlio del rivoluzionario cubano Leopoldo, ucciso in Bolivia assieme a Che Guevara) con Cubana (1992); in Germania Tilmann Otto (Gentlemen) con Journey to Jah (2002); in Francia, Sinsemilia con Tout ce Qu’On A (2000), i Tryo, acustici e dalle raffinate armonie vocali (Mamagubida, 1999) e Pierpoljak, il più noto esponente del reggae classico (Kingston Karma, 1999). In Italia, dove la cultura reggae è molto radicata, troviamo l’aspra vocalità del Salento con i Sud Sound System (Acqua pe’ ‘sta terra, 2005); la continuità stilistica degli Africa Unite (Mentre fuori piove, 2003); il rigore militante di Radici nel Cemento (Guns of Brixton, 1998); l’eclettismo dei Reggae National Tickets (Roof Club, 2000); il gusto paradossale dei Pitura Freska (Papa Nero, 1997).
Direttamente collegata, per quanto riguarda l’aspetto musicale, a pratiche culturali giamaicane, è la cultura hip hop che si è prodotta in origine nelle comunità afroamericane, in particolare del South Bronx di New York, attraverso un insieme di forme artistiche apparse alla fine degli anni Settanta: il graffitismo nell’arte visiva; la breakdance, danza acrobatica; il rap, genere musicale che nella sua basilare forma può definirsi come una versificazione verbale su scansione della sezione ritmica (in primo luogo basso e batteria), in cui riveste un ruolo essenziale l’interpolazione di incisioni preesistenti da parte del dj e la manipolazione in funzione sonora del supporto discografico (djing). Qui sono confluite le principali tendenze della tradizione afroamericana, dal funk, attraverso l’articolazione ritmico-metrica di base e la sensibilità per il groove, fino alla cultura popolare giamaicana. Proprio dalla trasposizione negli USA della cultura dei sound system (il dj giamaicano Kool Herc impianta il proprio nel South Bronx a metà anni Settanta, dove comincia ad animare i party) deriva il rituale di espressione e incitamento verbale, con gli MC (masters of cerimonies, cui è affidato il vero e proprio rapping). Questa pratica ha un preciso antecedente culturale nell’uso, invalso sin dagli anni Cinquanta in Giamaica, di incidere il lato B dei 45 giri in versione solo strumentale (dischi minus one), per coinvolgere il pubblico nel canto e permettere gli interventi vocali degli MC (dub). Da parte del dj (i selecter giamaicani) alla consolle si instaura anche la prassi di un intervento creativo attraverso i supporti discografici in vinile, con azione esercitata sul piatto dei giradischi, procurando l’iterazione sequenziale di un particolare passaggio o sonorizzazioni con la frizione controllata del fonorivelatore sulla superficie del disco (scratching), inteso come versione elettrificata di un idiofono a sfregamento. Questa tecnica si svilupperà come una forma di percussione elettroacustica organizzata come il break del blues e del jazz (la breve cadenza improvvisativa misurata), con improvvisazioni ritmiche su strutture metriche di quattro od otto misure, interpretate motoricamente dai danzatori. Inoltre, con i processori digitali del suono commercializzati dagli anni Ottanta si realizzeranno vari tipi di campionamento e sequenziazione ritmica di estratti sonori, offrendo ai dj un orizzonte di possibilità creative virtualmente illimitato. Sul piano estetico è da notare la funzione dei materiali secondari musicali, già preformati, all’interno del sistema comunicativo rap, che li utilizza come unità articolatorie all’interno di un piano costruttivo sovraordinato di tipo acusmatico: in questo senso la poietica del rap è omologa a quella della pop art degli anni Sessanta.
Come il reggae anche l’hip hop si è riterritorializzato in Europa, assumendo aspetti del tutto originali. Il processo di trasposizione culturale, che ha impiantato modelli formali e strategie comunicative dell’hip hop statunitense in Europa, ha prodotto commistioni con le culture locali, generando forme di produzione creativa radicate ormai stabilmente. Nonostante la comunanza del veicolo linguistico, la Gran Bretagna non disporrà di una scena rap di rilievo: le prime esperienze di rap europeo datano dalla metà degli anni Ottanta, in Francia – che in breve diventerà il secondo mercato discografico mondiale di questo genere –, con Dee Nasty (Paname City Rappin’, 1984), anche se per l’affermazione del rap presso il largo pubblico francese bisognerà attendere MC Solaar (1969-) (Qui sème le vent récolte le tempo, 1991). In Italia è già attivo Jovanotti (Lorenzo Cherubini, 1966-), Jovanotti for President (1988) e in Germania i Die Fantastischen Vier (Jetzt Geht’s Ab, 1991): in queste produzioni predomina un atteggiamento mimetico di appropriazione delle forme, per lo più ludiche, del modello culturale hip hop statunitense, riconvertite all’interno di strategie di marketing indirizzate al consumo giovanile. All’inizio degli anni Novanta appaiono nuovi soggetti, espressioni dei movimenti radicali e antagonisti, che utilizzano l’hip hop come veicolo di forte critica sociale. In Italia, emanazione dei centri sociali, i romani Onda Rossa Posse (Batti il tuo tempo, 1991); i milanesi Lion Horse Posse (…Vivi e Diretti, 1992); a Bologna – dove operano figure pionieristiche come Treble, Neffa, Gopher, Deda, DeeMo, Dj Gruff, Papa Ricky – gli Isola Posse All Stars (Stop al Panico, 1991); a Napoli i 99 Posse (Curre curre guagliò, 1993). A questa prima ondata militante ha fatto seguito una nuova tendenza espressiva caratterizzata da tematiche di carattere esistenziale o sentimentale: Neffa (1967-) – Aspettando il sole, 1996; Articolo 31, è il primo gruppo italiano a raggiungere il successo commerciale (Così com’è, 1996); La Pina (Le mie amiche, 1995); OTR (Quando meno te l’aspetti, 1994); Frankie Hi nrg (Ero un autarchico, 2003); Flaminio Maphia (Per un pugno di euri, 2005).
In Francia questo riflusso dal politico al personale non ha avuto lo stesso corso. Le cause sono da ritrovarsi, da una parte, nel carattere multietnico di molti gruppi rap francesi, in cui sono presenti immigrati africani e provenienti in genere da paesi di cultura arabo-maghrebina, i quali tendono a rispecchiare nei loro contenuti istanze di identità etnica e problematiche legate all’emarginazione e alla xenofobia; dall’altra, nella tradizione plurisecolare della canzone engagée, che affonda le radici nei canti politici dei trovatori e trovieri. Busta Flex (Ça se dégrade, 1998); IAM (Contrat de conscience, 1994); Fabe (Je n’aime pas, 1995), Assassin (Le futur que nous réserve-t-il?, 1992), NTM (Police, 1993; Qu’est ce qu’on attend?, 1995) ne sono solo alcuni esempi. Tali evidenze sono indice di una riterritorializzazione culturale, di una naturale tendenza del rap ad adattarsi a condizioni locali differenti. Ulteriore prova ci viene data dalla situazione tedesca, in cui la componente d’immigrazione turca o italiana riflette nei testi rap problematiche specifiche, solo parzialmente interpretabili con una teoria delle convergenze sociali: Cheech & Iakone (Xenophile Phonologen, 1995); Advanced Chemistry (Welcher Pfad führt zur Geschichte, 1993); Anarchist Academy (Rappelkinstenkid, 1998); Die Firma (Krieg un Friede, 2005). Analogo discorso può farsi per la Grecia, Terror X Crew (Polis Ealo, 1997), o per la Spagna, El Club de los Poetas Violentos (Madrid Zona Bruta, 1994). Questo carattere di “indigenizzazione”, come lo ha definito James Lull, è evidente anche nella ricezione selettiva dei modelli hip hop statunitensi. Lo stile gangsta rap, in cui è attivo il riferimento a forme di comportamento sociale devianti e violente, in particolare dei ghetti afroamericani, non è affatto recepito nella produzione europea, pur a fronte di un suo rilevante consumo commerciale.
Ancora più che nell’aspetto musicale, caratterizzato da campionamenti sonori tratti dai repertori musicali locali, la peculiarità del rap europeo risiede nell’adozione di linguaggi nazionali e vernacolari, e nelle connesse implicazioni fonolinguistiche (rime, assonanze, allitterazioni). In questo senso la componente culturale intrinseca audiotattile-elettronica del rap è generatrice di nuove forme di tradizione orale che si sovrappongono alle persistenze culturali di poeti e cantastorie popolari. La centralità di queste componenti ha spinto gli artisti rap europei ad adattare ai criteri linguistici autoctoni il complesso dei fenomeni prosodici e sovrasegmentali che costituiscono la qualità del flusso della verbalizzazione ritmica (flow), la quale assume nel rap qualità estetiche del tutto assimilabili alle funzionalità più generali del groove.