REGIA (XXIII, p. 9; App. II, 11, p. 678)
Dai tardi anni Cinquanta ai tardi anni Settanta la r. teatrale, se sotto un aspetto ha visto la sua inarrestabile affermazione, sotto un altro è andata incontro a una crisi non eludibile. Prima di descrivere indirizzi, di raffigurare personalità, di arrivare a ripartizioni nazionali e a periodizzazioni, è da stabilire che si è passati da un concetto abbastanza rigido di r. come istanza totalizzante della vita teatrale a una diffusione diversificata di metodi e d'interventi, per cui ormai è più corretto parlarne come di una strategia e pedagogia delle forme associative mediante il teatro. Va intanto notato quanto, in questa nuova fase, ci si è appoggiati e ci si appoggia sulla storia stessa, pur relativamente breve, della registica, a partire dalle idee anti-naturalistiche di E. G. Craig e di A. Appia. Le provocazioni dei futuristi verso il pubblico, la loro tabula rasa delle tradizioni drammaturgiche e sceniche, le loro statuizioni del fatto pittorico-plastico-luministico; il non senso e il non verbale dei dadaisti; lo Jarry riletto dai surrealisti; la spontaneità e lo psicodramma di J. Moreno; l'educazione biomeccanica dell'attore e la parcellizzazione del testo di V. E. Mejerchol'd; certa analisi dei materiali e certo purovisibilismo e meccanicità scenica della Bauhaus; il grottesco-lirico rivoluzionario di V. V. Majakovskij; il teatro politico di E. Piscator; la metodologia epica di B. Brecht; il teatro come peste e sacrificio irripetibile di A. Artaud; le spettacolazioni di base e di strada dei gruppi agitprop sovietici e tedeschi; gli esperimenti e le teorizzazioni francesi per un teatro popolare; la mobilitazione di energie disoccupate e decentrate operata negli SUA dal Federal Theatre di H. Flanagan nel clima del New deal; le scoperte degli antropologi studiosi delle rappresentazioni primitive, dello sciamanesimo e della ritualità: molti momenti ormai storici della registica hanno trovato nell'odierna fase di rivisitazione un loro conseguente sviluppo o addirittura la loro prima attuazione al di là delle pagine teoriche e di esperienze appena accennate. È in ogni caso chiaro che dal secondo dopoguerra, e tanto più in presenza di una crescente e correlata eclissi della scrittura drammatica, gli studiosi devono fondatamente parlare della preminenza di un teatro della regia. Il quale dall'origine tardo ottocentesca, e tuttora, è di orientamenti, come si sa, in parte interpretativi e in parte creativi, con le sfumature e con la ricchezza d'interrelazioni e anche con la sofferenza che gli derivano dall'essere entrato di pieno diritto nella storia della cultura contemporanea. Da un punto di vista effettuale, specie per la tendenza interpretativa si è venuto consolidando quello che si può chiamare un sistema di produzione di teatro mediante teatro, che ha ottenuto quasi dovunque strutture funzionali alle sue esigenze, e cioè (tranne che negli SUA, ligi al dogma dell'iniziativa privata) i teatri a gestione pubblica, nelle più varie forme. Sono queste istituzioni che per la loro permanenza e il loro garantismo hanno permesso di superare, sia pure a prezzo di condizionamenti politici e amministrativi e di fardelli burocratici, i ricorrenti collassi economici dell'impresa privata sempre meno in grado di reggere alle crescenti esigenze, fossero queste le domande tecniche del regista-demiurgo, o la necessità di una lunga preparazione, o la coerenza e dignità di un repertorio d'arte da imporre, o l'allargamento del pubblico e il contenimento dei prezzi, o la concorrenza dei massmedia, o i rischi della ricerca. Sono esse d'altronde che, identificatesi con il sistema registico-interpretativo, ne condividono l'indubbia crisi attuale e sono insieme con esso oggetto di ripensamenti e contestazioni.
Un formidabile argomento in favore del teatro istituzionale è venuto comunque negli anni Cinquanta da Berlino Est con la piena e coerente attuazione da parte di B. Brecht dal suo "stile epico" nel Berliner Ensemble, fondato nel 1949 e largamente sovvenzionato dalla Germania democratica. Ben oltre la morte nel 1956 dell'autore-regista, riconosciuto in quel settennio come il più completo uomo di teatro operante, lo stile epico - che com'è ben noto si rifà alle forme teatrali popolari, orientali, elisabettiane, negando l'empatia drammatica e cercando la distanziazione (Verfremdung Effekt) sia fra attore e personaggio che fra spettacolo e spettatore in modo da permettere una presentazione dialettica (antinaturalistica) e una fruizione critica (anticatartica) delle vicende affinché il mondo e i rapporti fra gli uomini appaiano non immutabili bensì trasformabili alla luce del marxismo - si diffonde un po' dovunque influenzando, con l'aspirazione a un "teatro dell'età della scienza" e col nuovo ruolo che propone a tutte le componenti (drammaturgia, recitazione, musica, scenografia, illuminotecnica, ecc.) un'intera generazione di registi.
Eppure già dai primi anni Sessanta si assiste all'altrettanto formidabile affermarsi postumo delle visioni, intrinsecamente anti-istituzionali, di A. Artaud, morto nello stesso anno (1948) in cui Brecht tornava a Berlino. Negando il concetto canonico di rappresentazione, Artaud più di chiunque altro aveva rivendicato (non tanto con le sue pochissime realizzazioni quanto, fino dagli anni Trenta, in saggi e manifesti memorabili per pregnanza poetica e per densità teorica e precettistica, raccolti soprattutto ne Il teatro e il suo doppio, 1938) l'autonomia dell'attore e del regista, creatori essi ben più dello scrittore di un evento quasi sacrificale, complesso e al limite irripetibile, taumaturgico più che demiurgico, realtà più che rappresentazione, che reclama il primato del corpo e della voce contro il privilegio tradizionale della parola e del discorso, rifacendosi, in tutt'altro senso da Brecht, al tecnicismo orientale e in specie al codice dei danzatori balinesi, e paragonando il fatto teatrale alla peste quale momento di verità e di "crudele" imporsi del tragico della vita, di cui l'attore "atleta affettivo" chiama a partecipare i presenti quasi coi cenni e i gemiti del martire sul rogo. E se un'antitesi a spacco fra razionalità brechtiana e irrazionalità artaudiana appare sempre meno soddisfacente e fondata, è indubbio che proprio questa antitesi ha contribuito a portare la speculazione e la prassi registiche a una temperatura culturale e politica, se non a una rissa ideologica, con pochi paragoni nelle altre arti di questo dopoguerra.
Che le intuizioni di Artaud si collocassero in una dimensione antropologica entro il vasto quadro delle scienze dell'uomo lo ha dimostrato dal 1959-60 il polacco J. Grotowski con le sue ricerche sulle potenzialità inesplorate dell'attore, sulla spazialità, sulla ritualità, condotte con una precisione (che anche da lui è voluta scientifica) e con animo ascetico verso un "teatro povero" tutto dell'attore; ricerche istituzionalizzate (anch'esse) dal 1965 nel Laboratorio di Wroclaw, che sboccano in recite in spazi ridotti e modificabili e per un numero bloccato di spettatori il più possibile coinvolti. Questa metodologia, che parte quasi dal "vuoto" psichico del monaco Zen per disporre il corpo a una comunicazione con le forze universali, e non utilizza testi se non come semi, è stata ripresa da uomini di teatro di tutto il mondo, sia con pellegrinaggi al tempio neo-artaudiano di Wrocław (come per altro verso al Berliner Ensemble), sia assistendo alle tournées di quel Laboratorio o alle lezioni di Grotowski stesso all'estero; e ha dato origine, fra l'altro, al Laboratorio interscandinavo promosso (dal 1964) dall'italiano E. Barba che, dapprima "profeta" di Grotowski, ha poi portato l'azione del suo Odin Teatre negli spazi aperti, specie in aree depresse, superando la scientificità grotowskiana in nome di una proliferazione nel sociale di piccoli gruppi intimamente coesi e politicamente o misticamente motivati, fino ad avanzare (nel 1976-77) la definizione di un "terzo teatro".
Negli Stati Uniti, dopo il dominio di uomini di palcoscenico come E. Kazan, inscenatore delle migliori opere di A. Miller e T. Williams ed erede (insieme con il pedagogo L. Strassberg dell'Actor's Studio) della tradizione neo-stanislawskiana del Group Theatre legata a una drammaturgia nazionale, e mentre agiscono un A. Schneider, mentore americano di Beckett, o un T. Guthrie nel Teatro di Minneapolis, scattano vari impulsi di rinnovamento assai più che registico: a cominciare dall'off-Broadway, poi off-off, che reagisce alla crisi produttiva e d'idee dell'accentrativa industria teatrale newyorkese con un moltiplicarsi di teatrini in spazi più o meno improvvisati creando episodi di rimessa in discussione da un lato dei valori americani tradizionali, della discriminazione razziale, dei tabù sessuali, dei metodi educativi-selettivi contestati fin dal 1964 dalla rivolta studentesca di Berkeley, e dall'altro delle forme canoniche di rappresentazione, col mettere l'accento sulla sincerità, la gestualità, l'autolacerazione. Niente affatto omogeneo, e il più delle volte suscettibile all'integrazione professionale, l'off ha prodotto sia singoli, "scandalosi" spettacoli (il Macbird!, parodia del Macbeth contro il presidente Johnson), sia autentici focolai di ricerca, come quello sviluppatosi via via dal Café La Mama. Così, mentre da un lato il capovolgimento del musical effettuato da Tom O' Horgan con Hair conosce una rapida broadwaizzazione, dall'altro emergono personalità e gruppi che eserciteranno una profonda influenza con il loro rifiuto a integrarsi non meno che con il loro esempio-invito a ripensare il teatro. Preminente appare l'avventura del gruppo multirazziale facente capo a J. Beck e J. Malina, che nel 1951 si raduna prima in un appartamento e poi in un teatrino off-Broadway col nome di Living Theatre, e dopo spettacoli che uniscono la volontà di stampo europeo di attivare e far reagire il pubblico (Questa sera si recita a soggetto) a un'intensa concentrazione psicofisica di tipo yoga e a una sempre più progredita tecnica vocale e gestuale (da The Connection sulla droga a The Brig sulla vita dei marines), si esilia dagli SUA per sfuggire (1964) a una pressione fiscale che era anche persecuzione politica, mentre via via assume l'eredità artaudiana (come è chiaro fin da Mysteries and small pieces, sullo spunto di esercizi di J. Chaikin) in un senso assai diverso da quello laboratoriale di Grotowski, sia per una vocazione anarchica, sia perché Beck e Malina hanno a lungo cercato la spettacolarità e il grande pubblico, sia perché il gruppo accetta non pochi aspetti dell'insegnamento brechtiano (Antigone di Sofocle-Brecht). Gli uomini e le donne del Living Theatre mostrano un po' in tutto il mondo, e specialmente in Europa, dove in Italia trovano quasi una seconda patria, un tipo di teatro-come-vita, comunitario, povero, teso al recupero dei diritti del corpo (Paradise now), pronto a servirsi anche degli stimoli della droga, itinerante, spesso perseguitato e a un certo punto autodissolventesi nel proselitismo, non-violento epperò accesissimo nella lotta contro la guerra in Vietnam, contro ogni morale o politica repressiva, contro il razzismo, le dittature, lo sfruttamento del Terzo Mondo. Americano è soprattutto lo happening, auto-spettacolazione di gruppo a cui tanto deve il nuovo teatro, e che è a sua volta debitore tanto verso la "sorpresa " futurista e il nonsenso dadaista quanto verso lo I Ching cinese; e per il fatto stesso di voler preservare l'imprevedibilità, il colpo di dadi più comportamentistico che metafisico, si comprende che lo happening, in cui il partecipante fa e non finge di fare, sia legato non a registi ma alle invenzioni di artisti e musicisti, dalle prime innovative ricerche e azioni di J. Cage sull'aleatorio (1952 al Black Mountain College) ad A. Kaprow, a Dewey, alle ostensioni di pittori come R. Rauschenberg e C. Oldenburg, fino all'uso politico e di guerriglia stradale e processuale che ne ha fatto un J. Rubin.
Americana è dunque una particolare formulazione dello spazio teatrale fuori-dei-teatri, insieme con altre formulazioni per il coinvolgimento del pubblico come quelle a cui arriva con Dyonisos in 69, dato in un garage con uso di nudo completo, il teorico e regista R. Schechner (fondatore nel 1962 della influente Tulane Drama Review); o come le parate, i cortei e le passioni dei pupazzi giganteschi, piccini o a grandezza naturale, animati per le strade dal Bread and Puppet creato dallo slesiano P. Schumann pantografando e politicizzando i pupi siciliani e richiamandosi d'altronde al Bauhaus e al dada; o come la clamorosa San Francisco Mime Troupe, formata nel 1963 da R. Davis che ha studiato mimica in Europa, la più marxisticamente orientata delle troupes americane, gestita dal 1969 in collettivo ma sotto la guida di J. Holden, mentre Davis diventa un severo critico "da sinistra" dei gruppi radicali. Americano è il lavoro di sviluppo dell'attore entro un collettivo che comprende anche autori, pittori, musicisti, critici, compiuto da J. Chaikin con l'Open Theatre (da cui un'ineguagliata metafora della violenza americana, America Urrah!, 1966, su testo di J. C. Van Itallie, regia di J. Levy; la meditazione sulla morte americana di Terminal; l'epos gestuale del Serpente su tema biblico). Americane sono la ricerca orientalistica, ieratica, oracolare ("un guarire che attraversa tutto il corpo") di M. Monk e del suo Teatro-Danza, e la versatilità di R. Foreman capace di passare dalle esecuzioni "isterico-ontologiche" dei suoi spartiti verbali-gestuali (il primo: Angelface del 1968) alla r. dell'Opera da tre soldi a Broadway (1976). Americana è una delle più drastiche proposte di visual theatre, teatro averbale, quella avanzata da R. Wilson a partire da The deafman glance (1970) verso un'opera scenica fenomenologica e spesso purovisibilista che dilati il tempo (fino alle oltre 150 ore de La montagna di Ka a Persepoli e fino al "conto alla rovescia" di Einstein on the beach), assimili la veglia e il sonno, esalti a metodologia l'espressività autistica dell'handicappato; d'altronde, americana è la rabbia del teatro negro e la satira del teatro omosex come pure una delle più efficaci e continuative azioni sindacali e in pro di una minoranza che siano state svolte mediante la scena, quella del Teatro Campesino che L. M. Valdez guida dal 1965 verso un teatro contadino del sud-ovest riscoprendo lo stile agitprop; americana è la vitalità continentale dei teatri legati alle università come la Yale Drama School guidata dal critico R. Brustein dal 1960 al 1978. Abbandonato insomma il lavoro sul testo in favore di un'assoluta creatività singola o di gruppo, è pur sempre collocabile nell'ambito della registica l'uomo di teatro americano intento a oltrepassare i limiti del palcoscenico, della parola, della stessa rappresentazione, per far cadere i divisori fra teatro e vita.
In Francia più che altrove i movimenti sociali di origine studentesca del 1968 (quasi ovunque e quasi in ogni campo una data periodizzante), rimettendo in discussione il ruolo dell'intellettualità di sinistra e togliendo credibilità anche se non soprattutto alle istituzioni culturali progressive (immune dunque la Comédie Française il cui cauto revisionismo la colloca a margine delle correnti più vitali), hanno destabilizzato un sistema che, pur con sintomi di saturazione denunziati dalla critica e dagli stessi protagonisti (già nel 1963 J. Vilar si era dimesso dal Théâtre National Populaire), continuava a far centro su ideologie post-TNP, sulle "Maisons de la culture" potenziate dal 1951 da A. Malraux ministro gollista per la cultura, sulle r. dell'"assurdo" e di Genet di R. Blin (fino all'anticolonialismo de I paraventi, 1966), sull'instancabile vitalità direttoriale di J. L. Barrault (1946-57 Compagnia Renaud-Barrault al Th. Marigny; dal 1959 nel sovvenzionato Odéon, da Kafka al vaudeville a Molière, Shakespeare, Claudel, a molte novità; dal 1969 in sale indipendenti, anche non teatrali). Fuori Parigi s'impone il lavoro a Lione di R. Planchon, dal 1953 al Th. de la Comédie su base sperimentale e dal 1957 a Lione-Villeurbanne su base popolare, gli elisabettiani, Molière, contemporanei come A. Adamov, e dal 1954 Brecht, delle cui dottrine Planchon offre un'originale pratica francese, la più importante fuori Germania insieme con quella italiana di Strehler. Nel 1961 e nel 1963 nascono i teatri sovvenzionati dalle comunità periferiche parigine, la Commune di Aubervilliers diretta da G. Garran (con lo scenografo R. Allio, collab. di Planchon, poi regista cinematografico), il Th. de l'Est Parisien diretto da G. Rétoré. Nel maggio 1968 gli studenti occupano l'Odéon per farne un luogo di agitazione (Barrault discute, non vuole lasciare il suo Teatro, finché Malraux non lo licenzia) e ad Avignone, sulla spinta del Living Theatre che esige l'ingresso gratuito a Paradise now, contestano il Festival, dal 1947 creatura prediletta di Vilar, che si dimetterà anche da quell'incarico.
Già attivi precedentemente, i leaders della nuova fase sembrano essere A. Mnouschkine, animatrice dal 1964 del gruppo Théâtre du Soleil, il giovanissimo P. Chéreau, autori-direttori come A. Gatti, e vari gruppi influenzati dalle esperienze internazionali presentate dapprima alla rassegna parigina del Théâtre des Nations (il Living nel 1961 e nel 1966), ad Avignone, e dal 1963 al più avanzato Festival di Nancy dove appaiono il Bread and Puppet e il Teatro Campesino. Oltre al nuovo teatro americano i modelli diventano le avanguardie storiche, Majakovskij e Mejerchol'd; si precisa la presenza postuma di Artaud attraverso quella ravvicinata di Grotowski e del Living. Rafforzano attraverso l'insegnamento universitario la loro incisività sulla cultura teatrale teorici come in primo luogo B. Dort, che allarga la sua visione neo-brechtiana con un appoggio alle poiesi di gruppo e anti-istituzionali, e R. Barthes che inserisce l'approccio semiotico; E. Copfermann vede la messa in scena come messa-in-crisi; ecc. Il trapasso è simboleggiato nella nascita (1970) della rivista Travail Théâtral dalle ceneri di Théâtre Populaire (1953-64). Il ruolo del regista autore dello spettacolo non è comunque negato, anche se la stessa Mnouschkine asserisce la paternità di gruppo drammaturgica e registica di spettacoli determinanti come 1789 (1970), 1793 (1972), l'Âge d'or con le maschere dell'Arte (1975) che si collocano nello spazio anomalo e perfettamente teatralizzato della Cartoucherie di Vincennes riempiendo di nuovi contenuti sia il concetto di decentramento che quello di teatro-fuori-dei-teatri. Il potere tenta risistemazioni delle strutture istituzionali (il TNP non è più solo a Parigi ma anche a Lione e in altre città, alla direzione sono designati Planchon, che si dedica soprattutto a inscenare le sue commedie, P. Chéreau e l'organizzatore Gilbert). Chéreau, nominato a 22 anni, nel 1966-67, direttore del Théâtre de Sartrouville nell'omonimo sobborgo parigino, dimissionario per i debiti nel 1969, è subito autore di significative r. anche all'estero (un'allucinante palinodia rivoluzionaria col Murieta di P. Neruda e un'apocalissi borghese con la Lulù di F. Wedekind al Piccolo di Milano; a Bayreuth la tetralogia wagneriana vista come una mascheratura della lotta di classe nel pieno capitalismo ottocentesco). Vengono in primo piano altri registi di formazione marxista e, nella loro diversità, tesi a un uso demistificatorio dei testi, come P. Vincent, dal 1975-76 direttore del Théâtre National di Strasburgo (si diffondono le strutture decentralizzate, avverando la profezia di Sartre che in polemica contro Vilar aveva auspicato "cinquanta, cento TNP") e A. Vitez, dall'intensa vocazione pedagogica e progettuale (una serie di quattro Molière a sere alterne con gli stessi attori, 1978); non si arrende A. Benedetto col suo gruppo che svolge ad Avignone un coerente lavoro anche di strada.
In Inghilterra, da un gruppo di registi intenti alla promozione di una nuova drammaturgia (W. Gaskill); dall'esempio di J. Littlewood (Oh what a lovely swar!), poi passata all'insegnamento, dalla lotta per un nuovo assetto culturale e produttivo mediante l'affermazione tardiva ma impetuosa del teatro a gestione pubblica realizzato nelle strutture del National Theatre (ex Old Vic, ora con una propria sede a sale multiple sulla riva del Tamigi) e della Royal Shakespeare Company; dalle sintesi drammaturgico-registiche di C. Marowitz (Amleto, Macbeth), da un vivace movimento di teatri provinciali e di libere compagnie itineranti d'impegno sociale (si pensi al gruppo 7:84 che si rivolge a pubblici non teatrali in luoghi non teatrali dichiarando nel suo nome come l'84% della ricchezza nazionale inglese sia posseduta dal 7% della popolazione), emerge la creatività di P. Brook, capace sia di reinterpretare radicalmente Shakespeare sia di entrare con pregnanza fantastica nella polemica antibellicista (con US) e antiestablishment (con Christine Keeler's story), maestro di attori sia con Marowitz nel laboratorio londinese LANDA d'influenza grotowskiana che alla Royal Shakespeare Company (Marat Sade di P. Weiss, Re Lear, Sogno di una notte di mezza estate) che poi in un suo International Centre for Theatre Research con sede a Parigi, per andare verso la poeticizzazione di spazi inusitati (Orghast a Persepoli nell'Iran; a Parigi in un teatro sventrato Timone di Atene, Les Iks, Ubu, Misura per misura). Dalla sua scuola viene l'armeno-americano A. Serban.
In Germania il ritorno e poi l'ombra di Brecht non potevano non condizionare a partire dagli anni Cinquanta lo sviluppo della r., nonostante la divisione permanente del paese. Nella Rep. Democratica Tedesca, dal Berliner Ensemble, che è ormai una tradizione e per non rischiare l'accademia tende a trasformarsi in un vastissimo archivio brechtiano, emergono le figure di B. Besson, inscenatore rigoroso eppure brillante ed eterodosso (Il drago di H. Schwartz, Aristofane, L'anima buona del Sezuan di Brecht), attivo anche in Italia (Sezuan a Roma, un seminario con gli operai della Terni su L'eccezione e la regola), e di M. Weckwerth. Nella Rep. Federale il grandissimo numero di teatri stabili con ininterrotta produzione scoraggia quasi l'analisi, ma dalla sazietà vanno certamente esenti (a parte l'ultimo Piscator, che a Berlino Ovest dirige una Neue Volksbühne e presenta R. Hochuth, P. Weiss, H. Kipphardt) almeno P. Zadek a Bochum (uno stravolto Misura per misura) e soprattutto P. Stein che, passato col suo gruppo da Brema (Tasso di Goethe) alla Schaubühne um Halleschen Ufer di Berlino, dà vita a un Principe di Homburg di H. Kleist che gli assicura fama europea, e tocca con un Peer Gynt a protagonista multiplo una reinvenzione drammaturgica, una complessità spaziale e un livello attorico che confermerà nei Villeggianti di Gor'kij o nello scespiriano Come vi piace. Alla Schaubühne lavora anche K. Gruber.
Nella sterminata mappa teatrale dell'URSS, dove ogni repubblica ha un teatro con la propria lingua in cui la divulgazione predomina sulla ricerca, la lentezza quasi tettonica con cui il disgelo e la destalinizzazione hanno consentito la rimessa in moto, fra cautele e soprassalti censori, di una delle più ricche e creative r. del mondo, che si sente ormai erede ben più di Majakovskij e Meyerchol'd che del troppo ufficializzato K. S. Stanislavskij, fa sì che si stenti a individuare una pluralità di protagonisti e che ci si soffermi sul talento di J. Lubìmov e sul suo teatro Taganka.
La Taganka s'impone a Mosca come un centro di sperimentazione e di libertà con spettacoli di grande impatto visivo, illuminotecnico e musicale. Lubìmov, debitore verso il drammaturgo N.R. Erdman, coniuga gli stilemi aggressivi, bizzarri e dolorosi della dissepolta avanguardia con un desiderio d'intervento sulla vita, a volte (L'anima buona del Sezuan, La madre) con illimpidimenti brechtiani, altre volte (Dieci giorni che cambiarono il mondo) con uso di violente caricature e di fremiti rivoluzionari dell'Ottobre, o facendo fare ai classici (Tartufo, Amleto) un discorso sul potere e la libertà, o inebriando gli spettatori moscoviti di neo-misticismo, di fronda satirica e di magia col bulgakoviano Maestro e Margherita.
Se la notorietà di Lubìmov non teme confronti, va ricordata la continuità di lavoro di un V. N. Pluček e di un G. A. Tovstonogov, lo stile di A. Efros, e un germinare, in specie a Mosca, a Leningrado e in Georgia, di gruppi decisi a innovare.
In Cecoslovacchia, dopo E. F. Burian, J. Honzl, J. Freika, e accanto a J. Grossmann e al suo Teatro alla Ringhiera (Ubu Roi), ad A. Radok e a J. Topol, vicenda emblematica è quella di O. Krejça che col suo gruppo Za Branou e insieme con i registi precedenti aveva fatto di Praga la capitale europea del teatro degli anni Sessanta. Fondato verso il 1965, con magiche messe in scena da A. Čechov e A. de Musset, da A. Schnitzler e J. N. Nestroy, lo Za Branou conquista una rapida fama internazionale ma è vittima dell'irrigidimento ideologico seguito alla tragedia del governo Dubcek; ora Krejça lavora all'estero, specie nella Rep. Fed. di Germania, e in Belgio. In Polonia T. Kantor, pittore, scenografo e regista, influenzato dal dadaismo, dall'avanguardia witkiewicziana, dallo happening, dall'idea di realtà degradata di B. Schulz, fonda nel 1955 il gruppo Cricot 2, crea spettacoli ai confini fra teatro pittura e vita usando vecchi, bambini, artisti, manichini (La classe morta, "seduta drammatica", 1975; Cricotage, 1979), servendosi di qualunque spazio, e stendendo poetici manifesti post-artaudiani ( "Il Teatro informale", "Il Teatro zero", "Il Teatro della morte", ecc.).
All'Italia, per ragioni evidenti, dedicheremo un'attenzione e un rilievo superiori al suo pur non indifferente peso nel lavoro teatrale internazionale degli ultimi decenni. Qui si succedono, non senza a volte compenetrarsi, discorsi registici dapprima contigui, poi sempre più divaricati secondo la generale crisi dei linguaggi, e scanditi da scadenze politiche periodizzanti: 1956-57, echi italiani della destalinizzazione e dei fatti d'Ungheria (onde insabbiamento dei residui zdanovisti e del "nazionale-popolare"); 1962, abolizione della censura preventiva sugli spettacoli teatrali con la formula governativa di centrosinistra, il che non solo autorizza il teatro della r. a presentare qualunque testo, salvo rari interventi a posteriori della magistratura, ma apre anche la strada a un teatro senza copione e alle provocazioni gestuali; 1968-69, contestazione studentesca e autunno sindacale, autocritica degl'intellettuali, eclissi della legittimazione (onde la momentanea uscita di Strehler dal Piccolo Teatro), crescente esigenza di partecipazione (onde da un lato l'apertura di nuovi circuiti e dall'altro l'invenzione dell'Orlando Furioso di L. Ronconi ed E. Sanguineti). Per tentare un'enumerazione: discorso realistico antifascista, discorso formalistico, critico-saggistico-storicistico, epico-razionalistico, di provocazione e derisione, irrazionalistico e della "crudeltà" del corpo, dell'icona, dei nuovi spazi, della neo-avanguardia, neo-espressionistico, neo-barocco, strutturalistico, di piazza e della festa, neo-meridionale; neo-dada, ecc. Intanto un allargamento e una diffusione anche della problematica registica si hanno con il posto crescente che le dottrine dello spettacolo vengono assumendo nelle università italiane (nasce nel 1970 alla facoltà di lettere di Bologna il primo corso di laurea in Discipline delle Arti Musica e Spettacolo, DAMS).
Mentre rimane intensa fino alla sua morte nel 1976 la presenza di L. Visconti in cinema, e particolarmente innovante sui palcoscenici lirici con la riproposta del melodramma verdiano, donizettiano, belliniano, pucciniano, la sua missione teatrale, anche perché non più sufficientemente sorretta dalla struttura privatistica (sia pure con forti sovvenzioni statali) della Compagnia Stoppa-Morelli, culmina e si esaurisce negli anni Cinquanta, nel corso dei quali nascono al Teatro Eliseo di Roma i due Čechov dal cast memorabile, Tre sorelle e Zio Vania, le due pitture goldoniane della Locandiera e dell'Impresario delle Smirne, e due immagini dello squallore metropolitano di New York con Uno sguardo dal ponte di A. Miller e di Milano con L'Arialda di G. Testori.
È piuttosto nel settore e nel clima dei Teatri Stabili, la cui rete nazionale si sviluppa non senza difficoltà, che la r. italiana di orientamento interpretativo lotta contro le ondate oscurantistiche per instaurare una comunicazione complessa con la società al cui progresso democratico vuole contribuire: comunicazione di tipo razionalistico, critico, storicistico, non senza iniziali illusioni illuministiche. Guidati da binomi di animatori e registi che felicemente si completano, il Piccolo Teatro di Milano con P. Grassi e G. Strehler, lo Stabile di Genova con I. Chiesa e L. Squarzina, e in una fase assai più breve quello di Torino con F. Fo e G. De Bosio, delineano dal Nord una concezione "totalizzante" della r. ancorata al grande repertorio classico e moderno, alla continuità e omogeneità del lavoro di palcoscenico e al rigore interpretativo necessario per affrancare definitivamente la vita teatrale italiana dai suoi vizi storici. A un'iniziativa romana di O. Costa, 1948-54, mancò sia il contributo di un organizzatore che l'apporto comunale; il fallimento di uno Stabile a Bologna dette origine al circuito regionale di distribuzione ATER, dal 1977 anche produttivo; non riesce uno Stabile a Firenze ma si ha un Teatro Regionale Toscano di tipo distributivo; lo Stabile del Friuli-Venezia Giulia e quello di Catania non si fondano su registi fissi; Bolzano avrà M. Scaparro, poi A. Fersen; L'Aquila G. Cobelli e poi A. Calenda. Quando Strehler a Milano unifica in una sola sera le tre Villeggiature goldoniane, o quando Squarzina a Genova crea a scadenze annuali e poi propone in alternanza il Goldoni di Una delle ultime sere di Carnevale, de I rusteghi e de La casa nova, è chiaro quanta strada sia i due registi (per i quali v. le rispettive voci biografiche) che i due Stabili e l'intera struttura teatrale italiana abbiano percorso da pur alte riuscite goldoniane singole come il celeberrimo Arlecchino servitore di due padroni dell'uno o il trascinante Due gemelli veneziani dell'altro o i grandi quadri viscontiani. Si estrapola qui Goldoni perché alla r. italiana va il merito storico di avere ridato statura e popolarità a questo come ad altri drammaturghi che avevano sempre sofferto di rappresentazioni riduttive; si veda la "rivelazione Ruzante" ad opera di De Bosio, prima al Teatro Universitario di Parma e poi a Torino durante la sua direzione (1957-68; De Bosio è regista aperto alla nuova drammaturgia italiana e capace di vasti impegni organizzativo-artistici, come la sovrintendenza dell'Arena di Verona nel 1969 o la direzione del Mosé televisivo); si veda il lavoro innovativo su Pirandello che ha impegnato da O. Costa (Sei personaggi) nei tardi anni Quaranta a Squarzina (Ciascuno a suo modo, 1961) a Strehler (I giganti della montagna, 1966), e come si dirà più avanti G. De Lullo e M. Castri, in impostazioni diversissime. Non il primo a dare Brecht in Italia (furono De Bosio a Padova e L. Lucignani a Roma) ma certo il supremo interprete del verbo epico, dalla metà degli anni Cinquanta (L'opera da tre soldi, 1956) Strehler si orienta verso una straordinaria serie brechtiana con la quale (come con il dolente microcosmo bertolazziano del Nost Milan e con i Goldoni) s'identifica il Piccolo di Milano, a parte come si è detto l'uscita momentanea dello stesso Strehler in seguito al clima contestativo del 1968-69, quando l'istituzione milanese è retta per qualche anno dal solo Grassi che sperimenta giovani registi e introduce il francese Chéreau, fino al passaggio di Grassi alla sovrintendenza della Scala (e poi alla presidenza della RAI-TV) e al ritorno di Strehler direttore unico che concentrandosi su un indirizzo di "teatro d'arte" crea la poesia monocromatica in nero di Re Lear e in bianco del Giardino dei ciliegi e torna a Goldoni con un musicalissimo Campiello. L'itinerario di Squarzina lo porta allo Stabile di Genova accanto a I. Chiesa dopo una lunga attività indipendente anche come autore; nel quadro del teatro italiano a gestione pubblica, di fronte a uno Strehler grande regista "puro" e trionfalmente attivo all'estero, Squarzina, direttore più incline alla lotta ideologica e all'attualità, più eclettico, rappresenta nel suo quindicennio genovese (1962-76, quando passa al Teatro di Roma) il tipo del regista-Dramaturg, cultore delle scienze dello spettacolo e docente universitario; mentre assai rilevante per l'ambito da noi esaminato è un nome come Chiesa, non regista ma sostenitore della r. come forza portante della scena contemporanea e fautore di quell'organico collegamento fra gli Stabili italiani che dalla metà degli anni Sessanta ha assicurato, mediante scambi, una circolazione nazionale degli spettacoli e un miglior uso del denaro pubblico per il Teatro, d'altronde in Italia insufficientemente stanziato. Nel settore pubblico ha operato, nonostante iniziali riserve antiistituzionali, anche V. Pandolfi, diplomatosi all'Accademia d'Arte drammatica con una coraggiosa Opera dello straccione che nel febbraio 1943 introduceva sotto lo schermo di J. Gay la tematica anticapitalistica brechtiana, approdato all'insegnamento universitario e per qualche anno (dopo aver abbandonato la r. militante) alla direzione dello Stabile di Roma (ultimo nato, nel 1966, dei grandi Stabili), studioso dell'espressionismo, della Commedia dell'Arte, delle forme popolari, collaboratore del Politecnico vittoriniano, autore di pochi spettacoli (da Gor'kij, Camus, Cocteau, Boccaccio, ecc.) forse estenni al tracciato più evidente della registica italiana ma densi di umori culturali.
Direttore di Teatri Stabili (a Torino e a Roma) è stato per alcuni anni F. Enriquez, che però nel libero sodalizio con un'attrice, un attore e uno scenografo (V. Moriconi, G. Mauri, E. Luzzati, la Compagnia dei Quattro) ha meglio espresso un talento acceso dall'interesse per le novità (il primo in Italia a dare M. Frisch, T. Stoppard, O. von Horvath, lo Ionesco dei Rinoceronti), dallo spettacolo pieno e rutilante (La bisbetica domata), dai teatri-tenda (Casimiro e Carolina di Horvath), dall'opera lirica (L'africana di Meyerbeer al Maggio fiorentino).
Al Piccolo Teatro si forma e debutta v. Puecher (con I vincitori di E. Albini; di lui va poi ricordata almeno L'istruttoria di Weiss al Piccolo con uso di circuiti TV e la collaborazione con la Cooperativa degli Associati). Vi debutta (con La Maria Brasca di G. Testori) M. Missiroli, diplomato dall'Accademia d'Arte drammatica (che ora porta il nome di Silvio D'Amico, suo fondatore e mentore di tutta la r. italiana), rilettore di classici (La locandiera, Tartufo) in chiave stravolgente e cupa, inscenatore di C. Sternheim, di Majakovskij, di J. Webster, di J. A. Strindberg (La signorina Giulia, la trilogia Verso Damasco), dal 1976 direttore del Teatro Stabile di Torino, affiancato dal 1977 dal critico e organizzatore G. Guazzotti. A. Fersen, che debutta introducendo in Italia l'espressionismo colorato dell'Habimah con Lea Lebowitz, e fonda uno Studio per l'attore a Roma, assume a metà degli anni Settanta la direzione dello Stabile più "di frontiera", quello di Bolzano.
Scenografo e costumista formatosi con Visconti (Un tram chiamato desiderio, Troilo e Cressida), F. Zeffirelli passa alla r. affermandosi a Londra e poi in Italia con un Romeo e Giulietta; inscena nei due paesi spettacoli quasi sempre affidati a grandi attori, a Londra Molto rumore per nulla e commedie di De Filippo, in Italia Amleto e i successi americani degli anni Sessanta (Chi ha paura di Virginia Woolf di E. Albee, Dopo la caduta di A. Miller); e trova nel cinema scespiriano (La bisbetica domata, Romeo e Giulietta) e nell'opera lirica (La Bohème, Falstaff) la migliore estrinsecazione del suo estro figurativo.
Costretti a una diaspora per la cronica mancanza di strutture teatrali nella loro città, uomini di teatro napoletani assai diversi come formazione e stile si sono rivelati particolarmente felici nell'esprimere registicamente il mondo che è il loro; sia ritrovando la "linea Viviani" come l'autore-regista G. Patroni Griffi, sia innestando linguaggi da teatro di ricerca e usando spazi non all'italiana come A. Pugliese (Masaniello, di cui è coautore), sia scavando alle radici della musicalità e della gestualità napoletana come il musicologo R. De Simone (autore-regista de La gatta cenerentola e di Mistero napoletano).
Avendo la forma di produzione registica superato e quasi espropriato, soprattutto con gli Stabili, la tradizionale forma di produzione attorica, non poteva non verificarsi, da parte dell'attore italiano, storicamente individualista, nomade, autonomo, un'azione di riconquista dello spazio tradizionalmente stato suo, sia guadagnando credibilità culturale, sia scommettendo sul richiamo del proprio nome, sia associandosi nei modi consueti o in nuovi. Così è stata rivisitata la figura tradizionale del primattore-regista o del primattore-autore-regista. Quest'ultima tipologia si è imposta come peculiarmente italiana (con pochi precedenti: in lingua napoletana R. Viviani, anche musicista; nel cabaret E. Petrolini), ed E. De Filippo, D. Fo, C. Bene, ognuno, in quanto attore, il migliore strumento del proprio fare r., ne incarnano vari modi. È per il primo il magistero dell'insegnamento capocomicale nella linea napoletana; per il secondo l'elaborazione di uno stile drammaturgico e attorico fra il cabaret, l'Arte e le tecniche della scena popolare, messo al servizio di un'idea politica che tocca soprattutto le studentesche proletarizzate, aprendo circuiti e associazionismi di tipo nuovo fuori dalle sale tradizionali nelle quali, assieme alla moglie F. Rame, aveva raggiunto inizialmente il successo; e, quanto al terzo, sia le origini di una neo-avanguardia della dissacrazione nelle cantine romane alla fine degli anni Cinquanta (su propri adattamenti dal Caligola di A. Camus, da Amleto, da Pinocchio, da Majakovskij, A. Jarry, O. Wilde, S. Lewis, o su propri testi: Nostra Signora dei Turchi), sia, nei pieni anni Settanta, la divulgazione ironicamente mattatoriale e decadentistica di questi stilemi in sale tradizionali (spesso su riscritture di testi scespiriani: ancora Amleto, Romeo e Giulietta, Riccardo III, Otello).
Un altro autore-attore-regista, P. Poli, poi dedicatosi al capovolgimento ironico e cabarettistico di certo teatro "perbene" (La Nemica, Santa Rita da Cascia), si è formato collaborando con un regista, A. Trionfo, che a Genova, in un locale sotto un bar, presentò per primo alla fine degli anni Cinquanta il teatro dell'assurdo, e ha poi proseguito in una sua ricerca del bizzarro, del freudiano, del falso-tragico, del falso-eroico (Tamburi nella notte e Puntila di Brecht, Tito Andronico, Arden di Feversham, Il piccolo Eyolf di Ibsen, Sandokan) anche durante il suo incarico di direttore artistico allo Stabile di Torino (1972-73: Peer Gynt, Faust-Marlowe, Bel Ami di L. Codignola).
V. Gassman, formatosi nel clima fervidamente registico proprio dell'Accademia d'Arte drammatica negli anni della guerra, presto però insofferente delle redini direttoriali (a parte un periodo con Visconti nei tardi anni Quaranta, la collaborazione con Squarzina per il Teatro d'Arte Italiano nei primi Cinquanta, e isolatamente con Ronconi per un Riccardo III dello Stabile torinese) ha condotto la sua rivendicazione attorica soprattutto come capocomico-attore-regista, proponendo, primo in Italia, lo spazio-tenda per un "Teatro Popolare Italiano" di breve vita, scommettendo su autori italiani contemporanei, e affermando il diritto del "grande attore" a gestire i classici (Adelchi, Edipo Re, Oreste di Alfieri) e a fare spettacolo delle proprie stazioni autobiografiche.
Di formazione viscontiana, l'attore-regista G. De Lullo prende nel 1955 la guida della Compagnia dei Giovani, a struttura capocomicale, e la conduce nei secondi anni Cinquanta a rapida celebrità con Gigi di Colette e con Il diario di Anna Frank, e a una serie di successi fra cui raffinate e criticamente acute realizzazioni pirandelliane (Il gioco delle parti, Sei personaggi, Così è se vi pare); legato allo scenografo e costumista P. L. Pizzi e al sodalizio con lo scrittore G. Patroni-Griffi (D'amore si muore, Anima nera, Metti una sera a cena), De Lullo trova in R. Valli l'attore e l'animatore ideale, che incarna il suo stile registico e sa suscitare solide strutture produttive.
Attorica va considerata anche la forma di produzione cooperativistica nata attorno al 1968 con il gruppo di Teatro-Insieme costituito da ex del Piccolo Teatro di Milano (Un uomo è un uomo e Arturo Ui di Brecht, l'Amante militare di Goldoni) e poi largamente diffusasi fino a diventare un settore indipendente, destinata nella sua origine a soddisfare anche in Italia l'esigenza di un regista-collettivo e di una r. di gruppo, se non nel senso, forse auspicato ma non concretato, dell'abolizione del regista, in quello almeno di una reale compartecipazione attraverso l'accettazione di paghe inferiori al mercato e spesso egualitarie, alle scelte di repertorio, all'orientamento ideologico e politico, alla condotta gestionale e artistica, alla definizione di uno stile di lavoro che accrescendo la coscienza professionale dei singoli ridimensioni la contestata autorità demiurgica. I gruppi del settore cooperativistico hanno funzionato affidandosi a un attore-direttore già affermato, come G. Sbragia negli Associati (Strano Interludio di O'Neill, Il vizio assurdo di D. Fabbri e D. Laiolo su Pavese; ma non si dimentichi l'anticipatorio Sacco e Vanzetti degli anni Cinquanta) o esprimendone di nuovi come E. Marcucci nel toscano Gruppo della Rocca (Schweik di Brecht, Il mandato e Il suicida di N. R. Erdmann, Pulcinella capitano del popolo di L. Compagnone, con sempre maggiore impegno degli attori a un allenamento biomeccanico) o come G. Fenzi fondatore del ligure Teatro Aperto (originariamente con attori fissi allo Stabile di Genova ma in autonomia: L'eccezione e la regola di Brecht, La storia di tutte le storie di G. Rodari); sia mettendosi subito al servizio di un attore-regista d'avanguardia che orienta il gruppo verso ricerche sue proprie come C. Cecchi con il GranTeatro (Wojzek di G. Büchner, Il bagno majakovskiano, farse di Petito, il Pirandello de L'uomo la bestia e la virtù, il Molière del Borghese gentiluomo e del Don Giovanni); sia associandosi a un autore che assume anche, a volte, funzioni direttoriali, come R. Lerici per il Teatro Belli; sia invece coagulandosi attorno a un regista congeniale come R. Guicciardini agl'inizi del citato Gruppo della Rocca (La Clizia, Perelà uomo di fumo da A. Palazzeschi), o come per il Teatro Libero il già citato A. Pugliese (da testi di W. Gombrowicz, di T. Kyd, da I. Calvino al Masaniello in piazza e in un tendone), o attorno a un attore-direttore che, come F. Parenti, dà il nome alla cooperativa, si allea a un regista (R. Shammah per rappresentazioni di Molière, J.N. Nestroy, ciclo di G. Testori) e gestisce interdisciplinarmente uno spazio (il Pier Lombardo a Milano); sia ancora, su una lunga e coerente collaborazione fra un regista e un attore come nel Teatro Popolare di M. Scaparro e P. Micol (Amleto, Riccardo II, Giulio Cesare, Cirano di Bergerac di E. Rostand).
Per l'indipendenza permessa (seppure con garanzia di sovvenzioni statali) dalla forma cooperativistica ha optato anche L. Ronconi, attore per molti anni (con L. Squarzina), uno fra i talenti più innovatori del teatro non solo italiano, che debutta con una compagnia privata su testi elisabettiani (I lunatici di T. Middleton) ed espressionistici (Le mutande di C. Sternheim), sale a immediata fama internazionale nel 1968 con l'Orlando Furioso in spazi liberi e con mobilità del rapporto attore-spettatore (una chiesa sconsacrata a Spoleto, il Palazzo delle Esposizioni a Roma, le Halles parigine, la piazza del Duomo a Milano), e intensifica le sue ricerche imponendo ai testi angolazioni che s'identificano in macchine audaci e pertinenti, nell'uso rifranto e antinaturalistico dell'attore, in scommesse topografiche poco importa se a volte perdute (un lago svizzero per la kleistiana Pentesilea, uno stradone a senso unico per Utopia da Aristofane), che tutt'insieme hanno fatto parlare di neobarocco. Ronconi lavora anche per Teatri Stabili (Riccardo III a Torino, Fedra di Seneca a Roma, L'Anitra selvatica di Ibsen e testi di Schnitzler a Genova), e con geniale novità di soluzioni per le scene liriche (Wagner, Gluck, Verdi), ma conduce con la Cooperativa Tuscolana il suo discorso principale (Orestea) sfociato in un laboratorio al Fabbricone di Prato (Euripide, Pasolini, Hofmannsthal).
Ma è dagl'improvvisati locali off della capitale che si è mossa la ricerca e sperimentazione italiana, con modalità eterogenee eppure secondo spunti e percorsi comuni al punto che il critico G. Bartolucci ha potuto parlare di una "scuola romana". La rivisitazione dei temi e dei linguaggi delle avanguardie storiche è un passo obbligato per tutti questi giovani e giovanissimi registi, i quali spesso firmano anche come autori pur partendo dai grandi testi. Muovendo dalla contestazione del regista-grande interprete degli anni 1945-60, accusato di essere ormai oleografico, rassicurante, faraonico, e dal rifiuto dello establishment (gli Stabili, gli attori ufficiali, le compagnie alla moda) si è posto l'accento su ciò che è visivo (iniziatore M. Ricci), corporale e gestuale (C. Quartucci), contro l'ortodossia letteraria, con la riduzione del testo a breve spartito verbale e della parola a fonema, con la sostituzione della pittura alla scenografia (A. Perilli) e della colonna sonora alla musica di scena, dall'iniziale provocazione diretta del pubblico (C. Bene) all'uso crescente del nudo (G. Nanni); dall'enfasi sulla scarsezza di mezzi alla quasi programmatica scomodità sia dell'offerta che della ricezione nei diversificati spazi di fortuna; dalle proposte monologanti all'uso effettato di luci suoni e oggetti (ancora Ricci, M. Perlini); dalla propinquità con l'americana e cosmopolitica rivolta beat all'adesione all'ascesi grotowskiana. Tali infatti i temi di un "Convegno per un Nuovo Teatro" tenuto a Ivrea nel 1967 da registi, attori, autori, musicisti, critici, le cui indicazioni proliferano sullo slancio antiistituzionale del 1968-69 in un pluralismo espressivo di grande significato epperò ancora poco storicizzabile (anche se il critico F. Quadri, sostenitore primario del Nuovo Teatro, dichiara nel 1977 che "i tempi eroici si sono spenti da un pezzo", per cui ci limitiamo qui a qualche cenno.
Si sviluppano a Roma dal 1959, e soprattutto dal 1962, le ricerche già citate di M. Ricci (da vari Movimenti a Gulliver, Salomè, Poe, Joyce, Münchhausen, Re Lear, Moby Dick, Le tre melarance, Barbablé, Aiace), quelle di C. Quartucci (partito da Beckett e dall'avanguardia polacca, da testi di B. Scabia e R. Lerici, e creatore di un suo "Camion" autosufficiente per esperienze nelle periferie), quelle di G. Nanni (con l'attrice M. Kustermann, L'imperatore della Cina di G. Ribemont-R. Dessaignes, A come Alice, Risveglio di primavera; poi nei circuiti tradizionali per Franziska, Cimbelino, Amleto), tutte svolte, pur fra grosse difficoltà, con metodi di laboratorio. In un gioco di continuo superamento avanzano G. Sepe (da un I giorni dell'insieme del 1963 a uno zio Vania del 1977, all'Accademia Ackermann del 1978), G. Vasilicò (Le 120 giornate di Sodoma, Proust, L'uomo senza qualità), M. Perlini (Pirandello chi?, Tarzan, Otello, Locus solus, Tradimenti, Risveglio di primavera, e anche, al Maggio Fiorentino, La partenza dell'argonauta da A. Savinio con musiche di M. Panni), Remondi-Caporossi (Sacco, Richiamo, Rotòbolo, Pozzo), B. Mazzali col Pantagruppo. Da Roma muove G. Cobelli, già ottimo attore di cabaret, passato attraverso esperienze in Emilia-Romagna (Gli Uccelli di Aristofane) e al Teatro Stabile dell'Aquila (Aminta, La pazza di Chaillot, di Giraudoux, Antonio e Cleopatra) con dichiarate tecniche dissacratorie. Allo Stabile dell'Aquila, che ha vivo il senso della ricerca (direttore L. Fabiani), troviamo regista stabile in varie fasi A. Calenda (Operetta di Gombrowitz, Il dio Kurt di A. Moravia, Lear di E. Bond, Come vi garba, La madre di Gor'kij-Brecht), partito da una "Compagnia dei 101" negli offromani e da un sodalizio con l'attore L. Proietti continuato per qualche stagione all'Aquila (poi Proietti diventa popolarissimo showman di teatro musicale) e con lo scrittore C. Augias.
A Napoli lavora il gruppo A. Jarry di Mario e Maria Luisa Santella; fra gli emarginati napoletani di Marigliano si trasferiscono L. De Berardinis e P. Peragallo (O' Zappatore, King Lacreme Lear Napulitane, Sudd, fino a Avita murì); a Firenze opera Pier'Alli col gruppo Ouroboros; a Bologna, con base all'università, agiscono L. Gozzi e M. Picchi, e G. Scabia traspone la sua drammaturgia da "spazio degli scontri" (Zip Lap Lip... ecc.) in interventi itineranti fra i bambini (Forse un drago nascerà), nei manicomi (Marco Cavallo), nel mondo rurale appenninico (Il Gorilla Quadrumano); fino a una post-avanguardia (il Carrozzone, che firma collettivamente il suo "rifiuto di fare spettacolo" come ne Il presagio del vampiro). A una nativa vocazione per lo sperimentalismo è riuscita a restare fedele la Loggetta di Brescia, guidata all'origine (1963) e a lungo da M. Mezzadri (di lei si ricorda almeno L'obbedienza non è più una virtù su Don Milani, e nel 1976, con altro gruppo, un Pellicano di Strindberg), ospitale a registi inquieti (N. Ambrosino, G. Scabia), recentemente presa in mano con notevoli operazioni drammaturgiche da M. Castri (due Pirandello originali e ossessivi, Vestire gli ignudi e La vita che ti diedi) e trasformatasi nel 1975-76 in Centro Teatrale Bresciano a gestione pubblica.
Alle differenziate esperienze estetiche perseguite in Italia dalla neoavanguardia si contrappone finalmente, tanto quanto alle istituzioni, il movimento dei "gruppi di base" o "di strada" che trovano i loro modelli operativi nel Living, nell'Odin, nel ("Teatro degli oppressi" dell'autore-regista sudamericano A. Boal, soprattutto nel Bread and Puppet, e un'ascendenza ideale nella polemica di Rousseau contro il "teatro buio", legittimandosi nella sfilata, nella cerimonia laica, nell'animazione, nel festivo insomma, nonché nella provocazione sullo sfondo della grande politica o di situazioni locali. Sulla scorta di Bataille si parla di festa "bianca" e "nera". Si esprimono necessità più che forme. Nella realtà extra-cittadina o nelle zone periferiche metropolitane il discorso teatrale vuole farsi recupero antropologico per stimolare i gruppi emarginati e in genere coloro che "non parlano" in quanto nessuno ha mai dato loro la parola per indurli a creare in proprio; ed è logico che nascano forme di comunicazione-rappresentazione del vissuto in cui gesto e suono prevalgono sul dato verbale per rivolgersi al villaggio o alla scuola elementare o al manicomio o alla fabbrica ("e il luogo più restio è la fabbrica", nota G. Guerrieri) secondo un uso della teatralità che non si saprebbe se definire soprattutto politico o soprattutto psicodrammatico, e che privilegia la totalità pubblico-spettacolo rifiutando sia di dividere la domanda dall'offerta di teatro, sia di separare il luogo ideale e reale della rappresentazione da quello della fruizione, sia d'insistere sui ruoli delle specializzazioni di palcoscenico. Si va verso una cultura teatrale fatta non più soltanto di alti prodotti ma anche di processi coinvolgenti, che pone alla r. problemi e compiti inediti che possono riscattarla dalla sterile alternativa fra un teatro di compiacimento e un teatro di disperazione, o (come dice R. De Monticelli) fra un teatro di celebrazione e uno di contestazione.
Ma in tutto il mondo che continua a esprimersi con i linguaggi scenici occidentali, pur interessato e tentato com'esso è dalle tecniche e dalle mistiche dell'attore orientale, se per teatrale intendiamo l'amplissima inesauribile gamma di apparizioni della teatralità connaturata all'uomo persona e all'uomo sociale; e per teatrico ciò che attiene alle manifestazioni di un'arte o di una professione o comunque di un'espressione delegata col suo dispiegarsi in tutti i luoghi e presso tutte le società e col suo svilupparsi storico in tutti i tempi; allora riconosceremo, anche se non potremo né dovremo trattarne qui, che alla vigilia degli anni Ottanta la r. nel suo diffondersi e stemperarsi vede sempre più ampliata dal teatrico al teatrale l'area del suo lavoro; e qualcuno dirà diluendolo o addirittura rinunciandovi, e qualcun altro dirà disseminandolo ma anche arricchendolo, trasponendolo comunque in sistemi e spazi decisamente altri; nel senso insomma di una riteatralizzazione non più soltanto né precipuamente del teatro ma della vita.
Bibl.: Per l'ultimo trentennio si rimanda, anzitutto, alle voci biografiche e generali della Enciclopedia dello Spettacolo fondata da Silvio D'Amico, Roma 1954-62, con supplemento 1955-65. Si tenga presente innanzitutto il materiale pubblicato nelle riviste specializzate, di cui diamo la sigla qualora siano qui in seguito citate: Cahiers Renaud-Barrault, Parigi (CRB); Dialog, Varsavia; Interscaena, acta scaenografica, Praga (IS); Maske und Kothurn, Vienna; Pamietnik Teatralny, Varsavia (PT); Revue d'histoire du théâtre, Parigi (RHT); Theater der Zeit, Berlino (TZ); Theatre Notebook, Londra; Theatre Quarterly, ivi (TQ); Théâtre populaire, Parigi (TP); Travail théâtral, Losanna (TT); Tuane Drama Review, poi The Drama Review, New York (TDR), Theater Heute, Hannover (TH). Per le riviste italiane, si consigliano: Biblioteca Teatrale, Roma (BT), Scrittura Scenica, Roma (SS), Scena, Milano nonché le cronache e le critiche su Sipario, Milano, e su Dramma, Torino. Utili risultano, nell'ormai sterminata pubblicistica, per quanto riguarda integrazioni di carattere storico-evolutivo, per l'attenzione alle diverse poetiche: A. Veinstein, Du théâtre libre au th. L. Jouvet. Les théâtres d'art à travers leurs périodiques, Parigi 1955; Encyclopédie du théâtre contemporain, a cura di G. Quéant, 2 voll., ivi 1957; S. Dhomme, La mise en scène contemporaine, d'Antoine à Brecht, ivi 1959; G. Calendoli, L'attore, Roma 1959; Autori vari, Les mises en scène des oeuvres du passé, a cura di J. Jacquot e A. Veinstein, Parigi 1960; V. Pandolfi, Regia e registi nel teatro moderno, Bologna 1961, 19732; Autori vari, Le lieu théâtral dans la société moderne, a cura di D. Bablet e di J. Jacquot, Parigi 1963; J. Jacquot, Shakespeare en France. Mises en scène d'hier et d'aujourd'hui, ivi 1964; D. Bablet, Esthétique générale du décor de théâtre de 1870 à 1914, ivi 1965; id., La mise en scène contemporaine 1887-1914, Bruxelles 1968; H. Kindermann, Theatergeschichte Europas, vol. VIII, Salisburgo 1968; fondamentale per la ricostruzione filologica e il raffronto tra messiscene diverse di medesimi spettacoli; Autori vari, Les voies de la création théâtrale, a cura di D. Bablet, voll. I e II, Parigi 1970; Autori vari, Les voies de la création théâtrale, a cura di D. Bablet, voll. I e II, Parigi 1970; Autori vari, Macbeth, in TQ, 1971, n. 3; U. Artioli, Teorie della scena dal naturalismo al surrealismo. Dai Meininger a Craig, I, Firenze 1972; Autori vari, Dokumentation. Forschung und Lehre im Auftrag der FIRT, a cura di M. Dietrich, Salisburgo 1975; J. Brach-Czaina, Le idee teatrali del 10° secolo. La teoria dell'opera teatrale dalla Grande riforma fino allo happening, in polacco, Breslavia 1975; J. Fiebach, Studien zu Künstlertheorien in der ersten Hälfte des 20 Jahrhunderts, Berlino 1975; D. Bablet, Les révolution du XXe siècle, Parigi 1976.
Per quanto riguarda indagini di ordine estetico-strutturalistico, con ambizioni classificatorie e categoriali: A. Veinstein, La mise en scène théâtrale et sa condition esthétique, Parigi 1955; H. Gouthier, L'essence du théâtre, ivi 1968 (d'impronta spiritualistica).
Come studi d'impronta semiologica, cfr. T. Kowzan, Le signe au théâtre. Introduction à la sémiologie de l'art spectacle, in Diogène, 1968, n. 61; M. Kouril, Sulla struttura della messinscena e La messinscena e la sua struttura, in IS, 1969, n. 1-11; P. Larthomas, Le language dramatique, Parigi 1972; Sémiologie de la réprésentation, a cura di A. Helbo, Bruxelles 1975; T. Kowzan, Littérature et spectacle, Parigi 1975; F. Ruffini, Semiologia del teatro, Roma 1978.
Come studi specifici a singole poetiche, molti sono i nuovi contributi sulle avanguardie storiche e il loro tentativo radicale-utopico di riteatralizzare la scena, articolabile schematicamente nelle strategie del Testo-Logos, dell'Icona e del Corpo. Per la linea francese, cfr.: Autori vari, Shakespeare et le Cartel des Quatres, in Études Anglaises, aprile-giugno 1960; Cl. Borgal, Metteurs en scène. Copeau, Dullin, Jouvet, Baty, et Pitoëff, Parigi 1963; F. Cruciani, J. Copeau o le aporie del teatro moderno, Roma 1971.
Per la linea Appia-Craig: F. Marotti, Gordon Craig, Bologna 1961; D. Bablet, E. G. Craig, Parigi 1962; Autori vari, Émile Jacques Dalcroze, l'homme, le compositeur, le créateur de la rythmique, Neuchâtel 1965; G. Skelton, Wagner at Bayreuth. Experiment and tradition, New York 1965; F. Marotti, La scena di Adolphe Appia, Bologna 1966; id., Amleto o dell'oxymoron. Studi e note sull'estetica della scena moderna, Roma 1966; F. Popper, Naissance de l'art cinétique. L'image du mouvement dans les arts plastiques depuis 1860, Parigi 1967 (trad. it., Torino 1970); D. Kreidt, Kunsttheorie der Inszenierung. Zur Kritik der aesthetischen Konzeptionen. A. Appia und E. G. Craig, Berlino 1968; W. R. Volbach, A. Appia, prophet of the moderne theatre. A profil, Middletown, Conn., 1968; E. G. Craig, Il mio teatro. L'arte del teatro. Per un nuovo teatro. Scena, a cura di F. Marotti, Milano 1971; A. Appia, Attore, musica e scena, a cura di F. Marotti, ivi 1975.
Per la scena tedesca e polacca: G. Fuchs, G. Fuchs e la sua riforma del teatro, in PT, 1961, n. 1; L. Schiller, Teatr Ogromy (Il Teatro Monumentale), Varsavia 1961; O. Schlemmer, L. Moholy-Nagy, F. Molnar, Die Bühne in Bauhaus, Berlino 1965 (trad. it., Torino 1975); M. Reinhardt, Regiebuch zu Macbeth, Amburgo-Vienna 1966; Il Portico, n. 5, 1967, numero speciale dedicato a M. Reinhardt; H. Braulich, M. Reinhardt, Theater zwischen Traum und Wirklichkeit, Berlino 1969; D. Schaper, O. Schlemmer, das Bühnenwerk, mit einem Katalog der Bühnenwentwürfe, Monaco 1974; Teatro nella Repubblica di Weimar, a cura del Teatro di Roma e di P. Chiarini, Roma 1978.
Sulla regia russa fino al periodo rivoluzionario: N. M. Gonkacov, The Wachtangov school of Stage art (trad. ingl. di Ivanov-Mumjev), Londra 1960; V. E. Mejerchol'd, La rivoluzione teatrale, a cura di G. Crino, Roma 1962, 19752; N. Gourfinkel, Stanislawskji et Meyerchol'd, in RHT, n. 4, 1962; N. M. Gorcakov, Regie. Unterricht bei Stanislawskji, voll. 2, Berlino 1963; TDR, vol. 9, n. 1-11, 1964 (numeri dedicati a Stanislawskji e a Mejerchol'd); A. M. Ripellino, Il trucco e l'anima. I maestri della regia nel teatro russo, Torino 19652; Ch. Edwards, The Stanislawskji heritage. Its contribution to the Russian and American theatre, New York 1965; V. E. Mejerchol'd, E. B. Vachtangov, A. J. Tairov, Theater Oktober. Beiträge zur Entwicklung des sowietischen Theaters, Lipsia 1967; K. Stanislawskji, Il lavoro dell'attore, voll. I-II, Bari 1968 (trad. it. a cura di G. Guerrieri, che segue l'altra sua importante trad. it. di Stanislawskji, La mia vita nell'arte, Torino 1963); A. J. Tarov, Notes of a Director (trad. ingl. di W. Kuhlla), Coral Gables (Florida) 1969; V.E. Mejerchol'd, Écrits sur le théâtre, vol. I, 1891-1917, vol. II, 1917-1919, a cura di B. Piccon-Vallin, Losanna 1973-75.
Per quanto attiene invece al Teatro della Regia nei suoi dati innovativi rispetto ai modelli delle avangaurdie storiche, si possono isolare almeno due tendenze dagli anni Cinquanta a oggi, opposte e solo raramente compresenti tra loro, una cioè che punta all'istituzione, alla ratio, alla mediazione, con procedimenti dialettici e discorsivi, pur nell'eterogeneità degli strumenti linguistici scenici, molto stimolata dalla lezione di Brecht; l'altra che punta al contrario alla rottura, all'immediato, all'eventificazione fuori dell'Istituzione, all'antistoricismo, all'attivizzazione per chocks della platea. Per la prima strategia, cfr. per quanto rigaurda l'area brechtiana: J. Rühle, Des gefesselte Theater, Colonia 1957; Nuovi studi su Brecht, a cura di P. Chiarini, con ampia bibliografia puntualizzata a tutto il 1961, nei Quaderni del Piccolo Teatro, Milano 1961; TP, n. 46, 1962 (confronto tra lo Schweick di Planchon e quello di Strehler); B. Brecht, Schriften zum Theater, Francoforte s. M. 1963-64, (trad. it., Torino 1975, voll. III); R. Barthes, Essais critiques, Parigi 1964; W. Mittenzwei, B. Brecht. Von der Massnahme zu Leben des Galilei, Berlino-Weimar 1965. Importanti sono E. Schumacher, B. Brechts 'Leben des Galilei' - Drama und Geschichte, Berlino 1966; id., Leben Brechts, ivi 1977 (trad. it., Torino 1978), e tutti gli studi brechtiani di P. Chiarini. Pure notevoli risultano: H. Mayer, B. Brecht und die Tradition, Pfullingen 1961 (trad. it., Torino 1972); Autori vari, Episches Theater, a cura di R. Grimm, Berlino 1966; J. Willet, The theatre of B. Brecht, Methuen 1967 (già uscito in trad. it. per una precedente edizione, Milano 1961); B. Dort, Théâtre public, Parigi 1967 (trad. it., Padova 1967); Theaterarbeit, 6 Aufführungen des Berliner Ensembles, Berlino 1967 (trad. it., Milano 1969); Brecht-Dialog 1968, Politik auf dem Theater, a cura di W. Hecht, ivi 1968 (trad. it., Milano 1970); F. Ewen, B. Brecht, Londra 1970 (trad. it., Milano 1970); W. Hecht, Aufsätze über B. Brecht, Lipsia 1970; Brecht-Courage, in Quaderni del Teatro STabile di Genova, n. 16, 1970; B. Dort, Théâtre réel, Parigi 1971 (cfr. P. Puppa, Il Brecht di Dort, lo spettacolo tra dialettica ed alienazione, in Angelus Novus, 24, 1974); H. Mayer, Brecht in der Geschichte. Drei Versuche, Francoforte s. M. 1971; R. Steinweg, Das Lehrstück. Brechts Theorie einer politich-ästetischen Erziehung, Stoccarda 1972; Brecht 73, Brecht-Woche der D.D.R., Dokumentation, a cura di W. Hecht, Berlino 1973.
Per quanto concerne l'influenza di Piscator in tale fascia ideologica e scenica, cfr. E. Piscator, Schriften, in Aufträge der D. Akad. der Künste, vol. II, Berlino 1967; M. Castri, Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud, Torino 1973; E. Piscator, Il teatro politico, a cura di M. Castri, ivi 19762; E. Piscator, catalogo della mostra a cura del Teatro di Roma e di P. Chiarini, Roma 1978. Per quanto attiene a questo filone dialettico-storicistico, cfr. O. Kreica, J. Svoboda, Jindriska, I proprietari di chiavi. Analisi delle regie al Teatro Nazionale di Praga, Praga 1963 (in cecosl.); M. Wekwerth, Notate. Über die Arbeit des Berliner Ensemble 1956 bis 1966, Francoforte s. M. 1967; L. Squarzina, Cruauté, esorcismo, psicodramma nel teatro d'oggi, in La Biennale di Venezia, n. 63, 1968 (poi col tit. Il didatta e lo sciamano, in Le Baccanti, Genova 1968); E. Copfermann, Planchon, Losanna 1969; M. Touzoul, J. Thephany, Vilar, mot pour mot, Parigi 1972; M. Wekwerth, Regie Regisseur, Regieausbildung, in TZ, n. II, 1974; L. Squarzina, Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, in Problemi del linguaggio teatrale, Genova 1974; G. Strehler, Per un teatro umano, Milano 1974. Infine P. Brook (che apre all'altra area grazie all'influsso di Artaud), The Empty Space, Londra 1968 (trad. it., Milano 1968); sullo stesso cfr. anche M. Kustow, U.S., ivi 1968, e A. C. H. Smith, Orghast at Persepolis, ivi 1972; a cavallo delle due aree, G. Bartolucci, Teatro-corpo e teatro immagine, Padova 1970.
Per l'altro versante della regia, articolabile nei due percorsi del new American theater, dal Living alle performances, e della lezione Grotowski, in una tensione verso il fuori teatro, si deve partire da A. Artaud, oeuvres complètes, specie i voll. IV° e V°, Parigi 1964, e IX°, ivi 1971 (comprendente i materiali sul Théâtre et son double e sui Tarahumaras). Su Artaud, l'importante J. Derrida, La parole soufflée, in L'écriture et la différence, Parigi 1967; Ch. Marowitz, S. Trussler, Theater at Work, Londra 1967; CRB 69, numero speciale, 1969; G. Charbonnier, A. Artaud, Parigi 1970; Chr. Guillermet, Lecture d'Artaud. Propositions pour un théâtre matérialiste, Digione 1971; F. Tonelli, L'esthétique de la cruauté. Études des implications esthétiques du Théâtre de la cruauté, Parigi 1972; U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, Milano 1978. La migliore analisi delle esperienze americane degli anni Sessanta e Settanta è quella contenuta (assieme a esperienze internazionali) nei numeri della TDR. Per citare altri contributi, cfr. P. Biner, Le Living Theatre, histoire sans légende, Losanna 1968 (trad. it., Bari 1968); Paradise Now, testo collettivo scritto da J. Beck e da J. Malina, a cura di F. Quadri, Torino 1970 (con ampia bibliografia); J. Beck, The life of the theatre, San Francisco 1972; J. Chaikin, The presence of the Actor, New York 1972 (trad. it., Torino 1976); più in generale: R. Kostelanetz, The theatre of mixed Means, New York 1968; G. Bartolucci, America Hurrah, Genova 1968; Yale-Theatre, Special The Living Theatre, a cura di R. Frutkin e G. Talley, New Haven 1969; G. Bartolucci, The Living Theatre, Roma 1970; R. Pasolli, A book on The Open Theatre, New York 1970; F. Jotterand, Le Nouveau Théâtre Américain, Parigi 1970; V. Valentini, Il dibattito sul teatro negli USA: Schechner e TDR (1956-1971), in BT, n. 6-7, 1973; St. Brecht, Open Theatre e Living Theatre. Cronache 1973, in BT, 1976, t. 71. Sugli aspetti più recenti delle performances: M. Kirby, The New Theatre, in TDR, 1965; J. J. Lebel, Le Happening, Parigi 1966; n. 1, 1968, di RHT; R. Schechner, TDR, 1968, con interventi, tra gli altri, di D. Kaplan, A. Kaprow, J. Littlewood; dello stesso Schechner, Environmental theatre, New York 1973; S. Brecht, Nuovo Teatro americano, Roma 1975; M. Argile, Bodily Communication, Londra 1975; n. 10 di SS, 1975, con interventi di Wilson, Monk, Foreman; M.-C. Pasquier, Le théâtre américain d'aujourd'hui, Parigi 1978. Per la linea Grotowski, cfr. E. Barba, Alla ricerca del teatro perduto, Padova 1965; E. Copfermann, Le théâtre laboratoire de Wroclaw à Paris ou le structuralisme au théâtre, in Lettres Françaises, n. 1130, 1966; J. Grotowski, Towards a poor theatre (pref. di P. Brook), Holstebro 1968 (trad. it., Roma 1968); R. Temkine, Grotowski, Losanna 1968 (trad. it., Bari 1969); V. Monaco, Grotowski o della negazione, Roma 1972; Il libro dell'Odin. Il teatro laboratorio di Eugenio Barba, a cura di F. Taviani, Milano 1975.
Per i rapporti tra gl'indirizzi citati e alcuen tendenze delle neoavanguardie italiane (Bene, Ricci, Nanni, ecc.), oltre a contributi interessanti presenti in SS, cfr. F. Quadri, L'avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-76), 2 voll., Torino 1977. Utili pure risultano G. Bartolucci, La politica del nuovo, Roma 1973, e il n. 16 di SS, 1977. Variante della r. intesa come rottura della mediazione e del continuum storicistico e dialettico, si può considerare, per concludere, il Teatro della piazza, nei suoi aspetti contrastanti di apertura sociale e di ambiguità regressiva, anche nel periodo fra le due guerre a cui occorre rifarsi. A questo proposito, cfr. E. Copfermann, Le théâtre populaire pourquoi?, Parigi 1969; i due numeri speciali su Théâtre et politique della rivista Partisans, 1967 e 1969, nn. 36 e 47; A. Lacis, Revolutionär im Beruf, Monaco 1971 (trad. it. con un saggio di E. Casini-Ropa, Milano 1976); F. Kourilsky, Le Bread and Puppet Theatre, Parigi 1971; L. Hoffmann-Ostwald, Deutsches Arbeiter-theater 1918-1933. Eine Dokumentation, Berlino 19722; G. L. Mosse, The nationalisation of the masses. Political symbolism and mass movements in Germany from the Napoleonic wars through the Third Reichs, New York 1974 (trad. it., Bologna 1975); A. J. Paech, Das Theater der russischen - Revolution u. Praxis d. proletar. Kulturrevolutionären Theaters in Russland 1917-1924, ein Beitrag z. Polit. Geschichte d. Theaters, Kronberg 1974; M. Fazio, Il teatro agit-prop nella repubblica di Weimar. Le tipologie drammaturgiche, in BT, nn. 19, 1977; Le théâtre d'agit-prop de 1917 à 1932, voll. 1° e 2° (dedicati alla URSS), Losanna 1977, a cura dell'Équipe Théâtre Moderne guidata da D. Bahlet; Teatro nella Repubblica di Weimar, cit. Per le iniziative legate all'animazione teatrale oggi, e alla festa politica, cfr.: G. Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Roma 1973; R. Rostagno, B. Pellegrini, Per un Teatro-Scuola-Quartiere, Venezia 1975; L. Bini, Attento a te! Il teatro politico di Dario Fo, Verona 1975; A. Simon, Les signes et les songes. Essai sur le théâtre et la fête, Parigi 1976; P. Puppa, Dario Fo: dalla scena alla piazza, Venezia 1978; G. Scabia, E. Casini Ropa, L'animazione teatrale, Firenze 1978. Per le componenti italiane più manieristiche e neobarocche della Regia-Festa-Gioco del Mondo, cfr. F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su L. Ronconi, Torino 1973; C. Milanese, L. Ronconi e la realtà del teatro, Milano 1973. Per altri registi italiani influenzati da queste dinamiche entro gli spazi chiusi del teatro istituzionale, cfr. E. Groppali, Il teatro di Trionfo, Missiroli, Cobelli. La disperazione travestita, Venezia 1977. Per l'Italia, utili in genere L. Trezzini, Geografia del teatro. Rapporto sul teatro italiano d'oggi, Roma 1977, e G. Antonucci, La regia teatrale in Italia, Roma 1978; dalle bibl. alle relative voci biografiche enucleiamo inoltre per Visconti il catalogo della mostra Visconti: il teatro, a cura di C. d'Amico de Carvalho, Reggio Emilia 1977; per Strehler le pubblicazioni del Piccolo Teatro di Milano e G. Guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano, Milano 1965; per Squarzina le edizioni del Teatro Stabile di Genova dal 1961 al 1976. Per la recente r. francese e per quella tedesca si vedano le riviste sopracitate.