Regia
di Antonio Audino
Il termine regia continua a essere centrale nella riflessione contemporanea sul teatro. Per quanto di recente acquisizione (e, peraltro, di uso esclusivamente italiano), l'espressione indica quella che ancora si configura come l'attività centrale nell'ambito della creatività spettacolare. Il lungo cammino del ruolo del metteur en scène, del director, iniziato alla fine dell'Ottocento in Europa e divenuto presente definitivamente sulle scene italiane nel secondo dopoguerra con il neologismo regista (coniato, come l'altro termine regia, nel 1932 dal linguista B. Migliorini) ha segnato in maniera definitiva il modo di intendere lo spettacolo teatrale, facendo ritenere, come è idea corrente, che il vero artefice del prodotto scenico sia proprio lui e solo in seconda istanza il drammaturgo o l'attore. È il regista che sceglie cosa mettere in scena, come e con chi farlo, e soprattutto è lui a decidere perché mettere in piedi una determinata operazione, quali significati culturali o estetici comunicare con essa. Questo ruolo centrale, o come si è spesso detto demiurgico, una volta acquisito il primato della scena, ha subito diverse modificazioni, soprattutto negli anni più recenti.
Di certo si è andata confermando l'idea che il regista sia il leader di un gruppo consolidato e affiatato con il quale dà vita alle sue creazioni. Questo avviene soprattutto all'estero dove prestigiose compagini di attori lavorano in stretto rapporto di collaborazione con tale figura, raggiungendo livelli di compattezza artistica difficilmente registrabili sui palcoscenici italiani. Valgano gli esempi dei tedeschi Th. Ostermeier o M. Thalheimer, degli ungheresi A. Schilling e T. Ascher, dei russi L. Dodin o K. Ginkas. Proprio per questa sua centralità creativa, il regista in molte istituzioni europee è affiancato dalla figura del dramaturg, colui che lo aiuta nel lavoro sul testo, condividendone le scelte drammaturgiche ed elaborandole su un piano letterario e di scrittura scenica.
L'evoluzione della concezione recitativa attuale (v. attore, e teatro) deriva da un lavoro simbiotico fra il creatore della complessa macchina spettacolare e la sua squadra di attori. Da questo punto di vista appaiono straordinari i risultati delle grandi compagnie tedesche e di quelle dell'Est europeo.
Il segno più autonomo e innovativo di questo passaggio di secolo è senza dubbio il lavoro del lituano E. Nekrosius (n. 1952) che, con la compagnia Meno Fortas di Vilnius, ha portato in scena alcuni capolavori di W. Shakespeare, ha allestito spettacoli tratti da opere di A.P. Čechov, ha adattato per il palcoscenico alcune linee narrative della letteratura del suo Paese, usando sempre il testo come una traccia sulla quale far nascere infinite invenzioni sceniche, attoriali e visive, cercando di raggiungere il cuore delle tematiche degli autori rappresentati, descrivendo soprattutto l'universo confuso delle relazioni, le linee spezzate della comunicazione fra individuo e individuo, portando in luce le traiettorie dei sentimenti, le tessiture e le smagliature dei rapporti dell'uomo con le persone e la società circostante. Tutto questo, allontanandosi da qualsiasi idea di realismo. Lo spettacolo, per Nekrosius, è costituito dal fluire di un tempo autonomo dalla realtà; non a caso le ambientazioni delle sue messe in scena sono sempre scabre, ridotte all'essenziale, ma con oggetti di forte valore simbolico. Materie e oggetti basilari come il legno o il metallo, rami, tronchi, corde, qualche utensile o qualche arnese da lavoro, e poi acqua, fuoco, ghiaccio. Ma è l'attore il punto focale di quel viluppo di riflessioni sulla radice dell'esistenza, l'attore che attraversa la scena scarna con corse improvvise e capriole, che lancia fischi e grida nell'aria, che compone, insieme agli altri interpreti, calligrafie fisiche e gestuali che non hanno alcun compiacimento estetico, ma sono sempre un segno energico della presenza dell'essere umano, e, seppur ideate su linee astratte, lasciano un segno profondamente terreno. L'interprete del teatro di Nekrosius sembra corrispondere perfettamente a quella definizione dell'attore data dallo scrittore visionario A. Artaud: "un atleta del cuore", capace di travalicare il limite del plausibile, anche nelle sue prestazioni fisiche e vocali, restando tuttavia ancorato all'essenza dell'individuo. Appare evidente come Nekrosius abbia fatto proprio il pensiero di uno dei padri del teatro contemporaneo, K.S. Stanislavskij (1863-1938) relativamente alle sue riflessioni sulle azioni fisiche e sulla relazione fra l'istinto del movimento e il pensiero che lo anima e lo precede. Per quanto parco di riflessioni teoriche, il grande regista lituano sembra rappresentare l'ultima e più felice indicazione della riflessione su un rapporto più interiore fra il gesto scenico e la trascrizione di sentimenti e di emozioni profonde.
Per quanto riguarda altri segni significativi della scena attuale, un posto di assoluto rilievo va assegnato all'inglese P. Brook (n. 1925) che ha proseguito la sua ricerca nel senso di un'essenzialità estrema nel lavoro scenico, sia per quello che riguarda i toni, sia le espressioni recitative e l'intera costruzione dell'evento scenico, attraversando anch'egli testi shakespeariani o prendendo spunto da suggestioni letterarie africane o orientali, e raggiungendo con la messa in scena dell'Amleto (2002), sfrondato dalle ridondanze di matrice elisabettiana, una rara sintesi di rigore creativo e di profondità comunicativa. Brook realizza così un miracolo che appare possibile soltanto grazie alla sua infinita capacità artistica e poetica, ovvero quello di procedere per continue sottrazioni e, proprio attraverso questa nitidezza, raggiungere una maggiore trasparenza del testo e, di conseguenza, una rinnovata capacità di lettura in profondità.
Su un fronte del tutto opposto si può registrare, invece, un cospicuo catalogo di creatori che mettono in comunicazione territori differenti, oramai sempre più vicini tra loro, come quello del teatro e della danza. Valga per tutti il caso del coreografo svedese M. Ek (n. 1945) con la sua compagnia di attori che sono anche eccellenti ballerini, con i quali mette in scena opere drammaturgiche realizzate nel completo rispetto del testo, con una qualità di recitazione del tutto originale e una grande attenzione alla dimensione visiva, ma operando alcuni innesti di danza che appaiono perfettamente interni al discorso scenico, come in Il mercante di Venezia (2005) di Shakespeare. Su una linea analoga si possono collocare quelle complesse e grottesche costruzioni recitative e di movimento realizzate dallo svizzero C. Marthaler (n. 1951) per descrivere le contraddizioni politiche della società contemporanea attraverso articolate e ironiche pantomime.
Tutto questo fa pensare, appunto, che il termine regia, declinato nelle sue massime espressioni internazionali, racchiuda ormai significati e intenzioni del tutto differenti tra loro. Ma il più grande cambiamento che va registrato riguardo alla funzione e alla figura del regista è sicuramente il tramonto di quella che è stata definita la 'regia critica'. La necessità di un direttore che armonizzasse le parti del prodotto spettacolare era stata fortemente sentita per dare alla scena una sua compattezza e una nuova unitarietà, sottraendola al dominio del grande attore che piegava a sé le ragioni di tutte le altre componenti. Ciò implicava che il regista si attribuisse la funzione di unico interprete autorizzato dalle intenzioni della scrittura drammatica. I primi a intraprendere questa via in Italia, negli anni Cinquanta, sono stati, tra i maggiori, L. Visconti (1903-1976), G. De Lullo (1921-1981), L. Squarzina (n. 1922) e G. Strehler (1921-1997). Mediante il lavoro a tavolino, introdotto proprio dalla necessità di uno studio del copione, il regista indicava agli attori le linee di interpretazione di quel lavoro, seguendo la propria lettura interpretativa, suggerendo il modo per far emergere le particolari sfumature capaci di esporre in scena quel determinato senso espresso dall'autore. Per questo il regista si faceva critico, adoperando gli strumenti dell'ermeneutica letteraria, indagando le intenzioni dell'autore, esaminando la tradizione interpretativa, la letteratura a riguardo, studiandone la biografia e gli scritti, per arrivare a capire quali fossero le intenzioni profonde celate dietro la pagina scritta. Con questo procedimento veniva elaborato il cosiddetto lavoro sul sottotesto, operando quindi uno svelamento di quella traccia di senso nascosta sotto la partitura verbale e che, secondo questa linea creativa, doveva essere compito degli attori far emergere in scena, sotto la guida del regista. Già questa funzione della r. appariva fortemente contestata negli anni Settanta, quando venne negato l'obbligo di una stretta attinenza filologica e di pensiero fra il testo e lo spettacolo, nel tentativo di liberare il regista da vincoli interpretativi e consentendogli di intervenire a suo modo sulla scrittura drammatica, dando luogo a quelle che venivano definite riletture o stravolgimenti. Tutto questo non faceva che allargare la funzione del regista che, da 'servitore' del testo e fedele seguace delle intenzioni dell'autore, si faceva creatore autonomo e originale, costringendo a volte l'opera affrontata a fare da spunto per visioni e riflessioni spesso neppure lontanamente immaginate da chi aveva steso il dramma o la commedia.
Tale ipertrofia della funzione registica ha portato una certa creatività teatrale a fare a meno della stessa partitura verbale, a mettere in secondo piano gli attori, ad avocare nelle mani di un unico creatore tutto l'universo dello spettacolo. Se dunque il paragone più diffuso fino a pochi anni fa per descrivere il lavoro del regista era quello con il lavoro del direttore d'orchestra, oggi si potrebbe più facilmente identificare la sua attività con quella di un artista di ambito plastico o visivo, il quale ha l'intera responsabilità dell'atto creativo, nato dalla sua fantasia, dalle sue visioni, dalle sue riflessioni, realizzate con strumenti particolari, nel caso specifico quelli della scena.
Per quanto possa sembrare inutile negare la persistenza di un atteggiamento critico ed espositivo del testo drammatico da parte di molti registi, che restano tra gli esempi del miglior teatro internazionale, va detto che, soprattutto in Italia, questa linea sembra ormai appartenere quasi sempre a un ambito di intrattenimento che poco ha a che fare con ragioni artistiche e più con un mercato di pura finalità commerciale. Eccezion fatta per M. Castri (n. 1943), che ha continuato a scavare in certe direzioni con risultati sorprendenti. Un percorso attraverso la tragedia greca e una memorabile edizione della Trilogia della villeggiatura (1996) di C. Goldoni hanno mostrato quanto ancora un atteggiamento di analisi del copione attraverso i mezzi della scena, e con un'attenzione particolare ai rapporti recitativi, possa illuminare di nuovo senso opere che ormai appaiono scandagliate in ogni piega più remota.
Nelle migliori esperienze della r. italiana il tramonto della r. critica ha dato vita a diverse strade. Forse per primo L. Ronconi (n. 1933) ha rotto definitivamente lo specchio del realismo scenico, introducendo uno stile recitativo del tutto particolare, assestato su tonalità non quotidiane, con andamenti prosodici che spostano il peso delle parole e della sintassi, astraendo la linea comunicativa, portando il tracciato verbale fuori dallo scavo psicologico delle intonazioni. Questo avviene nei suoi spettacoli soprattutto con lo slittamento di attenzione da una parola all'altra, magari sottolineando parole di minor forza semantica, proprio per non fornire indicazioni di contenuto, per non suggerire possibili chiavi introspettive, lasciando allo spettatore una personalissima ricostruzione del senso della parola detta in scena.
Nella sua ricerca, Ronconi è uscito fuori dagli spazi consueti del teatro. Ciò è avvenuto in tutti i sensi, non solo per quello che riguarda il vero e proprio spazio scenico, con allestimenti realizzati, sin dalle sue prime r., in luoghi differenti dal palcoscenico tradizionale, ma anche abbandonando spesso l'ambito della drammaturgia e indagando su testi letterari, e addirittura su opere di carattere scientifico ed economico. Ronconi ha inoltre fratturato l'unitarietà della messa in scena, creando spettacoli policentrici dove viene disgregata la necessità di una percezione unitaria, oppure dilatandone i tempi e rendendola discontinua nella sua densità narrativa, come a fornire un prodotto percepibile per parti e senza ambizioni totalizzanti.
Il declino della r. critica, anche nell'esempio ronconiano, sembra aver segnato una definitiva uscita dallo psicologismo, ovvero da un'attenzione all'interiorità del personaggio, dalla minuziosa spettrografia di reazioni e moti dell'interiorità. Il che segna senza dubbio la transizione da un'epoca, durata circa un secolo, tutta orientata alla ricerca del rapporto fra oscurità della psiche e mondo relazionale, alla società odierna, con la necessità di una diversa riflessione suggerita dai tempi, attuata con la ricerca di forme nuove, indagando in altro modo su cosa avvenga nel rapporto fra i nostri riflessi interiori ed esteriori e l'universo circostante. Accanto a questa caduta di interesse per l'individualità del personaggio e quindi per la stretta dimensione psicologica dell'individuo, viene meno la possibilità di appoggiarsi su un qualunque credo ideologico, politico, confessionale. Il mondo, così come descritto dai filosofi della postmodernità, appare come un accostamento casuale e acritico di oggetti disparati, differenti, talvolta di opposta natura, con significati antitetici. Ogni analisi che tenti di leggere gli accadimenti del mondo in una sola chiave interpretativa è destinata ad arenarsi davanti all'impossibilità di procedere e alla necessità, semmai, di dover contemplare sguardi diversi.
Questo accade anche nella r. contemporanea con esiti diversi. E l'ultima, più decisa frontiera di un nuovo atteggiamento creativo è la complessa e articolata creatività di R. Castellucci (n. 1960) e della sua compagnia, la Societas Raffaello Sanzio. Anche Castellucci è partito da Shakespeare, ha attraversato la tragedia greca, con operazioni fortemente indicative, soprattutto per l'assenza di veri e propri attori e la presenza di fisicità segnate da sofferenze, malformazioni, brutali modificazioni dell'aspetto esteriore. Ma il progetto della Tragedia Endogonidia (2002-2004), realizzato a tappe in diverse città d'Europa, sposta ulteriormente il confine della riflessione. Lo spettatore si trova davanti a grandi quadri scenici, di assoluto rigore formale, di nitida perfezione di segno, e incontra elementi umani e non umani non facilmente decodificabili. Corpi, animali, figure nere uscite da un lontano passato, immagini della contemporaneità, in una crittografia che non ha però nessuna intenzione ermetica. Questo è il passaggio più fortemente innovativo della scrittura scenica di Castellucci. L'appello non è verso una lettura in chiave simbolica o allegorica, pur presente nella costruzione visiva, ma l'intenzione è quella di suscitare un rimando interno allo spettatore, di colpire qualche sua zona oscura, ancora una volta fuori da intenzioni psicologizzanti, anzi muovendo, attraverso quei segni visivi, verso le risonanze di una percezione più profonda, sensoriale, istintiva, ancor prima che inconscia. Per questo le figure e le immagini create da Castellucci riescono a entrare nel senso della violenza contemporanea, a creare l'idea di una terribilità sempre presente, a evocare un senso profondo di tragedia che non è difficile riportare al clima sociale contemporaneo, secondo una sorta di miracoloso corto circuito intellettuale fra zone profonde della nostra gamma percettiva e capacità di osservazione della realtà che ci circonda.
Un teatro politico, questo rivendica Castellucci, un luogo di unione e di confronto, un luogo di pensiero collettivo e di riflessione comune. Ma anche e soprattutto il teatro, nel senso più profondo, dove tutto accade lì e in quel momento e tutta la peripezia immaginativa viene costruita pezzo per pezzo con elementi inconsueti ma reali, concreti, fisicamente presenti.
Su questa linea di ricerca di una nuova calligrafia estetica, in grado però di esplorare in profondità la sensibilità contemporanea, si possono registrare diversi esempi, laddove evidentemente il ricorso a drammaturgie esistenti non appare più sufficiente al creatore dello spettacolo che appunto compone una sua drammaturgia scenica, realizzata con tutti gli elementi che gli appaiono più adatti. Fortemente indicativo, da questo punto di vista, il lavoro di un regista argentino da tempo residente in Spagna, R. García (n. 1964) le cui operazioni teatrali hanno suscitato un vivo dibattito. Decisamente provocatorie per i mezzi utilizzati, la nudità dei corpi, le materie alimentari usate in azioni che arrivano a creare disgusto, video apparentemente banali di supermercati e centri commerciali, le creazioni di García sono invece un compiuto ragionamento sulla società contemporanea, sui suoi consumi e i suoi riti, sulla necessità di idoli da venerare, a qualunque pensiero politico ci si senta vicini, sulle forme comunicative e le abitudini relazionali, dove appare sempre più disperso il senso della comunicazione umana, dove si assottigliano i rapporti familiari e affettivi. García usa la scena per comunicare un suo atteggiamento moralistico, nel senso più alto. Non ha nulla da raccontare, non vuole costruire dimensioni narrative, rinuncia a qualunque seduzione, usa l'attore come un essere umano qualsiasi affidandogli pensieri e battute sconnesse e contraddittorie. Ma proprio attraverso tutto questo arriva un senso di disagio profondo, l'idea di quanto la rete del consumismo, delle merci e dei pensieri abbia inglobato tutto e tutti e nessuno riesca più a sottrarsene.
Nella stessa direzione si pone il belga J. Fabre (n. 1958), con le sue affollate messe in scena dove si accavallano immagini di guerrieri medievali e di spose, di corpi nudi, nel tentativo di trascrivere tutto quello che passa sul fisico dell'uomo, come la nascita e la morte, ma anche la guerra e la violenza, raccogliendo le sue lunghe parabole sceniche intorno a titoli significativi come Je suis sang, spettacolo del 2001.
Sempre su un fronte di riflessione contemporanea realizzata con diversi segni scenici vanno ricordati il belga A. Platel (n. 1956), nel cui lavoro azione recitativa e dinamiche corporee sono saldamente intrecciate, riunite in situazioni sceniche di forte impatto; il canadese R. Lepage (n. 1957), impegnato in grandi epopee narrative in più episodi, come The Dragons' Trilogy (1985) o The seven streams of the river Ota (1994), tra video, ardite concezioni scenografiche e complesse tracce drammaturgiche, ma sempre con il desiderio di narrare alcuni passaggi traumatici del passato recente. Nei migliori artefici della r. contemporanea, dunque, il mezzo teatrale, declinato in modi diversi e ampliato nelle sue possibilità, resta uno strumento di osservazione sul presente, un canale comunicativo di forza eccezionale in una società dove lo spazio di riflessione collettiva appare sempre più esiguo.bibliografia
Massimo Castri e il suo teatro, a cura di I. Innamorati, Roma 1993.
J. Fabre, Teatro, a cura di G. Manganelli, Genova 1995.
P. Brook, Avec Shakespeare, Arles 1998 (trad. it. Dimenticare Shakespeare?, Napoli 2005).
P. Brook, Threads of time, Washington 1998 (trad. it. Milano 2001).
Luca Ronconi, utopia senza paradiso, a cura di I. Moscati, Venezia 1999.
Luca Ronconi, la ricerca di un metodo, a cura di F. Quadri, in collab. con A. Martinez, Milano 1999.
Robert Wilson, o Il teatro del tempo, a cura di F. Quadri, in collab. con A. Martinez, Milano 1999.
Eimuntas Nekrosius, a cura di V. Valentini, Soveria Mannelli (CZ) 1999.
A. D'Adamo, Mats Ek, Palermo 2002.
R. Castellucci, Epitaph, Milano 2003.
R. García, Sei pezzi di teatro in tanti round, Milano 2003.
A.M. Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa 2004.
Cinema
di Bruno Roberti
Il Novecento, secolo della regia
L'idea e la pratica della r. appartengono all'orizzonte dello spettacolo del Novecento, che può ben dirsi "il secolo della regia" (Albano 2004 b). Tra la fine del 19° sec. e gli inizi del 20° si svilupparono poetiche (come quella simbolista) caratterizzate da una visione di 'opera d'arte totale' in cui musica, immagine, pittura, danza, teatro, movimento e costruzione illusoria dello spazio scenico confluivano in un atto spettacolare in grado di rispecchiare la nuova sensibilità dello spettatore moderno e di modificare la sua percezione estetica. In questo ambito la nozione di r., intesa come istanza creativa e insieme 'orchestrazione' stilistica di uno spettacolo, trovò la sua radice nelldi messinscena come autonoma scrittura scenica.
L'acquisizione di una connotazione spettacolare e 'mediatica' dell'opera, da un lato, e la consapevolezza della sua riproducibilità tecnica, che W. Benjamin definì "perdita dell'aura" (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936; trad. it. 1966), dall'altro, posero necessariamente in discussione l'atto creativo e l'unicità del prototipo. Questa rivoluzione, preparata dalle avanguardie letterarie e teatrali e portata a compimento dal cinema, mise in crisi la figura dell'artista solitario sostituita da quella di un 'orchestratore' estetico in grado di connettere i diversi apporti tecnico-artistici per conferire una cifra stilistica unitaria all'opera, una coerenza in grado di esprimere, comunicare, fornire un punto di vista. S'impose pertanto una nuova concezione di autore cui il cinema, per molti aspetti sintesi del fermento estetico che ha percorso il Novecento, sin dagli inizi diede un contributo fondamentale. Così come, rivelandosi al contempo arte e industria, sin dai primi decenni del 20° sec. incise profondamente sulle logiche del mercato, del consumo spettacolare, della comunicazione mediatica.
La regia tra messinscena e industria
Il concetto, di derivazione teatrale, di messinscena, pratica estetica eminentemente novecentesca, si legò strettamente al lavoro della regia. Tre forme di messinscena cinematografica, nate nei primi dieci anni di vita del cinema, e altrettante tendenze in esse rintracciabili, furono ricche di sviluppi e implicazioni tali da influenzare gli esiti moderni e postmoderni della pratica filmica. In primo luogo i film d'arte che, realizzati in Francia e in Italia ispirandosi ai grandi romanzi, alle forme del melodramma e alle suggestioni della pittura, riproducevano una visione frontale restituendo la distanza tra platea e palcoscenico teatrali. In tal modo si esaltavano il primato gestuale-retorico del divo e la 'durata' delle sue esibizioni davanti all'obiettivo, ma anche la magniloquenza e la plasticità degli spazi messi in scena (Gandini 1998, pp. 61-77) offrendo un esempio di 'stile' registico, non esente da influenze simboliste, dove il campo lungo e il lavoro di costruzione dell'inquadratura determinavano un'autonomia del singolo quadro. In secondo luogo, la grande spettacolarità dei kolossal storico-mitologici, realizzati prima in Italia e successivamente negli Stati Uniti, che, con le faraoniche costruzioni scenografiche e l'affollarsi delle masse, richiedeva elaborati movimenti della macchina da presa. In terzo luogo, l'inesauribile inventiva del cinema dei trucchi inaugurato da G. Méliès che concepì il nuovo mezzo come macchina scenica ricca di sorprese e meraviglie ottiche, sperimentando particolari effetti fotografici in seguito perfezionati, come sovrimpressioni, dissolvenze, scatti singoli, blue screens, trasparenti.
Sia pure nei termini di un procedimento registico riconducibile a quello che il teorico N. Burch (1991) ha definito "modo di rappresentazione primitivo", proprio del cinema delle origini e caratterizzato da un forte simbolismo spaziale nella frontalità statica (e dallo studioso contrapposto al "modo di rappresentazione istituzionale", nel quale ogni punto di ripresa è condizionato dalla tessitura narrativa del montaggio), si può rintracciare un filo rosso che segue nel tempo la concezione della r. cinematografica come lavoro determinato dallo stretto rapporto tra arte e mezzo tecnologico e ne individua gli sviluppi estremi tra la fine del 20° sec. e gli inizi del 21°. Nel cinema postmoderno l'uso del piano-sequenza (figura espressiva tipica del cinema moderno che fa a meno dei nessi narrativi del montaggio proponendo una visione in cui si mantiene la continuità del reale) viene amplificato con il ricorso agli effetti speciali digitali e a macchine da presa ad alta tecnologia digitale e ad alta definizione fotografica e stabilità ottica (come le steadycam o le skycam) che permettono una durata delle inquadrature estremamente ampia, oltre che una fluidità di movimento e una spettacolarità del punto di ripresa. Tale uso si integra con la simulazione computerizzata di grandi scene di massa e di sfondi scenografici che uniscono effetto di verosimiglianza e creazione di mondi fantastici e virtuali. La r. 'dei trucchi' e il barocchismo scenografico del cinema delle origini ritornano così nella r. 'tecnologica' del cinema postmoderno cambiando di segno, ma conservando il nesso tra immaginario e industria: saghe spettacolari come Star wars (1977-2005), Lord of the rings (2001-2003), The matrix (1999-2003), non solo riecheggiano la serialità del periodo del muto, ma ripropongono anche un ritorno del regista-artefice, responsabile degli aspetti industriali e tecnici che concorrono al processo creativo, con figure come quelle di G. Lucas, di P. Jackson, dei fratelli A. e L. Wachowski.
La tendenza all'accentramento nella figura del regista delle fasi di realizzazione del film, tipica del cinema delle origini e della grande stagione del muto e fondamentalmente europea, era stata invertita di segno dall'industria hollywoodiana nel periodo cosiddetto classico (anni Trenta-Cinquanta) mediante la riduzione di tale ruolo a semplice "ingranaggio nella macchina" dello studio system, secondo la spietata sintesi dell'importante produttore D.O. Selznick. Malgrado ciò personalità di valore seppero imporre anche a Hollywood la propria cifra stilistica. Paradossalmente negli anni Sessanta i registi-teorici riuniti intorno al teorico A. Bazin e alla rivista Cahiers du cinéma fondarono la loro "politica degli autori", in cui veniva segnalata l'assoluta preminenza della r., come atto d'autore, sul processo di costruzione del film, proprio sulle caratteristiche di alcuni stili 'classici' riconducibili a registi legati all'industria hollywoodiana (come H. Hawks e A. Hitchcock), oltre che alla poetica di personalità come J. Renoir, O. Welles e R. Rossellini. Al contempo, ancora negli anni Sessanta e poi nel decennio successivo, la risposta del cosiddetto cinema indipendente della Nuova Hollywood al bisogno di rinnovamento fu basata su una nuova figura di regista-produttore in grado di gestire soluzioni al tempo stesso spettacolari e autoriali, come dimostrato da S. Spielberg o F.F. Coppola.
La regia come 'montaggio' del reale
L'Impressionismo francese e il grande cinema sovietico. - Erano stati gli esperimenti e le considerazioni teoriche della prima Avanguardia francese, il cosiddetto Impressionismo cinematografico degli anni Venti e Trenta, rappresentato da registi come J. Epstein, L. Delluc, G. Dulac, a esemplificare la possibilità della r. di porsi come ridefinizione, ricostruzione percettiva del reale su un piano 'altro', liberando lo sguardo implicito nelle cose, corrispettivo dello sguardo-punto di vista della macchina da presa e della funzione r. intesa come capacità di animare l'inerte, di mostrare il reale e la natura sotto angoli visuali nuovi. In cineasti come R. Clair, M. L'Herbier o A. Gance, questa ricostruzione del mondo attraverso il film diventava un processo di sintesi e rielaborazione visiva che richiamava le innovazioni formali e il lavoro di decostruzione delle avanguardie storiche, come il Cubismo e l'Astrattismo. In tale ambito, un regista-teorico come Epstein affiancò ai suoi film una serie di scritti in cui traspare una concezione della r. basata sul concetto, già introdotto da Delluc, di fotogenia, ossia di una 'potenza visiva' insita negli ambienti e negli oggetti, enucleata, amplificata e rivelata dall'occhio meccanico della cinepresa.
Negli stessi anni, in Unione Sovietica venne attuato da S.M. Ejzenštejn un fondamentale lavoro di teorizzazione che accompagnò la realizzazione delle sue opere. Il regista, che intendeva la composizione del film come quella di un organismo ritmico fondato sulla dialettica tra 'messa in scena' e 'messa in inquadratura', perseguiva un'idea di r. che si concretizzò in una visione rivoluzionaria del reale. L'organicità e il 'pathos' delle immagini, secondo Ejzenštejn, dovevano scaturire da una nuova pratica e teoria del montaggio, inteso come mezzo tecnico e metaforico che, attraverso i vari tagli di campo e di piano, creava un impatto visivo sul pubblico al fine di suscitarne una reazione e una lettura critica. Contemporaneamente Dz. Vertov perfezionava le teorie del Kinoglaz (Cineocchio), elaborate nell'ambito dell'Avanguardia sovietica, valorizzando le potenzialità della riproduzione tecnica e la concezione di un cinema costruttivo, in grado di riconnettere i nessi del reale attraverso il lavoro di montaggio. Il valore eccezionalmente innovatore della concezione di r. in Vertov risiede nell'idea di una 'cinematizzazione delle masse' effettuata attraverso nuove figure di operatori-cineocchi (i kinoki) invitati a "cogliere la vita sul fatto". Le possibilità prefigurate da questa concezione verranno ereditate e perfezionate nella seconda metà del Novecento grazie all'evoluzione tecnologica della cinepresa, che metterà l'operatore in grado di cogliere la quotidianità 'in diretta' con gli esperimenti della caméra-stylo e del cinéma vérité. Negli anni Settanta J.-L. Godard, uno dei maggiori protagonisti della Nouvelle vague francese, volle firmare i suoi film, compresi i primi esperimenti di cinema elettronico realizzati in video, con il nome collettivo Gruppo Dziga Vertov, richiamandosi alla rivoluzione del cineocchio e inaugurando un uso 'militante' e politico della ripresa in diretta, intesa anche come 'controinformazione' rispetto alle immagini dei media ufficiali. Il successivo diffondersi sul mercato delle telecamere digitali portatili e l'uso sempre più massiccio di immagini video hanno portato a compimento questo processo, rendendo accessibili in maniera capillare la pratica della r. e la costruzione di film. Ne sono esempio le numerose immagini girate in modo autonomo e indipendente durante le giornate del G8 di Genova del luglio 2001, contesto in cui è stato realizzato il documentario collettivo Un altro mondo è possibile (2001), coordinato da F. Maselli.
Dal Neorealismo al Nuovo cinema degli anni Sessanta e Settanta. - Nell'Europa devastata dalla Seconda guerra mondiale i registi del Neorealismo concepirono la r. come possibilità di immergersi nell'imprevedibile flusso del reale, valorizzando l'evento secondo quella che di volta in volta si configurava come una vera scelta morale. In particolare la scelta registica di Rossellini si configurò come epifania del fatto e assunzione di uno sguardo teso ad accompagnare e pedinare i personaggi nella loro dimessa verità. Questa lezione venne assimilata da molti giovani cineasti, a cominciare da F. Fellini nei cui film il mondo 'si offre' alla visione del regista nel suo misterioso 'esserci'. È lo stesso mestiere del regista, nel suo farsi punto di vista, ricordo, filtro immaginario, a diventare oggetto del film e della messinscena. A tale consapevolezza dello sguardo, al nuovo sentimento della realtà sempre filtrata dalla soggettività d'autore si richiamarono gli esponenti della Nouvelle vague francese negli anni Sessanta. Ma la lezione rosselliniana, che pure fu alla base di questa rivoluzione stilistica e contenutistica, si accompagnò al riappropriarsi di un 'piacere' della finzione e dell'illusione filmica, che scaturisce proprio dal suo smascheramento. In ciò partendo dalla piena coscienza del rapporto artificio-realtà evidente nello stile di r. di autori come Welles, Renoir, R. Bresson, che avevano assunto in piena consapevolezza la possibilità, attraverso la scelta di particolari angolazioni e punti di vista plurimi, di alterare i rapporti tra vero e falso.
Il nuovo primato del regista-autore, rivendicato dagli esponenti della Nouvelle vague, fu alla base del rinnovamento che caratterizzò un'intera stagione del cinema internazionale e che si protrasse per tutti gli anni Settanta, diffondendosi in realtà e Paesi diversi e dando vita a movimenti accomunati da una nuova idea di cinema e da un nuovo stile registico: dal Free Cinema inglese al Cinema Nôvo brasiliano, dal New American Cinema alla Nová Vlna cecoslovacca, dal nuovo cinema ungherese allo Junger Deutscher Film.
La regia oltre il moderno
Nei decenni successivi la rapida trasformazione del panorama mediale e l'imporsi sempre più pervasivo della televisione hanno determinato la configurazione di un orizzonte audiovisivo massificato che ha mutato la nozione di r., creando una dicotomia delle sue pratiche. Da un lato l'autorialità si è venuta caratterizzando come sperimentazione formale e lavoro stilistico sulle immagini, dall'altro si sono aperti spazi di specializzazione della r. legati alla richiesta di nuove forme di comunicazione e di linguaggio, come nel caso della pubblicità e della fiction televisiva. A partire dagli anni Settanta e Ottanta, inoltre, nel cinema statunitense si è avviata una tendenza alla rivisitazione dei generi classici, soprattutto l'horror e la fantascienza, che ha spinto la r. verso una pratica manierista e citazionista. Parallelamente in Europa, autori come R.W. Fassbinder e W. Wenders, e successivamente come L. Besson e L. Carax, hanno inventato uno stile di r. teso a recuperare l'intero immaginario del cinema statunitense, declinato in tutte le sue configurazioni, dal noir al melodramma, con sguardo disincantato e consapevolezza 'postmoderna'.
Per la funzione r. nell'epoca del cinema postmoderno si sono quindi aperti nuovi orizzonti determinati dalla sempre più forte esigenza di contaminazione di generi e stili e dalla rivoluzione dei mezzi tecnologici, portatori di una diversa sensibilità percettiva e di una comunicazione sempre più virtuale, conseguente al diffondersi di immagini e di informazioni sulla rete Internet. Agli inizi del 21° sec. la r. cinematografica ha dovuto misurarsi costantemente con un contesto mediale che ha mutato alla radice il processo di costruzione delle immagini. Le tecnologie digitali (v. digitale, cinema) permettono ormai la simulazione di corpi e set, consentendo non solo di riprodurre mondi esistenti o esistiti, ma anche di inventarne di irreali e fantastici, così come di 'materializzare' corpi creati al computer. Si è affermata così una diversa concezione della messinscena, dove gli effetti speciali digitali e i nuovi procedimenti di montaggio computerizzato (che offrono al regista un ventaglio molto ampio di ricostruzione delle immagini) hanno creato un diverso tipo di temporalità filmica basato sulla frammentazione spaziotemporale della narrazione. Tra i protagonisti di questa evoluzione si segnalano registi come Q. Tarantino (Pulp fiction, 1994; Jackie Brown, 1997), M. Night Shyamalan (The sixth sense, 1999, The sixth sense - Il sesto senso), S. Soderbergh (Traffic, 2000), A. González Iñárritu (Babel, 2006).
Si tratta di un tipo di cinema e di un'idea di r. che, per riprendere la definizione di F. Casetti (2005), da un lato compendiano "l'occhio del Novecento", ma dall'altro lo oltrepassano, prefigurando una pratica della visione sempre più interattiva, in cui viene messo in gioco lo sguardo dello spettatore. Questa concezione postmoderna della r. si basa infatti sulla messa in discussione della continuità del reale, che costringe lo spettatore a un lavoro mentale di ricostruzione del senso narrativo e visivo. Come avviene nel videogame, lo spettatore è sempre più chiamato a immergersi attivamente in un ambiente immaginario, amplificato a dismisura dagli effetti speciali. Tale costruzione labirintica dell'immagine che simula le traiettorie del pensiero (già prefigurata, negli anni Settanta-Ottanta, da cineasti come S. Kubrick, M. Scorsese, B. De Palma, D. Cronenberg, D. Lynch, A. Ferrara) ha determinato la realizzazione di opere in cui vengono continuamente ridefinite le logiche spaziotemporali, tanto di narrazione quanto di messinscena, riconfigurando la resa della realtà, fino a sovvertire ogni criterio di verosimiglianza e a creare livelli plurimi di visione. Ne sono esempi progetti deliranti e insieme lucidi di r., come eXistenZ (1999) di Cronenberg o Inland empire (2006) di Lynch.
I film di P. Greenaway, J. Temple, T. Gilliam, T. Burton, Ch. Nolan seguono invece un differente percorso, teso a misurarsi con esperimenti di amplificazione e stratificazione delle immagini propri del linguaggio ritmico e polimorfico della videoarte o del videoclip musicale. Esiti più radicali hanno altresì bandito ogni tipo di effetto e si sono affidati alla ruvidezza della ripresa, priva di artifici sonori o di illuminazione. Ne è stato esempio il lavoro del collettivo di cineasti Dogme 95, fondato nel 1995 su iniziativa dei registi danesi L. von Trier e Th. Vinterberg, con il suo stile 'povero' che volutamente confonde finzione e stile documentaristico. Queste tendenze hanno attuato anche un'estremizzazione della tecnica neorealista del 'pedinamento' continuo del personaggio in ambienti reali, come nei film di J.-P. e L. Dardenne. Analoghe implicazioni si sono riscontrate in una idea di r. tutta risolta nel rapporto tra l'istanza della ripresa e il dispiegarsi del paesaggio reale, radicalizzando la forma del piano-sequenza, come nel cinema di A. Kiarostami, in cui è costante la riflessione sulla resa immediata del reale consentita dai nuovi mezzi digitali. Dalla produzione asiatica, con il lavoro di registi come T. Kitano, W. Kar-Wai, T. Ming-liang, H. Hsiao-hsien, è pervenuta una visione formale della r. intesa come processo di astrazione e metafora della condizione umana contemporanea. Mentre una ridefinizione etica dello sguardo sul reale, che ha ripreso il concetto di r. cinematografica come 'lingua scritta della realtà' teorizzato da P.P. Pasolini, si riscontra nelle opere di registi italiani quali G. Amelio, N. Moretti, M. Martone.
Un diverso modello produttivo-creativo che ha superato i confini delle cinematografie nazionali, grazie anche a forme nuove di coproduzione, si è identificato negli esiti di un cinema, e quindi di una r., in grado di coniugare un cosmopolitismo 'apolide'con un rinnovato sguardo su identità, appartenenze, conflitti storici, paesaggi umani. Tali scelte hanno comportato una necessaria trasformazione del concetto di messinscena, cui è sottesa una r. intesa come costruzione architettonica e stratificata di spazi e ambienti assimilati all'immaginario di intere civiltà culturali, come nel lavoro dell'israeliano A. Gitai, del russo A.N. Sokurov, del cileno R. Ruiz, del brasiliano J. Bressane. Nelle opere di questi autori la lezione rosselliniana di un cinema che percorre le ambiguità del reale e si incontra con la Storia appare ripensata come trasformazione del punto di vista registico, teso ad aprirsi alla pluralità di sguardi riconducibile a una nuova idea 'enciclopedica' del visivo.
bibliografia
N. Burch, La lucarne de l'infini. Naissance du langage cinématographique, Paris 1991 (trad. it. Parma 1994).
L. Gandini, La regia cinematografica, Roma 1998.
L. Albano, Regia, e Regista, in Enciclopedia del cinema, Istituto della Enciclopedia Italiana, 4° vol., Roma 2004 a, ad voces.
L. Albano, Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema, Venezia 2004 b.
F. Casetti, L'occhio del Novecento, Milano 2005.