REGIA
. Arte di mettere in scena un'opera teatrale: per indicarla, si usava in passato il termine, alquanto ambiguo, di messinscena: traduzione del francese mise-en-scène. In Europa, invece, aveva prevalso nell'Ottocento un'altra parola francese: régie, col suo derivato régisseur. In realtà, con questi termini i francesi designano, a teatro, la direzione amministrativa del teatro stesso, e la funzione, d'ordine disciplinare meglio che artistico, di colui che in Italia si usa chiamare il direttore di scena; mentre in Inghilterra, in Germania, e in genere nei paesi slavi, i due vocaboli francesi sono stati ordinariamente assunti in un più ampio e alto significato, riguardante la creazione e la guida dello spettacolo; poiché nell'uso europeo oggi si chiama régisseur quello che in Francia si designa piuttosto come il metteuren-scène. Nel primo numero di un periodico teatrale di Roma, Scenario (febbraio 1932), Bruno Migliorini propose di italianizzare i due vocaboli con "regìa" e "regista". E la loro rapidissima fortuna, sia nell'ambiente teatrale, sia in quello cinematografico dove furono immediatamente accolti, confermò la maturata necessità di definire in forma inequivocabile il nuovo modo di concepire e approntare lo spettacolo. La rappresentazione teatrale ha avuto bisogno, in tutti i tempi, d'un direttore: ma la sua funzione si concepiva più che altro come quella di un coordinatore della virtuosità vocale e mimica dei singoli attori che, ripetendo le parole del testo e osservandone le didascalie, si proponevano di eseguirne il materiale trasferimento dallo scritto alla scena. Solo con Goethe l'arte di mettere in scena diviene regìa nel senso moderno. E cioè interpretazione del testo secondo la visione unitaria di un artista sui generis (cfr. in musica la figura del direttore d'orchestra, apparsa solo nel sec. XIX), il quale preordina un piano metodico, e a quello intona dizione e gioco dei singoli artisti, e gli altri elementi dello spettacolo (scene, costumi, trucco, luci, eventuali musiche, danze, meccanismi). L'individuale virtù, vanità, e spesso prepotenza, dei grandi e men grandi attori dell'Ottocento, hanno resistito o meno a lungo nei varî paesi - e specie in Italia - a tale concezione.
Può dirsi ch'essa trovò per la prima volta la sua piena attuazione nella compagnia dei Meininger (1870-1890), guidata dal duca Giorgio II di Sassonia-Meiningen: la quale in Germania, e poi in giri artistici per più paesi d'Europa, diede il primo saggio di interpretazioni sceniche ispirate ai criterî dell'armoniosa esecuzione d'una precedente, accurata e geniale visione del testo, dando estrema importanza, sia alla fedeltà dei singoli interpreti, sia alla creazione di un clima generale. I Meininger movevano da principî essenzialmente positivistici: quelli della ricostruzione storica e della verità. Ma una verità altrimenti cruda, non più rappresentazione bensì violento trasporto della vita sulla scena, fu il criterio fondamentale del parigino Théâtre libre di André Antoine, 1887; immediatamente seguìto sulla stessa via dalla berlinese Freie Bühne di Otto Brahm, 1888. Questi rinnegarono la recitazione a un pubblico, predicando l'orrore della cosiddetta teatralità: per essi, al posto del boccascena, esisteva una "quarta parete": gli attori, intesi unicamente a riprodurre una "fetta di vita", non dovevano preoccuparsi di nessuna delle norme più o meno retoriche, oratorie, ecc., che ne avevano fatto in passato altrettanti "personaggi", destinati a figurare dinanzi a una folla. E da un consimile odio alla deprecata teatralità e da un non dissimile culto della verità, mosse almeno inizialmente anche il più famoso, e ancora oggi vivo, Teatro d'Arte di Mosca, per opera di Konstantin Sergeevič Stanislavskij e Vladimir Ivanovič Nemirovič-Dančenko (1898): ma già, alle soglie del 1900, questa presunta verità non era più quella fotografica di Antoine. Grazie all'influsso del maggiore autore messo in scena da quegli artisti, A. Čechov, il Teatro d'Arte di Mosca si prefisse un fine altrimenti delicato e sottile: quello che sboccò nel cosiddetto "naturalismo spirituale": creazione di atmosfere, rivelazioni di indefiniti e suggestivi stati d'animo.
Fu tuttavia col secolo nuovo che la reazione antiverista si affermò definitivamente in teatro. Unico carattere comune nella ridda delle teorie, delle scuole, delle riforme: nessuno nel teatro del Novecento (se non qualche attardato attore popolare o dialettale) cerca più la riproduzione del vero; se ne cerca il superamento, la stilizzazione, la trasfigurazione. Su tutti eccelle - accanto ad Adolphe Appia, artista singolarissimo, ma scenografo meglio che regista - Edward Gordon Craig, il quale afferma, in forme sia pure ambigue, decadenti, paradossali, quelli che essenzialmente rimarranno, almeno per mezzo secolo, i principî fondamentali della regìa novecentesca.
I canoni di Gordon Craig sono i seguenti: 1) l'autonomia della funzione del regista (autore dello spettacolo) di fronte al drammaturgo (autore del testo): 2) il ritorno alla deprecata teatralità. Il primo principio è figlio di quella concezione per cui un dramma scritto ha una compiuta e perfetta esistenza poetica nel libro; mentre la sua rappresentazione è un'opera nuova, nata da un altro artista. Questi è appunto il regista: da non confondersi col vecchio direttore, ch'era un attore anziano il quale dirigeva, più che lo spettacolo, la compagnia. Egli sorvegliava - con le didascalie dell'autore alla mano o, in loro mancanza, col ricordo delle tradizioni di scena - una fedeltà, almeno relativa, degli attori al testo; si permetteva anche qualche taglio, o qualche giunta di "soggetti", quasi sempre ereditati dalla consuetudine; passava ai macchinisti o al trovarobe l'ordine di approntare la camera rustica o la sala da pranzo, con una certa disposizione di divani e sedie e tavolini, raccomandando che questi ultimi, quando si trattasse di un ambiente elegante, fossero coperti da un tappeto, ecc. Nei casi più favorevoli, il vecchio direttore era anche un buono o eccellente o grande attore, capace d'insegnare il gesto, la mimica e soprattutto la dizione ai suoi sottoposti. Ma il regista moderno è tutt'altro: non è quello che "ripete", non è quello che "trasferisce"; è quello che, come si è già detto, "interpreta". Vale a dire intende un testo, attraverso il suo proprio temperamento, nel modo suo, e lo ridà e lo ricompone, conforme alla sua intelligenza e sensibilità, in una visione d'insieme che è sua. L'altro principio, neanche esso inventato dal Craig ma da nessuno prima di lui proclamato con tanta violenza, è stato l'orrore del verismo e il ritorno al senso dello spettacolo. Ed è innegabile che ciò abbia indotto il Craig a una sopravalutazione della cornice del quadro ai danni del contenuto. Il suo rispetto per la lettera del testo ma non per la didascalia, la sua dichiarata necessità di evitare la fatale indocilità dell'attore sostituendone la libera umanità col passivo meccanismo della "supermarionetta", sono un indice chiaro delle conseguenze delle sue teorie, le quali in definitiva sfociano verso la coreografia e il balletto.
Ma l'impresa di "riteatralizzare il teatro", secondo la formula di Georg Fuchs, fu presto una parola d'ordine in tutta la scena europea. La quarta parete non esiste, non è mai esistita; il teatro ha tre pareti sole e la quarta è il pubblico, il quale non assiste passivo allo spettacolo, ma vi collabora coll'applauso, col sorriso, col riso, col fischio, col fiato, col consenso e col dissenso, percettibili anche se muti. Se il pubblico prorompe in una risata, l'attore che sta parlando s'arresta; se il pubblico stringe l'eroe nel suo cerchio rovente, l'attore s'accende a sua volta e splende di quel calore. Principî di questo genere, almeno in senso lirico e fantasista, si eran cominciati già ad attuare da antichi scolari dell'Antoine, poi rivoltisi contro il maestro, come Aurélien Lugné-Poë e Firmin Gémier, in Francia. Ma nessuno li mise in pratica con più largo successo di Max Reinhardt nei paesi tedeschi.
Per Reinhardt lo spettacolo è soprattutto giuoco, jeu, play, Spiel; è colore, fulgore, emozione comunque raggiunta. Egli si serve di tutti i mezzi: e principalmente di un ritrovato meccanico (il solo che i moderni non abbiano ripreso dai loro predecessori), la luce elettrica, fondamentale sussidio della regìa d'oggidì: Reinhardt è stato il primo che, perfezionando i Meininger, abbia adoperato in grande stile i riflettori; è stato il primo ad adottare la cupola Fortuny e si è servito dei girevoli, dei ponti giapponesi lanciati in mezzo alle platee; ha portato la tragedia di Sofocle in un circo, la commedia dell'arte in un cortile, la farsa morale in una piazza, il dramma cristiano in una cattedrale, la féerie shakespeariana in un giardino. È da lui, dalla sua sete di spettacolo totale, che vien fecondata la nascita di tutta una generazione di attori tedeschi; è sul suo esempio di regista-principe che si foggiano, sia pure in un'infinita varietà d'aspetti, le schiere dei maggiori e minori registi, spesso semiti, nel suo paese d'origine, l'Austria, e in quello d'adozione, la Germania, sino alla pirotecnica apparizione finale di Erwin Piscator, che alle risorse del teatro aggiunge, con portentosa contaminazione, quelle del cinema, creando spettacoli in cui la magìa dell'iscenatore è tutt'uno con la fantasia dello scrittore, sicché diventa impossibile distinguere dove uno sottentri all'altro.
Altra spiritualità quella di Jacques Copeau in Francia; nel suo Vieux-Colombier, povero e nudo quanto le assortite sedi degli spet. tacoli reinhardtiani erano splendide, egli ripudia il bruto materialismo della scena veristica, ma non per le luccicanti famasmagorie, bensì pel ritorno alla vita dello spirito. I due poli a cui mira Copeau sono le due eterne facce del teatro: la farsa, e il dramma sacro. Il suo appello è a una comunione "religiosa", nel senso etimologico della parola, con l'anima della folla. Copeau, asceta e maestro, dopo aver rivelato a un pubblico relativamente esiguo l'essenza di ciò che per lui è teatro, si ritira nell'ombra, a insegnare a un piccolo gruppo d'allievi. Ma è da lui che hanno preso le mosse Charles Dullin, Louis Jouvet, Michel Saint-Denis, André Barsacq, Jean-Louis Barrault; è lui che ha scoperto Ludmilla Pitoëff. A parte nomineremo, dopo costoro, Gaston Baty, assertore anche lui, a parole, della religiosità del teatro; nella realtà propagatore del "teatro teatrale" nel suo senso più esteriore e visivo. È forza tuttavia ricordare che, malgrado la raffinatezza innegabile di certe sue regìe, quella stessa formula, attinta a Georg Fuchs, era stata raccolta con più vigore dai Russi ribelli al grande Stanislavskij: da Nikolaj Nikolaevič Evrejnov, di cui anche in Italia si conosce l'opera d'autore e critico, come dell'apostolo della "teatralità" intesa quale istinto essenziale della vita; da Vsevolod Emil′evič Meyerhold, apologista della finzione, della maschera, della commedia dell'arte, alla ricerca non della verità ma dello stile; da Aleksandr Jakovlevič Tairov valorizzatore dell'attore.
È difficile seguire, per gli infiniti meandri, la regìa russa o, in genere, moderna; tra il groviglio delle sue geniali o scervellate teorie, tra le felici o sconcertanti conquiste della sua pratica. Le sue campagne non si contano più; non le sue vittorie, e nemmeno le sue sconfitte. Ché anche i suoi caduti sono molti: dai capi i quali apparvero stritolati dall'insuccesso (ma il loro verbo fu raccolto da altri) a quelli che, come Harley Granville-Barker in Inghilterra, abbandonarono dopo decennî di lotta il campo della pratica per tornare agli studî, a quelli che, come Evgenij Bogrationovič Vachtangov in Russia, materialmente soccombettero alla vigilia d'una trionfale andata in scena.
Aggiungiamo, per l'Italia, il nome di Virgilio Talli, rivelatore dell'ultimo e più applaudito teatro italiano, da d'Annunzio a Pirandello e ai "grotteschi" fioriti subito dopo l'altra guerra; di Eleonora Duse che, ammiratrice del Vieux-Colombier, era andata a raccogliere in America il denaro per creare un consimile teatro in Italia; i nomi dei fondatori dei piccoli teatri cosiddetti d'avanguardia o d'eccezione da quello degli Indipendenti dove A.G. Bragaglia si ostinò in esperimenti spesso contraddittorî a tutti i suoi principî, a quello degli Undici tentato da L. Pirandello in persona; i nomi dei nostri registi d'oggi: Guido Salvini, Orazio Costa, Ettore Giannini, Luchino Visconti, Giorgio Strehler, in buona parte poco più che trentenni e qualcuno tuttavia inferiore a cotesta età, ma di cui già si riconoscono, sulla nostra rinnovata scena, orme ben significative (il "Piccolo teatro" della Città di Milano e quello di Roma).
È stato notato con qualche stupore che laddove, fra i teatranti italiani della passata generazione, le ambizioni dei giovani erano protese a diventare autori o attori, oggi la vocazione fra essi prevalente sarebbe quella del regista. Certo è che nelle scuole d'arte e nei centri universitarî, pochi temi interessano gli appassionati del teatro quanto le vicende della compagnia ebraica stimata eccellente su tutte, la Habima, o quelle della portentosa Old Vic, o i trionfi del più nuovo regista francese, Jean-Louis Barrault. Si studiano teorie, si fondano riviste, si promuovono convegni, il cui fine ultimo è poi sempre questo: la nuova regìa teatrale; si è potuto affermare che i poeti della scena contemporanea vanno cercati non tanto fra gli scrittori quanto fra i registi. Paradosso che contiene una verità: partita, in origine, dal criterio di ridare alla parola dell'autore tutti i suoi diritti sulle deformazioni dell'attore, a un certo punto la moderna regìa li ha effettivamente attribuiti al regista onnipotente e "creatore".
Peraltro, tra gli stessi maestri della scena d'oggidì se ne trovano parecchi disposti a confessare il fallimento dello "spettacolo puro". "L'arte della scena", scriveva Reinhardt "non è rappresentazione, bensì rivelazione": ma rivelazione di che cosa? "Un'arte non si rinnova dall'esterno" confessava a sua volta Gaston Baty. E G. Hauptmann affermava, 20 anni fa in un'intervista: "il regista che s'immagini di bastare a far teatro da solo è come il pianoforte che s'immagini di poter suonare da sè". Ma anche Stanislavskij, poco prima di morire, dichiarava che gli splendori della modernissma scena russa a poco ormai servivano se, spariti Čechov e Gor′kij, nessun altro poeta drammatico s'era rivelato; e lo stesso lamento ritroviamo essenzialmente in Evrejnov: l'ultimo e più fervido assertore della "teatralità" non solo come metodo scenico ma come istinto essenziale nella vita dell'uomo. Lettore, critico, attore, regista, non sono che altrettanti gradi e modi di comunicare con un testo poetico; vengono non prima, ma dopo: a questo canone la più illuminata regìa contemporanea sembra tornare con un'austerità, che autorizza le speranze migliori.
Bibl.: Sulla regìa moderna in genere, oltre gli ultimi capitoli nelle più recenti opere generali sulla storia del teatro di Lucien Dubech, Joseph Gregor, Silvio d'Amico: A. Winds, Geschichte der Regie, Lipsia 1925; S. Rouché, L'art théâtral moderne, Parigi 1924; C. Poupeye, La mise en scène théâtrale d'aujourd'hui, Bruxelles, s.d.; e il volume recente a cura di S. d'Amico, La regìa teatrale, Roma 1947, comprendente la storia e la teoria dei maggiori registi moderni europei, esposta da dodici specialisti. Sui registi tedeschi in particolare si veda: M. Grube, Geschichte der Meininger, Berlino 1926; J. Bab, Das Theater der Gegenwart, Lipsia 1928; F. Horch, M. Reinhardt, 25 Jahre deutsches Theater, Berlino 1930; E. Piscator, Das politische Theater, Berlino 1929. Sugli Svizzeri: A. Appia, La mise en scène du drame wagnérien, Parigi 1895; id., Die Musik und die Inszenierung, Monaco 1899. Sui Francesi: A. Antoine, I miei ricordi sul Teatro libero (trad. italiana), Milano, s. d.; R. Darzens, Le Théâtre-Libre illustré, Parigi 1890; A. Thalasso, Le Théâtre-Libre, Parigi 1909; A. Lugné-Poë, La Parade, voll. 4, Parigi 1930 segg.; G. Baty, Théâtre Nouveau, Parigi, s. d.; G. Baty e R. Chavannes, Vie de l'Art théâtral, Parigi 1932; J. Copeau, Souvenirs du Vieux-Colombier, Parigi 1931; L. Brasillach, Animateurs du Théâtre, Parigi 1935. Sugli Inglesi: G. Craig, Toward a new Theatre, Londra e Toronto 1913; id., On the Art of the Téâtre, Londra 1914 (trad. franc. L'Art du Théâtre, Parigi 1916); I. Zucker, Le "Court Théâtre" (1894-1914) et l'évolution du théâtre anglais contemporain, Parigi 1931; H. Granville-Barker, The Exemplary Theatre, Londra 1922; id., On dramatic method (Clark Lectures 1930), Londra 1931; E. Dent, A theatre for everybody (sull'Old Vic), Londra 1945. Sui Russi: J. Gregor-R. Fűlop-Müller, Das russiche Theater, Zurigo s. d.; N. Evrejnov, Il Teatro e la vita (trad. ital.), Milano 1929; N. Gourfinkel, Le Théâtre russe contemporain, Parigi 1931; K. S. Stanislavskij, Ma vie dans l'art, (trad. franc.), Parigi 1934; id., An Actor prepares, New York 1936; A. Tairov, Das Entfesselte Theater, Potsdam 1927; id., Storia e teoria del Teatro Kammerny (trad. ital.), Roma 1942; N. Evrejnov, Le Théâtre en Russie Soviétique (trad. franc.), Parigi 1946.
La regìa cinematografica.
Si differenzia da quella teatrale in quanto affronta direttamente la materia espressiva, sia pure con l'ausilio della macchina da presa e crea un'opera d'arte autonoma e in sé valida. La regìa teatrale pone le condizioni perché il testo del poeta divenga parola nello spazio che il poeta stesso ha stabilito ai personaggi e alle loro battute: lo spazio scenico. Il regista cinematografico, invece, suscita e ordina le immagini del racconto secondo una dialettica sua propria; il soggetto e la sceneggiatura non fanno che rendergli possibile il compito e da un punto di vista di mera struttura. Fin dal suo primo apparire, il cinema, varcati i limiti del documentario, si identificò con la figura dispotica e caratteristica del direttore artistico detto poi regista (v. sopra). La storia della regìa cinematografica è pertanto la storia stessa del cinema ed indiscutibilmente legata ai registi è la successione degli indirizzi stilistici delle scuole, delle teorie e delle prassi. Soggetto, sceneggiatura, montaggio, si sono sviluppati in obbedienza alle esigenze del regista. Recitazione, illuminazione, progresso tecnico, hanno, volta a volta, affiancato le ragioni espressive del realizzatore. Compito del regista è appunto l'armonizzazione dei varî elementi che concorrono allo spettacolo per imprimere loro il suggello dell'unità stilistica. La sua opera, comunque, si inizia, o dovrebbe iniziarsi, con la scelta del soggetto e l'elaborazione della sceneggiatura; prosegue, quindi, con le "riprese" vere e proprie e si conclude con il montaggio del materiale. Potremo anzi dire che il regista - s'intende il regista ideale, quello che accentra le funzioni di soggettista, di sceneggiatore, di direttore e di montatore - è l'unico autore del film, se a tale attribuzione di paternità il regista stesso non dovesse troppo spesso ribellarsi a causa degli inevitabili compromessi cui è dovuto addivenire con la produzione nel corso del suo lavoro. Ovviamente infatti il regista, essendo quello che più da vicino è responsabile dei risultati artistici del film, è il primo a soffrire della fisionomia industriale del cinematografo. Un giudizio estetico sui grandi registi cinematografici del passato non potrebbe non tener conto di questa realtà. Ad ogni modo, contro tali ostacoli alla sua opera di creatore, il regista può e deve contrapporre la propria personalità di narratore e di artista, predisponendo ai fini spettacolari e del racconto tutti i mezzi tecnici a sua disposizione. Raccontare bene, illuminare bene, significa girare bene. Girare bene è presupposto d'un montaggio efficace. La particolare struttura spettacolare del cinematografo comporta un ordine narrativo ed espressivo dei più rigorosi e sorvegliati, anche per facilitare alle folle, che nel cinema vedono ogni giorno di più il loro spettacolo, un'adesione immediata e spontanea. Da un certo punto di vista lo sviluppo progressivo della tecnica ha ristretto l'apporto della regìa. Un film muto è chiaramente un film di immagini, un film sonoro è anche un film di immagini, ma è stato largamente dimostrato che il contributo espressivo del dialogo e della colonna sonora passa in sott'ordine quando lo si paragoni al contributo vitale della regìa.
Si è parlato via via di verismo e di astrattismo, di realismo e di simbolismo, di surrealismo e di visualismo, di espressionismo e di impressionismo, ma oggi, a guardarsi indietro, non è difficile riconoscere una linea maestra che, senza soluzioni di continuità o di indirizzi, conduce dai primi documentarî di L. Lumière - attraverso i "drammi" di E. Porter e Zecca, le fantasie di G. Meliès, le farse amare di Ch. Chaplin, l'espressionismo tedesco e sovietico, la soluzione francese d'avanguardia, il "patetico" americano (Griffith, F. Borzage, K. Vidor), il verismo francese, l'angoscia americana - al realismo italiano. Il neorealismo italiano conduce a semplificazioni assolute il già lungo travaglio della regìa cinematografica, ne offre soluzioni e prospettive in termini di riferimento umano e di verdetto sociale, apre infine la strada a un rinnovamento che non sia rinuncia, alla conquista definitiva e smagliante della "realtà": che è poi l'obiettivo più alto di quest'arte recente.