Regimi politici
sommario: 1. Introduzione. 2. Regimi non democratici: a) autoritarismi; b) totalitarismo e post-totalitarismi; c) sultanismo. 3. Democrazie. 4. Rendimento politico dei diversi regimi. 5. Il futuro della democrazia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
I regimi politici formano l'insieme delle 'architetture del potere', ossia delle regole, istituzioni, processi e attori, individuali e collettivi, legittimamente e/o legalmente partecipanti alla formazione e all'esecuzione di decisioni pubbliche vincolanti nell'ambito di uno Stato. Dall'inizio del XX secolo, la competizione per il sostegno dell'elettorato è stata la regola chiave per la prima, fondamentale, distinzione fra regimi democratici e regimi non democratici. Se la competizione è possibile, infatti, i cittadini possono democraticamente far sentire la propria "voce", praticando "l'uscita" da un partito o togliendo il proprio sostegno a un governante (v. Hirschman, 1970). Ma se competitori e oppositori sono privati di uguali diritti, ostacolati, minacciati ed eventualmente puniti, alla competizione subentrano monopoli di potere sostenuti dalla forza e, con essi, una qualche varietà di regime non democratico (v. Sartori, 1976, cap. 7).
Dicendo varietà, ovviamente, si intende che, seppur separate da questo irriducibile spartiacque, democrazie e non democrazie raggruppano a loro volta esperienze storiche assai diverse sotto il profilo della struttura del potere e delle sue specifiche condizioni di legittimazione, dell'instaurazione e del consolidamento del regime, della sua precarietà o stabilità, della sua efficienza o inefficienza. Strutture, condizioni, processi ed esiti diversi, inoltre, sono periodicamente soggetti a ridefinizioni o trasformazioni a fronte di nuove domande o sfide interne e internazionali, le quali genereranno risposte di adattamento pacifico, o, in mancanza di queste, crisi o crolli dei regimi coinvolti. E crisi o crolli possono sfociare in transizioni intraclasse, per esempio da un tipo di democrazia a un altro, ovvero interclasse, cioè da tipi non democratici a tipi democratici, e viceversa. Metodologicamente, affrontare tali complesse questioni esige un'analisi comparata, statica e dinamica a un tempo, che sarà oggetto dei capitoli seguenti.
2. Regimi non democratici
Come ricordato, nei regimi rientranti in questa classe il potere non è acquisito, mantenuto o perso attraverso la competizione elettorale, ma piuttosto con l'uso, o la minaccia dell'uso, della forza. L'uso della forza, però, è condizionato fortemente, e assume forme e intensità diverse, a seconda delle caratteristiche strutturali e culturali dei quattro tipi di regime elencati nella tab. I, insieme ai loro principali sottotipi.
a) Autoritarismi
Il primo tipo - il regime autoritario - è stato il più intensamente studiato (v. Linz, 1964; v. Linz e Stepan, 1996; v. Collier, 1979), fra l'altro perché primeggia largamente - con l'una o l'altra variante - fra i paesi divenuti indipendenti nel corso del Novecento. Nella definizione classica (v. Linz, 1964, p. 255), il termine designa "sistemi politici a pluralismo limitato e non responsabile, privi di un'elaborata ideologia-guida, ma provvisti di 'mentalità' caratteristiche, incapaci di mobilitazione estesa e intensa, eccetto in qualche fase del loro sviluppo, e diretti da un leader, o talvolta da un piccolo gruppo, che esercita il potere entro limiti formalmente mal definiti, ma in realtà prevedibili".
Più dettagliatamente, pluralistica è la coalizione dominante il regime, nella quale convivono attori con interessi comuni e, al contempo, distinti, come il partito unico, la grande proprietà fondiaria, il capitale industriale e finanziario, l'esercito, la monarchia, la Chiesa, ecc. Dalla relativa eterogeneità di questa struttura del potere seguono le altre proprietà appena ricordate: esempi tipici di autoritarismo, come la Spagna franchista o l'Italia fascista, sono legittimati culturalmente da parole d'ordine (Dio, Patria, Famiglia, Fedeltà, Onore) vaghe quanto basta per essere sottoscritte da tutte le componenti della coalizione dominante senza comportarne la sottomissione a un'unica ideologia e al suo interprete o custode ufficiale; con l'ideologia, viene meno un decisivo strumento di mobilitazione delle masse, che resteranno per lo più quiescenti e apatiche, com'è peraltro funzionale all'orientamento sostanzialmente conservatore delle élites, compresi il partito unico e il suo capo; e il capo, o il gruppo, alla testa del regime godranno di un potere solo relativamente imprevedibile, o arbitrario, proprio perché contenuto dalla necessità di tollerare una misura di autonomia e di sicurezza di altri attori politici, economici e sociali, e, spesso, anche di una 'semi-opposizione' capace di ottenere qualche spazio di azione.
Quanto sia accentuata l'una o l'altra caratteristica generale, poi, dipende dal sottotipo al quale appartiene questo o quell'esempio storico. I regimi civili menzionati nella tab. I, per cominciare, sono anche detti di mobilitazione, perché accompagnati episodicamente da appelli intensi ed estesi alle masse e dallo sforzo di inquadrarle sotto la guida di un'ideologia e di un partito unico che possono approssimarsi al modello totalitario (v. sotto, cap. 2). Il limite dell'approssimazione, però, è fissato dal persistente pluralismo della coalizione dominante, a sua volta spiegato dalla complessità delle strutture sociali ed economiche dei paesi interessati e/o dalla loro eterogeneità culturale, confessionale, razziale e/o etnico-linguistica.
La prima spiegazione si attaglia particolarmente al fascismo italiano, nato nel contesto di un'economia capitalistica relativamente evoluta e della forte mobilitazione del primo dopoguerra. Con attori sociali e di mercato tanto differenziati e strutturati, il regime non volle, e non seppe, conseguire più di un compromesso che, mentre gli consentiva di sopprimere le libertà civili e politiche, gli impediva di perseguire obiettivi di trasformazione rivoluzionaria, facendone in effetti il custode, o al massimo il mediatore, di equilibri di potere poco dinamici. Seppure prevalentemente sulla carta, d'altro canto, il fascismo diede prova di notevoli capacità di innovazione politica e istituzionale, la qual cosa, insieme al fatto di essere la prima alternativa di successo a una grande democrazia di massa, lo fecero oggetto di imitazione dentro e fuori dall'Europa, talché esso continuò a ispirare movimenti, partiti e nuovi regimi ancora per parecchi decenni dopo il suo crollo.
In realtà, però, anche esperienze prebelliche considerate prossime, come il franchismo in Spagna o il salazarismo in Portogallo, non sono state propriamente 'fasciste', e il termine è del tutto fuorviante quando applicato agli autoritarismi successivi al 1945. Nel secondo dopoguerra, infatti, i tipici regimi civili di mobilitazione nascono dalle lotte per l'indipendenza nazionale condotte da élites locali contro le potenze coloniali europee, soprattutto in Africa. In questi casi la mobilitazione, al seguito di leaders spesso carismatici, è canalizzata dal movimento di liberazione, divenuto poi l'istituzione portante del regime e riconosciuto come tale anche dalle forze armate. In un contesto socio-economico sottosviluppato e tradizionale, il movimento e il suo capo oscillano fra retoriche ideologiche di stampo nazionalista e socialista (che risentono ovviamente dell'influenza marxista intellettuale e politica dell'Unione Sovietica) e pluralismi di stampo tribale, linguistico, razziale, che si sono rivelati estremamente difficili da governare pacificamente. Tanto è vero che negli anni sessanta, e di nuovo due decenni dopo nelle ex colonie portoghesi (Angola, Guinea-Bissau, Mozambico), solo un'esigua minoranza di questi regimi si è rivelata capace di consolidarsi, mentre i più convivono con guerre civili e guerriglie endemiche e, proprio per questo, sono talvolta transitati dal potere civile al potere militare, o a un condominio fra i due.
Prima di passare agli altri sottotipi, però, fra i regimi civili di mobilitazione va menzionato l'ultimo arrivato - il regime coranico esemplificato paradigmaticamente dall'Iran di Khumaynī e dall'Afghanistan dei Talebani. Come nei movimenti fondamentalisti di molti altri paesi, il potere si incentra in questi casi nel clero ed è legittimato dai precetti della rivoluzione musulmana. Dato che questi precetti sono l'unica fonte del diritto nei paesi interessati, essi rappresentano l'equivalente funzionale di un'ideologia laica, ovviamente potenziata dall'origine teologica. Come tale, si tratta di uno strumento di mobilitazione eccezionalmente efficace e penetrante, che offre prescrizioni per tutti gli aspetti privati e pubblici della condotta dei fedeli e che si è rivelato capace di mobilitarne l'impegno fino al sacrificio della vita in guerra o in attività terroristiche internazionali. A differenza di altre religioni, infatti, l'Islam ha, o è compatibile con, un forte impulso espansivo: è una fede ecumenica, bellicosa e armata insieme (v. Huntington, 1996; v. Sartori, 2001). Quantomeno, questa è di sicuro la tradizione risvegliata con successo dalle teocrazie iraniana e afghana. E pur se entrambe non sono sopravvissute alla morte di Khumaynī la prima, e all'intervento militare americano la seconda (eventi che hanno permesso il passaggio del potere in mani più moderate), tuttavia più duraturi e sempre più aggressivi e diffusi sembrano i movimenti fondamentalisti che lottano per raccoglierne l'eredità un po' in tutti i paesi musulmani e in tutti operano in un contesto politico congeniale, perché sistematicamente refrattario alla democratizzazione. Anche i più moderati fra questi paesi, infatti, figurano in fondo alle graduatorie mondiali delle libertà civili e dei diritti politici, battuti solo dal sottogruppo a maggioranza araba, nel quale non c'è, né c'è mai stata, una democrazia (v. Freedom House, 2002). Come dire che il fondamentalismo è potenzialmente uno strumento ideale di legittimazione in regioni critiche del mondo e - dati i suoi contenuti, metodi e obiettivi - rappresenta forse non solo un ostacolo al modello occidentale, ma anche un suo temibile concorrente.
Il secondo sottotipo di autoritarismo - i regimi civili-militari (v. tab. I) - è frequente in Africa, ma è diffuso anche in America Latina e in Asia, oltre a contare due esempi storici europei (la Spagna del generale Primo de Rivera e, per alcuni anni, il Portogallo salazariano). Come indica la terminologia, il centro di gravità della coalizione dominante è una diarchia, alla quale, peraltro, hanno accesso per lo più militari con specifiche caratteristiche professionali. Si tratta, in breve, di personale di formazione sofisticata, con competenze culturali e tecniche discretamente articolate e capacità manageriali sufficienti per alimentare fiducia nella propria comprensione dei meccanismi di governo e, dunque, con una maggior propensione a prendere e mantenere il potere (v. Stepan, 1978). Interlocutori privilegiati di questi professionisti in divisa sono élites politiche e burocratiche, tecnocrati, esponenti della borghesia industriale e finanziaria, talvolta legati ai militari da provenienza sociale e curricula educativi comuni, fattori che predispongono a una cooperazione duratura.
Conformemente all'accentuata professionalizzazione degli attori principali, questi regimi, e specialmente la loro variante burocratico-militare, sono tendenzialmente pragmatici, disinteressati a qualificarsi ideologicamente e anche a dare spazio a un partito unico di massa. Là dove esiste, il partito è piuttosto volto a contenere la mobilitazione entro i limiti ristretti tollerabili dal regime, anche se questo non significa che esso operi in un contesto socialmente statico o tradizionale. Al contrario, pragmatismo e tecnocrazia sono la risposta efficientista in nome della quale si cerca di legittimare la repressione politica a fronte di masse evolute culturalmente ed economicamente, come nei già ricordati casi spagnolo e portoghese. Nello stesso contesto politico, poi, il Portogallo si distingue per avere sistematicamente sviluppato l'organizzazione del consenso tramite un articolato sistema di istituzioni corporative. Sulla base di una vaga ideologia di cooperazione interclassista, queste istituzioni sono volte a controllare alcune istanze di partecipazione, inquadrando datori di lavoro e lavoratori in sindacati cosiddetti 'verticali' e in parlamenti composti dalle principali categorie professionali. Viene così formalizzata una (pseudo)-rappresentanza funzionale (in alternativa al principio territoriale della rappresentanza democratica), la quale può spingersi fino a includere rilevanti frazioni del proletariato industriale, anche se il corporativismo autoritario è più frequentemente "escludente" (v. Stepan, 1978), cioè fondato sulla coercizione e la smobilitazione delle opposizioni di classe.
Molto diverse le caratteristiche dell'ultima variante dei regimi civili-militari, ossia i regimi esercito-partito. Tipici di Africa e Asia, questi contraddistinguono paesi come Egitto, Libia, Mauritania, Siria e l'Iraq di Ṣaddām Ḥusain anche se quest'ultimo costituisce, per certi versi, anche un esempio di sultanismo (v. cap. 3). In Iraq, come in Egitto, in Libia e in Siria, uno stesso partito (Ba'th) è all'origine di questo peculiare autoritarismo, nel quale ruoli civili e militari sono ricoperti spesso dagli stessi soggetti e l'organizzazione è una vera macchina per la mobilitazione delle masse, una macchina efficiente e articolata. Oltre che per questo, il Ba'th, o i suoi eredi, si caratterizzano per l'impronta secolare, unica nel mondo arabo, la quale fa sì che i paesi menzionati abbiano provveduto a reprimere con uguale fermezza sia l'opposizione democratica che i movimenti del fondamentalismo islamico. Di conseguenza, i rapporti con i regimi civili ispirati da quest'ultimo sono spesso stati tesi e anche - si pensi al lungo conflitto Iraq-Iran - sanguinosi. Ma poiché al contempo molti di questi paesi (l'Iraq stesso, al pari di Libia e Siria) sono - o sono stati - accusati di sostenere il terrorismo, il tratto probabilmente più significativo comune a tale variante dei regimi civili-militari è l'accentuata imprevedibilità delle élites al potere, che permette loro di agire con doppiezza nelle arene interna e internazionale.
Come che sia, in diversi casi i regimi esercito-partito sono stati un'evoluzione del terzo sottotipo della tab. I, sono cioè derivati da regimi militari tout court. Di solito associato a un colpo di Stato, l'intervento militare in politica è stato definito pretorianesimo (v. Huntington, 1968) e può assumere fondamentalmente tre forme. Nella prima - il pretorianesimo oligarchico - l'intervento è dettato dall'intenzione di prevenire o arrestare processi politici che le forze armate ritengono ledere in modo inaccettabile i loro interessi o il loro status. L'obiettivo, da conseguire di solito in breve tempo, può richiedere un limitato esercizio della violenza, finalizzato a ripristinare condizioni di 'legge e ordine', conseguite le quali i militari possono rapidamente ritirarsi dalla scena. In altre parole, se di regime si può parlare, la sua natura temporanea e di semplice restaurazione fa del pretorianesimo oligarchico un esempio minimo del sottotipo militare, distinguendolo chiaramente dal pretorianesimo radicale (di durata più prolungata e motivato dal sostegno agli interessi di classe di ceti medi conservatori) e, soprattutto, dal pretorianesimo di massa.
In quest'ultimo caso - diversamente dai due precedenti, che sono comunque interventi a termine - i militari possono decidere di mantenere il potere indefinitamente nelle loro mani. Il pretorianesimo viene così istituzionalizzato e si accompagna a una penetrazione in profondità delle forze armate negli apparati burocratici e politici, o anche nel sistema economico, allo scopo di creare un regime molto diverso dai precedenti. Dati gli obiettivi particolarmente ambiziosi da conseguire, repressione e violenza sono elevate e prolungate, e possono essere sostenute anche da tentativi di legittimazione ideologica, o perfino da tentativi di creare e consolidare un'organizzazione di massa sotto controllo militare. Salvo che non evolvano verso regimi esercito-partito, tali tentativi restano di solito senza successo, come dimostra anche l'esempio più fortunato e persistente, il Cile di Pinochet. Quando decidono di agire da soli, o mantenere il ruolo propulsore, i militari si assumono infatti un compito destinato prima o poi a rivelarsi superiore alle loro forze per una varietà di motivi. Prima di tutto, l'intervento in politica, a maggior ragione se prolungato, è fonte di divisioni e conflitti interni, specie quando promosso da ufficiali di grado intermedio (come i colonnelli greci) che approfittano del potere politico per scavalcare o emarginare i superiori gerarchici. D'altro canto, se l'iniziativa del colpo di Stato è presa dal vertice militare, come è usuale in America Latina, il conflitto può riprodursi sotto forma di esigenze dell'istituzione ed esigenze del governo (v. Linz e Stepan, 1996; tr. it., pp. 106-108). In altre parole, il prestigio, l'integrità, l'autorità delle forze armate in quanto organo dello Stato sono un patrimonio di valori e di risorse ben distinto dalle sorti di un qualsiasi governo o regime e, nel caso che il sostegno o l'identificazione con l'uno o l'altro rischi di mettere in discussione questo patrimonio, il disimpegno diverrà la soluzione più appropriata e più semplice per garantirne la continuità. Seppure contrattato spesso da posizioni di forza, il disimpegno può essere allora del tutto volontario, come in Brasile nel 1985, in Uruguay nel 1985 e, ripetutamente, in Thailandia; può derivare da un 'golpe nel golpe' di militari 'costituzionalisti' che restituiscono il potere ai civili (come in Perù dopo il 1974 e in Nigeria); o può seguire a una delegittimazione elettorale (il referendum perduto sul rinnovo della presidenza di Pinochet), o alla sconfitta militare (la guerra per Cipro dei colonnelli greci e quella per le Falklands dei generali argentini).
Come che sia, la fragilità cronica del potere militare dovrebbe essere evidente, anche se tutt'altra questione è l'influenza che esso spesso esercita sulle autorità civili, comprese quelle di alcune democrazie, dette 'protette' appunto perché sotto la sorveglianza delle forze armate ed esposte alla concreta possibilità di un loro intervento diretto (Thailandia, Turchia). In questi e altri paesi, le forze armate sembrano particolarmente a proprio agio in un ruolo relativamente defilato, in cui possono operare per decenni, probabilmente perché tale ruolo è il più idoneo a minimizzare le contraddizioni inerenti a interventi più pubblici e diretti. Senza sottovalutarne la funzione di braccio repressivo, o anche di comprimari dei civili nei (pochi) regimi esercito-partito, i militari al potere rimangono dunque un'eccezione, per di più instabile e sempre più associata a paesi estremamente arretrati e periferici, spesso dilaniati da guerre civili endemiche.
b) Totalitarismo e post-totalitarismi
Dei tipi di regime trattati in questo capitolo, il più importante è certamente il totalitarismo, nel quale rientrano il regime nazista, l'Unione Sovietica dall'inizio degli anni trenta al 1956 e i suoi satelliti europei (meno la Polonia), la Cina di Mao Zedong e, più incertamente e/o per breve tempo, la Corea del Nord, la Cambogia dei Khmer rossi, il Vietnam del Nord. Tale importanza, ovviamente, deriva dal fatto che, seppure oggi sconfitto, il totalitarismo è stato lo sfidante per eccellenza della democrazia per quasi tutto il XX secolo. Ma, in più, questo tipo di regime è teoricamente unico perché occupa uno dei poli - quello opposto alla democrazia, appunto - relativamente a tutte le caratteristiche specificate nella tab. I, che assumono in quanto tali una forma 'pura', o estrema.
Questo è particolarmente evidente nella struttura del potere totalitario, che è acquisito, legittimato e mantenuto esclusivamente attraverso il partito unico e, in quanto tale, monistico. Ogni espressione significativa di pluralismo, in altre parole, è eliminata: il controllo del partito spazia dalla cultura alla politica, all'economia, ed è giustificato da un'ideologia-guida più o meno complessa e coerentemente articolata. A precetti specifici variabili, l'ideologia sottintende costantemente una logica utopica, cioè il disegno di una società interamente nuova da sostituire all'esistente, utilizzando, da un lato, la forza e la violenza (v. Friedrich e Brzezinski, 1956) e, dall'altro lato, la mobilitazione quanto più ampia e sistematica possibile delle masse attraverso la miriade di organizzazioni obbligatorie create dal regime. Compito di queste organizzazioni è mantenere la popolazione in uno stato di tensione rivoluzionaria permanente e massimizzare il suo sostegno alla leadership, spesso carismatica, del regime. Insieme all'eliminazione del pluralismo, questo sostegno permette l'esercizio di un potere terroristico, cioè senza i limiti, o la relativa prevedibilità, presenti invece negli autoritarismi (v. Arendt, 1951). Di conseguenza, l'esperienza totalitaria è associata a persecuzioni, deportazioni ed esecuzioni di massa di nemici 'oggettivi', cioè definiti tali indipendentemente dai propri atti o intenzioni; e genera "universi concentrazionari", finalizzati alla segregazione e all'eliminazione di interi gruppi sociali, minoranze etniche, religiose o razziali, ritenuti d'intralcio all'instaurazione del nuovo ordine politico (v. Fisichella, 1992, p. 57).
Presupposti e pratiche comuni di questa fatta fanno passare in secondo piano le differenze fra sottotipi di destra e di sinistra, come il nazionalismo nazista di contro all'internazionalismo comunista, la convivenza del regime con un'economia capitalistica o pianificata, e l'elaborazione ideologica, che nel caso del marxismo-leninismo è assai più sofisticata delle mitologie propagandate dal Terzo Reich. Quali che siano le varianti, dunque, il totalitarismo rimane definito dalle caratteristiche riportate nella tab. I ed entrerà in una fase di transizione solo a seguito di significativi mutamenti di queste.
Per ragioni facilmente comprensibili, dati i suoi altissimi costi umani, la proprietà più instabile è l'arbitrarietà del potere, e il terrore a essa associato. Storicamente, infatti, nel post-totalitarismo comunista il primo segno di novità è stato il passaggio dal leader carismatico e onnipotente a direzioni collegiali di provenienza tecno-burocratica, sempre più preoccupate di risparmiare perlomeno la vita degli avversari e/o soggette a controlli e limiti da parte degli organi del partito. Appena percettibile nel post-totalitarismo iniziale, il processo si può estendere alla tolleranza di alcune voci critiche e, successivamente, di una cultura 'parallela' semiclandestina e di un'economia parzialmente libera. Nel post-totalitarismo congelato della Cecoslovacchia (1977-1989), o in quello maturo dell'Ungheria (1982-1988), si formano così gli embrioni di un'articolazione pluralistica, la quale rimane però ben al di qua di un riassetto autoritario. Seppure in uscita dal monismo, infatti, il pluralismo post-totalitario non influisce sul sistema politico, nel quale il Partito comunista continua a mantenere il ruolo guida, a essere l'unico canale di reclutamento delle élites e a restare fuso con lo Stato. Nel nuovo contesto, tuttavia, questa continuità è una seria debolezza perché perpetua al potere i membri, spesso anziani, della vecchia nomenklatura e impedisce la cooptazione delle contro-élites in via di formazione. A questo si aggiunge la crisi dell'ideologia, formalmente in vigore ma sostanzialmente screditata. E, con la crisi dell'ideologia, il post-totalitarismo si rivela sempre meno capace di legittimare azioni repressive, ovvero di mobilitare il sostegno dei cittadini. L'accento passa, quindi, sul mantenimento perlomeno della loro acquiescenza, anche se - ancora una volta a differenza di ciò che accade nei tipici regimi autoritari - rimane in piedi l'articolata eredità delle organizzazioni totalitarie, e l'obbligo di affiliarsi continua a imporre alla popolazione una partecipazione generalizzata, peraltro ormai meramente rituale.
In queste condizioni si può mantenere, al più, un equilibrio instabile, cioè fortemente esposto a successive transizioni. Come è noto, le transizioni si sono verificate in Europa Orientale dopo il crollo dell'Unione Sovietica, ma dovrebbe essere chiaro da quanto detto che questo stesso crollo non è stato che una manifestazione della fragilità generale del post-totalitarismo: mentre infatti l'instaurazione di altri regimi - totalitari, autoritari, democratici - è (o è stata) resa possibile dalla diffusione di principî, valori, interessi che li rendono altamente legittimi per i loro sostenitori, il post-totalitarismo è unico perché conseguenza della 'routinizzazione', del declino o del rigetto del precedente storico totalitario. Come tale, questo regime può contare solo, o quasi, sulle cospicue risorse coercitive ereditate da quello precedente e sulla debolezza dell'opposizione da esso distrutta. Ma ciò rende la sua sopravvivenza questione di tempo; e i tempi sono stati particolarmente rapidi negli ex satelliti europei dell'Unione Sovietica, data la combinazione di minori mezzi di repressione (e minor propensione a usarli) e maggior incisività dell'opposizione. Anche per questo le transizioni sono approdate alla democrazia, mentre nelle regioni sovietiche non baltiche in parte o totalmente musulmane hanno preso il sopravvento formule più o meno autoritarie. Ma su questa divaricazione torneremo brevemente nel cap. 5.
c) Sultanismo
Un gran numero di sistemi politici presenta tratti di patrimonialismo, è cioè caratterizzato da apparati amministrativi e militari a disposizione del detentore del potere, della sua famiglia, cricca o clan. Quando l'appropriazione privata di risorse pubbliche diventa generalizzata, e il potere associato incondizionato, si parla di sultanismo (v. Weber, 1922; tr. it., pp. 226-227) - un'esperienza diffusa da Haiti al tempo dei Duvalier, all'Impero centroafricano di Bokassa e all'Uganda di Idi Amin Dada, alla Romania di Ceauşescu, alla Corea del Nord di Kim Il Sung, all'Iran dello Scià e, in parte, all'Iraq di Ṣaddām Ḥusain.
Nonostante l'enorme eterogeneità di contesti socio-economici e culturali, il sultanismo genera in tutti questi casi profonde e originali conseguenze comuni. La fusione fra pubblico e privato su cui si fonda il potere può non eliminare del tutto il pluralismo, ma lo sottopone a interventi dispotici che ne rendono la sopravvivenza più precaria che negli autoritarismi classici. D'altro canto, il sultanismo si distingue dal totalitarismo in quanto del tutto svincolato da un'ideologia-guida e da un partito ufficiale. Anche se il partito c'è, si tratta del partito del sultano e l'ideologia è estemporanea, continuamente manipolata, agiografica e incapace di assolvere alcuna funzione legittimante. Solo l'appello personale del leader richiama occasionalmente a una mobilitazione di stampo per lo più celebrativo; ed è il leader a disporre di milizie di seguaci (i Tonton Macoutes di Duvalier, per esempio), all'occorrenza da lanciare all'eliminazione di chiunque si opponga al suo potere.
Tutto questo conferma la personalizzazione del potere, spesso intensa quanto basta per legittimarne e renderne effettiva la trasmissione ereditaria. Circostanze tipiche di una transizione, di conseguenza, sono l'intervento straniero (seconda guerra all'Iraq) o, più comunemente, la morte, naturale o meno, del sultano ovvero un colpo di Stato militare, eventualmente propiziato da difficoltà di successione. Come che sia, è invece altamente improbabile un esito democratico, data l'estrema debolezza dell'opposizione; e solo le pressioni dell'ambiente internazionale sono riuscite infine a far pendere la bilancia in favore di quest'ultimo in paesi come la Romania, Haiti, il Nicaragua di Somoza, o le Filippine di Marcos.
3. Democrazie
Il termine democrazia, a differenza di quelli fin qui esaminati, è assai antico e in effetti accompagna l'intera storia del pensiero politico occidentale. D'altro canto, i regimi democratici sono praticamente contemporanei dei non democratici, perlomeno se si trascurano i predecessori (oligarchie competitive) e si parte dalle liberal-democrazie di massa. Queste, infatti, si diffondono a cavallo della prima guerra mondiale, con l'introduzione del suffragio universale e del principio di responsabilità parlamentare dell'esecutivo. I due processi, consolidati solo dopo la seconda guerra mondiale dal voto alle donne, sono inoltre ben più concentrati spazialmente rispetto a quanto avviene per i regimi non democratici; in altre parole, mentre autoritarismi di ogni specie ci sono stati, e ci sono, in tutto il mondo, gran parte della storia della democrazia è inconfondibilmente associata all'Europa occidentale e al Nordamerica. C'è dunque da chiedersi se le condizioni di questo tipo di regime non siano altrettanto specifiche e/o difficili da riprodurre, a dispetto della sua crescente popolarità, del crollo delle alternative fascista e comunista e, perfino, della "terza ondata" di instaurazioni democratiche cui esso ha dato luogo (v. Huntington, 1991; tr. it., pp. 38-48).
Per affrontare l'importante questione, però, è necessario cominciare dalle proprietà-chiave delle liberal-democrazie, seguendo ancora una volta la tab. I. La prima proprietà - pluralismo politico responsabile - è il punto di arrivo di due cruciali processi genetici (v. Dahl, 1971): il progressivo ampliamento dello spazio per dissenso, opposizione e competizione nel sistema, infine sancito dal riconoscimento costituzionale dei diritti civili (libertà di pensiero e di parola, di stampa, di associazione e di riunione); e la crescita dell'inclusività del regime, cioè dei diritti di partecipazione politica, primo fra i quali il diritto di eleggere propri rappresentanti e di essere eletti alle cariche pubbliche.
È evidente che, mentre alimentano il pluralismo, competizione e suffragio modificano sostanzialmente il ruolo dell'ideologia e della mobilitazione rispetto ai regimi non democratici. All'ideologia in quanto strumento di giustificazione del potere si sostituiscono ideologie - o, più modestamente, programmi elettorali - elaborati dai partiti e riflettenti, con varie approssimazioni e distorsioni, i valori, le preferenze, gli interessi dei potenziali sostenitori. Contenuti e obiettivi di queste preferenze sono liberi, indeterminati, e la loro traduzione in pratica dipenderà dal successo alle elezioni, che sono il solo canale legittimo di selezione democratica della leadership. Più estensivamente, anzi, "il metodo democratico è lo strumento istituzionale […] in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione avente per oggetto il voto popolare" (v. Schumpeter, 1942; tr. it., p. 257). Nella definizione, in altri termini, dire elezioni è dire democrazia, beninteso purché libertà civili e diritti politici siano garantiti a tutti e le elezioni siano corrette, competitive e indette a intervalli regolari. A queste condizioni, ben diverse dal rituale celebrativo e plebiscitario del voto nei regimi non democratici, un metodo - o una procedura - di selezione diventa carico di conseguenze sostanziali: elezioni genuinamente democratiche mettono i cittadini in grado di assegnare la maggioranza al partito, o partiti, preferiti; una volta al governo, questi partiti soddisferanno le preferenze dei sostenitori tanto più fedelmente quanto più agisce la "regola delle reazioni previste" (v. Friedrich, 1950), cioè quanto maggiore è il rischio di alternanza; oltre che ai sostenitori, la maggioranza dovrà rispondere all'opposizione, che potrà temperarne il potere o fare accogliere qualche sua istanza; e se compromessi non sono possibili, le successive elezioni forniranno l'occasione di una rivincita e per correggere, se non ribaltare, politiche precedenti sgradite.
Dall'azione di questi meccanismi, in breve, ci si può attendere la massimizzazione della responsabilità delle élites e della loro capacità di rispondere (responsiveness) alla società. Quanto meno, è fuori discussione che anche la più imperfetta approssimazione democratica a queste proprietà sia superiore a qualsiasi regime non democratico. Tant'è vero che molte recenti transizioni democratiche, in particolare quelle dei paesi ex comunisti, sono state in buona parte innescate dai loro deficit di rendimento, percepiti e reali, e dall'aspettativa di migliorare tale rendimento dotando i cittadini di effettivi strumenti di sanzione elettorale. Ma quanto sono davvero esportabili questi strumenti fuori dalle democrazie storiche? E, se ce ne sono, quali condizioni ne hanno favorito il consolidamento e, dunque, dovrebbero presumibilmente ricorrere perché i processi di transizione in corso abbiano successo?
Interrogativi come questi sono ampiamente dibattuti nella letteratura, e danno luogo a risposte più o meno condivise e corroborate dai fatti. Per cominciare, sembra certo che la democrazia presupponga la diffusione dell'alfabetizzazione, dell'istruzione e dei mezzi di informazione, evidentemente indispensabili per una consapevole partecipazione al processo politico; inoltre, le disuguaglianze socio-economiche dovrebbero essere ridotte quanto basta per evitare mobilitazioni di classe rivoluzionarie o reazionarie e permettere la regolazione pacifica dei conflitti distributivi (v. Dahl, 1971).
Più complesso è, invece, il ruolo dello sviluppo economico, o dell'industrializzazione capitalistica. La celebre asserzione di Seymour M. Lipset (v., 1960; tr. it., pp. 46-47) - "Più una nazione è ricca, più aumentano le probabilità di un regime democratico" - è stata infatti bersaglio di varie obiezioni e riserve. La principale è che le correlazioni, trovate da questo e altri autori, fra industrializzazione, urbanizzazione, ricchezza e democrazia non comportano ipso facto un rapporto di causa-effetto, per dimostrare il quale sarebbero invece necessarie spiegazioni logicamente argomentate. Vero. Tuttavia, le spiegazioni non mancano e, in parte, puntano a un'influenza perlomeno indiretta dell'industrializzazione. L'alfabetizzazione e la diffusione dell'istruzione nell'Europa dell'Ottocento, per esempio, rispondono alle esigenze della modernizzazione capitalistica della produzione almeno quanto ai requisiti della democrazia. Senza i processi di urbanizzazione e la semplificazione della struttura di classe comportati dall'organizzazione del lavoro industriale sarebbe impensabile la formazione di partiti e sindacati di massa, cioè degli attori protagonisti della democratizzazione e dell'istituzionalizzazione di sistemi di relazioni industriali capaci di correggere gradualmente le più stridenti disuguaglianze di reddito. Oltre che dall'azione rivendicativa dei sindacati, i redditi sono stati livellati dal Welfare State; e, ovviamente, nessuna economia preindustriale potrebbe sviluppare questo cruciale strumento di integrazione e permettere così l'affermazione di quella 'cittadinanza sociale' (v. Marshall, 1963) che - secondo molti - fa parte della definizione di democrazia allo stesso titolo dei diritti civili e politici.
Tutto questo permette di concludere che l'industrializzazione, ieri, e un'economia mista sufficientemente evoluta, oggi, sono condizioni perlomeno necessarie, e che le correlazioni statistiche con la democrazia non sono semplicemente casuali. Del resto, ci sarebbe da sorprendersi del contrario, visto che esse sono state invariabilmente confermate (v. Huntington, 1991; v. Przeworski e Limongi, 1997) e anche in regioni del mondo tuttora dominate dagli autoritarismi (blocco ex sovietico e Africa sub-sahariana) le eccezioni democratiche sono in testa alla graduatoria dello sviluppo (v. Grassi, 2002). D'altro canto, condizioni necessarie non sono condizioni sufficienti, da sole, per instaurare o consolidare la democrazia, così come non è detto che una crisi economica, anche grave, ne provochi automaticamente il crollo. Per questo, occorre il concorso di specifiche condizioni politiche, che vedremo dopo aver concluso l'analisi tipologica.
Come riportato nella tab. I, anche le democrazie si distinguono in sottotipi e, secondo la più accreditata proposta (v. Lijphart, 1999), tutte possono essere classificate su un continuum che va da un modello maggioritario a un modello consensuale. Il criterio di classificazione è la concentrazione del potere, il cui grado è determinato da dieci variabili. La massima concentrazione del potere (nel modello maggioritario) è associata a un numero minimo di partiti, a governi monopartitici e duraturi, a sistemi elettorali maggioritari, monocameralismo, costituzione non scritta e sovranità parlamentare, controllo politico della banca centrale ed esclusione dei gruppi di interesse dai processi decisionali pubblici. Il potere è, invece, frammentato o policentrico nelle democrazie consensuali, che presentano proprietà speculari alle precedenti. Rielaborando, integrando e aggiornando queste proprietà, una recente ricerca pone fra i sistemi maggioritari consolidati undici paesi (in ordine di concentrazione del potere, Gran Bretagna, Grecia, Australia, Giappone, Spagna, Canada, Nuova Zelanda, Francia, Germania, Stati Uniti, Portogallo) e, fra le democrazie consensuali, Olanda, Austria, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio, Italia (v. Pappalardo, 1999). Questa ripartizione - è stato sostenuto - fa differenza per il funzionamento della democrazia, ovvero per il suo rendimento, che sarà l'oggetto del prossimo capitolo.
4. Rendimento politico dei diversi regimi
Il rendimento politico ha due dimensioni: stabilità ed efficienza. La stabilità è misurata dalla durata del regime e, in questi termini, le conclusioni sono inequivocabili: fra i regimi autoritari, quelli longevi si riducono a eccezioni, fra le quali spiccano Portogallo e Spagna; in settant'anni di esistenza, l'Unione Sovietica è passata dal totalitarismo al post-totalitarismo, e altrettanto è avvenuto in Cina e in altri paesi del Sudest asiatico; come dire che è talvolta possibile una successione continua di vari tipi di regime non democratico, tutti però più o meno fragili. Viceversa, parecchie democrazie sono rimaste tali ininterrottamente dalla prima instaurazione, tant'è che la durata media totale delle democrazie, pur calcolata includendo anche quelle crollate fra le guerre mondiali, supera largamente quella dei sistemi alternativi.
Detto questo, resta da spiegare l'instabilità o stabilità - un problema complesso specie per ciò che riguarda i regimi non democratici. Data la loro eterogeneità, infatti, generalizzare è difficile e, comunque, abbiamo già ricordato gli specifici problemi dei sottotipi più instabili: divisioni all'interno delle forze armate nei regimi militari e carenza di legittimità nei regimi post-totalitari. Oltre a ciò, molti regimi non democratici vengono instaurati e giustificati con le eccezionali difficoltà economiche in cui si trovano i paesi interessati. E quando è così, qualsiasi sviluppo della situazione può avere contraccolpi negativi: ovviamente, nel caso - frequente in America Latina - che il regime non abbia successo; ma anche nel caso contrario, perché il successo può eliminare, o ridimensionare, la necessità di un apparato coercitivo. La Spagna franchista, il Cile di Pinochet e il Brasile nel 1973, infatti, avviarono la transizione democratica proprio al culmine di periodi di crescita sostenuti, che persuasero le élites che la liberalizzazione non avrebbe potuto far danno e, semmai, avrebbe aggiunto legittimazione politica alla prosperità economica (v. Linz e Stepan, 1996).
Se il successo e l'insuccesso possono essere parimenti fatali per i regimi non democratici, le democrazie hanno invece tutto da guadagnare dal primo e possono coesistere molto meglio anche con l'insuccesso. La democrazia, infatti, dispone di canali istituzionali per manifestare, e governare, l'insoddisfazione generata da una crisi economica, e per tenere separato il giudizio sul regime in quanto tale da quello sull'uno o l'altro governo. Dopotutto, se inefficiente, il governo del momento può essere cambiato alle successive elezioni, e questo è certamente un fattore che spiega la resistenza alle crisi delle democrazie latino-americane post-belliche, assai più prolungata di quella degli autoritarismi.
La crisi economica degli anni trenta, d'altro canto, è stata indicata come causa del crollo della Repubblica di Weimar e della Prima Repubblica austriaca; ma, anche in questi casi, fattori più importanti contribuirono al loro crollo, come dimostra il confronto con altre democrazie (Olanda, Norvegia, Regno Unito) colpite altrettanto duramente da inflazione e disoccupazione di massa e tuttavia rimaste in piedi. E, di nuovo, questi fattori attengono alla legittimità del regime e sono, in quanto tali, essenzialmente politici: fra le due guerre, Germania e Austria, insieme a Italia e Spagna, erano caratterizzate da un'ampia diffusione di atteggiamenti, valori, ideologie radicalmente polarizzati e intensamente antidemocratici; e se la crisi economica contribuì a esacerbare tali atteggiamenti, la sua degenerazione in crisi democratica fu in effetti possibile perché elettorati predisposti poterono essere mobilitati contro il regime da élites rivoluzionarie o reazionarie di estrema sinistra e di estrema destra.
Differenza di durata e condizioni a parte, democrazie e non democrazie tornano a somigliarsi perché persistono o crollano per motivi principalmente, se non solo, interni. Se e quando c'è, l'influenza internazionale è secondaria, salvo in seguito a sconfitta militare (dalla sorte dell'Asse a quella del regime di Milošević) o di altro uso della forza (interventi sovietici in Ungheria e Cecoslovacchia e americani in Afghanistan e Iraq). Forme di pressione diverse possono essere d'importanza variabile, ma non faranno che accelerare, o ritardare, processi già in atto nei paesi destinatari: in questi limiti hanno agito le politiche estere degli Stati Uniti di destabilizzazione di regimi non democratici (Filippine), o democratici (Cile); e lo stesso ruolo va assegnato al cosiddetto 'spirito dei tempi' (cioè, all'egemonia di una qualche ideologia in un dato periodo), o alla diffusione internazionale delle informazioni.
L'ultima precisazione merita di essere sottolineata perché proprio lo 'spirito dei tempi' è stato considerato importante per la cosiddetta 'terza ondata' di transizioni democratiche, ossia quelle verificatesi dal 1974 ai nostri giorni (v. Linz e Stepan, 1996); si tratta di un fattore la cui innegabile importanza va valutata, però, nel contesto di riserve non marginali sulla sua decisività. Ma prima di passare a discuterne, esaminiamo l'altra dimensione del rendimento - l'efficienza.
Come accennato parlando dell'impatto delle crisi economiche, l'efficienza è di sicuro associata alla stabilità, specie dei regimi non democratici. Mentre la durata permette agevoli comparazioni fra questi e le democrazie, l'efficienza strettamente intesa può essere misurata solo nell'ambito delle democrazie industriali avanzate. Per efficienza, infatti, si intende la capacità di governo politico dell'economia, e questa capacità può essere confrontata sensatamente a parità di livelli di sviluppo e di strumenti pubblici di intervento, ovvero nella omogenea popolazione menzionata. La sua utilità, quindi, sta nel discriminare fra sottotipi democratici, cioè fra democrazie maggioritarie e consensuali. Quando sottoposti a un simile test, questi sottotipi danno risultati differenziati e, in generale, favorevoli ai sistemi maggioritari per quanto riguarda il controllo di inflazione e disoccupazione, deficit, spesa pubblica e crescita, nel periodo di continuata crisi economica 1975-1995 (v. Pappalardo, 1999). Per quanto da prendere con cautela, tali differenze sembrano suggerire che la più elevata concentrazione del potere dei sistemi maggioritari abbia facilitato decisioni pubbliche più rapide, coerenti e incisive, e, per questa via, abbia promosso presumibilmente una maggior soddisfazione economica dei cittadini. D'altro canto, i sistemi consensuali primeggiano su talune variabili non economiche, fra le quali alcune graduatorie di qualità democratica, la rappresentanza delle minoranze, l'uguaglianza politica fra i cittadini, il tasso di partecipazione elettorale (v. Lijphart, 1999). E poiché anche questi sono oggetti plausibili di soddisfazione popolare, sembrerebbe di poter concludere che le democrazie, maggioritarie o consensuali, hanno le loro specificità, ma sono accomunate da un insieme di meccanismi effettivamente e controllabilmente operativi per generare un rendimento politico appropriato ai loro presupposti fondamentali.
5. Il futuro della democrazia
Stabilità ed efficienza non comportano ipso facto esportabilità della democrazia o, quantomeno, non autorizzano facili entusiasmi. È vero, infatti, che ci sono ragioni di ottimismo al riguardo e che, come abbiamo ricordato, il crollo delle alternative storiche fasciste e comuniste è segno di uno 'spirito dei tempi' favorevole come mai in precedenza alle transizioni democratiche. Ma quanto siano decisive questa e altre condizioni internazionali va commisurato ai dati empirici e ai ragionamenti cautelativi che essi suggeriscono. I dati sono riportati nella tab. II e, già a prima vista, si prestano a letture contraddittorie: da un lato, i valori assoluti indicano una progressione del numero di regimi democratici fino al massimo del 2001; ma poiché anche i non democratici toccano l'apice nello stesso anno, la percentuale dei primi sul totale (44,8) è pressoché invariata rispetto a quella del 1990, a sua volta uguale al valore del 1922. Per di più, le cifre aggregate accorpano dimensioni demografiche estremamente variabili, che danno l'ingiustificata impressione di processi di democratizzazione più estesi di quanto non siano in realtà. Per questo, misurazioni più rigorose selezionano un sottoinsieme meno eterogeneo (paesi da tre milioni di abitanti in su) e, così facendo, mettono a nudo una drastica riduzione dei numeri precedenti: le democrazie passano da 86 a 53 nel 1995 (v. LeDuc e altri, 1996, pp. 8-9), o, addirittura, a 44 nel 2001 (v. Freedom House, 2002, p. 14). La differenza sottintende, a sua volta, alcuni importanti passaggi di campo (Bangladesh, Pakistan), ma - soprattutto - criteri più rigorosi di classificazione. Nella versione di Freedom House, infatti, è stimato un indice complessivo di libertà civili e diritti politici, mentre gli autori precedenti si limitano a registrare solo il rispetto o la violazione di questi ultimi. Dato che la definizione di democrazia include le une e gli altri (v. cap. 2), i 44 casi del 2001 sembrerebbero dunque il realistico minimo sul quale attestarsi. E, tuttavia, anche di qui si può scendere, seguendo due ragionevoli considerazioni. La prima è che garantire normativamente diritti civili e politici non basta, se essi non possono essere effettivamente esercitati. E l'esercizio è sicuramente inadeguato dove una maggioranza, o la grande maggioranza, della popolazione è analfabeta e/o l'informazione ha circolazione limitata o limitatissima, oppure dove milioni di persone vivono in condizioni di estrema indigenza. In queste circostanze, che riguardano molti paesi inclusi nei conteggi precedenti (India, Mali, Namibia, Filippine, Thailandia, Colombia, Ecuador), mancano evidentemente i prerequisiti fondamentali per una generalizzata e consapevole partecipazione; e il fatto che essa sia ristretta a una minoranza apparenta quei paesi ai predecessori storici (oligarchie competitive), piuttosto che alle democrazie di massa. Ma, se non bastasse, c'è la seconda considerazione, ossia il fatto che una democrazia è veramente matura quando è in grado di dispensare cittadinanza sociale, oltre ai diritti civili e politici. Se è così, il limite, per molti paesi invalicabile, diventa il livello di sviluppo economico dei paesi dell'OCSE, gli unici che abbiano le risorse per finanziare decenti condizioni di vita delle masse. E, a questa stregua, le democrazie 'vere' sarebbero più o meno una trentina - una cifra analoga a quella delle origini anche in valore assoluto (v. tab. II).
Questa conclusione potrebbe sembrare eccessivamente restrittiva, ma la sua funzione è soprattutto quella di ricordare la complessità dei processi di transizione. Quando essi sono rapidi e definitivi, come nell'evoluzione dei post-totalitarismi dei paesi un tempo appartenenti al Patto di Varsavia, è perché fattori congiunturali ('spirito dei tempi' ed élites disponibili) si sono sommati alle condizioni strutturali (culturali e di sviluppo economico) della democrazia. Dove queste non ci sono, o sono insufficienti, anche la migliore congiuntura non darà più che le approssimazioni fragili o incomplete delle democrazie sub-sahariane o di altre regioni povere del mondo. E, come che sia, i prerequisiti strutturali contano in quanto condizioni necessarie, ma non sufficienti, visto che i post-totalitarismi delle regioni ex sovietiche non baltiche che sono in parte o totalmente musulmane, così come gran parte dei paesi arabi, sono abbastanza sviluppati e particolarmente refrattari alla democratizzazione. Questo può essere dovuto a una varietà di motivi, ma uno di essi è di sicuro il comune denominatore religioso. Infatti, abbiamo già ricordato che la religione musulmana, specie nelle sue versioni più radicali, sembrerebbe essere divenuta il più recente e critico spartiacque fra mondo libero e non libero. Su questo spartiacque, lo 'spirito dei tempi' democratico si trova dunque di fronte un equivalente non democratico, subentrato ai rivali fascisti e comunisti di un tempo. La sfida, in corso e combattuta con ogni mezzo, relativizza ulteriormente le capacità previsionali e consiglia di seguire con la massima attenzione gli eventi. Nella consapevolezza che, anche nel nuovo secolo, il progresso della democrazia si annuncia più impegnativo che mai.
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