POLE, Reginald
POLE, Reginald. – Nacque ai primi di marzo del 1500 a Stourton Castle, Staffordshire, terzogenito maschio di sir Richard Pole e di Margaret, contessa di Salisbury, entrambi imparentati con i discendenti dei due rami cadetti della dinastia plantageneta che si erano contesi la corona inglese durante la seconda metà del secolo precedente.
Gli sviluppi conclusivi del conflitto fra gli York e i Lancaster non avevano arriso alla famiglia di Margaret: il padre George, duca di Clarence e fratello di Edoardo IV e di Riccardo III, era stato giustiziato in segreto nel 1478, mentre il giovane fratello Edward fu recluso nella Torre di Londra dopo la conquista del trono da parte di Enrico VII, per essere infine condannato a morte nel 1499, con l’accusa di avere tramato per deporre il monarca. Proprio nel tentativo di prevenire le rivolte yorkiste, Enrico VII aveva dato in sposa Margaret (la cui cugina Elisabetta di York, primogenita di Edoardo IV, era intanto diventata regina consorte) a Richard Pole, parente e uomo fidato del sovrano.
Insignito del titolo di cavaliere nel 1487, dopo la battaglia di Stoke Field, sir Richard era il primogenito del gentiluomo gallese Geoffrey Pole e di Edith St. John, sorella uterina della madre di Enrico VII, Margaret Beaufort. In seguito al matrimonio fra il principe Arturo e Caterina d’Aragona, egli prestò servizio presso la coppia reale insieme con la moglie, ma l’incarico ebbe termine con la morte del successore al trono (1502), che precedette di tre anni quella dello stesso sir Richard, il quale lasciò cinque figli: Henry (futuro barone di Montagu), Arthur, Reginald, Geoffrey e Ursula.
All’età di sette anni, Reginald Pole cominciò a frequentare la scuola di grammatica presso il monastero cistercense di Sheen, per poi trascorrere probabilmente un breve periodo presso i benedettini della Christ Church di Cambridge, come sembra suggerire un’esile traccia documentaria (Haile, 1910, p. 7). L’ascesa al trono di Enrico VIII e le immediate nozze con Caterina d’Aragona concorsero a risollevare le sorti di Margaret Pole, la quale venne riammessa a corte come dama di compagnia della regina e nel 1512 fu nominata contessa di Salisbury. Nello stesso anno, Enrico VIII concesse a Pole un sussidio che gli permise di iscriversi al Magdalen College di Oxford; qui conobbe Thomas More e studiò fino alla fine del decennio sotto la guida di William Latimer e, più tardi, anche di Thomas Linacre.
Conformandosi all’esempio dei due maestri, che avevano completato la loro formazione in Italia, nel 1521 Pole si recò a Padova, dove divenne punto di riferimento per i numerosi connazionali che frequentavano lo Studio patavino. Strinse amicizia, in particolare, con Thomas Lupset, già allievo di John Colet e collaboratore di Erasmo per la preparazione dell’edizione del Nuovo Testamento. Lupset presentò Pole all’umanista olandese, scrivendogliene il 23 agosto 1525 in termini che ne esaltavano la magnanimità, il florido ingegno e una tale morigeratezza «ut quasi lumen aliquod extinctis ceteris eius eluceat sanctitas» (Erasmo da Rotterdam, Opus epistolarum, VI, Oxonii 1926, p. 145).
Al pari dei suoi maestri Linacre e Latimer e di altri connazionali della sua generazione, tra cui Thomas Starkey (che aveva conosciuto al Magdalen College), John Clement e Richard Pace, Pole ebbe come mentore a Padova Niccolò Leonico Tomeo, il quale nel 1524 gli dedicò l’edizione dei Dialogi. Giunto in Veneto, il giovane inglese cominciò presto a frequentare anche il circolo letterario di Pietro Bembo, stringendo amicizia con l’umanista ciceroniano Christophe de Longueil. Nel 1522, pochi giorni prima di morire, questi lasciò a Reginald la sua ricca collezione di classici greci e latini, un dono che Pole volle idealmente contraccambiare scrivendo la biografia dell’amico, poi premessa, nel 1524, all’edizione fiorentina dell’epistolario di Longueil.
Dopo un viaggio a Roma in occasione dell’anno giubilare, Pole si trattenne ancora tra Padova e Venezia fino alla metà del 1526 quando, in compagnia di Lupset, soggiornò brevemente in Francia per poi fare ritorno in Inghilterra. Coinvolto nella ‘grande questione’ di Enrico VIII, durante l’ottobre 1529 fu inviato a Parigi insieme con Starkey per ottenere dai teologi della Sorbona un parere favorevole in merito al divorzio del re da Caterina d’Aragona. Il successo della missione gli valse l’offerta dell’arcidiocesi di York, rimasta vacante alla morte del cardinale Thomas Wolsey, nel novembre 1530. Secondo la versione diffusa da Pole e sostanzialmente accolta dai suoi biografi, la situazione cambiò radicalmente in seguito a un incontro privato nel corso del quale egli non poté trattenersi dal palesare a Enrico VIII le proprie riserve riguardo al divorzio. Malgrado il carattere agiografico di questo episodio, resta il fatto che nella tarda primavera del 1531 Pole illustrò in un perduto scritto (i cui contenuti possono essere sommariamente desunti dall’esposizione interessata che Thomas Cranmer inviò il 13 giugno al padre di Anna Bolena) le ragioni politiche, economiche e diplomatiche che si opponevano all’annullamento del matrimonio.
Riluttante ad assecondare i progetti di Enrico VIII, all’inizio del 1532 Pole decise di ripartire con il beneplacito del re, che gli accordò un nuovo sussidio. Dopo qualche mese di soggiorno ad Avignone, si recò a Carpentras, dove visitò Iacopo Sadoleto, ed entro la fine di ottobre raggiunse Padova. Nella Serenissima riannodò i legami con molti amici e compagni di studi, con i quali condivise un crescente coinvolgimento nelle riflessioni sulle grandi questioni teologiche divenute ineludibili in seguito alla protesta di Lutero.
Nell’abbazia benedettina di S. Giorgio Maggiore, alla cui guida fu deputato proprio quell’anno Gregorio Cortese e tra i cui monaci si trovava Benedetto Fontanini, Pole ebbe modo di intrattenersi spesso con i patrizi veneziani Gasparo Contarini e Alvise Priuli (da allora suo compagno inseparabile), i letterati Marcantonio Flaminio e Antonio Brucioli, il geografo Giovan Battista Ramusio e il mercante pugliese Donato Rullo. Molti di costoro, nonché altri prelati e studiosi che Pole frequentò nella cerchia di Bembo (tra questi Cosimo Gheri, Ludovico Beccadelli, Galeazzo Florimonte, Lazzaro Bonamico e Benedetto Lampridio) gravitavano anche intorno al vescovo Gian Matteo Giberti, per il tramite del quale Pole, all’indomani del suo ritorno in Italia, conobbe Gian Pietro Carafa.
Pur lontano dalla patria, non fu in grado tuttavia di sottrarsi alle pressanti richieste da parte di Enrico VIII il quale, insoddisfatto dello scritto redatto nel 1531, sollecitò per mezzo di Starkey l’opinione del cugino in merito alla liceità del matrimonio con Caterina e alla supremazia spirituale rivendicata dal pontefice romano. Le esecuzioni del vescovo di Rochester, John Fisher, e di Thomas More spinsero Pole a rompere gli indugi e a intraprendere il lavoro, che lo tenne impegnato dai primi di settembre al mese di marzo dell’anno successivo. Ne risultò un’opera in quattro libri – intitolata Pro ecclesiasticae unitatis defensione (meglio nota come De unitate Ecclesiae) e pubblicata a Roma nel 1539 per i tipi di Antonio Blado – che avrebbe determinato una drammatica svolta nella vita dell’autore. Inviata il 27 maggio 1536, con la richiesta che fosse letta da qualche persona affidabile incaricata dal re, suscitò la severa riprovazione degli amici Starkey e Richard Morison (che esaminarono il testo insieme con il vescovo di Durham, Cuthbert Tunstall), nonché della madre e del fratello maggiore di Pole. Se appena qualche anno prima, nel trattato di teoria politica composto dopo la missione alla Sorbona (T. Starkey, A dialogue between Pole and Lupset, a cura di T.F. Mayer, London 1989), Starkey aveva tratteggiato un’immagine lusinghiera di Pole, prospettandogli un ruolo politico di spicco, adesso lo minacciava che, se avesse avuto l’ardire di pubblicare il suo «venomous book, so full of defamation», sarebbe stato considerato «one of the most extreme enemies, both […] to all your friends and to our whole nation» (Ecclesiastical Memorials, 1822, I, 2, p. 291). Consigliato da Cortese e da Contarini, Pole si guardò pertanto dall’obbedire al sovrano quando questi gli intimò di tornare immediatamente in Inghilterra.
Il 19 luglio 1536 Paolo III lo invitò a prendere parte alla commissione incaricata di elaborare una proposta di riforma in vista del Concilio. In attesa di partire per Roma, dove sarebbe giunto in ottobre, Pole trascorse l’estate nel «paradiso» di Rovolon, sui colli Euganei, in compagnia di Cortese e del benedettino Marco da Cremona, che aveva conosciuto presso l’abbazia di S. Giustina di Padova e con il quale conversava «libentissime de divinis rebus» (Epistolarum Reginaldi Poli, 1744-1757, I, p. 479). Sempre più incline a stabilire una circolarità ermeneutica tra la propria esistenza e le vicende scritturali, egli riconobbe in don Marco il padre spirituale «qui me in Christo genuit», come scrisse a Bembo nel 1537 (Mayer, 2000-08, I, p. 131).
La cosiddetta rivolta inglese del Pellegrinaggio di grazia offrì lo spunto per la sua prima missione diplomatica, che gli venne affidata poco tempo dopo la nomina a cardinale diacono, avvenuta il 22 dicembre 1536. Nell’informativa scritta al papa il 7 febbraio, giorno della sua designazione a legato «ad res Angliae componendas» (van Gulik - Eubel, 1923, p. 25, col. 1, n. 6), Pole sostenne la necessità che i ribelli cattolici dovessero essere aiutati «non solo con le parole, ma ancora con fatti, i quali bisognaria che fossero di quella quantità di danari che il bisogno portasse» (Epistolarum Reginaldi Poli, 1744-57, II, p. CCLXXIX). Ciò non gli impedì di continuare a evocare, nei suoi scambi epistolari con Thomas Cromwell e con la camera privata di Enrico VIII, la vaga possibilità di un negoziato nelle Fiandre con l’eventuale partecipazione di Giberti, che gli era stato affiancato per trattare in Francia una tregua tra Francesco I e Carlo V. Gli accordi tra Enrico VIII e il re cristianissimo non consentirono a quest’ultimo di ricevere pubblicamente Pole il quale, giunto a Parigi nell’aprile 1537, fu invitato a lasciare il territorio francese. Costretto a trattenersi per oltre un mese a Cambrai e impossibilitato a fornire qualunque sostegno alla rivolta inglese, che nel frattempo era stata peraltro sedata, per tutto il resto della missione fu assorbito soprattutto dalla preoccupazione di sfuggire alle spie e ai sicari. A Liegi, ultima tappa del viaggio, il cardinale Érard de la Marck lo ospitò dalla fine di maggio al 22 agosto allorché, su sollecitazione del pontefice, fece ritorno a Roma.
Nella primavera dell’anno successivo, insieme con Contarini e altri cardinali, accompagnò Paolo III ai negoziati che avrebbero condotto alla tregua di Nizza tra Carlo V e Francesco I. Fu in questa occasione che ebbe modo di incontrare per la prima volta l’imperatore, da cui si recò a Toledo, nel febbraio 1539, su mandato di Paolo III, per convincerlo a privilegiare temporaneamente la riduzione del Regno inglese «ad veram religionem» (ibid., II, p. CCLXXX) rispetto alla guerra contro i turchi e alle contese con i principi protestanti. Al di là di generiche dichiarazioni di disponibilità, anche in questa circostanza Pole non ottenne però nulla di concreto. Nella vana attesa che l’imperatore gli comunicasse una decisione, risolse di scrivergli una lunga Apologia (I, pp. 66-171) per chiarire le proprie intenzioni e le posizioni espresse nel De unitate. Concepita come introduzione di quell’opera (sebbene siano noti abbozzi successivi di altre possibili prefazioni, indirizzate ai re di Francia, di Scozia e a Edoardo VI), l’Apologia condannava inoltre la «malitiosissima et perniciosissima doctrina» del Principe, «liber inscriptus nomine Machiavelli» ma vergato in realtà «Satanae digito» per mostrare i modi «quibus religio, pietas et omnes virtutis indoles facilius destrui possent» (I, pp. 136 s.).
Il prolungarsi della situazione di stallo lo indusse a stabilirsi dall’amico Sadoleto a Carpentras. Durante i sei mesi del suo soggiorno, che trascorse in compagnia di Priuli e dell’abate Vincenzo Parpaglia, gli studi di storia e filosofia e la lettura della Bibbia (in particolare dei Salmi) contribuirono a procurargli una «consolazione vera e solida» (II, p. 154), mitigando le recenti delusioni e il dolore per la sorte dei propri familiari. Pochi giorni dopo la partenza per Toledo, era stato infatti raggiunto dalla notizia dell’esecuzione del fratello Henry, giustiziato il 9 dicembre 1538 con l’accusa di tradimento, malgrado le posizioni critiche assunte in passato nei confronti di Reginald. Al momento della sua morte, nella Torre di Londra si trovavano reclusi anche Geoffrey Pole – il quale, dopo vari tentativi di suicidio, fu perdonato per l’atteggiamento collaborativo – e la madre Margaret, che sarebbe stata decapitata il 27 maggio 1541.
Lasciata Carpentras alla fine di settembre, Pole ottenne da Paolo III il permesso di fermarsi a Verona prima di fare ritorno a Roma, dove giunse alla fine di dicembre. Sin dalla tarda primavera aveva intanto appreso con disappunto che l’imperatore, preoccupato di raggiungere in tempi brevi un accordo religioso con i principi tedeschi per proseguire la guerra contro gli ottomani, intendeva promuovere un colloquio tra teologi cattolici e protestanti in alternativa al Concilio. Seppur contraria all’iniziativa, nel gennaio 1541 la S. Sede inviò Contarini come legato a Ratisbona. Poco prima che le trattative avessero finalmente inizio (il 27 aprile), Pole prese la decisione di trascorrere l’estate a Capranica, dove si recò il 12 maggio, lasciando che Priuli lo sostituisse a Roma come referente di Contarini. Raggiunto dall’inopinata notizia proprio nei giorni in cui a Ratisbona si perveniva a un accordo sulla formula della duplice giustificazione, il legato veneziano veniva così privato, suo malgrado, del principale sostenitore tra i membri del S. Collegio, molti dei quali erano pronti a fare naufragare le trattative attaccando la sostanza dottrinale dell’accordo e la condotta di Contarini.
Non soltanto Pole non fece nulla per difendere le posizioni del cardinale veneziano, ma nella corrispondenza con l’amico si mostrò ritroso a pronunciarsi in merito sia al testo dell’articolo sulla giustificazione sia alla cosiddetta Epistula de iustificatione, redatta il 25 maggio da Contarini per precisare il senso della formula di Ratisbona. In quei giorni il cardinale d’Inghilterra si dedicava invece assiduamente e con grande soddisfazione alla «expositione» di un Salmo, intrapresa prima della partenza di Contarini e incentrata proprio sui temi «de iustificatione, de fide, de operibus, de lege» (Oxford, Bodleian Library, Ms. Ital., C.25, cc. 169r-174v). Il testo è identificabile verosimilmente con uno dei commenti manoscritti ai Salmi raccolti nel Vat. lat. 5969, nei quali viene delineata una concezione soteriologica che si distacca nettamente da quella di Contarini. Non a caso, la stesura di quella «expositione» seguiva di poco la corrispondenza «in materia della giustificatione» mediante la quale, secondo Pietro Carnesecchi, Flaminio aveva tentato nel 1540 di persuadere Priuli (e per il suo tramite, con ogni probabilità, anche Pole), «insinuandoli le nove opinioni intorno a ciò acquisite […] mediante la conversatione di Valdés» (Firpo - Marcatto, 1998-2000, II, 3, p. 1042).
Nel novembre 1541 lo stesso Flaminio, insieme con Carnesecchi, raggiunse Pole a Viterbo, dove il cardinale – designato legato al Patrimonio di S. Pietro il 12 agosto – si era stabilito alla metà di settembre. L’umanista veneto recava con sé gli scritti di Juan de Valdés (dei quali aveva intrapreso la traduzione dallo spagnolo all’italiano), il Beneficio di Cristo, che rielaborò durante il soggiorno a Viterbo, e vari commenti scritturali di Lutero e di Calvino. Queste e molte altre opere eterodosse furono al centro degli studi e delle riflessioni di quella che Beccadelli, nel 1542, definì «Chiesa viterbiense» e che fu dipinta dai suoi membri come una «santa compagnia», raccolta in pia meditazione nella «dolcissima quiete» della residenza di Pole (M. Flaminio, Lettere, a cura di A. Pastore, Roma 1978, pp. 112, 123; cfr. Epistolarum Reginaldi Poli, 1744-57, III, p. 42). L’immagine idilliaca mirava a celare prudentemente sia i contenuti delle letture e delle conversazioni (a cui presero parte anche altri personaggi che avevano frequentato il sodalizio valdesiano a Napoli, come il futuro vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, il cappellano Apollonio Merenda e Donato Rullo) sia l’effettiva portata delle attività degli «spirituali». Attraverso la pubblicazione e la circolazione di testi eterodossi, la scelta di predicatori fidati (proprio allora Pole scrisse un perduto trattatello De modo concionandi) e, ove possibile, l’organizzazione della cura pastorale, costoro tentarono di diffondere in maniera capillare il peculiare messaggio religioso condensato nel Beneficio di Cristo, offrendo così una proposta di riconciliazione religiosa e un modello di riforma preliminari – se non alternativi – al Concilio.
Fitti scambi epistolari si irradiavano da Viterbo, non solo per mantenere vivi i contatti con chi aveva condiviso il magistero di Valdés a Napoli (prima fra tutti la discepola prediletta Giulia Gonzaga) o con altri personaggi vicini a Pole e all’Ecclesia viterbiensis, ma anche per tentare di coinvolgere in quella spiritualità altre figure chiave della gerarchia ecclesiastica, come accadde nel caso di Giovanni Morone. Il 16 ottobre 1542 questi fu nominato legato al Concilio di Trento unitamente al cardinal Pietro Paolo Parisio e a Pole stesso, presso la cui residenza viterbese era stato ospite alla fine di settembre. Fu in seguito al viaggio a Trento che, secondo il bolognese Giovan Battista Scotti, Morone «fu sedutto […] dalla dottrina catholica nella lutherana mediante il Flaminio, con l’approbatione del reverendissimo cardinal Polo» (Firpo - Marcatto, 2011-14, I, pp. 216, 231), «in laude» del quale il prelato milanese riferiva al domenicano Bernardo Bartoli «cose grandissime», perché «da lui era stato illuminato circa di questa materia della giustificatione» (p. 78). Da lui definita «carissimam […] in Christo matrem» (Epistolarum Reginaldi Poli, 1744-57, III, p. 14), la marchesa di Pescara era solita ricevere le sue frequenti visite dapprima presso il convento di S. Paolo a Orvieto, dove si era stabilita nel marzo 1541, e successivamente (dall’ottobre di quell’anno) a Viterbo, «senza arbitri et senza testimonii» (Firpo - Marcatto, 1998-2000, II, 2, p. 431).
Nel frattempo i sospetti che andavano addensandosi intorno all’Ecclesia viterbiensis si infittirono ulteriormente in seguito alle vicende degli eterodossi modenesi e alla clamorosa fuga oltralpe di Bernardino Ochino nell’estate 1542. Di lì a un anno, dopo aver lasciato Trento per raggiungere il papa a Bologna, Pole tornò a Roma, dove fu impegnato nelle trattative che condussero alla nuova convocazione del Concilio a Trento. Ottenuta ancora una volta la legazione il 6 febbraio 1545, si dedicò durante il mese precedente la partenza a mettere per iscritto le proprie riflessioni sull’imminente Concilio, stando almeno a quanto si legge nella dedica dell’opera (di cui non sono note versioni autografe) agli altri due legati Giovanni Maria del Monte e Marcello Cervini. Il De concilio sarebbe stato pubblicato postumo nel 1562 a Roma (Paolo Manuzio), a Venezia (Giordano Ziletti) e a Dillingen (Sebald Mayer), insieme con la Reformatio Angliae (raccolta dei decreti del sinodo inglese del 1555-56) e con il trattatello De baptismo Constantini.
Protrattasi per poco più di sei mesi, la partecipazione di Pole al Concilio si concluse definitivamente il 28 giugno 1546, quando lasciò Trento a causa dei problemi di salute che già aveva addotto come motivo della sua assenza dalla seduta del 21 maggio. In quell’occasione Del Monte aveva proposto di intraprendere la discussione sulla dottrina del peccato originale, il cui decreto fu emanato il 17 giugno, malgrado le critiche di Pole. Questi pronunciò il suo ultimo intervento il 21 giugno, allorché Cervini annunciò l’imminente dibattito sulla giustificazione. Preoccupato che le questioni dottrinali venissero affrontate in assenza dei protestanti, Pole raccomandò che le opere dei riformatori fossero lette attentamente e in maniera imparziale, concludendo con l’esortazione: «Tenenda est media via, nec huc neque illuc flectendum» (Concilium Tridentinum, 1901-38, I, p. 83).
Come era accaduto al tempo dello scambio epistolare del 1541-42 con Contarini, anche in questa circostanza egli tentò in tutti i modi di sottrarsi alle richieste di un giudizio sulle prime bozze del decreto «de iustificatione». Il pontefice concesse a Pole di non tornare a Trento, ma gli ordinò poco più tardi di inviare un parere sulla versione del decreto stilata a settembre. Nei primi giorni di ottobre, egli redasse pertanto due commenti in cui l’evasività tipica dei suoi scritti lasciava comunque trapelare significative riserve. Queste non sfuggirono a chi, come Cervini, dopo l’approvazione del decreto senza la firma di Pole (ormai tornato a Roma) cominciò a insinuare che il legato inglese «s’era partito per non trovarse alla determinatione che se faceva intorno allo articolo della iustificatione» (Firpo - Marcatto, 2011-14, II, p. 1016).
L’opinione espressa nell’estate del 1547 dall’ambasciatore imperiale a Roma, Diego Hurtado de Mendoza, il quale prevedeva che, nell’eventualità di una candidatura del cardinale d’Inghilterra al pontificato, «le hace daño lo que se ha dicho de la justificación» (Döllinger, 1862, p. 93), fu confermata dagli eventi del lungo conclave che si aprì il 29 novembre 1549. Forte dell’appoggio del pur diviso partito imperiale, dell’assenza dei cardinali francesi e dell’ideale investitura da parte di Paolo III, che lo aveva indicato come degno successore, Pole sembrò inizialmente avviato verso una facile elezione, per la quale probabilmente aveva già preparato il discorso di accettazione. Il giorno precedente il primo scrutinio (tenutosi il 3 dicembre) circolò voce però che qualche porporato aveva «portato là dentro delle scritture di lui dannabili, per mostrarle et per fargli con quelle oppositione» (Lettere di Girolamo Muzio giustinopolitano conservate nell’Archivio governativo di Parma, a cura di A. Ronchini, Parma 1864, p. 114).
Sfumata la possibilità dell’elezione di Pole per adorazione, proposta dal cardinal Farnese dopo il secondo scrutinio (4 dicembre), ma rifiutata dal diretto interessato, Carafa «disse apertamente che Polo era sospetto d’heresia», concludendo così «che per questa causa non doveva eleggersi» (Firpo, 2014, pp. 13, 15, n. 60). Nel terzo scrutinio, ai due accessi di Rodolfo Pio da Carpi e di Alessandro Farnese – i quali modificarono il proprio voto in favore di Pole – non si aggiunse l’unico altro che avrebbe consentito all’inglese di raccogliere i due terzi dei consensi. Il quorum si alzò una settimana più tardi per l’arrivo dei cardinali francesi, decisi a sostenere la candidatura di Carafa contro quella di Pole il quale, nel frattempo, affidava le proprie riflessioni sulla natura e sui fondamenti dell’autorità papale (già trattati nel De unitate) al dialogo De summo pontifice, Christi in terris vicario.
I temi di questo scritto, dedicato il 20 gennaio 1550 al giovanissimo cardinale Giulio Della Rovere e pubblicato soltanto nel 1569 (Louvain, presso John Fowler), furono ripresi e sviluppati, dopo il conclave, in un secondo testo rimasto inedito che, al pari del precedente, fu redatto in volgare per essere poi tradotto in latino. Complementare al De summo pontifice, del quale costituiva il seguito ideale, il nuovo dialogo affiancava Priuli ai primi due interlocutori (Pole e Della Rovere) e si proponeva di «esplicare più pienamente la propria natura» dell’«officio del sommo pontificato» (Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, Sant’Officio, Stanza storica, E 6-a, f. 4, cc. 1r, 8r). In un implicito rovesciamento delle tesi di Machiavelli, Pole trovava nella storia le ragioni dell’intrinseca superiorità del vicario di Cristo, guidato dallo spirito divino e tenuto pertanto a «esser come un sole» per il «magistrato seculare», che esercitava invece il «governo della notte» mediante la «prudenza umana». L’esempio del sommo pontefice, «all’officio del quale» spettava «conformar la vita» alla dottrina evangelica, diventava così indispensabile, se accompagnato da quello degli «altri pastori» e del «gregge dei fedeli», per avviare la «vera et perfetta riforma» e per riportare la pace, inducendo alla conversione anche gli eretici e gli infedeli (cc. 145v, 147v, 148r).
Nella cornice delle diffuse attese profetiche secondo cui l’elezione del cardinale anglico avrebbe coinciso con l’avvento del papa angelico della tradizione gioachimita, l’elaborazione della sconfitta nel conclave portò probabilmente Pole e le persone a lui più vicine a convincersi che egli fosse comunque il vero «papa legitimo» per elezione divina, senza il quale la Chiesa era priva del suo «visibile sposo». Secondo la testimonianza prestata nel processo del cardinal Morone dal prete Lorenzo Davidico (già suo vicario foraneo a Novara), questa opinione aveva trovato espressione in un libro (mostratogli da Priuli) sulla cui copertina figurava quella che sarebbe dovuta diventare l’arme papale di Pole, ritratto nel mezzo di un concistoro, «con una colomba sopra la spalla» e illuminato da «un razo d’oro». Le iscrizioni «unctio spiritus» e «docebit te omnia» (Gv 14, 26; 1 Gv 2, 27), da un lato, e «beatus vir quem tu erudieris Domine» (Sal 93, 12), dall’altro, trovavano un complemento nel cartiglio della parte superiore, retto da «tre angeli in nube» e recante la scritta «hic est verus Israelita in quo dolus non est [Gv 1, 47], angelicus papa a Deo missus et electus» (Firpo - Marcatto, 2011, pp. 215, 264). A detta di Davidico, il volume conteneva la Vita angelici papae (una profezia che individuava in Pole il papa angelico) e il Tractatus de reformatione Ecclesiae, identificabile presumibilmente con lo scritto che il cardinale inglese aveva intrapreso prima del Concilio e che continuò a rielaborare fino ai suoi ultimi giorni di vita.
Per quanto l’esistenza del libro descritto da Davidico sia solo ipotetica, l’immagine del frontespizio sembra un efficace compendio figurativo non solo della concezione del Papato esposta nei dialoghi De summo pontifice, ma anche dei contenuti del De reformatione Ecclesiae, nelle cui numerose versioni manoscritte Pole tendeva a eludere, fino a farlo scomparire quasi del tutto, il problema delle concrete misure di riforma da adottare nei diversi settori dell’istituzione ecclesiastica, per soffermarsi invece sull’importanza cruciale della guida interiore dello spirito divino. In virtù dei suoi insegnamenti, definiti «non tantum […] principium, sed etiam medium et pene finis ipsius reformationis» (Napoli, Biblioteca nazionale centrale, Mss., IX.A.14, c. 21v, cfr. c. 19v), il popolo cristiano sarebbe stato in grado infatti di condursi rettamente anche se privato dei suoi pastori.
Nel giro di breve tempo dall’elezione al soglio pontificio di Giulio III, Pole entrò a far parte delle commissioni per la riforma della Dataria e della Penitenzieria e per il Concilio, che si sarebbe riaperto il 1° maggio 1551. Il 17 febbraio 1550 fu inoltre nominato membro dell’assemblea cardinalizia preposta alla difesa della fede e all’estirpazione dell’eresia, anche se smise di parteciparvi l’anno seguente. Nelle intenzioni di Giulio III, quest’organismo avrebbe dovuto contribuire ad arginare le crescenti interferenze dell’Inquisizione, intenta a proseguire l’acquisizione di deposizioni attestanti l’eresia di importanti prelati, a dispetto dell’esplicito divieto di interrogare gli imputati sul conto dei cardinali senza il consenso papale. Alla notizia che nel maggio 1552 il S. Ufficio aveva raccolto le accuse del fiorentino Bernardo Bartoli contro Pole e Morone, Giulio III fece in modo che al frate domenicano venisse estorta una parziale ritrattazione, mentre nell’aprile dell’anno successivo Carafa fu costretto a recarsi a S. Paolo fuori le mura, presso la residenza di Pole, per porgergli personalmente le proprie scuse, anche se non rinunciò a sondare il collega inglese (analogamente a quanto fece Cervini in quegli stessi giorni) sui suoi rapporti con Flaminio e con Giulia Gonzaga.
Di lì a poco Pole lasciò Roma per trascorrere l’estate sul lago di Garda, presso l’abbazia benedettina di Maguzzano, dove fu raggiunto dalle notizie della morte di Edoardo VI (durante il cui regno il cardinale inglese aveva già tentato di stabilire dei contatti con il reggente Edward Seymour) e dell’ascesa al trono di Maria Tudor. Designato legato il 5 agosto, gli furono concesse amplissime facoltà per riportare il Regno inglese al cattolicesimo, ma l’opposizione di Carlo V, il quale reputava la missione prematura, ritardò la sua partenza, costringendolo a trattenersi presso il monastero francescano di Isola del Garda fino al 29 settembre. Solo in virtù dell’escamotage con cui il pontefice lo nominò legato per trattare la pace tra Enrico II e l’imperatore egli poté finalmente partire, per trovarsi però nuovamente bloccato a Dillingen fino alla fine dell’anno, quando il consenso manifestato dalla S. Sede in merito al matrimonio fra il principe Filippo e la regina (un’unione che Pole aveva dato invece l’impressione di non approvare) sbloccò la situazione di stallo. Il suo Discorso di pace, composto nel marzo 1554 per Enrico II e per Carlo V, non riuscì a evitare la disastrosa conclusione dei colloqui. Licenziato bruscamente dall’imperatore, criticato severamente (da Morone stesso) per la posizione ambigua riguardo alle nozze di Maria Tudor, sospettato di complicità con il nipote Thomas Stafford (figlio di Ursula Pole), che prese parte alla rivolta di Thomas Wyatt contro quell’alleanza matrimoniale, Pole fu anche attaccato in forma anonima da Pier Paolo Vergerio il quale, al pari di un altro esule italiano in terra riformata come Francesco Negri, aveva da tempo cominciato a lanciare accuse nei confronti del cardinale d’Inghilterra. Questi fu indotto infine a rinnegare le proprie convinzioni per schierarsi senza riserve, in una lettera al cardinale Otto Truchsess von Waldburg, a favore dell’opinione che «nos ex operibus iustificari» (Epistolarum Reginaldi Poli, 1744-57, IV, p. 152).
Superato temporaneamente lo scoglio della restituzione delle proprietà ecclesiastiche confiscate da Enrico VIII (riguardo alle quali Giulio III lasciava sostanzialmente libertà di scelta alla regina) e celebrato il matrimonio tra Maria e Filippo, Pole riuscì a rimettere piede in patria, dove il 30 novembre proclamò la riconciliazione del Regno inglese «ad unionem catholicae Ecclesiae» (Mayer, 2000-08, II, p. 376). Riunì quindi i rappresentanti diplomatici francesi e imperiali in una conferenza di pace a Marcq, nei pressi di Calais. Impegnato nell’organizzazione dell’evento, non partecipò né al conclave di aprile, in cui venne eletto Cervini, né a quello successivo, conclusosi il 23 maggio con l’ascesa al soglio pontificio di Carafa, il quale un mese più tardi incaricò il nuovo commissario del S. Uffizio di raccogliere deposizioni su qualunque persona sospetta di eresia, inclusi i vertici della gerarchia ecclesiastica.
La repressione antiereticale intrapresa da Paolo IV costrinse Pole sulla difensiva, come emerge da alcuni dei decreti del sinodo per la riforma della Chiesa inglese, convocato nel novembre di quell’anno. Tra le disposizioni che miravano a correggere gli abusi disciplinari del clero e a migliorarne l’istruzione, specialmente tramite la fondazione di seminari, figurava infatti anche il divieto di leggere, pubblicare e diffondere libri proibiti. Particolare attenzione veniva poi dedicata ai doveri dei vescovi, tenuti a risiedere nella diocesi di appartenenza, a effettuarvi visite periodiche e, non da ultimo, a predicare. Pole stesso (che nel frattempo, il 20 marzo 1556, era stato ordinato presbitero ed era succeduto a Cranmer come arcivescovo di Canterbury) cominciò a visitare le diocesi inglesi dopo la conclusione del sinodo, occupandosi altresì di ripristinare gli istituti monastici.
La difficile restaurazione cattolica, portata avanti dal cardinale inglese con l’ausilio del futuro arcivescovo di Toledo, Bartolomé Carranza, fu però ostacolata dalle resistenze interne al Regno e anche dalla politica antimperiale di Paolo IV, che nel marzo 1557 si spinse fino a intentare un processo contro i sovrani asburgici, nei cui territori furono revocate il mese successivo tutte le nunziature e le legazioni pontificie, compresa quella di Pole. Paolo IV dissipò ogni dubbio riguardo ai reali obiettivi del suo gesto allorché il 1° giugno, il giorno dopo l’arresto di Morone, alluse a «un altro» cardinale che, «con pericolo di questa santissima fede […], era stato per ottenere questa santissima dignità» (Firpo - Marcatto, 2011-14, I, p. XXXIX). Quando a Roma giunsero le proteste di Filippo e di Maria, per tutta risposta il 14 giugno Carafa elevò al cardinalato l’anziano francescano William Petow e lo designò legato al posto di Pole, ma la regina si rifiutò di pubblicare sia il breve di nomina di Petow sia quello di revoca ai danni dell’arcivescovo di Canterbury. Durante l’estate Pole scrisse al pontefice una lunga Apologia (dai toni simili a quelli del De unitate), rimproverandogli l’evidente malafede dimostrata in più occasioni e schierandosi a difesa di Morone.
In seguito alla pace di Cave, Pole tentò di rivolgersi al cardinale Carlo Carafa in missione a Bruxelles. Il segretario di Stato della S. Sede aveva però portato con sé una copia del fascicolo processuale del cardinale inglese per convincere Filippo II a negargli il sostegno. Contro il parere del proprio confessore, il francescano Bernardo de Fresneda, il re continuò invece ad appoggiare Pole il quale, con il pretesto di perorare la nomina di Priuli al vescovato di Brescia, nel marzo 1558 scrisse a Paolo IV un’altra missiva (inviandone una copia a Fresneda), ribadendo in maniera più cauta le proteste dell’Apologia.
Mentre a Roma le deposizioni sul suo conto continuavano ad accumularsi, ai primi di settembre Pole si ammalò e il 17 novembre 1558, poche ore dopo la regina Maria, morì a Lambeth Palace. Fu sepolto nella cattedrale di Canterbury.
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