Pole, Reginald
Il vero anche se lungamente inedito fondatore dell’antimachiavellismo fu, per molti aspetti, il lettore più lontano da M. che si potesse incontrare in quella prima metà del 16° sec.: ‘inglese italianato’, cultore del latino ciceroniano, convinto che l’esercizio del potere fosse una missione affidata da Dio a figure profetiche nate per comandare e conservare inalterata la fedeltà dei popoli, P., nato a Stourton Castle, Staffordshire, nel 1500 e morto a Londra nel 1558, aveva ereditato con la nascita una possibile candidatura al trono inglese. Dopo l’avvio degli studi a Oxford era sbarcato in Italia. Ce lo aveva mandato la madre lady Margaret contessa di Salis bury, nipote di Edoardo IV e di Riccardo III, che lo aveva destinato alla carriera ecclesiastica, con il consenso e con il lauto contributo di re Enrico VIII, ben lieto di allontanare dall’Inghilterra un ultimo e perciò specialmente pericoloso discendente di una dinastia rivale. Lady Margaret visse all’ombra della nuova dinastia dei Tudor recando nel suo nome la minaccia di una ripresa della guerra per il potere che aveva opposto le casate di Lancaster e di York nella guerra delle Due rose e alla fine pagò con la sua vita la resistenza del figlio alle richieste di Enrico VIII.
Il luogo di formazione di P. fu Padova. Qui divenne il punto di riferimento di una piccola corte di letterati attirata dal generoso mecenatismo consentitogli dai finanziamenti reali e dal fascino esercitato dalla sua personalità, due caratteristiche che lo facevano avvertire destinato a un grande futuro. La sua prima uscita nel mondo della società letteraria avvenne con la significativa scelta di pubblicare gli scritti di Christophe de Longueil (Cristoforo Longolio), il letterato fiammingo morto prematuramente nel 1522, difensore contro Lutero di una Roma papale diventata con Leone X la corte internazionale di una cultura ciceroniana. Agli occhi di Longolio la protesta luterana e le agitazioni della società tedesca apparvero come l’intollerabile minaccia di una rivolta di plebi violente contro l’ordinato e paludato mondo della romanità moderna erede della lingua antica. Era stata una scelta significativa quella che aveva portato P. a farsi editore e portavoce delle opinioni religiose del letterato fiammingo: la sintonia con Longolio nasceva dalla fascinazione per il papato come principato sacro e da un’idea dell’esercizio del potere come funzione spettante per diritto di nascita all’aristocrazia. La fedeltà al latino classico si sposava all’idea di una superiore cittadinanza nella Roma cattolica patria di un’eletta minoranza di uomini destinati a governare le folle. In quella occasione ebbe un breve scambio epistolare con Erasmo. Il grande umanista, pur cercando di non compromettersi troppo nel conflitto tra Lutero e Roma, nel suo cristianesimo evangelico era sempre più diffidente nei confronti della retorica ciceroniana e dei modelli pagani rinascenti nel cuore della Chiesa. Quando il sacco del 1527 pose fine a quella stagione ed Erasmo si decise a rendere pubbliche, con il dialogo Ciceronianus del 1528, le sue critiche nei confronti di quel connubio e della cultura dominante tra i letterati italiani, il nome di P. vi si affacciò come quello di uno capace di scrivere in stile ciceroniano anche se non aveva ancora pubblicato nessuno scritto personale (cfr. Contemporaries of Erasmus. A biographical register of the Renaissance and Reformation, ed. P.G. Bietenholz, T.B. Deutscher, 3 voll. raccolti in un unico vol., 2003, p. 105). P. non rispose: ma la reazione contro lo scritto di Erasmo fu vivace, come mostra l’intervento sul caso Longolio di Étienne Dolet, anche lui presente a Padova dal 1526.
Dopo il sacco di Roma incontriamo P. a Venezia, dove si muove nell’ambiente dei benedettini di San Giorgio e coltiva rapporti con Gregorio Cortese, Gaspare Contarini e Marcantonio Flaminio. Intanto maturavano a Londra le condizioni che dovevano mettere fine alla sua tranquilla vita in Italia e immergerlo nel ‘grande affare’ del divorzio reale. Qui l’ambizioso primate cardinale Thomas Wolsey, dopo aver tentato di diventare capo della Chiesa approfittando dell’impedimento di Clemente VII prigioniero in Castel Sant’Angelo, si fece sostenitore della scelta di Enrico VIII di ripudiare la moglie Caterina d’Aragona, zia di Carlo V. A P. fu chiesto di dimostrare con i fatti quanto fossero stati utili gli investimenti fatti su di lui. Si trattava di adoperarsi per ottenere pareri di teologi favorevoli alla tesi della nullità di quel matrimonio. Oltre che a Padova, P. svolse la sua missione a Parigi presso i teologi della Sorbona tra il 1529 e il 1530. Da lì raggiunse Londra ed ebbe un incontro con l’ambiente della corte e con Enrico VIII. Del suo passaggio restò una traccia indiretta nel dialogo immaginario tra lui e Thomas Lupset composto da Thomas Starkey in quel periodo e rimasto manoscritto fino a tempi recentissimi: nel quadro e nelle forme della discussione politica avviata dall’Utopia di Thomas More qui si affacciano riserve di P. nei confronti della monarchia per i rischi di tirannia derivanti dal potere posto nelle mani di una sola persona; erano riserve che esprimevano un’autentica preoccupazione, originata dalla sua concezione della funzione dell’aristocrazia, ma anche dalle sue convinzioni religiose sull’imperfezione umana e sulla necessità di un intervento della grazia divina.
La situazione precipitò con l’alleanza di Clemente VII e Carlo V e con il conseguente rigetto papale della richiesta di Enrico VIII. La scelta di campo di P. si compì in seguito all’atto di supremazia con cui Enrico VIII si dichiarò capo della Chiesa inglese. Era in gioco l’unità della Chiesa e questa volta l’attacco non veniva da un monaco tedesco, ma dal vertice dell’aristocrazia inglese. P. compose il suo primo scritto a stampa, un trattato Pro ecclesiasticae unitatis defensione (1534-1535) e lo mandò a Enrico VIII. La fiducia nella possibilità di convincere i sovrani con scritture private nasceva in P. dalla sua congenita riluttanza davanti alle forme pubbliche del conflitto aperto e della lotta politica o religiosa. Si trattasse di una timidezza caratteriale o di un’aristocratica volontà di rivolgersi non alle folle, ma ai pochi eletti e ai vertici della società e del potere, di fatto questa fu la cifra del comportamento di P. nei momenti delle scelte importanti della sua vita. Coperto da un mistero nicodemitico rimase il suo orientamento davanti alle questioni religiose del tempo, fondamentale fra tutte quella della giustificazione. Ma a Roma, intanto, si stava prendendo coscienza dell’importanza di P. nel conflitto che si era acceso con Enrico VIII. Una nuova strategia culturale, sostenuta dal cardinale Marcello Cervini, dava impulso all’attività editoriale di Antonio Blado: e proprio Blado, nel 1537, pubblicò il trattato di P. che intanto era diventato cardinale.
Il nuovo papa Paolo III Farnese aveva avviato iniziative concrete per arginare la diffusione delle critiche dei luterani rinnovando la composizione del senato cardinalizio. Il primo segno l’aveva dato nel maggio 1535 creando cardinale il patrizio veneziano Gaspare Contarini. Il passo successivo era stata la nomina di una commissione incaricata di proporre le misure urgenti per avviare la riforma interna della Chiesa: e P. fu tra gli invitati. Fu così che nell’autunno del 1536 giunse a Roma da Venezia, insieme a Giampietro Carafa, Gian Matteo Giberti e Marcantonio Flaminio. Qui erano attesi da Contarini e da altri membri della commissione. P. insieme a Giberti aveva fama di erasmiano, ma non ebbe difficoltà a sottoscrivere la proposta del Consilium de emendanda ecclesia di vietare la lettura dei Colloquia di Erasmo nelle scuole. Nel dicembre 1536 Paolo III lo creò cardinale. Subentrò così nel senato cardinalizio a John Fisher, finito sul patibolo: con quella scelta Paolo III rivolgeva contro Enrico VIII l’uomo su cui il re aveva fatto conto. Una volontà che divenne ancor più evidente quando il 9 febbraio 1537, in concistoro segreto, P. fu incaricato di recarsi come ambasciatore in Francia. Lo accompagnò Giberti a cui, per la sua passata politica filo-francese, era affidato il compito di premere su Francesco I per un’alleanza contro Enrico VIII. Ma la legazione fu un completo fallimento: il tentativo di ottenere l’alleanza di Francesco I fallì. P. fu invitato a lasciare la Francia dove la sua presenza era imbarazzante: a Francesco I il re d’Inghilterra suo alleato aveva chiesto di consegnargli il ribelle. La spedizione ripiegò verso i Paesi Bassi, dove P. cercò inutilmente di essere ricevuto da Carlo V. Nacque allora una decisa ostilità dell’imperatore verso chi aveva tentato di allearsi con Francesco I. Fu una rottura che doveva segnare la carriera ecclesiastica di P., come si doveva verificare all’appuntamento del successivo conclave.
Dopo il fallimento della missione e la rottura aperta con Enrico VIII siglata dalla sentenza di morte contro sua madre e suo fratello, P. prese la penna e scrisse una Apologia ad Carolum V per raccontare la storia dei propri rapporti con il sovrano inglese. La compose probabilmente a Carpentras, ospite di Iacopo Sadoleto. Questa, che fu la prima importante opera polemica contro il Principe di M., doveva restare manoscritta fino all’edizione curata nel Settecento dal cardinale benedettino Angelo Maria Querini (che rimane ancora l’unica edizione del testo ed è inclusa nella raccolta delle lettere di P.: Apologia Reginaldi Poli ad Carolum V. Caesarem super quatuor libris a se scriptis de unitate Ecclesiae, in Epistolarum Reginaldi Poli S.R.E. cardinalis, pars I, 1744, pp. 66-171).
Secondo il racconto di P., era stato il conte di Essex Thomas Cromwell che, per convincerlo a simulare e a ricorrere all’astuzia con Enrico VIII nella questione del divorzio, gli aveva consigliato di leggere un recente piccolo libro italiano dove un autore pratico delle cose di governo dello Stato ne spiegava le regole seguendo la lezione dell’esperienza e non i sogni personali («sua somnia») come quelli della Repubblica di Platone. Era lì che si imparava quanto fossero distanti le cose che gli oziosi insegnano nelle scuole dalla regola vera del governo dello Stato. Cromwell era uno dei molti inglesi che seguivano con interesse le cose italiane: e da una lettera scrittagli nel 1537 da Henry Parker lord Morley risulta essere destinatario di scritti di M. (sul contesto inglese della fortuna di M. esiste una vasta e nutrita letteratura: cfr. da ultimo A. Petrina, Reginald Pole and the reception of the Principe in Henrician England, in Machiavellian encounters in Tudor and Stuart England, ed. A. Arienzo, A. Petrina, 2013, pp. 13-27, in partic. p. 25 nota 53). Era proprio l’opera di M. che Cromwell raccomandò a P. di leggere: anzi, si offrì di dargliene copia. P. racconta di averlo letto in seguito per proprio conto e non per dono di Cromwell («non ab eo missum»). Sappiamo per certo che P. aveva avuto occasione nell’inverno del 1537, durante la legazione con Giberti, di sostare a Firenze e di incontrare Francesco Guicciardini e altri storici e politici fiorentini (lo nota il recente e fondamentale studio di T.F. Mayer, Reginald Pole, prince and prophet, 2000, p. 80 e nota). E P. stesso raccontò di avere ascoltato l’anno prima («superiori hyeme») a Firenze i concittadini di M. che lo giustificavano con l’argomento che quei consigli erano stati dati al tiranno della città allo scopo di mandarlo in rovina. Compariva qui per la prima volta un’interpretazione antitirannica destinata a tornare più volte nella storia della fortuna dell’opera di Machiavelli. In effetti, secondo P., il principe che avesse seguito quei precetti sarebbe caduto in un precipizio pari alla rupe Tarpea. Era il diavolo che lo aveva dettato all’autore («Satanae digito scriptum»). Ne fu così impressionato da inserire nella sua Apologia un appello appassionato non solo a Carlo V, ma a tutti i principi e a tutte le nazioni perché fermassero la diffusione del veleno contenuto in quel libro: il veleno dell’ateismo, quello che la costituzione degli Ateniesi colpiva con l’esclusione dalla città. I potenti della Terra dovevano combattere la diffusione di quei precetti perché erano tali da corrompere le nobili virtù del cuore dei loro eredi fino all’estinzione della stirpe dei re e dei sacerdoti.
Non sappiamo se ci fu e quale sia stata la circolazione del testo di P. nel contesto della cultura inglese, già segnata da precoci e numerosi sintomi di interesse per l’opera di Machiavelli. Né si hanno tracce delle reazioni nel circolo degli amici e dei frequentatori della corte di Pole. Sappiamo che a Viterbo, vicino a lui, ci fu Migliore Cresci (→) che dell’opera di M. fu non solo un lettore ma, per certi versi, un continuatore. E intanto il rapporto con Marcantonio Flaminio e, per suo tramite, con la Verona di Giberti e la Napoli di Juan de Valdés doveva stimolare la riflessione sul nesso tra l’antropologia negativa di fondo dell’agostinismo luterano e del pensiero di M. e il problema della funzione del potere nella Chiesa di cui restava membro eminente. Indizi dei suoi orientamenti emergono anche dal contrasto che ebbe con il predicatore gesuita a Viterbo Niccolò Bobadilla nel 1543. Ma la scelta mistica e contemplativa e il segreto conflitto tra le sue vere convinzioni e la carriera ecclesiastica, dove restava un candidato importante per il papato, avevano un risvolto nell’incapacità di affrontare situazioni di conflitto. Lo si vide in occasione della discussione in concistoro sull’accordo raggiunto da Contarini alla Dieta di Regensburg del 1541, come pure a Trento nel 1546, nel dibattito sul decreto intorno alla giustificazione. Al primo appuntamento P., che pure aveva scritto di essere d’accordo con la formula proposta da Contarini, non si mosse da Viterbo per difenderla in concistoro. E nel 1546, alla vigilia del voto sul decreto conciliare sulla giustificazione, la sua parola era attesa con ansia dai suoi seguaci: ma P., cardinale legato al Concilio, lasciò Trento e si ritirò a Padova con il pretesto di ragioni di salute. Una terza e decisiva occasione di battaglia ci fu al conclave del 1549-50, dopo la morte di Paolo III. Qui P. fu sul punto di venire eletto per acclamazione: trovò ostacolo nella violenta opposizione di Gian Pietro Carafa, che lo accusò di eresia, e soprattutto nell’ostilità del partito spagnolo. Quanto a lui, non incoraggiò i suoi aderenti e passò il tempo del conclave a scrivere un trattato sul tipo ideale del pontefice che dedicò al nuovo papa, Giulio III Del Monte, personaggio assai lontano dal profilo ideale del pastore santo e del pontefice profeta destinato a guidare il gregge. Qui un’idea sacrale del potere permise a P. di mettere a frutto tacitamente il M. dei Discorsi, appropriandosi della pagina dedicata all’elogio di Numa Pompilio come il vero fondatore di Roma per l’uso che aveva fatto della religione. P. sostenne nel suo dialogo che la vera scienza della politica («ars civilis sive politica», «ars regia et vera regendi populos ratio») era quella fondata sul potere pastorale affidato da Dio a figure di pontefici. Quell’arte, secondo lui, datava fin dall’Antico Testamento e attraversava anche il mondo pagano: ne era modello proprio Numa Pompilio. Non importa che la religione di Numa fosse pagana: in lui Dio aveva creato un anello della catena continua di modelli del vero potere, quello pastorale. Era da Dio che derivava la scelta di sovrani che fossero principi e profeti nello stesso tempo: la predicazione degli apostoli doveva portarvi il lume del cristianesimo per darne la versione perfetta.
Il manoscritto del De summo pontifice ebbe vita travagliata. Riscritto e ampliato dopo il conclave, tradotto da Alvise Priuli in italiano, ottenne tra il 1553 e il 1557 il permesso di stampa dal maestro del Sacro palazzo Pier Paolo Giannerini, ma approdò alla stampa nella versione breve e nel testo latino, pubblicato a Lovanio nel 1569 (R. Polus, De summo pontifice Christi in terris vicario, eiusque officio et potestate..., pp. 140-44; sulle versioni manoscritte dell’opera cfr. T.F. Mayer, A reluctant author. Cardinal Pole and his manuscripts, 1999). A quella data P., principe e profeta e papa mancato, era morto da tempo.
Bibliografia: De summo pontifice Christi in terris vicario, eius que officio et potestate, liber vere singularis, et eruditionis, et puri sermonis nomine, in modum dialogi conscriptus..., Lovanii 1569; Apologia ad Carolum V, in Epistolarum Reginaldi Poli S.R.E. cardinalis et aliorum ad ipsum, a cura di A.M. Querini, 5 voll., Brescia 1744-1757; The correspondence of Reginald Pole, ed. T.F. Mayer, 4 voll., Aldeshot 2002-2008.
Per gli studi critici si vedano: E. Meyer, Machiavelli and the Elizabethan drama, Weimar 1897; M. Praz, Machiavelli and the Elizabethans, «Proceedings of the British Academy», 1928, 13, pp. 3-51 (poi in Id., Machiavelli in Inghilterra, Firenze 19622, pp. 97151); D. Fenlon, Heresy and obedience in Tridentine Italy. Cardinal Pole and the Counter Reformation, Cambridge 1972; R. Bireley, The Counter-Reformartion prince: anti-Machiavellianism or catholic statecraft in early modern Europe, Chapel Hill 1990; T.F. Mayer, Reginald Pole, prince and prophet, Cambridge 2000; S. Anglo, Machiavelli, the first century. Studies in enthusiasm, hos tility, and irrelevance, Oxford 2005; Machiavellian encounters in Tudor and Stuart England. Literary and political influences from the Reformation to the Restoration, ed. A. Arienzo, A. Petrina, Aldershot 2013.