regionalismi
L’italiano ha vissuto fin oltre la metà del Novecento in una condizione singolare, di lingua scritta e letta piuttosto che parlata, mentre le lingue vive e vere delle collettività erano i dialetti (➔ sociolinguistica; ➔ storia della lingua italiana). Anche a causa della mancanza di un costante e omogeneo riferimento unitario, molti centri importanti – spesso capitali degli antichi Stati nazionali – hanno sviluppato nel tempo forme autonome e specifiche di vita culturale, consolidando sul piano linguistico tradizioni locali fiorenti. Questo policentrismo politico e culturale non favorì l’adozione passiva del modello toscano, diffusosi nelle regioni d’Italia, a livello elitario e scritto, a partire dai secoli XV-XVI, ma generò piuttosto convergenze di estensione variabile, regionali o sovraregionali, sul toscano.
L’apprendimento e l’impiego dell’italiano sono stati condizionati, nei secoli successivi, dalla permanenza del dialetto nell’uso orale della quasi totalità della popolazione, che permea anche la cultura (antropologica) delle comunità. Il fenomeno si estende con forza quando, dalla seconda metà dell’Ottocento, comincia ad allargarsi la base sociale di chi è nelle condizioni di imparare a leggere e a scrivere: l’italianizzazione linguistica (➔ italianizzazione dei dialetti) lentamente si avvia ed è destinata a compiersi non attraverso la diffusione generale del modello fiorentino, bensì in una complessa articolazione di varianti che risentono in ogni regione della realtà fondamentale del ➔ repertorio linguistico, cioè dei dialetti.
Si tratta di un’unità linguistica in cui, nel rapporto tra tendenze unitarie e variazioni diatopiche, le prime sono in netto vantaggio in tutte le aree del lessico, ma che per i settori dei linguaggi tecnici e delle condizioni generali di vita si è costruita attingendo anche alle varietà locali. La grande maggioranza degli studiosi è d’accordo nel ritenere che i mutamenti nella morfologia, negli schemi sintattici e nello stesso lessico si sono sviluppati in buona parte indipendentemente dal fiorentino, in maniera autonoma (Durante 1981). De Mauro (1976) ha calcolato, ad es., che su 378 termini di provenienza regionale riportati da Migliorini (1960) cinquant’anni fa, soltanto 53 sono toscani, contro 130 romani e 115 settentrionali (➔ lessico).
A persistenti differenziazioni antiche nell’italiano (che nel suo vocabolario di base è peraltro ancora ondivago: buttare / gettare, accadere / succedere / capitare, cominciare / iniziare, togliere / levare), se ne sono aggiunte molte altre, soprattutto fra Ottocento e Novecento: la stratificazione diacronica dei localismi lessicali nell’italiano attestata dal GRADIT assegna a tali secoli oltre i tre quinti degli apporti complessivi (circa 5700). Sebbene in quell’arco cronologico fattori di vario ordine giustifichino il maggiore afflusso di voci dialettali e regionali nell’italiano, vi sono limiti obiettivi della ricerca che spiegano tale infittirsi temporale della documentazione (Zolli 1986).
Per accertare che una parola sia di origine locale, bisogna infatti dimostrarne l’attestazione prima in un dialetto o in un’area regionale e solo più tardi nell’italiano comune; ma, da una parte, i dizionari dialettali non sono anteriori al XIX secolo e non sono storici (non permettono cioè di ricostruire le vicende delle singole voci dalle origini) e, dall’altra parte, sono rari gli spogli delle opere letterarie in dialetto. Limitandoci dunque all’Ottocento, ad es., nei primi decenni le voci cartella «foglio manoscritto o dattiloscritto» e (pane) casereccio vengono registrate rispettivamente nei vocabolari dialettali di Venezia e Milano e nei sonetti romaneschi di Belli, ma entrano nei dizionari italiani soltanto alla fine del secolo.
Oggi i ➔ dialettismi si identificano con voci da tempo entrate nell’italiano, di cui hanno assunto perfettamente la forma: tuttavia, accanto a termini la cui provenienza è rimasta abbastanza palese (cassata, iettatura, omertà, tortellini, stella alpina, bullo, paparazzo), tantissimi altri vocaboli, costrutti, locuzioni della lingua corrente sono registrati nei dizionari senza riferimento alla loro origine dialettale. Tali voci sono legate all’amministrazione, al paesaggio e all’ambiente naturale, alle arti e ai mestieri, agli atteggiamenti e ai modi di comportarsi, all’alimentazione e non appartengono soltanto – come spesso si sostiene – al vocabolario affettivo e basso.
Questo genere di regionalità non sempre è indicato nei dizionari: nello Zingarelli (2009), ad es., non appaiono – come invece sono – di varia provenienza regionale: passamontagna, fedina, risotto, pesto, stranito, capriata, netturbino, pelandrone, fesa, gondola, brasato. Anche il GRADIT, di solito più attento ad attestare la provenienza dialettale delle parole, talora non la rivela, sia nelle locuzioni (figlio della serva, restare in braghe di tela, per modo di dire, battere la fiacca, in soldoni, avere a che fare, cose da pazzi, nel contempo), sia nei lessemi e nelle accezioni (ballista «chi racconta frottole», bancarella, bastian contrario, pelare «sbucciare», casello, cenone, cernia, secondino, demanio, catasto, mondina, boiata, mezzadro, fiacca, birichino, bocciare, sfizio, dritto «furbo», pastetta, bolletta, sfondone, brufolo, bustarella, fetente).
Accanto ai dialettismi, ma di diverso rango, sono i regionalismi (➔ italiano regionale), i quali – sempre di origine arealmente ristretta – non si sono però estesi sull’intero territorio nazionale, ma circolano nelle varietà, soprattutto parlate, di raggio municipale o regionale; possono essere costituiti da significati locali di parole che esistono anche in italiano (ad es., in Val d’Aosta, cotoletta «bistecca con osso», a Modena e Reggio Emilia gnocco «elemento di pasta salata lievitata e fritta», in Sicilia mollica «pangrattato») o da voci locali che hanno un equivalente in italiano (ad es., nel settentrione paciugo «fanghiglia», in Veneto peoci «cozze», a Bologna sbuzzo «capacità»).
Rispetto a questo tipo di voci, i vocabolari registrano notazioni contraddittorie: posterìa «negozio di alimentari» è assegnato all’intera area settentrionale da Zingarelli (2009), alla sola Milano da GRADIT; pizzicherìa «salumeria» porta la marca d’uso «comune» in GRADIT e «centrale, settentrionale» in Zingarelli (2009) (ma non risulta in effetti diffuso nel Nord del Paese); sfuggono poi le ragioni per cui in GRADIT balocco sia qualificato «comune» e cafone «regionale». C’è anche da notare che GRADIT adotta una terminologia opposta a quella corrente, contrassegnando come «dialettali» parole molto connotate localmente (ad es., anolini «agnolotti» a Parma, caciara «confusione» e botto «esplosione, scoppio» a Roma (➔ Roma, italiano di) e «regionali» termini apparentemente meno marcati in tal senso (baccalà «stoccafisso» a Venezia, ballotte «castagne lessate» in Toscana, carpetta «cartella per documenti» nel Sud e a Bologna).
Le incertezze della lessicografia dipendono (cfr. Foresti 2002) dalla scarsezza ed episodicità di dati empirici e di riscontri specifici ricavati da fonti scritte non letterarie e da concrete produzioni linguistiche dei parlanti, in grado di accertare, oltre che l’effettivo significato, la diffusione e l’uso delle voci e/o una loro competenza passiva da parte degli abitanti della penisola e delle isole. Sarebbero necessarie conoscenze sicure ed empiricamente fondate su ampi corpora per individuare le aree di provenienza di voci e locuzioni italiane di origine dialettale (e rimangono da esplorare anche quelle sganciate da tale sostrato, ad es. i regionalismi caffè lungo a Roma e in altre parti d’Italia, caffè alto, ad es., a Firenze, caffè lento in Sicilia).
Può quindi risultare dubbia e incerta anche la distribuzione dei cosiddetti ➔ geosinonimi e geo-omonimi, rispettivamente termini geograficamente differenziati per indicare uno stesso concetto (come accompagno, trasporto, mortorio, ecc. per «funerale») e termini che hanno significati non standard in aree particolari (attaccapanni in alcune zone vale «gruccia appendiabiti», villa in Sicilia e in Puglia è «giardino pubblico»).
La persistenza di molti termini locali è messa in crisi dall’attività economico-commerciale e dalle mutate condizioni generali di vita; e altrettanto evidente è la debolezza di non poche voci toscane, regredite a regionalismi, benché alcune siano ancora riportate nei vocabolari come «comuni» (anello «ditale»; cencio «straccio», al plurale «dolci tipici del carnevale»; piattola «scarafaggio»; sciocco «insipido»). Su scala minore, si osserva anche una geo-omonimia degli stessi regionalismi, come dimostra la diversa evoluzione semantica dei lessemi fregno, che vale «abile, scaltro» in Abruzzo e «balordo, sciocco» a Roma e nel Lazio, e imbussarsi «bagnarsi, inzupparsi» a Ferrara, «scontrarsi (in auto)» a Bologna.
Nella lingua e in particolare nel lessico assistiamo a un movimento di forme da una periferia, più fluttuante, variata socio-geograficamente, non standard, a un centro, tendenzialmente unitario e standardizzato, e viceversa. Continui processi di riassestamento portano così nell’alveo della lingua comune vocaboli che hanno circolato a lungo nei nostri usi linguistici reali, pur sanzionati perché considerati devianti, e hanno sostituito ➔ arcaismi e forme non usate e non dotate di prestigio, spesso legate ad aree di esperienza non più comuni. La variazione lessicale si configura come un continuum, senza confini netti e con differenze minime tra ➔ varietà contigue. Lessemi appartenenti a grandi sezioni dell’italiano regionale o endemici nelle varietà locali sono in espansione o in regresso negli impieghi della popolazione, mediando tra le tendenze provenienti dalla periferia e l’➔italiano standard.
GRADIT (1999-2007) = De Mauro, Tullio (dir.), Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, UTET, 8 voll.
Zingarelli, Nicola (2009), Lo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli.
De Mauro, Tullio (1976), Storia linguistica dell’Italia unita, Roma - Bari, Laterza, 2 voll. (1a ed. 1963).
Durante, Marcello (1981), Dal latino all’italiano moderno. Saggio di storia linguistica e culturale, Bologna, Zanichelli.
Foresti, Fabio (2002), Aspetti e problemi della ricerca linguistica sull’alimentazione in Emilia-Romagna, in Saperi e sapori mediterranei. La cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici. Atti del Convegno internazionale (Napoli, 13-16 ottobre 1999), a cura di D. Silvestri, A. Marra & I. Pinto, Napoli, Il Torcoliere, 3 voll., vol. 2º, pp. 416-440.
Migliorini, Bruno (1960), Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni.
Zolli, Paolo (1986), Le parole dialettali, Milano, Rizzoli.