BALCANICA, REGIONE (A. T., 75-76)
Generalità. - La regione che comunemente è chiamata Balcanica, limitata a occidente dal Mare Adriatico e dall'Ionio, a Oriente dal Mar Nero, dal Bosforo, dal Mar di Marmara, dai Dardanelli e dall'Egeo, si attacca alla massa continentale europea lungo una linea che convenzionalmente è segnata dal corso del Danubio tra la foce e la confluenza della Sava, poi da questa fino alla confluenza della Kulpa, infine dalla Kulpa sino alla sua zona sorgentifera presso Ossiuniz, di dove il limite attraversa la linea di rilievi, paralleli alla costa orientale del Quarnaro, in quella parte più depressa che a mezzogiorno del Monte Nevoso segna il termine delle Alpi Giulie. Dentro questi confini l'area totale della regione misura circa 490.000 kmq. di superficie.
Non è, contro quanto si potrebbe credere, dato l'uso oramai corrente del nome, una regione ben definita. Il nome stesso, oggi generalmente seguito dai più, non ha dietro di sé una lunga tradizione, essendo stato preceduto da altri, come "Penisola Ellenica", o "Penisola Illirica" o "Romana" o "Bizantina", coi quali non si intendeva già di denominare la regione da un suo qualche carattere naturale o da una sua qualche popolazione, ma soltanto dalla lontana memoria, classicizzante, di un dominio o di una forma di Civiltà. I quali nomi dettero luogo successivamente ad altri, - come "Impero Ottomano d'Europa", o "Impero del Gran Turco", o "Turchia d'Europa", - nei quali è evidente l'assenza assoluta del concetto di vera e propria regione naturale: finché in tempi anche più moderni furono proposti nomi che si basavano o sopra la situazione geografica o sopra reminiscenze storiche o sopra condizioni etniche, come "Penisola Orientale", o "Orientale Romana", o "Slavo-Ellenica".
Questa incertezza della denominazione deriva appunto dalla mancanza di un elemento naturale qualsiasi, che serva a caratterizzare e definire la regione. Il nome stesso attualmente accettato deriva dalla errata concezione, che attraverso i secoli si è avuta, di una grande catena montuosa o Catena mundi, la quale si stendesse attraverso la regione da oriente a occidente, a separare una zona meridionale (Grecia, Macedonia più esterna, Tracia) più nota, da una settentrionale, quasi del tutto sconosciuta e ritenuta aspra e selvaggia, nel paese e nelle genti. Alla quale errata concezione si è aggiunto anche il nome, pure errato, tratto da un termine generico turco balcan, che significa "monte", ma che gli stessi Turchi non estendevano neppure alla catena oggi nota come quella dei Balcani.
Un altro comune concetto, che però è del tutto convenzionale, è quello che la regione balcanica costituisca una penisola: la sua base, in linea d'aria, può considerarsi lunga 1200 chilometri, mentre la lunghezza tra la metà della base medesima e il Capo Matapan - il punto più proteso nel mare - è di 900 km.; la base poi è costituita da una linea fluviale, e quindi da pianure, che non possono venire disgiunte da quelle che si trovano di là di quei fiumi, e con le quali esse formano tante tipiche unità naturali. Se si guarda anche alla forma complessiva della regione Balcanica, - tozzamente trasversa e trapezoidale tra la cosiddetta base e le coste settentrionali dell'Egeo, d'un tratto sottile e frastagliata e rotta nel suo contorno solo nella ulteriore sua parte meridionale, - pare evidente che soltanto a quest'ultima competa vero carattere di peninsularità: di continentalità alla prima. Né deve essere senza significato il fatto che gli antichi Greci chiamavano Epiro, - "kpeiros", cioè "il Continente", - quel territorio che stava alle spalle della Grecia più nettamente peninsulare.
Geologia. - Dal punto di vista geologico la Regione Balcanica può essere opportunamente suddivisa in tre grandi unità: il massiccio del Rodope, formante la parte centrale, la zona balcanica, che occupa il tratto orientale, e quella dinarica, alla quale spettano i settori occidentale e meridionale.
Cominciamo da quest'ultima, che per la sua struttura è talmente connessa con la catena alpina da apparire giustificata l'attribuzione di parte delle Alpi meridionali alla unità dinarica (Dinaridi).
I limiti delle Dinaridi entro la Balcania sono segnati dalla Sava, dal suo affluente Kulpa, dal mare (Adriatico, Ionio, Egeo) ed approssimativamente da una linea che, partendo dal Golfo di Salonicco attraverso i bacini del Vardar e della Morava, raggiunge il Danubio alla confluenza della Sava.
Le formazioni sedimentarie che prendono parte alla costituzione delle Dinaridi, sono in prevalenza dolomie e calcari del Mesozoico, ricoperti, lungo gli orli del bacino adriatico (Dalmazia, Albania, Grecia) e rispettivamente di quello pannonico (Bosnia), da calcari eocenici, ma soprattutto da una serie marnoso-arenacea (flysch) cenozoica. Gli affioramenti delle formazioni scistose più antiche invece, di gran lunga meno estesi, si presentano specialmente nell'interno della Bosnia e dell'Erzegovina; ma anche in aree più prossime all'Adriatico; p. es. nel Velebit e nel litorale dalmato a S. di Cattaro. Le masse eruttive entro le Dinaridi sono bene rappresentate soltanto da rocce serpentinose (Bosnia, Albania, ecc.) sul tipo di quelle dell'Appennino Settentrionale; non mancano però, anche se di minor entità, né le masse effusive melafiriche analoghe a quelle del Trias medio delle Dolomiti (p. es. Dalmazia meridionale), né i porfidi quarziferi permici (p. es. Bosnia), corrispondenti a quelli della grande piattaforma atesina. I massicci granitici poi anche qui sono localizzati entro la zona cristallina fra l'Albania e la Macedonia; mentre d'altra parte le trachiti recenti (cfr. gli Euganei) si presentano tanto in Grecia che in Bosnia. Ma alla zona dinarica l'impronta caratteristica viene data dagli estesi affioramenti di rocce calcaree, per cui nelle Dinaridi della Balcania il fenomeno carsico poté raggiungere uno sviluppo così tipico, quale si osserva in poche altre regioni della terra.
A grandi linee la struttura di questa unità è determinata da una serie di pieghe asimmetriche, spesso lacerate e rovesciate verso l'Adriatico. Il loro asse è diretto da NO. a SE., cioè decorre parallelo alla costa dalmata fino nei dintorni del Lago di Scutari, poi da N. a S. (Albania, Peloponneso) quindi da O. a E. (Creta), direzione questa che continua nell'Asia Minore. Cosi le Dinaridi della Balcania s'inseriscono da un lato nelle Alpi Meridionali; dall'altro nel Tauro.
Uno dei risultati delle recenti ricerche geologiche su questo tratto della regione è la constatazione della relativa persistenza dei tipi litologici e faunistici (costanza di facies) entro le singole formazioni da N. a S., persistenza che invece dà luogo ad un graduale cambiamento da O. a E. Sulla scorta dei dati strati grafico-paleontologici accertati è stata tentata una suddivisione delle Dinaridi in zone, per le quali viene messo meglio in evidenza il carattere unitario delle Dinaridi stesse e ad un tempo viene creata una base per efficaci raffronti con le singole zone delle Alpi meridionali, ciò che attualmente è materia di discussione fra i geologi. Queste zone rispecchiano le diverse condizioni d'ambiente nel grande bacino di sedimentazione (geosinclinale), nel quale durante il Mesozoico e il Terziario si sono accumulati i materiali che costituiscono gran parte delle Dinaridi. In conseguenza delle spinte che hanno accompagnato la loro emersione, i fasci di pieghe così formati si spostarono sempre più in senso orizzontale a partire dall'interno della regione verso l'Adriatico, per modo che, come risultato finale, si ebbero ricoprimenti ed accavallamenti delle zone emerse per prime sopra le altre. Questi movimenti si sono svolti lungo una fronte di parecchie centinaia di chilometri con avanzata di alcune diecine di chilometri. Uno dei territorî più complicati al riguardo pare sia quello del Lago di Scutari, dove l'originaria superficie subì imponenti riduzioni, presumibilmente in conseguenza del cambiamento di direzione delle pieghe.
Si può affermare quindi che lo stile tettonico delle Dinaridi, come quello delle Alpi e delle altre catene montuose del ciclo alpino, è dato da scorrimenti di masse, talora anche di notevole portata.
Dalla costa settentrionale dell'Egeo, ad E. del Golfo di Salonicco, si estende verso N. fino quasi al Danubio, e dal Vardar verso E. fino al Mar Nero, la seconda grande unità geologica della Balcania cioè il massiccio del Rodope, inteso in senso lato. Questo risulta costituito principalmente di un complesso di scisti cristallini attraversati da masse granitiche e coperti solo perifericamente da formazioni più recenti, in prevalenza arenacee. Degna di menzione e invece la parte che spetta qui alle rocce vulcaniche del Terziario. Infatti, mentre cospicue masse di trachiti, andesiti e tipi affini hanno iniettato il massiccio, altre non meno importanti per entità ne marcano i limiti tanto verso l'unità dinarica quanto verso quella balcanica. Il risveglio dell'attività magmatica, al quale sono legate queste eruzioni, è una conseguenza della orogenesi alpina.
Meno estesa delle precedenti è l'unità balcanica, diretta continuazione dell'arco carpatico, che alcuni fanno proseguire al di là del Mar Nero sulla Crimea, mentre altri più razionalmente vedono connesso con le catene del litorale pontico dell'Asia Minore.
L'unità balcanica, che occupa gran parte della Bulgaria, riceve a ragione il nome da quegli stessi monti, che impropriamente sono stati presi a simbolo di tutta la penisola. Le formazioni geologiche di cui risulta il sistema dei Balcani sono varie per età e composizione, e anche la loro distribuzione non ha quella relativa regolarità, che si osserva nelle Dinaridi. Bene rappresentato è il substrato cristallino con rispettivo rivestimento paleozoico. Anche qui il Permico è trasgressivo come entro l'unità dinarica; la trasgressione fu accompagnata e preceduta da eruzioni, specialmente di porfidi, e da intrusioni granitiche, legate all'orogenesi ercinica. Non mancano però i segni di un più antico corrugamento, messo in evidenza in particolar modo nel settore del Bosforo. Le formazioni mesozoiche, mentre fasciano il nucleo scistoso-cristallino dei Balcani occidentali, costituiscono da sole il rilievo dei Balcani orientali, dove le rocce prevalenti sono infatti calcari, marne arenarie e conglomerati del Cretacico ed anche del Terziario, attraversati da importanti masse trachitiche lungo il limite verso il Rodope e da piccole masse basaltiche verso il Danubio. I terreni più antichi, che affiorano al di sotto di questa serie, appartengono unicamente al Giurassico. Questa diversa composizione litologica la troviamo riflessa nelle forme e nell'altitudine dei monti per cui i Balcani centrali e occidentali offrono un paesaggio a creste elevate, mentre nei Balcani orientali le cime sono più basse e il modellamento meno aspro.
La suddivisione dell'unità balcanica in zone non risulta per ora così manifesta come in quella dinarica. Tuttavia dalla zona centrale, assiale, è possibile distinguere anche geologicamente un tratto esterno, settentrionale, e uno interno, meridionale. Come le Dinaridi così anche i Balcani sono un sistema di pieghe recenti, queste però sono dirette qui da O. a E. con movimenti verso O., che hanno dato luogo anche nell'unità balcanica a scorrimenti e ricoprimenti.
Tenendo presenti le linee fondamentali della struttura di tutta la regione, risulta manifesto che i due grandi sistemi a pieghe, dinarico e balcanico, nel loro andamento e sviluppo risentono della presenza del massiccio cristallino, che li separa. D'altro canto il Rodope nelle fratture che lo hanno colpito, segnando in tal modo la via d'uscita ad ingenti masse magmatiche, mostra le tracce di un tremendo urto, che ne ha sconquassato la dura compagine. L'interpretazione della funzione tettonica del Rodope durante l'orogenesi alpina non trova concordi i geologi; la meno forzata è forse quella di chi vede in questo massiccio uno scoglio avanzato dell'antico continente eurasiatico, travolto dall'ondata che, propagatasi dall'antica Tetide, s'infranse e s'arrestò definitivamente - e così sorse la barriera alpina - davanti agli altri massicci dell'Europa centro-occidentale, da quello boemo a quello iberico. Resta a vedersi fino a qual punto sia possibile un parallelismo tra il massiccio del Rodope e quello corso-sardo, accostamento che sotto molti aspetti non dovrebbe riuscire privo d'interesse.
La struttura geologica della regione balcanica si riflette, com'è naturale, nella distribuzione e nella qualità dei suoi giacimenti minerari (rame, zinco, piombo, cromo, antimonio, bismuto, ecc.), più abbondanti e varî entro e attorno al massiccio del Rodope, dove appunto il vulcanismo fu più attivo. Importanti sono però le mineralizzazioni legate alla zona delle serpentine, dall'Eubea alla Macedonia, alla Serbia, alla Bosnia. Le riserve di combustibili fossili sono accumulate specialmente entro i bacini terziarî (ligniti della Bosnia, della Dalmazia e della Serbia); non mancano però i litantraci entro le formazioni antiche della Serbia orientale, della Bulgaria e della Turchia europea; e neppure il bitume e l'asfalto (Dalmazia, Albania, Epiro), mentre d'altro canto la zona del flysch, tanto al versante adriatico (Albania) quanto al versante pannonico (Bosnia), pare racchiuda rilevanti quantità di petrolio. Le zone calcaree litoranee delle Dinaridi, specialmente in Dalmazia e Croazia, ma anche in Grecia, sono ricche di giacimenti di bauxite, per cui la Iugoslavia è in Europa uno dei principali produttori di minerale d'alluminio. I nostri non meno importanti giacimenti istriani sono la continuazione geologica di quelli. Si può accennare in fine all'abbondanza dei materiali da costruzione, in particolar modo delle pietre da cemento (Dalmazia) e dei marmi (Grecia).
Lineamenti orografici. - Se la Regione Balcanica appare essenzialmente caratterizzata dalla mancanza di un chiaro scheletro montuoso e anzi dal suo estremo frazionamento orografico, si possono però distinguere nella sua massa potente tre zone diverse, indipendentemente dalle pianure che ne costituiscono la base verso il rimanente d'Europa. Non si ha, infatti, lungo l'intero corso del Danubio e della Sava, una pianura o piattaforma unica, ma due, - una più occidentale, la pannonica, l'altra più orientale, la pontica, - divise da un breve tratto montuoso, nel quale il Danubio corre incassato dentro le strette rocciose delle Porte di Ferro. Qui, sulla sinistra del fiume, termina infatti il grande arco dei Carpazi e delle Alpi Transilvaniche, il quale poi sulla destra del fiume inverte, con ampia e dolce incurvatura, la direzione del suo asse e correndo parallelo al Danubio va a spegnersi con le sue ultime propaggini presso la costa del Mar Nero tra Varna e Burgaz, mantenendo abbastanza evidente la sua unicità di catena montuosa (Balcani). È la zona più orientale, che più propriamente può chiamarsi balcanica.
A occidente invece, alle spalle del Quarnaro e in continuazione delle Alpi Giulie, si attacca la lunga dorsale delle Alpi Bebie (o Velebiti) e delle Dinariche. Non si tratta veramente di una catena montuosa ben definita, giacché essa si espande lateralmente, verso l'interno, a costituire la estesa zona di altipiani della Croazia, della Bosnia, dell'Erzegovina, del Montenegro, nei quali si affondano tronchi di valli e bacini chiusi profondamente incisi. E questa la zona dinarica, la quale, a mezzogiorno del Montenegro, si prolunga nelle Alpi di Albania, poi nella massiccia regione del Pindo, la cui estrema continuazione può ritrovarsi nel rilievo montuoso del Peloponneso.
Tra queste due zone, - la balcanica e la dinarica, - se ne stende una terza o centrale, che s'inizia sottile a settentrione e va allargandosi verso l'Egeo: è il massiccio triangolo, nel quale la parte più orientale, con il Rodope ed il Rila, costituisce la zona montuosa più elevata e compatta dell'intera regione. Massiccio triangolo il cui sollevamento è antichissimo - in contrasto con le zone balcanica e dinarica, apportenenti al sollevamento alpino ben più recente - e quindi con una costituzione litologica e con un modellamento superficiale assai diversi che nelle altre due zone le quali lo serrano ai lati; per questi caratteri e per la sua posizione centrale esso ricorda gli antichi altipiani della meseta chiusi tra le montagne periferiche della regione spagnola. Non più dunque, in questa terza zona, andamento ben definito di catene montuose, ma un minuto frazionamento del rilievo, inciso da numerosi bacini, ampî e profondi.
Non bisogna però credere che la delimitazione orografica fra queste tre zone sia sempre ben netta: esse, anzi, appaiono talora così intimamente connesse, che la tripartizione ha significato geologico e tettonico e morfologico più che strettamente orografico.
Il frastagliamento delle coste, estremamente sviluppato nella Grecia e nel Peloponneso, il molteplice corteggio di isole che accompagnano quasi tutta la costa adriatica, la presenza di numerose ed ampie pianure costiere lungo l'Egeo settentrionale e lungo il Mar Nero, come d'altronde le pianure della Sava e del Danubio al limite settentrionale della Balcania, sono tutte condizioni che sembrerebbero offrire a questa, da tutte quante le direzioni, caratteri di facile penetrazione naturale. I caratteri principali della Balcania sono invece di isolamento e di separazione. Ciò può già trovare ragione nelle condizioni stesse della fascia costiera. La costa adriatica ha, sì, un molteplice corteggio di lsole; ma a poca distanza dal mare, oltre il breve zoccolo della Dalmazia, si leva l'alta muraglia delle Alpi Dinariche, caratterizzata da condizioni orografiche e morfologiche che hanno sempre costituito un ostacolo ed un impedimento a movimenti, a spostamenti, a rapporti di uomini. La costa egea ha grandi golfi profondamente incisi e ampiamente falcati; ma tra gli aspri promontorî rocciosi che li chiudono ai lati si aprono di solito basse pianure acquitrinose e malsane. E le stesse pianure lungo la base continentale della regione sono percorse da una grande linea fluviale, Sava-Danubio, la quale, se anche non impedisce i rapporti tra una riva e l'altra, forma però la linea d'attrazione per tutto il territorio che ad essa manda le sue acque, e cioè più che altro attira verso la base, cioè verso l'esterno della regione, tutte le correnti di attività umane comprese dentro i limiti del suo bacino idrografico: esercita, in altri termini, una funzione che è quasi opposta a quella di penetrazione dentro la massa della Balcania.
Ma anche questa - che appare dunque come isolata, nel suo complesso, verso le fasce periferiche dell'intera regione e quindi a maggior ragione verso l'esterno di questa - mantiene, dentro sé stessa, questi caratteri generali di separazione e d'isolamento, i quali si manifestano, qui, come un fenomeno più di dettaglio. Tranne infatti nella zona balcanica, dove una catena montuosa è abbastanza bene individuata, in tutto il resto il tratto orografico essenziale è dato da altipiani (zona dinarica) o da una zolla montuosa più profondamente degradata (zona centrale), nei quali cioè il rilievo presenta nell'insieme una certa uniformità di condizioni altimetriche complessive; nei quali pertanto un reticolo idrografico normale non appare stabilito, ma, o per fenomeni di erosione anormale (zona dinarica) o per fenomeni tettonici (zona centrale), si ha invece la molteplice presenza di bacini, fluviali talvolta, ma collegati da tratti di valle a forra, o addirittura chiusi, cioè depressi dentro la massa montuosa. Sì che ne deriva al paese quel tipico carattere di frazionamento orografico, che costituisce il tratto essenziale del rilievo della Balcania, e le dà anche quel carattere di isolamento, oltre che generale verso l'esterno, anche regionale tra le singole parti del nucleo interno, che ha avuto una sì grande influenza sopra i fatti umani - sociali, etnici e politici - della Balcania.
Se questo estremo frazionamento orografico è causa della molteplicità di piccole unità regionali, si possono distinguere nella Balcania alcune regioni naturali più complesse ed estese. Una prima distinzione è fra una parte meridionale od egea ed una settentrionale e ben più grande, alla quale è stato dato il nome di massa continentale: alla prima, che è limitata verso la seconda lungo una linea che va da Santi Quaranta sull'Adriatico sino al Golfo di Salonicco nell'Egeo, compete il caratteie di peninsularità. La catena del Pindo ne forma come la spina dorsale, che manda le sue propaggini ai due lati, dove esse costituiscono la molteplicità dei promontorî e degli sproni, pei quali anche la regione egea è cosi strettamente legata al mare e quindi all'esterno, mentre alla massa continentale si mantiene più o meno straniera: onde il riscontro che se ne può trovare nelle forme di attivita e nelle vicende storiche dei suoi abitanti.
Nella "massa continentale" la ben definita catena dei Balcani vale a distinguere due regioni diverse: la piattaforma del basso Danubio, e il bacino idrografico della Marizza (Marica). Ad occidente, ben caratterizzata appare la regione dinarica, coi suoi estesi altipiani. Nella zona centrale, si può distinguere una regione dei Vardar, o Macedonia, estesa tra Skoplie (Üsküb) e il mare; una più propriamente della Morava, e che può essere denominata dalla sua parte centrale o Šumadija, tra Niš e il Danubio; ed una intermedia, corrispondente presso a poco al nucleo dell'antico regno serbo della Rascia e che per ciò è nel suo complesso chiamata Vecchia Serbia.
Idrografia. - Come conseguenza del frazionamento generale del rilievo e della mancanza, nell'intera Balcania, così di una sua base montuosa come di un suo asse pure montuoso, anche il reticolo idrografico appare - se considerato nelle sue grandi linee - irregolare e in certo modo frazionato. Il Danubio - uno fra i massimi corsi d'acqua dell'intera Europa - spetta, sì, alla Balcania, ma solo in quanto ne costituisce il confine convenzionale ed in quanto riceve i fiumi che dalla zona dinarica, dalla Šumadija e dai Balcani corrono verso settentrione. Ma la sua grande massa d'acqua ha una origine ben lontana, ed il suo regime tra Belgrado e la foce dipende essenzialmente da quello dei fiumi alpini e dell'Europa centrale che lo originano, secondariamente da quelli scendenti dalla cerchia dei Carpazî e delle Alpi di Transilvania. Esso quindi si può considerare non più che come il livello di base, al quale scendono le acque del versante settentrionale della Balcania: scarse nel complesso, per il carattere carsico della zona dinarica e per quello steppico di parte, almeno, della piattaforma del basso Danubio e dell'intera Dobrugia. Insignificanti sono i corsi d'acqua che dalle propaggini orientali dei Balcani scendono direttamente al Mar Nero, influenzati dalla natura steppica di questa zona: la Provadia, ad esempio, che sfocia al mare presso Varna, termina con un caratteristico liman, richiamando cioè i caratteri dei fiumi della Russia meridionale.
Un reticolo idrografico povero e rado, come la zona propriamente dinarica, ha anche la fascia dalmata: quando si escluda la Narenta, che scende giù dagli altipiani della Erzegovina, Zermagna (Zrmanja), Cherca (Krka) e Cetina sono i soli fiumi meritevoli di questo nome. Più numerosi - principali lo Shkumbî, il Semeni e la Voiussa - quelli che scendono dalle Alpi Albanesi, e anche più ricchi d'acqua; mentre caratteri nuovamente di generale povertà idrografica ha la regione egea, dove soltanto l'Aspropotamo nel versante ionio ed il Peneo in quello egeo portano giù dal Pindo una massa d'aiqua poco più che mediocre: tutti gli altri fiumi hanno regime torrentizio, con portata minima o sono asciutti addirittura nella lunga stagione estiva. Solo il versante egeo della massa continentale ha corsi d'acqua veramente ricchi, principali il Vardar e la Marizza, accanto ai quali sono la Mesta, lo Struma. (Stroũma) e la Vistrizza; e la loro importanza viene anche accresciuta dalle frequenti cadute che, specialmente nella zona macedone occidentale, vi sono state determinate da recenti movimenti tettonici.
La generale povertà idrografica, se nella zona più strettamente balcanica può stare in rapporto con caratteri steppici che questa presenta, nella zona dinarica e nella regione egea dipende dai così diffusi caratteri carsici. Nella regione egea l'idrografia carsica è, più che altrove, rappresentata nella sua parte più orientale, tra l'Attica e la Tessaglia, dove il rilievo è dato da una serie di ampî bacini chiusi, nei quali le scarse acque superficiali spariscono nel sottosuolo per mezzo di caratteristici sprofondi detti katavothrai. Ma nella zona dinarica e nella dalmata non vi è altra idrografia che non sia di tipo carsico: la grande povertà del reticolo superficiale ne è già un segno, come la relativa abbondanza di acque che i fiumi portano presso alla foce, alimentati da ricche vene sotterranee, sorgenti solo presso il livello del mare. Ne sono segno anche la generale aridità della regione, e le poche acque scorrenti nei fondi argillosi dei maggiori avvallamenti, ma poi inghiottite dai ponor; e ne è segno la rarità, ma anche la relativa ricchezza di portata delle sorgenti, uscenti di solito nelle più notevoli depressioni o incisioni del rilievo per l'ampia bocca di grotte e di caverne come sfogo alla complessa circolazione sotterranea..
L'idrografia lacustre si può dire rappresentata soltanto da due tipi di laghi: alcuni sono legati all'irregolare azione di deposito di alcuni fiumi, specialmente in piane costiere - così dell'Albania, come della Macedonia - in modo che le piane stesse non presentano ancora un loro definitivo assetto idrografico, con formazione, appunto, di laghi grandi o mediocri ma soprattutto di estese zone acquitrinose. Ma, oltre a questi specchi lacustri alluvionali, si trovano, nella Balcania, taluni laghi in grandi bacini carsici, come quello di Scutari, e quello di Vrana in Dalmazia, e i numerosi della zona occidentale macedone, di Ochrida, di Prespa, di Corizza, di Drenovo, di Ostrovo (Ostrovoũ límnē) e di Castoria (Kastorías límnē) ciascuno dei quali occupa il fondo d'uno dei numerosi bacini, chiusi o no, nei quali il rilievo è frazionato.
Clima. - I caratteri, così varî, dell'idrografia della Balcania, dipendono certo dalle altrettanto varie condizioni orografiche, e in parte risentono l'influenza della diversa costituzione litologica, tanto più quanto l'estensione di terreni calcarei e quindi del carsismo è localmente sì grande da assumere importanza regionale. Essi non sfuggono però neanche all'influenza delle condizioni climatiche, le quali nell'intera regione presentano variazioni grandissime, se non altro per la sua situazione slanciata in mezzo al Mediterraneo, ma aperta verso l'Europa centrale ed anche largamente comunicante verso l'Europa sud-orientale. Tre tipi di climi diversi vengono dunque a contatto, e si verificano ora nei loro caratteri puri, ora modificati per le influenze reciproche.
Tutta la regione egea, salvo che nelle parti più interne e più elevate del Pindo, ha un clima tipicamente mediterraneo: estate secca con alte temperature e forte evaporazione; inverno mite con nevi e geli rarissimi; primavera ed autunno con violente piogge; generale serenità del cielo e chiarezza dell'atmosfera.
La piattaforma del basso Danubio è invece completamente fuori delle influenze climatiche del Mediterraneo: nella sua parte orientale, come nella Dobrugia che la continua a settentrione, e nella Strangia (Strandža) che la continua a mezzogiorno, domina un tipico clima di steppa; dal quale per gradi si passa a un eccessivo clima continentale nella parte più occidentale, con estati ardenti che sembra brucino tutte le erbe e le colture dei piani.
Ancora più complesse appaiono le condizioni climatiche del bacino della Marizza, giacché se la sua parte che è ad oriente dell'Erghene risente del clima steppico della prossima Strangia, e se le coste egee non possono sottrarsi all'influenza del Mediterraneo, la potente massa del Rodope che giunge fino al mare, fa estendere fino a questo il clima continentale della zona più interna. Solo per le bassure dell'Erghene e della Marizza il clima mediterraneo penetra sino a Filippopoli: non già puro, ma modificato dai caratteri climatici eccessivi delle vicine zone montuose. La stessa Macedonia costiera, se pure non può sottrarsi alle influenze climatiche del Mediterraneo, non presenta il tipico clima della regione egea: l'inverno è più rigido, con nevi e geli più frequenti, con venti settentrionali violenti e freddi, con grande umidità relativa; il passaggio dall'inverno all'estate è rapido, e allora intervengono venti di SO. ricchi di vapor d'acqua e piogge discrete.
All'altro estremo della zona centrale, la Šumadija ha il clima eccessivo, tipicamente continentale, del bacino pannonico, almeno nella sua parte più settentrionale; più a mezzogiorno, dove il paesaggio si rialza, le piogge sono piû abbondanti e ripartite in tutte le stagioni, l'autunno è lungo, mite e umido, con leggiere nebbie, e l'inverno caratterizzato da un violento vento settentrionale, freddo e secco.
La Vecchia Serbia ha nel complesso un clima simile a quello della Šumadija più meridionale, ma con estate più calda; i suoi bacini occidentali, in relazione con l'altezza raggiunta dal rilievo montuoso e con la vicinanza all'Adriatico, hanno precipitazioni più abbondanti, ed una estate più corta per la frequenza delle piogge e la nebulosità del cielo, un autunno chiaro, e un lungo inverno.
Le stesse condizioni si continuano ancora ed anzi sembrano esagerarsi negli alti bacini della Macedonia occidentale: piogge e nevi abbondanti, inverni più freddi, estati meno calde. Invece il bacino del Vardar vede insinuarsi nella gran vallata, sino quasi a Veles, un clima che richiama quello mediterraneo della fascia costiera, modificato dai caratteri di continentalità dei prossimi monti.
E il clima mediterraneo risale, dalle rive dell'Adriatico, le vallate albanesi fin presso alla zona delle massime elevazioni, e nella zona dalmata si estende a tutto il basso zoccolo costiero, arrestandosi alla muraglia delle Alpi Bebie e Dinariche, le cui cime sono localmente caratterizzate da piogge straordinariamente abbondanti ed anche, nelle parti più alte, da nevi frequenti, mentre, al di là, gli altipiani carsici della Croazia, della Bosnia, dell'Erzegovina e del Montenegro hanno un clima eccessivo, con un contrasto, rispetto alla prossima zona dalmata, così accentuato come non è possibile riscontrarne uno uguale altrove su tutta la superficie terrestre (V. Tavv. CLXXXIII-CXC).
Flora e vegetazione. - Lo sviluppo delle coste e le numerose isole, l'altezza dei rilievi ospitanti una doviziosa flora alpina, la minore devastazione operata dal fenomeno glaciale rispetto alle Alpi, la più debole influenza antropica, la posizione stessa fra l'Asia occidentale, l'Europa media e i territorî centrali del Mediterraneo da cui ha ricevuto, ma a cui ha pur dato tipi di irradiazione orientale pur trattenendone molti nel suo seno, fanno della vegetazione della Balcania, presa nel suo complesso, la più ricca dell'Europa, una delle meglio conservate, notevolissima per endemismi e per specie ad aree disgiunte, piena di sorprese per gli esploratori dell'avvenire come lo fu già per quelli di un passato del resto recente.
Essa comprende anzitutto una frangia di macchia mediterranea composta di arbusti sempreverdi (i più comuni: Iuniperus oxycedms e phoenicea, Phillyrea media, Olea oleaster, Arbutus unedo, Myrtus communis, Pistacia lentiscus, Rosmarinus officinalis, Erica arborea, verticillata e multiflora, quattro specie di Cistus) e da alberi rimpiccioliti dal substrato arido, quali il carrubo (Ceratonia siliqua), il leccio (Quercus ilex), la coccifera (Q. coccifera), che normalmente è un arbusto, l'imperfettamente sempreverde Q. macedonica che compare nella Dalmazia meridionale, la vallonea (Q. aegilops) che s'incomincia a trovare nell'Albania meridionale ecc.; ma vi si mescolano pure arbusti caducifogli, qual Pistacia terebinthus, Paliurus spina-Christi, Punica granatum, Colutea arborescens, Cytisus (Petteria) ramentaceus, Rhus cotinus, Cercis siliquastrum, e, quando questi si rendono predominanti, la macchia diventa, secondo il nome proposto dall'Adamović, "pseudo macchia"; in questa seconda assume grande sviluppo la Quercus macedonica già sopra nominata. La tipica macchia raggiunge una quota compresa fra 300 e 600 m., ma la supera in più luoghi della Grecia, dove si può trovare sino ad 800 m. e più; il leccio fu segnalato nell'Albania centrale sino a 1300-1400 m. (Baldacci); ma in generale, con l'elevarsi in altitudine e con l'internarsi nei solchi vallivi, la formazione si va impoverendo dei tipi più sensibili, aumenta il numero degli arbusti a foglia caduca e la macchia si trasforma nella pseudomacchia e l'una e l'altra, specialmente in vicinanza della costa, si trovano a costituire il sottobosco dei querceti ed analoghe formazioni forestali. Nel senso della latitudine, le coste orientali del Quarnaro mancano di tipi sempreverdi o questi vi sono affatto sporadici, mentre cominciano ad affermarsi come consorzio in alcune delle isole e di queste nelle esposizioni più favorevoli, e sono poi riccamente rappresentati nella Dalmazia specialmente centrale e meridionale e in tutte le isole, nelle quali la macchia mediterranea costituisce la formazione prevalente e per alcune si può dire l'esclusiva; nella zona erzegovino-montenegrina il consorzio si inquina di molti tipi a foglia caduca e spesso si presenta nella facies di pseudomacchia; non manca ed anzi si rinforza nella zona che va dalla linea Dulcigno-Scutari sino a Valona, ma il paesaggio, essendo la costa in prevalenza bassa, è dominato da formazioni dunicole ad Eryngium maritimum ed Echinophora spinosa, e lagunari con Salicornia ed altre specie di luoghi umidi e salati; per evidenti condizioni climatiche la macchia vigoreggia e si espande nell'Epiro e più ancora in Grecia e nelle isole dell'Egeo dove si arricchisce di altri elementi (es. Arbutus andracne), torna ad impoverirsi, e si localizza solo nei settori privilegiati, nel litorale bagnato dall'Egeo del nord, in quello del Bosforo e Mar di Marmara, manca in quelli del Mar Nero, dove è sostituita da formazioni, pure di origine mediterranea, di cui diremo in seguito.
Alla vegetazione del litorale illirico-balcanico-greco concorrono consorzî boschivi formati da querce caducifoglie (Q. lanuginosa, cerris, pedunculata), sole o in consociazione con il frassino da manna (Fraxinus ornus), Acer monspessulanum, Carpinus orientalis, Ostrya carpinifolia, Celtis australis. Tali consorzî, detti anche boschi misti (Adamović) o boschi carsici (Beck) diventano più abbondami nel retroterra; e vi sono anche boschetti d'alloro (Laurus nobilis) e di leccio.
Boschi a base di pino nero od austriaco (Pinus nigra) si trovano in qualche settore della Dalmazia meridionale e in qualcuna delle prospicienti isole, con sottobosco di sempreverdi mediterranei; qilivi anche il pino di Aleppo (P. halepensh) dà luogo a formazioni forestali abbastanza estese così pure il pino da pignoli (P. pinea), spontaneo nel Peloponneso occidentale mentre altrove fu introdotto dall'uomo. Interferente con la macchia e pseudomacchia e con le formazioni forestali suddette, ma più spesso in sostituzione delle prime due, si trova la boscaglia, a cui l'Adamović ha dato il nome complessivo (desunto dalla toponomastica locale), di "formazione a šibljak" (cespugli ad arbusto): essa è costituita da arbusti a foglia caduca che hanno largo sviluppo specialmente nella zona orientale della regione, e assume facies diverse a seconda del prevalere di questo o quell'arbusto; si ha così lo šibljak a Paliurus, a Cotinus, a Syringa, a Petteria (Cytisus ramentaceus), a Cercis, a Chamaecerasus, ad Amygdalus (A. nnna), a Punica (il melograno diffusissimo nella Balcania), a Berberis, a Forsythia e precisamente a F. europaea Bald., unico rappresentante in Europa di un genere che conta altre due specie nell'estrema Asia orientale, scoperto dal Baldacci nell'Albania settentrionale, e precisamente nella Mirdizia, ai limiti estremi della macchia mediterranea o più esattamente della pseudomacchia.
Dove il terreno è più sterile e si fa sassoso, avviandosi a diventare rupe, svariati suffrutici si riuniscono a formare quella che il Beck ha chiamato la brughiera carsica, nel seno della quale si affermano vaste associazioni di labiate aromatiche, di cui le più frequenti sono la comune salvia (Salvia officinalis) ed altre specie di questo genere, la Phlomis lanata ecc., che costituiscovo le Tomillares molto sviluppate in Grecia; e consorzi di suffrutici spinosi, specialmente in Grecia ed isole Egee e nella Balcania sud-orientale, dei quali le due specie più rappresentative sono il Poterium spinosum e l'Astragalus thracicus, le cosiddette associazioni Phrygana che raggiungono il più rigoglioso sviluppo negli altipiani stepposi dell'Asia anteriore; ma vere steppe con predominio di graminacee (parecchie Stipa, Chrysopogon gryllus, ecc.) coprono vaste pianure della Tracia e della Rumelia orientale e ricordano la puszta dell'Ungheria.
Procedendo verso l'interno della penisola e salendo a quote più elevate, i consorzî che abbiamo sin qui descritti cominciano ad assumere una fisionomia centro-europea, rivelata dal predominio dei querceti; di questi ricordiamo quelli costituiti in prevalenza dalla rovere (Q. sessilis o sessiliflora), dalla farnia (Q. pedunculata e dalla sua varietà Q. bratia Ten.), dalla quercia di Ungheria (Q. farnetto Ten.) e dalla Q. pseudo-suber. La quercia d'Ungheria è diffusa soprattutto in Serbia, Slavonia e Banato, donde raggiunge da un lato la media Ungheria e dall'altro la Valacchia e la Bulgaria, e scende sino alla Dalmazia meridionale e al Montenegro. La Quercus pseudo-suber forma associazioni omogenee nell'Albania centrale, mentre altrove è sporadica. Fra le essenze rare, ma per ciò stesso importanti, citiamo il Platano (Pl. orientalis) che si trova specialmente lungo i boschi di sponda, il noce (Iuglans regia), spontaneo nei boschi della Macedonia, Grecia e Bulgaria, il castagno d'India (Aesculus hippocastanum), così detto per avere i suoi prossimi parenti nell'Asia orientale, che cresce in qualche punto dell'Albania centrale (Acroceraunia), Epiro, Tessaglia e Bulgaria: tutti e tre completamente isolati nella flora europea. Alla zona delle querce appartengono pure i boschi di pino nero, piuttosto rari in Serbia, estesi in Bosnia ed Erzegovina specialmente nei suoli silicei; in questi ultimi sono quasi sempre localizzati il castagno ed i castagneti (m. 600-1200).
Al disopra dei 1200 m. (quota assunta, naturalmente, come valore medio), si inizia la zona montana, caratterizzata anzitutto dal faggio, che si spinge sino a 1750-1800 m., e dall'abete bianco (Abies alba), che in generale si arresta ad una quota un po' più bassa: essi formano associazioni pure, ma più spesso si mescolano assieme; nel consorzio entrano pure Fraxinus excelsior, Acer pseudoplatanus ed A. platanoides, Carpinus betulus, Betula alba ecc., più raramente il pino nero e il pino di Scozia (P. silvestris). L'abete bianco, a quote più elevate, è sostituito dall'abete rosso (Picea excelsa) e da altre interessanti conifere, quali: Pinus leucodermis Ant. (P. Heldreichii Christ.), che sino ad alcuni anni fa era ritenuto endemico della Balcania, ma fu poi trovato in qualche settore dell'Appennino meridionale, e che si rinviene nella zona silvatica più elevata della Bosnia, Erzegovina e Montenegro sino ai confini con l'Albania, (gruppo montuoso del Kom) ed inoltre in qualche punto della Dalmazia; P. peuce Gris., che cresce in Bulgaria, nella Rumelia orientale, in Macedonia (dove fu scoperto dal celebre fitogeografo Grisebach) ed in qualche settore del confine albanese-montenegrino; finalmente la Picea omorica Willk., l'isolato abete che ha i suoi prossimi parenti nel Giappone e nell'America del Nord e che nel tardo Quaternario visse sulle Alpi Orientali ed in Sassonia, mentre ora è confinato nella Balcania, dove dalla catena del Rodope, attraverso la Serbia, raggiunge la Bosnia orientale. Meritano pure ricordo altri due abeti che, del resto, scendono a quote più basse: l'A. Boris regis Mattf., che si trova nella catena centrale del Rodope, nella Tessaglia e nell'isola di Taso, e l'A. cephalonica Loud. (A. Apollinis Link.; A. Reginae Amaliae Heldr.) che si trova nelle isole di Cefalonia ed Eubea, nonché in quasi tutti i monti della Grecia ed in qualche distretto della Macedonia e dell'Epiro dove i primi abeti si trovano ad 850 m. ai confini della macchia mediterranea (Baldacci). Si ha dunque una ricchezza di essenze aghifogliari maggiore che nelle Alpi, ed alcune di esse anzi, con le estreme faggete, contraddistinguono una zona che l'Adamović chiama prealpina, che si spinge sino a 1900-2000 m.; a questa succede la subalpina, caratterizzata dalla mancanza di boschi, da cespugli ramosi (Rhododendron, Vaccinium, Brukentalia ece.), da piccoli alberi a legno contorto (Pinus mughus, pumilio ecc.), da alberi rimpiccioliti e cespugliosi (faggio, abete ecc.), da ampie distese di pascoli montani e di rupi: tutto ciò con perfetto parallelismo di quanto si constata nelle Alpi. Meno sviluppata e limitata solo alle cime più elevate è la zona alpina o, come la chiama l'Adamović, subnivale, ricca, come la precedente, di specie endemiche che le imprimono una spiccata individualità; ma più ancora che per le Alpi si può asserire che nessuno dei suoi componenti trova nella Balcania il suo limite climatico assoluto. Del resto l'impronta endemica e la presenza di specie ad area saltuaria e con remoti collegamenti si ritrovano nella penisola balcanica in tutte le zone e si può dire in quasi tutte le formazioni vegetali. Si è ricordato qualche albero e qualche arbusto; qui si aggiungono, fra le piante erbacee, i generi Ramondia ed Haberlea, i soli rappresentanti in Europa della famiglia delle Gesneriacee (tribù Ramondiee) con una sola propaggine nei Pirenei (R. pyrenaica), mentre i generi affini vivono nei tropici; il genere Wulfenia con una specie, W. carinthiaca, nelle Alpi Orientali e nel Montenegro, un'altra, W. Baldaccii Deg. nell'Albania settentrionale e poi W. orientalis Boiss. in Siria e W. Amherstiana Benth. nell'Asia centrale; il gen. Cleomte con la sola specie europea, Cleome aurea Celak., mentre le altre sono proprie delle regioni subtropicali dell'Asia, Africa, America ecc.
I territorî balcanici si sono dimostrati accessibili a svariate colture, specialmente nella zona inferiore, rivestita, come si disse, dalla macchia mediterranea e da affini consorzî: quasi dovunque (fatta eccezione dei territorî più orientali) vi si trova l'olivo, il cui limite superiore, da un minimo di 100-150 nella Dalmazia settentrionale, raggiunge i 400 m. in quella meridionale; esso si trova in tutte le isole dalmate che riveste fittamente, mentre è più raro lungo la costa montenegrino-albanese, dove si trova sino a 500-600 metri; ripete la sua introduzione dai tempi veneti; presenta un limite superiore medio di 520 m. in Grecia (Koch), ma non sempre né dovunque i suoi limiti coincidono con quelli, del resto molto fluttuanti, della regione dei sempreverdi, e può trovarsi anche dove questi non esistono o sono sporadici. Nella stessa zona è pure coltivata su larga scala la vite, che si spinge sino alla zona submontana o dei querceti; questa rappresenta pure il limite della coltura del fico, mentre le Auranziacee sono confinate nella Dalmazia meridionale, nell'Albania del sud ed in Grecia, ma sempre in scarsa quantità. La Balcania è pure ricca produttrice di cereali (grano, segale, orzo, avena ecc.), che dalle fertili pianure si spingono sino a 1300 m.; a 1400-1450 m. giungono campi di segale e di mais e la coltura della patata; il grano saraceno è esclusivo dei paesi montuosi alle quote sopra indicate. Delle piante industriali ricordiamo il piretro insetticida (Chrysanthemum cinerariaefolium) che si trova spontaneo, ma è anche coltivato nella Dalmazia, dove pure si sfruttano piante provviste di olî essenziali, la canapa, il lino, il cotone; su scala più vasta e coltivato il tabacco nella Dalmazia del sud, Erzegovina, Montenegro, Bulgaria, Rumelia orientale, Tracia e Serbia, il sesamo nella Rumelia e Tracia. Sono famose le colture della rosa da essenze in Bulgaria, già ricordate da Erodoto.
Bibl.: R. de Visiani, Flora dalmatica, I, Lipsia 1842; II, 1947; III, 1850-1852, e Supplementum, 1872 e 1878; A. Grisebach, Spicilegium florae rumelicae et bithynicae, Brunswick 1843-44, I-II; E. v. Halácsy, Conspectus florae graecae, I-III, Lipsia 1901-04; G. Beck v. Mannagetta, Die Vegetationsverhältnisse der illyrischen Länder, ecc., Lipsia 1901; L. Adamović, Die Vegetationsverhältnisse der Balkanländer, Lipsia 1909; id., Die Pflanzenwelt Dalmatiens, Lipsia 1911; id., Die Pflanzenwelt der Adrialänder, ecc., Jena 1929; A. Baldacci, Itinerarî albanesi (1892-1902), a cura della R. Società geogr. ital., Roma 1917; id., L'Albania, Roma 1929; M. Koch, Beiträge zur Kenntniss der Höhengrenzen der Vegetations im Mittelmeergebite, Halle 1910.
Fauna. - La fauna della Regione Balcanica è m0lto ricca e interessante, sia per il numero rilevante di specie proprie, sia per la persistenza in essa di elementi scomparsi da gran parte dell'Europa, sia anche perché fino ai suoi territorî si estendono gruppi tipicamente asiatici o africani.
Degno di menzione è anzitutto lo sciacallo (Canis aureus), che è diffuso nell'Africa e nell'Asia meridionale e sud-occidentale ed in Europa è limitato alla penisola balcanica donde ascende fino alla Dalmazia. Interessante è pure la presenza della lince pardina (Lynx pardina), che si trova peraltro anche in altri paesi dell'Europa meridionale.
Gli Spalacidi, roditori localizzati nell'Africa orientale, nell'Indocina, a Sumatra, nelle terre più orientali bagnate dal Mediterraneo e in quelle che circondano il Mar Nero e il Caspio, hanno un rappresentante nelle terre balcaniche orientali e nella Morea.
Il cinghiale (Sus scrofa), il cervo (Cervus elaphus), il daino (Dama dama) vivono numerosi nella penisola balcanica. Nell'isola di Creta e ad Antímélos (una delle Cicladi) vive selvatica la capra del Bezoar (Capra aegagrus); mentre la pecora selvatica (Ovis orientalis) non esiste che nell'isola di Cipro con la sottospecie ophion, la più piccola delle pecore selvatiche.
Gli uccelli dei paesi balcanici presentano sovente caratteristiche asiatiche. Ne citeremo alcuni: lo storno roseo (Pastor roseus), dal caratteristico ciuńo sul capo, che si estende dalle Indie Orientali fino alla Siria, all'Arabia, all'Asia Minore e alla Tracia; il canapino pallido (Hypolais pallida) dell'Africa settentrionale, dell'Asia sudoccidentale e dell'Europa sud-orientale; la Locustella fluviatilis, propria dell'Europa orientale, dell'Asia Minore, della Siria e della Palestina; una forma caratteristica di sordone (Accentor collaris subalpinus); l'aquila orientale (Aquila orientalis), propria dell'Europa orientale e dell'Asia; l'aquila minore (Nisaëtus pennatus), presente nell'Africa, nell'Asia centrale, meridionale ed occidentale, nell'Europa sud-orientale e in Spagna; l'astore levantino (Accipiter brevipes) dell'Africa settentrionale, dell'Asia sud-occidentale e dell'Europa sud-orientale; la casarca (Tadorna casarca) dell'Asia centrale e meridionale, dell'Africa settentrionale e dell'Europa sud-orientale, soprattutto della Romania e Bulgaria.
La fauna dei rettili è caratteristica forse più d'ogni altra. Oltre la testuggine greca (Testudo graeca) non esclusiva della regione, vi è la Testudo marginata propria della Grecia e la Clemnys caspica limitata alla penisola balcanica e all'Asia Minore. Fra le lucertole notiamo due specie esclusivamente balcaniche di Algiroides, genere che comprende ancora una specie sardo-corsa e tre specie dell'Africa orientale; il Tropidosaurus algirus, che si rinviene anche nella penisola iberica e nell'Africa nord-occidentale; l'Ophiops elegans in comune con l'Asia sud-occidentale e l'Africa nord-orientale; il caratteristico Gymnodactylus geccoides, e varie altre specie. Tra i serpenti notiamo la presenza, esclusiva per l'Europa, di un rappresentante dei Typhlopidae che hanno costumi sotterranei: esso è il Typhlops vermicularis.
Etnografia. - La Balcania costituisce, come poche altre regioni, un chiaro esempio di come i fatti umani dipendono strettamente dalle condizioni naturali di quello spazio della superficie terrestre sul quale essi si svolgono.
Poco si sa di quelle che furono le genti originariamente abitatrici della Balcania; né lo studio antropologico delle genti attuali può portare luce su tale argomento. Certo che qui, in contrasto con quanto si osserva in Italia, il tipo mediterraneo appare soltanto scarsamente rappresentato, mentre prevale di gran lunga il tipo dinarico (alpino). I caratteri somatici e facciali delle genti balcaniche mostrano la fusione di altri tipi ancora, così nord-europei come asiatici. Ma quello che più interessa si è che da un lato gli Albanesi, i quali sono comunemente ritenuti come i più diretti e forse i più puri discendenti della originaria popolazione dell'intera regione, cioè della popolazione che i Romani chiamarono illirica, appartengono antropologicamente al tipo dinarico; da un altro lato gli antichi Elleni, prima che raggiungessero il culmine del loro primato culturale e politico, sembra già avessero una larga commistione di sangue con lo stesso tipo dinarico. I quali due fatti provano dunque come sia difficile stabilire i caratteri dei primitivi abitatori della Balcania, e come, ad ogni modo, già nei tempi che si possono chiamare preistorici anche se di essi si sono scoperti resti gloriosi, fossero avvenute larghe commistioni di tipi antropologici diversi. Ciò che era facilitato dalla situazione della Balcania e dai suoi caratteri naturali, i quali permettevano, anche se non sempre né per tutto facilmente, la penetrazione di genti così dall'Europa centrale ed orientale come dalla prossima Asia attraverso al mare ed ai facili ponti insulari.
Questi remotissimi rapporti con l'Asia possono essere provati dal fatto che di qui vennero molti dei cereali, varie piante tessili, molti frutti, l'uso dell'aratro, forse anche il tipo dell'alimentazione: insieme ai quali mezzi per la vita materiale, possono ben essere giunte anche vere correnti etniche. Le stesse civiltà preelleniche - la egea e la micenea - si svilupparono parallelamente sulle due coste opposte ed ebbero rapporti, attraverso al mare, con la Siria, con la Palestina, con l'Egitto; ma non penetrarono, invece, dentro la Balcania, per gli ostacoli che questa naturalmente opponeva alla penetrazione. Lo stesso avvenne quando poi si sviluppò la gloriosa civiltà degli Elleni: la quale si diffuse lungo tutte le coste, della Balcania, dell'Asia Minore, dell'Italia meridionale, della Sicilia e di regioni anche più lontane, ma non riuscì mai a penetrare dalla sua sede, la regione egea, nella massa continentale della Balcania. Era, d'altronde, una civiltà di carattere essenzialmente culturale, non accompagnata da iniziativa o potenza politica e militare tali da superare con la forza materiale gli ostacoli frapposti da paesi o da genti.
Altro carattere ebbe la civiltà dei Romani, che fu anche politicamente e militarmente dominatrice. Ed i Romani, infatti, cominciarono col penetrare nella Dalmazia per combattervi alcune bellicose tribù, e la conquistarono; poi penetrarono anche nell'interno, con le loro milizie, poi con i loro coloni, numerosi però soltanto in Dalmazia e lungo tutto il Danubio, scarsi e dispersi altrove. Ma insomma romanizzarono tutta la regione, e per quattro secoli la dominarono, portandovi, con la loro lingua, anche la loro civiltà superiore.
Tra il sec. IV e l'VIII si svolsero le immigrazioni barbariche nella Balcania: Celti e Goti, Unni ed Avari s'inseguirono e si sovrapposero, dalla zona alpina e dalla pianura pannonica: furono essenzialmente orde guerriere, che pur lasciavano qualche stilla del loro sangue, sparendo poi dopo il loro passaggio travolgente. Ma le vere e grandì modificazioni etniche si iniziarono verso la fine del sec. VI, quando incominciò l'immigrazione, da prima lenta, poi impetuosa, delle genti slave, provenienti dalle piattaforme a settentrione dei Carpazî, dalla Galizia, dalla Volinia, dalla Podolia. Parte di queste popolazioni slave vissero sotto l'impero bizantino, spesso combattendolo, ora vincendone le soldatesche, ora vinte da queste; parte furono sottoposte da altre genti barbariche, come ad esempio gli Avari, che le avevano precedute nella invasione; le più vivevano, insofferenti di ogni dominio, in una specie di indipendenza, riunite in piccoli nuclei, in famiglie ed in tribù, in ciò aiutate dal frazionamento orografico della regione che le ospitava: come del resto era già avvenuto delle genti romanizzate, di fronte al sopraggiungere delle invasioni barbariche.
Nella seconda metà del sec. VII una nuova invasione si riversò dalla pianura pontica: fu quella dei Bulgari, popolo uralo-finnico, guerriero, che sottomise le popolazioni slave, ma, essendo in minoranza numerica, dalle popolazioni sottomesse assunse la lingua, mentre però ad esse diede certamente infusione di sangue nuovo.
Seguirono tempi tormentati da guerre e accompagnati da nuove invasioni, anche se di breve durata, come quelle dei Vareghi e dei Pecceneghi. Ma gli Ungheri, intervenuti dalla pianura pannonica, ebbero influenze e dominio sino ai giorni nostri; e, senza dire dei Franchi e dei Normanni, che operavano lungo le coste dell'Ionio e dell'Egeo. Venezia riprese la tradizione romana, ché infatti italianizzò tutta la Dalmazia ed estese anche più oltre la sua influenza civilizzatrice.
E vennero, finalmente, intorno alla metà del sec. XIV, gli Osmani, cioè i Turchi, e invasero, conquistando, tutta la Balcania, validamente contrastati solo in Dalmazia da Venezia. Vennero come conquistatori guerrieri, ma seguiti da nuclei di popolazione migrante: la quale s'insediò specialmente nella zona più prossima al punto di passaggio e di invasione, ma si sparse poi, in nuclei più limitati, dovunque.
Così si è originata la molteplicità degli elementi etnici che costituiscono l'attuale popolazione della Balcania. Molteplicità che si accompagna ad un minuto frazionamento e talora ad un'intima commistione, sia per le direzioni multiple e diverse dalle quali le invasioni successive hanno avuto luogo, sia per lo stesso frazionamento orografico della intera regione. Ogni invasione si può dire trovasse al suo ingresso come un ampio vestibolo nel quale poteva continuare facilmente la sua marcia; ma ben presto cozzava contro il massiccio rilievo della Balcania, ed allora la marcia diveniva più aspra, ed era costretta o ad incanalarsi per le poche vie naturali più chiaramente tracciate, o a sminuzzarsi nei molti piccoli o grandi bacini depressi dentro la massa montuosa. E gli abitatori primitivi, per sfuggire ai nuovi sopravenienti, si ritiravano sui prossimi monti: così si formava come un reticolo di gente nuova, mentre l'interno delle maglie era costituito dai vecchi abitatori. Ed il processo, in varia misura, si è ripetuto molte volte, ed ha avuto, talora, movimenti inversi in periodi di riscossa.
Di qui, dunque, quel frazionamento e quella commistione etnici, che rendono così complesse, difficili e malsicure le condizioni anche politiche della Balcania. Fatti, del resto, che vengono ancor più complicati da fenomeni di assimilazione, che possono essere accaduti sia attraverso la lingua, sia attraverso la fede religiosa. Così vediamo Albanesi cattolici, ortodossi e musulmani, nella stessa Albania; Albanesi serbizzati nella Vecchia Serbia; albanesi ellenizzati nell'Attica, nel Peloponneso e nell'Epiro; vediamo Valacchi (discendenti dei colonì romani) grecizzati nel Pindo, bulgarizzati nel Rodope, islamizzati in Tracia; Serbi albanesizzati in Albania e nella Vecchia Serbia, ellenizzati nella Macedonia meridionale, islamizzati in Bosnia ed Erzegovina, italianizzati in Dalmazia (e qui, per il contrario, anche Italiani slavizzati). Insomma, anche senza esemplificare di più, nessuna gente è sfuggita al processo di assimilazione per opera delle altre genti con le quali è venuta a contatto. Il processo è stato sovente rapidissimo, in specie in talune zone dove i contrasti e le lotte politiche sono stati più violenti: nella Macedonia per esempio, dove la proporzione numerica delle diverse nazionalità si è vista mutare rapidamente, ed anche, si può aggiungere, è indicata con cifre sempre fortemente discordanti tra di loro.
Comunque, la commistione etnica, per quanto acuita dalle lotte di nazionalità le quali a loro volta sono in parte una conseguenza di quella, non vieta di riconoscere, anche attualmente, alcuni aggruppamenti principali tra le popolazioni balcaniche, sia per la importanza numerica, sia anche perché rappresentano nuclei culturalmente superiori o, comunque, culturalmente diversi.
Gli Albanesi odierni, considerati per lo più come discendenti delle antiche popolazioni illiriche, si sono mantenuti puri solo nella regione che da essi prende il nome, in altre regioni invece assimilati da genti diverse, Greci e Serbi; si distinguono in Gheghi a settentrione dello Shkumbî, e in Toschi a mezzogiorno di quel fiume; per lo più musulmani, le tribù più settentrionali sono cattoliche, le più meridionali ottodosse; sono soprattutto pastori, in minore misura agricoltori. La loro distribuzione è assai più estesa del territorio che è loro proprio (Attica, Peloponneso, bacino del Drin, piano di Prizren, piano di Cossovo, altipiani occidentali macedoni; un piccolo nucleo a Burgo Erizzo in Dalmazia, presso Zara), ma generalmente appaiono assorbiti o assimilati da altre genti.
I Greci abitano, compattamente, la regione egea: puri soprattutto nelle isole, ed anche nel Peloponneso, meno a settentrione dell'istmo di Corinto perché subirono tutte le invasioni, pur assimilandole: sì che ogni invasore divenne greco di religione e di lingua. Dalla regione egea essi si estendono nelle valli dell'Albania meridionale, e a quasi tutto il bacino nella Vistrizza dove in parte sono islamizzati. Costituiscono poi una fascia lungo tutta la costa dell'Egeo, lungo i Dardanelli, il Bosforo e il Mar Nero, frammisti con Slavi Maccedoni, con Bulgari, prima di questi ultimissimi tempi, specialmente con Turchi. Agricoltori e pastori nel loro paese, la loro attività è però essenzialmente legata al mare: sono quindi pescatori, navigatori e commercianti; commercianti quasi sempre fuori del territorio che è loro proprio.
I Cutzovalacchi od Aromuni rappresentano i discendenti delle primitive popolazioni illiriche o traciche latinizzate e forse in parte anche di coloni romani, le une e gli altri rifugiatisi in zone montuose per sottrarsi alle invasioni barbariche. Parlano un linguaggio di origine latina, e di tipo romeno, sono greci di religione (salvo pochi nuclei islamizzati nella Macedonia orientale), e conducono una tipica vita di pastorizia transumante. Sono dispersi, nelle sedi fisse, in piccoli nuclei dal Rila e dal Rodope fino a tutto il Pindo: qui più numerosi, di dove scendono, nella stagione invernale, nelle prossime pianure. Accanto ad essi - per l'origine, la lingua e la religione (ortodossa) - sono da porsi i Romeni, abitanti in piccoli lembi nella piattaforma del basso Danubio, e specialmente nella Dobrugia, misti a Bulgari e a Turchi. Discendenti di popolazioni latinizzate o di coloni romani sono pure i nuclei italiani della Dalmazia, quando non rappresentino casi di italianizzazione di elementi slavi, verificatisi durante il dominio di Venezia: pochi di numero, rappresentano nella regione l'elemento etnico decisamente superiore come civiltà e cultura.
Genti slave costituiscono la popolazione di gran lunga prevalente in tutto il blocco continentale della Balcania. Non rappresentarono però una unità etnica completa nemmeno al tempo della loro invasione, e la differenziazione si accrebbe a seconda ch'esse assimilarono elementi etnici estranei e qua e là diversi. La massa maggiore è data da quelli che, con denominazione recente, sono anche detti Iugoslavi: Croati e Serbi. Di questi due popoli i Croati usano l'alfabeto latino, i Serbi invece il cirillico; i primi sono cattolici, i secondi ortodossi con, frammisti, grossi nuclei di musulmani; i primi hanno, in Croazia, una cultura prevalentemente tedesca, in Dalmazia prevalentemente italiana; la cultura dei secondi ha carattere più autoctono per quanto vi s'incrocino influenze di tipo e di valore diversi. I Croati abitano la parte nord-occidentale della Balcania e costituiscono la maggioranza demografica nella Dalmazia. I Serbi, più numerosi, abbracciano la Šumadija e la Vecchia Serbia e la parte meridionale degli altipiani dinarici.
Terza popolazione slava sono i Bulgari, abitanti la piattaforma del basso Danubio ed il bacino della Marizza: sono ortodossi, hanno lingua diversa da quella dei vicini Serbi, e come questi sono prevalentemente agricoltori. Nel Rodope ve ne ha di islamizzati, i Pomacchi. Restano infine i cosiddetti Slavi Macedoni, etnicamente contesi da Bulgari e da Serbi, ma verosimilmente più affini ai primi, ed anche i Turchi, diffusi specialmente nella zona degli Stretti, e poi con decrescente intensità nelle zone via via meno vicine a questi: essi però dalla regione, già turca ma ora greca, in questi ultimi anni sono migrati verso l'Anatolia per dar luogo ad elementi greci provenienti da questa. (Per la bibliografia v. alle voci albania, aromuni, bulgaria, grecia e iugoslavia).
Le cifre della tabella della p. precedente hanno valore approssimativo: solo la Bulgaria e la Iugoslavia hanno pubblicato i dati dei censimenti (rispettivamente 31 dicembre 1920 e 31 gennaio 1921) relativi alle nazionalità e alle lingue. Per l'Albania esiste solo una valutazione approssimativa del 15 novembre 1923 e soltanto valutazioni si hanno finora anche per la Turchia Europea; per la Grecia, il censimento del 1 gennaio 1921 ha posto la domanda della nazionalità, ma non ha potuto raccogliere dati attendibili, in modo che occorre ricorrere al censimento del 1907; per la questione dei rapp0rti tra lingua e nazionalità nei censimenti e per il valore dei diversi dati è da vedere la recente trattazione nel volume di L. Tesnière (Statistique des langues de l'Europe, in: A. Meillet, Les langues dans l'Europe Nouvelle, 2a edizione Parigi 1928) dal quale derivano alcuni dei dati, tutti calcolati per il 31 dicembre 1926.
Le lingue balcaniche.
Nella penisola balcanica si parlano parecchie lingue appartenenti a diverse famiglie, e precisamente:
1. Il greco moderno nella parte meridionale; il confine delle parlate neoelleniche si può indicare con una linea che partendo dalla punta settentrionale dell'isola di Corfù e passando un po' a sud della città di Castoria, va fino nelle vicinanze della città di Vérroia e al Golfo di Salonicco. Anche in Macedonia vi sono molti Greci.
2. L'albanese, parlato in una larga zona della parte centrooccidentale della penisola, più esattamente definita alla v. albania: Lingua.
3. Il bulgaro, parlato dal Mar Nero e dal Danubio fino a Salonicco, in una zona più esattamente definita alla v. bulgaria: Lingua.
4. Il serbo-croato, parlato dai confini della Macedonia fino al Danubio e alla Drava in una zona più esattamente definita alla v. serbo-croata, lingua.
5. Il romeno che è parlato: 1) in Macedonia e in una zona lunga circa 90 km. e larga 40 fra la Tessaglia e l'Epiro, nella sua varietà dialettale chiamata aromeno (arumeno, aromuno) o macedo-romeno; 2) in alcuni villaggi a NE. di Salonicco, nella varietà detta meglenita; 3) nel regno di Romania al nord del Danubio nelle varietà dacoromene (alle quali appartiene il romeno letterario); v. romania: Lingua.
6. Il turco parlato da alcuni nuclei di Turchi o di popolazioni balcaniche islamizzate in varie regioni (Macedonia, Dobrugia,. ecc.), ma che altra volta fu la lingua dei padroni dei Balcani.
7. Il giudeo-spagnolo o levantino degli Ebrei qui rifugiati dalla Spagna nel XV secolo e parlato specialmente a Costantinopoli, Adrianopoli, Salonicco. Monastir, Priština, ecc.
E questo per tacere degl'idiomi di minore importanza come lo zingaro, l'armeno ecc.
Queste lingue appartengono, come s'è detto, a famiglie differenti. Il greco appartiene alla famiglia ellenica del gruppo indoeuropeo; il bulgaro e il serbo-croato sono lingue slave e quindi pure indoeuropee. L'albanese è pur esso una lingua indoeuropea continuatrice dell'antico trace o dell'antico illirico. Il romeno è una lingua romanza come l'italiano, lo spagnolo ecc., il giudeo spagnalo è pure lingua romanza. Infine il turco appartiene al gruppo delle lingue uralo-altaiche.
Ciò nonostante fra tutte queste lingue balcaniche (escluso il giudeo spagnolo ch'è stato importato in un'epoca relativamente recente) esistono moltissimi rapporti e punti di contatto che hanno determinato l'istituzione d'una disciplina la quale prende il nome di filologia balcanica e si occupa delle comparazioni fra queste lingue eterogenee. La filologia balcanica non deve quindi intendersi nel senso della filologia romanza, germanica o slava, ma piuttosto in quello della filologia classica. Infatti le fìlologie romanza, germanica o slava hanno per oggetto un gruppo di lingue genealogicamente e direttamente imparentate e cioè continuatrici tutte di un'unica lingua anteriore; quella balcanica invece opera su lingue di differenti origini, appartenenti a diverse famiglie, di tipi anche assai diversi, ma che tutte si trovano ad avere dei punti di contatto. Questi sono dovuti in parte al comune substrato, in parte agl'influssi reciproci e in parte agl'influssi che queste lingue hanno comunemente e parallelamente subito e che con la loro azione livellatrice hanno portato gli stessi elementi a popoli differentissimi. Si tratta insomma di una parentela che si può chiamare in un certo senso "culturale", come potrebb'essere quella che esiste fra le lingue classiche.
I migliori studî di filologia balcanica sono tutti recenti; ma l'esistenza di qualche rapporto fra le lingue dei Balcani fu già ammessa nel 1829 dallo slavista austriaco Kopitar (Wiener Jahrbu̇cher für Litteratur, XLVI, p. 86) il quale però non parlava ancora della balcanicità del greco moderno. Il Miklosich poi, nel suo scritto sugli elementi slavi del romeno (Denkschr. d. Akad. Wien, XII, 1862), stabilì con maggiore esattezza i rapporti comuni intercorrenti fra romeno, bulgaro, albanese e neoellenico. Può sembrare strano trovare elencato il romeno, che solo in piccolissima parte è parlato in zona geograficamente balcanica. Eppure il romeno è universalmente riconosciuto per lingua di carattere balcanico. La spiegazione di questo si ha nel fatto che i progenitori dei Romeni abitarono certamente in una zona (o per lo meno anche in una zona) al sud del Danubio, in grande vicinanza dei progenitori degli Albanesi (v. romania: Lingua).
Anche lo Schuchardt nel suo Vokalisitius des Vulgärlateins, III (1868), p. 49, riconosceva gli otto punti di concordanza fra questi idiomi, stabiliti dal Miklosich, e ne aggiungeva due, spiegando il tutto con l'influsso di un substrato, per uno di quei fenomeni che l'Ascoli soleva chiamare "reazioni etniche".
Fra i più moderni cultori di filologla balcanica occorre nominare Gustav Weigand, che nei suoi numerosi lavori ha sostenuto l'unità delle lingue balcaniche come qualcosa di reale e cioè come una parentela genealogica e che attribuisce le concordanze al substrato trace, Kr. Sandfeld, che invece è propenso a giustificare le concordanze con gl'influssi reciproci e specialmente con l'influsso greco, H. Pedersen, N. Jokl, Th. Capidan, P. Papahagi, P. Skok, C. Tagliavini, ecc.
Per avere un'idea dei rapporti fra le lingue balcaniche, possiamo qui riassumere per sommi capi i principali punti. In primo luogo abbiamo una serie di prestiti comunemente diffusi in tutte le lingue balcaniche. accanto a una serie di tradizioni popolari, di usi, ecc., comuni a tutti i popoli balcanici. Una buona parte di questi elementi comunemente diffusi alle lingue balcaniche è data dagli elementi greci come ἀργάτης (ant. ἐργάτης) > alban. argat, bulg. argat(in), serbo aigatin, rom. argat; δρόμος "via" > alb. dhrom, bulg. drum, serb. drum, rum. drum: τριαντάϕυλλον "rosa" > alb. trëndafil, bulg. trandáfil, serb. trandovilje, rom. trandafir; λείπϕ, "manco", aor. ἔλειψα > alb. lipsem, bulg. lipsam, serbo lipsati, rom. lipsì (deriva dall'aoristo come tutti i verbi balcanici di origine greca). E questo senza contare le numerose parole di origine culturale od ecclesiastica. Accanto all'influsso greco, c'è anche un forte influsso romano e specialmente italiano e romeno; ma le cose non procedono in via semplice; una parola italiana, p. es., difficilmente giunge al romeno o al bulgaro in via diretta, ma solo attraverso il neoellenico, il serbo o il turco. Non parliamo del forte influsso albanese sull'aromeno, ma veniamo subito a dire che i più potenti influssi sono quelli dello slavo e del turco. Migliaia di parole si sono introdotte nelle lingue balcaniche da queste due fonti e così il vocabolario di queste lingue (e in certi casi anche la medesima struttura grammaticale) si è in buona parte livellata.
Le più importanti caratteristiche balcaniche sono:
1. La posposizione dell'articolo, comune all'albanese, romeno e bulgaro, p. es. albanese gur "pietra" gur-i "la pietra" mik "amico", mik-i "l'amico"; shtëpi "casa", shtëpija "la casa"; ujë "acqua", ujëtë "l'acqua" ecc.; bulgaro nož "coltello" nož-t "il coltello" voda "acqua", voda-ta "l'acqua"; selo "villaggio", selo-to "il villaggio", ecc.; romeno cal "cavallo", cal-ul "il cavallo"; cai "cavalli", cai-i "i cavalli"; munte "monte", munte-le "il monte"; steà "stella", stea-ua "la stella", ecc.
2. La quasi totale sostituzione dell'infinito, specialmente nelle proposizioni oggettive implicite, col congiuntivo (o indicativo), comune all'albanese (spec. tosco), al bulgaro, al neoellenico, al romeno e in parte al serbo, p. es. rom. vreau sǎ mor "voglio morire", alla lettera "voglio ch'io muoia"; nu pot sǎ-ţi spuiu "non posso dirti", alla lettera "non posso ch'io ti dica", ecc.; bulg. nie ne možem da posočim istinskija pŭt, "noi non possiamo indicare (che indichiamo) la via giusta"; neoell. σας συμβουλεύομεν νά μένητε "noi vi consigliamo di restare (che restiate)"; serbo kaže da je vidio "disse di aver veduto (che ha veduto)", alb. tshe mundesh të bënesh? "che cosa puoi fare (che fai)?". Si tratta, per il greco, di un'estensione dell'uso di una finale, della quale si trova già qualche traccia nel Nuovo Testamento, e il Sandfeld dimostrò che questa innovazione si è estesa dal greco alle altre lingue balcaniche.
3. Formazione del futuro cogli ausiliari "volere" e "avere", per esempio: rom. voiu scrie (vreau sǎ scriu) "voglio scrivere" oppure am sǎ scriu "ho da scrivere"; neoell. ϑέλω γράϕει, ϑὰ γράϕω; serbo pisati ću (pisa-ću); bulg. piša šta; alb. do shkruaj (do të shkruaj).
4. Enorme uso di proposizioni paratattiche, p. es. rom. ce ai uitat de te ai întors înapoi? "che cosa hai dimenticato che (e) sei ritornato indietro?", se duse de se 'ntâlnì cu fraţii lui "andò a riunirsi (lett. e si riunì) coi suoi fratelli"; bulg. oni bili stanali tolku loši, ta ne sakali ni da čuja "erano diventati così cattivi che non (e non) volevano udire affatto"; neoell. ἄρχισε καὶ τὰ διηγήϑηκε ἔνα ἔνα "cominciò a raccontare il tutto per filo e per segno"; alb. zuri edhe aü e kante "anch'egli cominciò a piangere". Anche di queste costruzioni paratattiche si trovano esempî nella κοινή (p. es. ἀποτολμᾷ καὶ λέγει, Ad Rom., X, 20).
5. Oltre a minori concordanze (p. es., l'uguaglianza degli avverbî che significano "dove" e "donde" ecc.) esiste una ricchissima fraseologia baleanica; modi di dire, frasi, ecc., che si ricalcano e si traducono in tutte le lingue balcaniche; citiamo per esempio: rom. un an (o lună) de zite "un anno (un mese) di giorni"; serbo mesec dana; rom. a mâncà pâne Şi sare împreuna "essere buoni amici"; alb. buk e krip kemi ngrënë bashka; neoell. ψωμὶ καὶ ἅλας ϕάγαμεν μαζί .
Moltissime poi sono le coincidenze fra due o tre lingue balcaniche; p. es. fra romeno e albanese: 1) a atono diviene ă in romeno ed ë (e) in albanese, p. es. lat. sanitatem > rom. sănătate; alb. fëdigë 〈 venez. fadiga; përint 〈 lat. parentem; 2) en si muta in in dinanzi a dentale p. es. alb. ǵint 〈 lat. gentem; rom.. argint 〈 lat. argentum; 3) an passa in ân in romeno, in ën in albanese, p. es. kënge, rom. cântec 〈 lat. canticum; 4) u breve è conservato come u e non ridotto a o (come nelle altre lingue romanze) negli elementi latini dell'albanese e in romeno, p. es. alb. funt, rom. fund 〈 lat. fundus; 5) i gruppi ct, cs sono ridotti in pt, ps in romeno e in ft, fsh in albanese, p. es. alb. luftë, rom. luptǎ 〈 lat. lucta; alb. kefshë, rom. coapsǎ 〈 lat. coxa; 6) il rotacismo di n intervocalica nel dialetto tosco dell'albanese e nel romeno antico e dial. (Istria ecc.), p. es. tosco kërëp 〈 lat. canapa, rom. ant. (e istrorom.) lire accanto al letterario bine 〈 lat. bine; 7) presenza del suff. lat. -onia con valore di formativo di femminili: p. es. rom. urs, femm. ursoaie (risalente a ursóń(i)e forma che ricorre in Banato e in Meglenia); alb. ujk "lupo" femminile ujkońe; 8) formazione dei numerali ordinali: rom. al doilea, al treilea ecc., alb. i düti, i treti ecc.; 9) uso del participio passato in luogo dell'infinito retto dalla prop. "da": p. es. rom. apă de buăt ,"acqua da bere"; rom. de înţeles o înţeleg, al. për të kupetuare e kupëtoń "per capire capisco"; 10) uso del pronome femminile in senso neutro: p. es. rom. ună e s'o vrei si altă s'o faci "altra cosa è dire e altra cosa è fare"; alb. tsh ishre kejo kë pësove? "che cos'è ciò che hai patito". E molte altre ancora che sarebbe troppo lungo elencare.
Simili coincidenze si trovano anche fra albanese e greco, greco e bulgaro, bulgaro e romeno ecc., ma troppo lungo satebbe elencare in questo articolo quelle coincidenze che formano l'oggetto della recente disciplina che prende il nome di filologia balcanica.
Bibl.: Kr. Sandfeld, Balkanfilologien, Copenaghen 1926 ed ivi tutta la bibliografia relativa; cfr. G. Weigand, Texte zur vergl. Syntax der Balkansprachen, in Balkan-Archiv, IV (1928), pp. 53-94; C. Tagliavini, in Studi Rumeni, III, (1928), p. 145 segg.; Jokl. in Litteris, IV, p. 191 segg.; S. Bezdechi, in Dacorom., IV (1927), p. 1278 segg.; V. Bertoldi, in Arch. Glott. Ital., XXI (1927), p. 136 segg.
La bibliografia delle opere sui prestiti stranieri si può trovare alle voci albania: Lingua; bulgaria: Lingua; romania: Lingua.
Per la posposizione dell'articolo, cfr. Michov, Die Anwendung d. best. ArRtikels im Rumänischen verglichen mit der im Albanesischen und Bulgarischen, Lipsia 1908 (in XIV Jahresbericht d. Inst. f. rum. Sprache zu Leipzig) e la letteratura più recente in: C. Tagliavini, Sulla questione della posposizione dell'articolo, in Dacoromania, III (1924), p. 515 segg.; per la sostituzione dell'infinito cfr. Sandfeld-Jensen, Rumaenske Studier, I: Infinitiv og udtrykkene derfor i Rumaensk og Balkansprogene, Copenaghen 1900. Per il futuro con "volere", cfr. Sandfeld, op. cit., p. 110; per le costruzioni paratattiche, Sandfeld, op. cit., pp. 81-89 e Balkanfilologien, p. 111 segg.; per la fraseologia cfr. T. Paphagi, Parallele Ausdrücke und Redensarten im Rumänischen, Albanesischen, Neugriechischen und Bulgarischen, in XIV Jahresbericht d. Inst. für rum. Sprache zu Leipzig, p. 113 segg.
Per le coincidenze particolari fra le varie lingue cfr. Sandfeld, Balkanfilologien, cit., pp. 68-94; cfr. anche lo studio del medesimo autore, Die nicht-lateinischen Bestandteile im Rumänischen, in: Gröber, Grundriss d. rom. Philologie, I (2ª ed.), p. 524 segg.; per i rapporti albano-rumeni, cfr. Treimer, Rumänisch und Albanesisch, in Zeitschr. f. rom. Phil., XXXVIII (1914), pp. 385-414; W. Meyer-Lübke, Rumänisch, Romanisch, Albanesisch, in Mitteilungen des rumänischen Seminars a. d. Universität Wien, I (1914), p. 1 segg.; T. Capidan, Raporturile albano-romane, in Dacoromania, II (1922), p. 444 segg. (specialmente rapporti albano-aromeni); Jokl, Rumänisches im Albanischen, nella Revista filologica, II, p. 246 segg. Una rivista dedicata alla filologia balcanica è il Balkan-Archiv diretto da G. Weigand, Lipsia 1925 segg.
Storia.
Dalla morte di Teodosio (395 d. C.) la Regione Balcanica era incorporata nella parte orientale dell'impero romano, ad eccezione della zona nord-occidentale della penisola illirica, conosciuta col nome di Dalmazia. Le tribù germaniche v'erano già penetrate: anzi, verso il 260-270 e poi, a un secolo di distanza, verso il 376-397, il grande campo aperto alle scorrerie dei barbari era stato proprio la montuosa penisola. Il perturbamento profondo, causato nella seconda metà del sec. IV dall'ingresso degli Unni in Europa, s'era fatto avvertire anzitutto e soprattutto sulla linea del basso Danubio: onde l'irruzione dei Visigoti nella Mesia inferiore (oggi Bulgaria orientale), la lotta contro gli eserciti imperiali (battaglia di Adrianopoli, 9 agosto 378), l'accordo formale del 382, che faceva dei Visigoti dei federati stanziati nella Mesia Inferiore. E, nuovamente, le devastazioni di Alarico in Tracia, in Macedonia, in Tessaglia, in Epiro (396-397). Ma il riversarsi dei Visigoti sull'Italia prima (401-410), sulla Gallia e sulla Spagna poi (412-420) liberava la Regione Balcanica dalla più pericolosa delle popolazioni germaniche; e, poco più tardi, anche l'impero degli Unni, i quali avevano fatto una tremenda scorreria nella Mesia, nella Tracia, nella Macedonia, distruggendo molte città e massacrando le popolazioni, ma si erano poi finalmente rivolti verso l'Occidente, crollava.
La Regione Balcanica rimaneva così libera, se non totalmente da incursioni e razzie di tribù unne superstiti, Kotriguri, almeno dall'incubo di una devastazione totale. Germani e Unni avevano potuto scorazzare per tutti i sensi la regione: non erano stati capaci d'insediarvisi stabilmente, come avevano fatto i Germani nell'Occidente. Costantinopoli, libera sul mare, potentemente fortificata, sfidava qualsiasi assalto dei barbari: e su Costantinopoli potevano appoggiarsi le controffensive che gl'imperatori conducevano contro i loro nemici. Il pericolo di una germanizzazione della Regione Balcanica fu quindi evitato. Infruttu0sa, pure, in definitiva, fu l'avanzata degli Avari, i quali invasero sì nel sec. VII la Macedonia e la Dalmazia, distruggendone molte città (fra esse Salona), ma finirono poi col fondersi con altre popolazioni, specialmente coi Croati. Quello che invece non si poté stornare, fu l'insediamento degli Slavi.
Popolazioni slave nella Regione Balcanica s'erano già probabilmente infiltrate nel sec. V. Ma una penetrazione più forte e decisa si fece avvertire appena nel sec. VI: si ha notizia, per questo periodo, della loro presenza nella Tracia (545), nell'attuale Dalmazia, Albania (547-548) e Serbia (550). Provenienti dai Carpazi orientali, le tribù slave s'inoltrano ora lentamente, ma in numero sempre maggiore, nelle varie regioni della Balcania.
Questi insediamenti, al contrario di quelli dei Germani, dovevano riuscire definitivi. E definitivo fu pure l'insediamento di un'altra popolazione, non slava, ma ugro-altaica, i Bulgari (che sono probabilmente gli antichi Unni Kotriguri, modificati da nuovi elementi asiatici). Già sin dal principio del sec. VI essi avevano minacciato l'impero: il 540, si erano spinti fino a Corinto e nelle immediate vicinanze di Costantinopoli. Poi, erano stati respinti al di là del Dniepr e del Dniestr: ma, verso il 660, erano ritornati all'offensiva, installandosi nella Dobrugia, e avanzandosi poi fino a Varna. Un regno indipendente dei Bulgari era organizzato nel 679; nel 705 il loro khān Tervel veniva in soccorso dell'imperatore Giustiniano II, detronizzato nel 695, e otteneva in compenso la maggior parte della Rumelia orientale.
Così erano stabilite nella Regione Balcanica le popolazioni che oggi ancora si disputano il possesso della penisola: Slavi, in tutte le varietà delle loro stirpi, e Bulgari. Gli uni e gli altri approfittano delle condizioni dell'impero, indebolito dai profondi contrasti religiosi (lotte iconoclastiche, per ricordare solo uno degli episodî salienti della storia del sec. VIII), minacciato gravemente ai confini orientali dagli Arabi, per ampliare le loro conquiste e consolidare le loro organizzazioni statali. Delle quali, più forte e più minacciosa per l'impero fu, in quel primo periodo, quella bulgara.
Dal momento in cui assume il potere Krum (802), è un crescendo continuo di espansione: la Tracia è invasa, Costantinopoli stessa per un momento pare in procinto di cadere (813), Adrianopoli è occupata: la pace dell'814 o 815, tra il successore di Krum e l'imperatore, assicura al regno bulgaro tutta l'alta valle della Marizza. Con l'836 la marcia in avanti ricomincia; con l'838 la valle del Vardar, del Drin Nero, della Morava sono prese. La lotta non è più solo tra i Bulgari e Bisanzio, ma tra Bulgari e Slavi: fra i quali le tribù dei Serbi e dei Croati, che in quest'epoca cominciano a consolidarsi e ad acquistare un'importanza politica, reagiscono al tentativo di creare un solo grande stato balcanico-bulgaro. Prime tracce di un antagonismo vivo rimasto nei secoli. Ma alla lotta guerriera si accompagna un interiore rinnovamento: conversione dei Bulgari al cristianesimo, e precisamente, dopo qualche incertezza, al rito bizantino. La conversione favorì non soltanto l'avvicinamento tra popolazioni slave e ugro-altaiche, ma condusse rapidamente alla loro fusione completa.
Ed ecco la "grande Bulgaria" dello zar Simeone (893-927) del re che vince la resistenza serba, e impone il suo dominio a tutte le tribù, da Belgrado al lago di Scutari, alla Macedonia occidentale, all'Albania meridionale; che giunge fin sotto Costantinopoli, reclama per sé la corona imperiale (917), s'impadronisce di Adrianopoli. Simeone è "imperatore e autocrate dei Bulgari e dei Greci"; domina su tutta la Regione Balcanica, eccettuata la Tracia meridionale, Salonicco e Durazzo. Fu l'apice della grandezza bulgara; e fu un momento di eccezionale importanza nella storia della Regione Balcanica, perché da allora i Bulgari, anche se decaduti dal pristino potere, formarono, sempre, uno degli elementi fondamentali nella vita politica della regione stessa.
Troppo minato nel suo interno dai contrasti tra le varie razze che lo formavano, l'impero bulgaro non era tuttavia sufficientemente omogeneo e saldo per resistere ad ogni tempesta. Torbidi interni cominciarono a scoppiare subito dopo la morte di Simeone; e quando finalmente l'impero bizantino, sotto la vigorosa guida di Basilio II, passa alla controffensiva, lo stato non può reggere. Morto Samuele il 1014, nel 1019 lo stato bulgaro ha cessato di esistere: le terre balcaniche tornano sotto la piena sovranità di Bisanzio.
Gli stati serbi. - Era fallito così il primo grande tentativo di creare uno stato solo nella Regione Balcanica, all'infuori dell'impero bizantino. Una seconda volta, due secoli più tardi, i Bulgari cercarono di ricostituire uno stato forte: e fu sotto la dinastia degli Asen, tra il 1187 e il 1257 (secondo regno bulgaro). Ma il tentativo, che fu tuttavia importante specie dal lato culturale, perché segnò un notevole progresso dei bulgari - sia pure sotto l'influsso bizantino - doveva essere effimero, politicamente. Senonché, caduti i Bulgari, s'avanzano le altre popolazioni della regione. Già nei primi decenni del sec. X era sorto un regno di Croazia, sotto Tomislao; ora, nel sec. XI, i Serbi si organizzano. con Stefano Vojislav (intorno al 1040), gli Aromuni della Tessaglia creano un principato, riconosciuto autonomo da Bisanzio. E si organizza pure la Zenta (Zedda dei Veneziani), da cui trarrà origine il Montenegro. Sulla costa dalmata, Crescimiro, re croato, ottiene da Bisanzio il governo di alcune città minori, mentre i suoi successori cercano di conservare il potere con l'aiuto e sotto la protezione dei papi.
Lento il procedere: sulle coste adriatiche si fa avvertire sempre più forte l'influsso di Venezia e dei Normanni d'Italia, che pongono piede sulla costa dalmato-albanese, e con la forza delle armi e con la penetrazione commerciale respingono o tengono sottomesso l'elemento slavo. Ma pur tuttavia nel sec. XII, le tribù serbe, isolate, si uniscono sotto la dinastia dei Nemania. E il lento procedere diveniva via via più rapido con il sec. XIII, quando cioè l'impero bizantino era messo sossopra dalla quarta crociata. L'effimero e debole impero latino d'Oriente non poteva preoccuparsi molto delle condizioni dell'interno della regione balcanica; le signorie feudali latine si formavano sulle coste e nella Grecia, non sui massicci montuosi dell'interno: e pertanto, il "megaiupanus" Stefano, figlio di Stefano Nemanja, è incoronato da un legato del papa "re di Serbia, Dioclea, Tribunia e Dalmazia" (1217). I suoi successori allargano i confini del regno serbo verso la Macedonia, la Dalmazia, l'Albania; e già nella seconda metà del '200 la Serbia è lo stato più forte della Regione Balcanica. Poi, con la ptima metà del '300, è l'apogeo. Sotto Stefano Dušan (1331-1355) il dominio serbo si estende sulla Bosnia, su tutta la Macedonia, sulla Tessaglia, sull'Epiro, su quasi tutta l'Albania; Dušan s'intitola zar dei Serbi, dei Greci, dei Bulgari e degli Albanesi. Ma, come già i due regni bulgari, così questo serbo, che pareva destinato a riunire tutti paesi balcanici sotto un unico governo, non era destinato a lunga durata: la morte del gran re Dušan, avvenuta il 1355, segnava l'inizio dello sfasciarsi della potenza serba. Creazioni di due forti personalità, Simeone e Dušan, la "Grande Bulgaria" e la "Grande Serbia", non erano organismi omogenei e vitali; svanita con la morte dei loro fondatori l'unica forza che tenesse insieme i varî popoli, questi tornarono alla propria particolare vita, spezzando la fittizia unità in cui per un momento avevano vissuto. Invece di riunirsi sotto lo scettro di un re serbo, la regione balcanica era destinata a passare nelle mani dei Turchi, che proprio in quel torno di tempo si facevano innanzi.
La conquista turca. - Proprio nel 1354 infatti Solimano, passati i Dardanelli, si insediava a Gallipoli. E poiché, scomparso Stefano Dušan, ridotto ormai agli estremi il potere bizantino, nessuna forza rimaneva ad ostacolare ai Turchi l'avanzata nella regione balcanica, così la conquista fu rapida: nel 1361 la Tracia era sottomessa; nel 1370 Adrianopoli diveniva capitale dello stato turco. La potenza serba si disgregava per tal modo rapidissimamente: e, approfittando del momento, Luigi il Grande d'Angiò, re d'Ungheria, riconquistò il dominio sugli Slavi del retroterra dalmata e sulla Dalmazia; la Zenta si rese indipendente dal regno di Serbia, per opera di un Balša, raggiungendo anzi allora la sua massima estensione territoriale.
In quel momento, di fronte al pericolo turco, ci fu un tentativo di resistenza dei popoli balcanici: ma, guidati dal re Vultasin, i Serbi e i Bulgari furono sconfitti (1371) sulla linea della Marizza e costretti a sottomettersi a tributo. Secondo tentativo di resistenza da parte di Balša II della Zenta, il 1385: ma il duca cade combattendo. Un ultimo, disperato sforzo dei popoli balcanici, il 1389: Serbi, Bulgari, Bosniaci, Erzegovesi, Valacchi, Albanesi si trovano uniti contro gli Osmani nella pianura del Vardar, ch'è il grande centro strategico della Regione Balcanica, e precisamente nel "Campo dei Merli" (in. serbo Kosovo polje). Ma nella battaglia che prese nome da Kosovo, il 15 giugno 1189, furono sbaragliati.
La grande lotta per l'egemonia della Regione Balcanica era finita a favore del terzo, ultimo venuto. Il destino della regione era deciso, per parecchi secoli. I Turchi conquistarono facilmente la Macedonia, ma non vi si arrestarono, anche per ragioni militari; e si spinsero invece a nord verso la Valacchia. Nel 1391, il principe di Valacchia divenne loro tributario; e re Sigismondo d'Ungheria, accorso con i guerrieri crociati in aiuto dei Romeni, fu sconfitto a Nicopoli (1396). Allora i Turchi si rivolsero verso la Grecia e l'Albania: Giovanni Castriota, padre di Giorgio Scanderbeg (1410), fu battuto da Murād, e gli Albanesi, che non erano un vero organismo politico, si divisero. La città di Giannina, per gelosie locali, si offerse ai Turchi (1431), Scanderbeg, invece, riunì ad Alessio la Lega dei popoli albanesi (1443). Costantinopoli veniva conquistata, il 29 maggio 1453, e alla sua caduta seguì rapida la sottomissione di tutta la Regione Balcanica. Nel 1456, fu abbattuto il ducato di Atene e fu reso tributario anche il principe di Moldavia; nel 1459 fu ridotta a provincia turca tutta la Serbia, meno Belgrado; nel 1460, fu conquistata la Morea, salvo alcune città fortificate della costa, tenute dai Veneziani; nel 1464, la Bosnia e nel 1467 l'Erzegovina, che col suo minuscolo sbocco all'Adriatico permise ai Turchi di fare la prima comparsa su questo mare. Con la morte di Scanderbeg (1407), l'Albania passò dall'indipendenza all'anarchia e da questa al dominio dei Turchi, i quali, nel 1501, occuparono anche Durazzo. Nel 1521, finalmente, si arrese ad essi anche Belgrado, ultimo baluardo cisdanubiano.
I Balcani sotto il dominio ottomano. - Gravi e fatali furono per i Balcani, che i Turchi chiamarono genericamente Rumelia (Rūm Īlī "il paese dei Romei"), le conseguenze della conquista ottomana. Serbi, Bulgari e Greci, che avevano incominciato ad assumere fisionomia propria di nazioni, furono arrestati nella loro evoluzione storica. Gli Albanesi, già abbastanza discordi, si differenziarono ancora più nei rapporti religiosi, in quanto parecchie tribù accettarono il Corano. I Valacchi e i Moldavi, in grazia della loro posizione geografica eccentrica, della loro quantità numerica e della compattezza nazionale, nonché d'una certa abilità politica nell'accettare la posizione di tributarî, riuscirono a salvarsi da ma dominazione diretta e a conservare una certa autonomia; la Zedda, per la natura impervia dei suoi monti e per la sterilità del suo territorio, poté mantenersi semindipendente, ma ridotta alla regione alta (Berda), perché la bassa vallata della Zeta fu compresa nel nuovo sangiaccato turco di Scutari; la Dalmazia, che dal 1420 era passata tutta e definitivamente nelle mani di Venezia, fu sottratta alla dominazione ottomana, grazie al dominio dei mari tenuto dalla Serenissima. Ma il nucleo centrale delle terre balcaniche - Tracia, Macedonia, Serbia, Bosnia, Albania, Epiro, Tessaglia - rimase sotto il giogo turco.
E fu un giogo grave, non solo per le conseguenze di carattere politico-nazionale, ma altresì per quelle di carattere culturale-civile. Col '200 e col '300 infatti anche nella Regione Balcanica era cominciato a penetrare l'influsso benefico della civiltà occidentale, allora in piena rinascita. Favorivano la penetrazione economico-culturale le condizioni politiche della regione stessa e dei paesi vicini: da un lato, la monarchia angioina d'Ungheria, che naturalmente si trovava a contatto continuo con i popoli balcanici, e che, grazie alle sue relazioni continue con la Francia e l'Italia, divenne mediatrice tra la civiltà franco-italica e quella romena. Dall'altra parte, dalle coste dalmate, albanesi e greche, s'irradiavano i commerci di Venezia, sia direttamente, sia attraverso quei grandi intermediarî della Serenissima che furono i Ragusei. E dalle coste del Mar Nero avanzavano i Genovesi. Di qui, attività di scambî con l'Occidente: per ricordare un esempio, Ivan Asen II, il 1231, concede ai mercanti di Ragusa il diritto d'importazione, d'esportazione e di transito attraverso la Bulgaria, con esenzione da ogni tassa. E sono poi le signorie latine, sorte dopo la quarta Crociata, che importano nella Regione Balcanica, specialmente in Grecia, usi e consuetudini del mondo cavalleresco e feudale occidentale.
Di conseguenza, si poteva notare attraverso i secoli XIII e XIV un lento, ma innegabile avvicinarsi dei popoli balcanici al mondo europeo. Il quale cominciava a penetrare, con la sua civiltà, non certo tra le masse dei contadini, ma, se non altro, nelle corti principesche, nei conventi. I rinvenimenti di gioielli di stampo franco-veneto, del sec. XIII, in località romene, sono un indizio che anche nelle terre più lontane giungeva l'influsso dell'Occidente.
Tutto questo lavorio di innalzamento civile dei popoli balcanici fu interrotto per secoli dalla conquista ottomana. I rapporti con l'Occidente cristiano, se non totalmente spezzati, vennero certo ridotti al punto che di influssi profondi della civilta del Rinascimento nella Regione Balcanica non è possibile parlare. Si ebbe invece la continuazione del Medioevo, fino al sec. XIX; o meglio, si ebbe un'orientalizzazione progressiva dei gusti, delle tendenze, in una parola della civiltà balcanica. Lo si nota facilmente anche solo osservando il tenore di vita dei Voevodi romeni (i quali poi erano ancora in condizioni di relativa autonomia dal dominio turco). Con ciò i popoli balcanici vennero tagliati fuori dalla vita morale, culturale, politica dell'Europa. La ripresa avverrà solo nel sec. XIX: ma allora i popoli balcanici, posti di repente a contatto con la civiltà europea, da essi non ancora assimilata, si troveranno disorientati. Molti dei fenomeni di immaturità politica, culturale, civile, che si son potuti osservare nelle vicende delle giovani nazioni balcaniche, ripetono la loro origine proprio dallo squilibrio verificatosi quando Serbi, Bulgari, ecc., hanno dovuto e voluto far propria la civiltà europea: frutto d'una secolare esperienza, alla quale essi non avevano partecipato.
Della dominazione ottomana si è parlato sempre assai male; certo, i nuovi padroni furono guidati dalla sola preoccupazione di sfruttare la terra conquistata e di mantenerla. Allo scopo di non essere assorbiti dai vinti, numericamente superiori, si tennero isolati, in posizione sempre più privilegiata: e pertanto si fossilizzarono nel loro tenore di vita, lasciando i vinti a sé stessi. Tentativi di colonizzazione, i Turchi ne fecero in scarsa misura, e limitandosi soprattutto ai campi della Tracia che somigliavano più delle altre regioni alle steppe anatoliche. S'insediarono nelle vallate più fertili della Macedonia, della Serbia, della Bosnia, nelle città ed in tutti i centri maggiori del loro possesso europeo; mentre forti nuclei di popolazioni cristiane emigrarono in massa, come i Serbi e i Romeni, negli stati finitimi.
Non tutte le popolazioni accettarono tuttavia supinamente il giogo: in molti luoghi, specie quelli impervî della Morea, della Tessaglia, dell'Epiro, dell'Albania, della Macedonia, della Rascia, gli abitanti continuarono la lotta contro l'oppressore, sotto forma di guerriglia minuta e spietata. Furono clefti greci e hiduci serbi, presto uniti in bande, che iniziarono la tradizione dei moderni comitagi. Come prova dell'incapacità del governo ottomano a organizzare e disciplinare la vita interna delle regioni occupate, val la pena di ricordare che esso venne a patti con alcuni gruppi di insorti, riconoscendone l'organizzazione e affidando loro le mansioni di polizia (v. armatoli).
Ma le guerriglie spezzettate non potevano portare a rivolgimenti generali; e intanto l'assetto etnico e religioso della regione balcanica si modificava profondamente. Agli elementi storici finora in lotta, slavo, latino, greco, albanese, venne ad aggiungersi l'elemento ottomano; al cristianesimo, diviso nelle varie chiese nazionali, l'islamismo. Specialmente lo accettarono gli Albanesi. Ma lo subirono anche molti Bulgari e Serbi; mentre solo pochi Greci e Croati abbracciarono la nuova religione. Più refrattarî di tutti, i Romeni. Nel ristagno di ogni progresso e nella schiavitù politica, la religione cristiana divenne perciò per i popoli soggiogati il simbolo di tutta la loro vita, il conforto e la speranza maggiore nelle loro sofferenze. Nel sec. XVIII, le condizioni dei cristiani della penisola balcanica peggiorarono ancora; i Bulgari, ad esempio, per essere lasciati tranquilli, evitavano di dirsi tali e di parlare in pubblico la loro lingua. I nomi nazionali avevano perduto il loro significato per assumerne uno volgare. Bulgaro era detto ogni contadino della gleba; Valacco voleva dire pastore; Romeno (ronan), servo; Greco, merciaiuolo.
Gl'inizî dell'espansione degli stati europei nei Balcani. - Con la fine del sec. XVII si produceva tuttavia un mutamento nella situazione generale dell'impero ottomano che aveva le prime ripercussioni nella Regione Balcanica. L'avanzata turca verso l'Europa centrale era definitivamente fermata. Ancora nel 1683 le truppe del Sultano assediavano Vienna; ma con la pace di Carlowitz del 1699, i Turchi perdevano la Slavonia e la Transilvania, cedute all'imperatore d'Austria, la Morea ceduta ai Veneziani, che ottennero anche un ampliamento dei loro confini nella Dalmazia. Con ciò, non soltanto l'impero ottomano ridiventava una potenza puramente balcanica, ma si apriva la via all'avanzata degli stati europei, passati ormai alla controffensiva.
L'Austria aveva ormai inclusi nei suoi confini Romeni, Serbi e Croati; la Russia si apprestava alla marcia su Costantinopoli e gli Stretti. Erano le due potenze più atte alla lotta per il predominio sulla Regione Balcanica; ché Venezia e la Polonia, a cui pure erano arrise alcune possibilità, vennero presto messe fuori di combattimento. Su questo duplice sforzo dell'Austria e della Russia di aprirsi la via nella regione balcanica, è imperniata la storia del sec. XVIII: storia dalle molte e minute vicende, che troveranno adeguata trattazione in altra parte (v. austria e russia: Storia; e ottomano impero). Qui basti notare che la politica seguita dalle due potenze europee attraversa varie fasi: così l'Austria, che tra il 1716 e il 1739 par decisa alla penetrazione violenta, dopo la seconda guerra del 1736-1739, chiusa con la pace di Belgrado, diviene invece incerta nell'orientamento generale e conduce una politica oscillante, a volte energica e aggressiva, a volte debole e remissiva. La Russia per contro si concentra tutta nello sforzo di aprirsi la via al Mar d'Azov e al Mar Nero, per passare poi, attraverso i Dardanelli, nel Mediterraneo. A tale scopo incomincia la propaganda religiosa e politica fra i Greci, fra i Montenegrini, fra i Bulgari; intriga nella Romania; eccita a ribellione gli altri popoli soggetti alla Sublime Porta; passa infine a guerra aperta nel 1768, nel 1772.
Quest'ultima guerra segna un momento importante nella storia della Regione Balcanica: ché ai Russi, ormai in procinto di entrare in Costantinopoli, si oppone la diplomazia austriaca che riesce a sbarrar loro il passo. Urto delle due potenze europee destinato a rinnovarsi più e più volte. Tuttavia il conflitto che pareva inevitabile fu arrestato: ed anzi con l'accordo russo-austriaco di Pietroburgo, del 1780, le due rivali balcaniche si spartirono, idealmente, tutta l'eredità europea della Turchia. Nel caso di una liquidazione dell'impero ottomano, alla Russia sarebbero toccate: la Moldavia, la Valacchia fino all'Olt (Aluta), la Bulgaria, la Rumelia, la Tracia con Costantinopoli e Gallipoli; all'Austria: la Bosnia-Erzegovina, la Serbia, la piccola Valacchia, l'Albania, la Macedonia, la Grecia. Ma il piano, che suscitò subito le gelosie e le opposizioni delle altre potenze, fu sventato: le paci di Sistova (1791) e di Jassy (1792) arrestarono l'espansione armata russa ed austriaca. E intanto sopravvenivano le guerre della rivoluzione francese a mutare anche il carattere della lotta per la regione balcanica..
Il secolo XIX. - Primo effetto di quelle guerre, la pace di Campoformio (1797), che faceva scomparire la repubblica di Venezia, eliminava un competitore sia pure ormai modestissimo all'eredità turca nella Regione Balcanica. Ma se Venezia scompariva dal novero delle potenze interessate al problema balcanico, un altro stato, ben altrimenti pericoloso e forte, si faceva innanzi: l'Inghilterra. L'intensificarsi dell'attività inglese nell'India, il minaccioso avanzarsi dell'impero moscovita verso i Dardanelli e quindi verso il Mediterraneo, costringevano il Regno Unito ad interessarsi direttamente e continuamente di tutte le questioni concernenti il Mediterraneo orientale; ed ecco pertanto l'inizio del contrasto anglo-russo, che verte essenzialmente sulla questione di Costantinopoli e degli Stretti, ma che coinvolge naturalmente tutto il problema dell'assetto dell'impero ottomano. Quindi, in prima linea la Regione Balcanica: e segno tangibile dell'interessamento inglese per questa regione, è il protettorato, che il Regno Unito ottiene nel 1815 sulle isole Ionie (Corfù). La questione balcanica veniva così ad intrecciarsi con la cosiddetta "questione d'Oriente" (v.): e ciò finì col danneggiare le aspirazioni nazionali dei popoli balcanici, in quanto le potenze occidentali, capitanate dall'Inghilterra, sostennero il principio dell'integrità della Turchia per sbarrare la via di Costantinopoli alla Russia, che proponeva invece la politica della spartizione. Il problema del nuovo assetto politico della Regione Balcanica, già maturo un secolo fa, dovette attendere la sua risoluzione per molti altri decennî, soprattutto in grazia di questo suo interferire in una questione politica più complessa; e le popolazioni balcaniche, proprio nel sec. XIX, non furono più arbitre della loro stessa opposizione ai Turchi. Gl'interessi delle potenze europee ebbero, per lungo tempo, la precedenza sugl'interessi di Bulgari, Serbi, Albanesi ecc. Così, la lotta per l'indipendenza fu coinvolta nel groviglio di altre lotte, del tutto estranee alle aspirazioni dei popoli balcanici.
Un risveglio del sentimento nazionale nelle varie popolazioni della penisola si era veramente attuato. Certo, fu dapprima soprattutto un risveglio sentimentale, basato sulle tradizioni storiche, alimentato dalla fede religiosa. A questi deboli albori seguì subito una rinascita letteraria, che suscitò illusioni, speranze, aspirazioni eccessive. Fiducia esagerata nelle proprie forze che fece nascere rivolte, spesso intempestive e pazzesche. L'educazione politica fu invece lenta: anche in ultimo, dopo decennî di lotte, quando la libertà fu conquistata, l'immaturità rimase palese. I sistemi parlamentari innestati su una civiltà rimasta molto arretrata degenerarono nelle lotte delle tribù, delle famiglie più influenti per la conquista del potere; il regime monarchico, dovuto accettare in omaggio alla moda dell'Occidente, malgrado l'assenza di dinastie nazionali, portò sui nuovi troni principi e re stranieri, ignari della psicologia dei sudditi. I momenti più felici furono quelli in cui i popoli risorti furono governati da oligarchie, dominate dalla volontà di un uomo superiore, uscito dal popolo. Ma dopo un cammino tentennante di alcuni decennî, tutti, in difetto d'una borghesia numerosa e matura, inclinarono verso un tipo speciale, balcanico, di democrazia rurale.
Le prime sollevazioni furono promosse dai Serbi, ultimi a soccombere nella lotta contro i Turchi, primi a rialzare il capo. ll Montenegro già aveva avuta riconosciuta l'indipendenza, da parte della Turchia, il 1799; i Serbi veri e proprî si levano in armi nel 1804 (favoriti dalla Russia), nel 1815, nel 1816: anno questo in cui ottenevano l'autonomia con un principe indigeno. In questa prima fase le idee, ancora vaghe, di libertà furono introdotte fra i Serbi dai loro connazionali dell'Ungheria, con simpatie per l'Austria e con aiuti, morali e materiali, da parte di questa. Tanto i Karagjorgjević, quanto gli Obrenović, fecero per parecchi decenni una politica prevalentemente austrofila. Poi mutarono tattica. Giova però rilevare che i Serbi conquistarono la libertà soprattutto per i loro sforzi, fra l'indifferenza dell'opinione pubblica europea.
Seguono le grandi lotte del decennio 1820-1830, in cui l'opinione pubblica europea viene profondamente scossa e interessata dalle questioni balcaniche. Si sollevano primi i Greci aiutati dalla Russia (1820); gli Albanesi, con Alì di Tepeleni, pascià di Giannina, che proclama un regno d'Epiro (1820); i Valacchi, guidati da Tudor Vladimirescu e pure istigati dalla Russia (1821). Sorgono gli albori del sentimento nazionale fra i Croati e gli Sloveni dell'Austria col movimento detto dell'"illirismo", promosso dal letterato Lodovico Gaj. Gli Albanesi sono ridotti all'obbedienza; i principati di Moldavia e Valacchia ottengono un'amministrazione autonoma (1826); i Greci, invece, che per mezzo della loro potente società segreta, la ἑταιρία, hanno saputo ridestare in tutto il mondo civile la visione dell'Ellade antica, riescono, malgrado l'opposizione della diplomazia e soprattutto di Metternich, ad avere dopo la battaglia di Navarino (1827) e dopo la nuova guerra russo-turca del 1828-1829 il riconoscimento della loro indipendenza. La pace di Adrianopoli (1829) conferma, oltre all'indipendenza greca, l'autonomia della Serbia e la libertà di navigazione ai Russi attraverso gli Stretti. Nella conferenza di Londra del 1830 la Grecia vien dichiarata monarchia ereditaria, ma con un'estensione territoriale minima; col successivo trattato di Londra del 1832 diventa regno ed ha come re Ottone di Wittelsbach (Baviera), primo di quella serie di sovrani con cui la Germania ha dominato, di fatto, i varî popoli della penisola balcanica per quasi un secolo. I Greci però, delusi nelle loro aspirazioni territoriali, si abbandonano alle fantasie dell'idea "panellenica" e ritornano a sognare l'impero di Bisanzio, con Costantinopoli capitale.
Poi si ribellano i Bulgari, nel 1836, nel 1841, nel 1851. Destati dal sonno secolare per opera degli eserciti russi che nelle spedizioni del 1828-29 si erano meravigliati di incontrare nei campi della Bulgaria e della Tracia popolazioni che parlavano una lingua slava; mossi dall'esempio dei Serbi, dei Greci, dei Valacchi, animati dalla propaganda religiosa, anche i Bulgari si sollevano, localmente e parzialmente, per ottenere una chiesa propria, indipendente dal patriarcato greco, che pretende di monopolizzare tutti al servizio dell'idea panellenica.
E intanto, al disopra e al di fuori dei popoli balcanici, continua la grande rivalità anglo-austro-russa. Nel 1840 lo zar Nicola inizia trattative con l'Inghilterra per una spartizione della Turchia in zone d'influenza: ma il Regno Unito risponde con la Convenzione per gli Stretti (Londra 1841), in cui si conferma il divieto di transito per le navi da guerra attraverso i Dardanelli, stabilito nel 1809. E allora la Russia ricorre alle armi (guerra di Crimea 1854-1855). Ma, anche questa volta, la strada le viene sbarrata dalle potenze occidentali: Inghilterra e Francia, a cui si unisce il Piemonte. Si combatte in Crimea: nella Regione Balcanica, invece, quelli che maggiormente dovrebbero approfittare dell'occasione per balzare in armi, i Serbi, si mantengono neutrali, in odio allo zar di Russia che ha imposto il licenziamento del ministro Garašanin, reo di aver ideato l'unione di tutti gli Iugoslavi sotto la Serbia. E pertanto, se il trattato di Parigi del 1856 rafforza l'autonomia romena (i "principati uniti di Moldavia e Valacchia") lascia inalterato il generale assetto politico della regione balcanica, tutelato, a favore della Turchia, da Inghilterra, Francia ed Austria.
E anche il periodo che vede il trionfo del principio di nazionalità nell'Europa centro-occidentale (Italia e Germania), cioè gli anni 1856-1870, trascorre senza che la situazione venga alterata. C'è, di più, l'intensificarsi del movimento panslavista, che la Russia favorisce ora, dopo il 1850, operando con successo nella Serbia e nel Montenegro, atteggiandosi a protettrice degli ortodossi balcanici contro i musulmani. Nel 1867, p. es., a Mosca si tiene un congresso panslavista "della società degli amici della storia naturale", a cui parteciparono gli Slavi di tutta Europa. C'è, ancora, un rinnovarsi delle aspirazioni serbe a creare un grande stato. Michele Obrenović (1860-1868), coadiuvato dal ministro degli esteri Garašanin, accarezza allora l'ideale di fare risorgere la Grande Serbia e concepisce un piano di egemonia serba, che Garašanin tenta di tradurre in pratica mediante progetti di alleanza (con la Romania, aprile 1867; con la Grecia, autunno dello stesso anno; con il Montenegro e col comitato d'agitazione bulgaro nel 1868). Ma sogni e progetti vengono stroncati dalla morte del principe, assassinato il 10 giugno 1868.
E si seguono, naturalmente, insurrezioni locali, patrocinate dalla Russia: in Bulgaria nel 1867 e 1876, a Creta nel 1867 e nel 1868, nell'Erzegovina nel 1875. Un complesso, tuttavia, di non grandi eventi, in cui la nota dominante è data dall'intensificarsi dell'azione russa. L'Austria, che dal 1867 ha affidato la cura della politica balcanica agli Ungheresi, pare ridotta in secondo piano.
Ma un imprevisto avvenimento modificava la situazione. Lo zar di Russia Alessandro II, ormai deciso alla lotta a fondo contro la Turchia, per conciliarsi la monarchia asburgica, commise un atto contrario agl'interessi dello slavismo e spiegabile solo in rapporto all'immediato interesse russo: l'8 luglio 1876, nel convegno di Reichstadt, abbandonò a Francesco Giuseppe d'Austria la Bosnia-Erzegovina in cambio della promessa della neutralità austriaca - e quindi indirettamente anche di quella germanica - nella prossima guerra della Russia contro la Turchia. In tal modo l'Austria ritornava in primo piano sulla scena balcanica: e che cosa questo significasse, si vide chiaramente nel 1878. Vincitori sul campo di battaglia (1877), giunti fin sotto le mura di Costantinopoli, i Russi dovettero prima concludere col sultano la pace di Santo Stefano (17 marzo 1878), per timore di un intervento inglese; poi, di fronte all'azione spiegata dalla diplomazia delle altre grandi potenze concordi con l'Inghilterra, furono costretti a presentarsi al congresso di Berlino (giugno 1878). E in questo importantissimo tra i congressi internazionali la Russia fu vinta al tavolo della diplomazia. L'Austria-Ungheria ebbe il mandato di occupare la Bosnia-Erzegovina, rispettando, però, i diritti sovrani del sultano, e la facoltà di tener guarnigioni nel sangiaccato turco di Novi Bazar che separava la Serbia dal Montenegro. La grande Bulgaria, che la pace di Santo Stefano aveva creato, fu distrutta; la parte settentrionale fu elevata a principato autonomo, tributario del Sultano; quella orientale col nome di Rumelia fu lasciata provincia turca con qualche autonomia; quella meridionale, la Macedonia, fu abbandonata alle vendette musulmane. Fu riconosciuta l'indipendenza (già sancita dal trattato di Santo Stefano) della Romania, della Serbia, del Montenegro. Il Danubio fu dichiarato internazionale fino alle Porte di Ferro (OrŞova). Il Congresso, preoccupato solamente degl'interessi delle grandi potenze, non volle ascoltare la voce delle popolazioni balcaniche. La Francia, fiaccata in seguito a Sedan, non aveva potuto far udire la sua voce; l'Italia, allora diplomaticamente isolata, non poté fare altro che cercare di nascondere la sua debolezza. Il trionfo per opera dell'Inghilterra, fu della Germania e dell'Austria-Ungheria, che s'era aperta la strada verso Salonicco e Costantinopoli.
Dal congresso di Berlino alla guerra balcanica del 1912. - Se dall'inizio del sec. XIX, e specialmente dopo il 1848, le due massime contendenti, a proposito della sistemazione dell'Oriente turco e della Regione Balcanica, erano state Inghilterra e Russia, ora, dopo il congresso di Berlino, l'Austria ridiventava, di colpo, la potenza egemonica nella regione. Libera ormai dalle vicende italiane; spalleggiata potentemente dalla Germania che, attraverso l'alleata, cominciava allora a far sentire il peso del suo Drang nach Osten, lo stato degli Asburgo incontrava altresì in quel momento larghi favori nelle popolazioni balcaniche. Specialmente - e par strano il dirlo - nei Serbi. La Russia, offesa, umiliata, posta in disparte, e l'Italia trascurata, aderirono, per necessità, alla nuova formula, passiva, dello status quo, che si traduceva nella pratica in un intervento collettivo in ogni questione che toccasse l'esistenza dell'impero ottomano. I popoli balcanici, invece, sempre più attivi, considerando sé stessi i soli e legittimi eredi dell'"uomo malato del Bosforo", in opposizione alla politica delle grandi potenze, proclamarono un principio nuovo: "I Balcani ai popoli balcanici". Quest'idea, a prescindere dal poco o nessun favore incontrato presso le grandi potenze, che in fondo dominavano la situazione, avrebbe potuto produrre migliori risultati, se i popoli balcanici fossero stati maturi e concordi nel realizzare la loro emancipazione, dai Turchi e dall'Europa. Siccome, invece, tutti ammalarono di megalomania e tra due di essi specialmente, i Serbi e i Bulgari, s'iniziarono contrasti e rivalità, la nuova formula fu distrutta da coloro stessi, che l'avevano pronunciata.
Gli stati creati o confermati dal congresso di Berlino, raggiunta una prima sistemazione, ottenuti gli scopi più immediati, si trovarono invero ben presto involti in rivalità e contese per l'egemonia. Pomo di discordia tra Bulgari e Serbi, specialmente, ma anche tra Bulgari e Greci, diventava la Macedonia (v.); e intanto ‛Abd ul-Ḥamīd il "sultano rosso", per salvare l'impero, proclamava il il panislamismo, che in pratica voleva dire la snazionalizzazione forzata dei cristiani balcanici, e favoriva nel 1880 la formazione d'una lega albanese, per la difesa e la rivendicazione del territorio albanese, in contrapposto cioè ai tentativi serbi di egemonia.
Naturalmente, gli stati balcanici ricercarono a vicenda l'appoggio di una delle due grandi potenze interessate (Austria e Russia), sperando con ciò - a torto - di averle propizie ai loro progetti egemonici. Da una parte i Bulgari, sotto il principe Alessandro di Battenberg, confidavano nella Russia. I Serbi invece, come già s'è detto, nell'Austria: il 1882, Milan Obrenović, per condiscendenza dell'Austria, assunse il titolo di re di Serbia; poco dopo venne stipulato un trattato segreto austro-serbo, per il quale la Serbia, rinunziando alla Bosnia-Erzegovina, otteneva dall'Austria la promessa di appoggio alle sue aspirazioni sulla Macedonia. Anche la Romania, divenuta dal 1881, regno sotto Carlo di Hohenzollern, si avvicinava in quel tempo alla politica austro-germanica, aderendo nel 1883 al sistema della triplice alleanza, con un trattato che fu detto austro-tedesco-romeno. Nel 1885 finalmente scoppiava l'urto aperto serbo-bulgaro. Nel settembre la Rumelia orientale si sollevò, contrariamente ai consigli russi, e proclamò la sua unione con la Bulgaria: ma Milan Obrenović di Serbia, incoraggiato dall'Austria e forse anche dalla Russia, dichiarò subito (13 novembre 1885) la guerra alla Bulgaria in nome "dell'equilibrio politico della regione balcanica". Questa guerra serbo-bulgara, detta dei "dieci giorni", finì in seguito alla strepitosa vittoria bulgara di Slivnica e fu chiusa per volere dell'Austria, contraria all'ingrandimento di qualunque stato slavo, dalla pace di Bucarest del 3 marzo 1886.
La conseguenza più profonda di tali avvenimenti, più ancora che non l'acquisto di fatto della Rumelia orientale da parte dei Bulgari, fu il disorientamento della politica bulgara: sotto il nuovo principe Ferdinando di Sassonia Coburgo Gotha, salito al potere dopo l'abdicazione di Alessandro di Battenberg, e per opera del ministro di lui Stambulov, il governo dì Sofia si avvicinò all'Austria emancipandosi dalla tutela russa. Solo dopo il 1895, morto lo Stambulov, e per effetto soprattutto del passaggio del principe ereditario di Bulgaria, Boris, alla Chiesa ortodossa, si poté attuare un riavvicinamento tra Pietroburgo e Sofia.
Gli anni seguenti alla guerra serbo-bulgara furono contrassegnati dai varî tentativi fatti per eliminare i contrasti tra gli stati balcanici: uno fu dovuto a Francesco Crispi che nel 1889 cercò di promuovere una convenzione militare serbo-bulgaro-romena; un altro al ministro greco Tricupis che nel 1891 iniziò le trattative per un'alleanza greco-serbo-bulgara. Ma entrambi i tentativi naufragarono di fronte alla diffidenza e alle aspirazioni contrastanti dei popoli balcanici, all'impossibilità di delimitare e dividere la Macedonia e agl'intrighi dell'Austria, della Russia e soprattutto della Turchia. Solo dopo il 1895 vi fu da parte bulgara una politica più conciliante verso la Serbia; e nel 1896 i due stati stipulavano infatti un trattato di commercio. Ma la questione della Macedonia rimaneva sempre aperta. In essa le agitazioni si erano intensificate per opera dei Bulgari, che formavano indubbiamente la maggioranza della popolazione: nel 1891 il bulgaro Delčev costituiva "l'organizzazione interna" sul tipo della Giovane Italia; nel 1894 veniva creata, allo scopo di diffondere l'idea dell'autonomia macedone, la cosiddetta "organizzazione esterna". Ma i Greci vi opposero subito il "sillogo elleno-macedone": e così le discordie interbalcaniche, nonche sopirsi, ricevettero nuovo e pericoloso alimento.
La situazione generale venne profondamente modificata dagli eventi del 1897-98: ché la disastrosa guerra dei Greci contro la Turchia, umiliando e prostrando lo stato ellenico, fu un colpo rude ai sogni fantastici dei megalomani di Atene. E altri eventi ancora si verificavano nel 1897, con immediata ripercussione sulla regione balcanica. Col trattato di Mürzsteg l'Austria e la Russia si impegnarono a rispettare lo status quo nella Regione Balcanica: la Russia cioè cedette il campo balcanico all'Austria per rivolgersi all'Estremo Oriente siberiano. L'Italia invece si faceva innanzi: nel 1896 aveva luogo il matrimonio del principe ereditario d'Italia, Vittorio Emanuele, con la principessa Elena del Montenegro; poco dopo l'Italia e l'Austria s'impegnavano a rispettare lo status quo dell'Albania (accordo di Monza fra Visconti Venosta e Goluchowski). L'Italia cioè, preoccupata dell'invadenza austriaca, iniziava anch'essa una sua politica balcanica che si affermò sempre più attiva nel 1901-1902-1903, specialmente nell'ostacolare la crescente egemonia dell'Austria e nello sventare i suoi piani di annessione dell'Albania. Il conte Francesco Guicciardini e il marchese di San Giuliano, reduci da un viaggio in Albania, fecero allora alla stampa e alla camera dichiarazioni, esplicite e sintomatiche, a favore del diritto nazionale albanese. Fu fondato poi un "consiglio albanese", sotto la presidenza del gen. Ricciotti Garibaldi, col programma "L'Albania agli Albanesi".
Senonché il 1903 l'assassinio del re Alessandro Obrenović di Serbia e l'elevazione al trono di Pietro Karagjorgjević, sopravvenne ad imprimere un nuovo orientamento alla politica serba, e con ciò a determinare un mutamento sensibilissimo nella situazione balcanica. Nicola Pašić, russofilo e bulgarofobo, capo del potente partito radicale serbo, divenuto presidente del consiglio e ministro degli esteri, impresse alla politica serba un orientamento decisamente antiaustriaco. Egli rivolse subito gli sguardi alla Macedonia, sicché questa regione infelice, ambita dai Bulgari e dai Greci, dovette ora soffrire anche per. l'ambizione dei Serbi. In essa nel 1903 una nuova insurrezione bulgara era stata barbaramente repressa; nel 1904, infine, comparvero i noti e famosi "comitagi" che poi pullularono fra i Bulgari, i Serbi, i Greci, i Valacchi, in lotta, oltreché coi Turchi, anche fra loro. Le potenze "più o meno direttamente interessate" intervennero allora con maggiore energia, istituendo una "gendarmeria internazionale" per assicurare l'ordine nel disgraziato paese. Ma il periodo in cui la gendarmeria funzionò (1904-1908) fu anche quello delle stragi maggiori.
In complesso il periodo 1903-1908 era caratterizzato soprattutto dal mutato atteggiamento della Serbia verso l'Austria: mutamento grave di conseguenze, anche perché dietro alla Serbia tornava ad affacciarsi la Russia. A questa potenza erano falliti i piani d'espansione nell'Estremo Oriente (guerra russo-giapponese 1904-1905): e pertanto essa ritornava verso i paesi a cui per lungo tempo era stata rivolta la sua azione. Gli eventi del 1908 fecero precipitare la situazione. La rivoluzione dei Giovani Turchi, che trasformò l'ordinamento interno della Turchia, ebbe per diretta conseguenza due eventi gravi per le loro ripercussioni entro e fuori la Regione Balcanica: l'annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria-Ungheria (4 ottobre 1908) e la proclamazione della Bulgaria a regno indipendente (5 ottobre 1908). Nella mancanza di tempo o nell'impossibilità di ottenere una regolare modifica diplomatica del trattato di Berlino, l'Austria-Ungheria commise l'errore di dargli uno strappo arbitrario. Per placare l'opinione pubblica dell'Europa, per sedare l'irritazione della Turchia, della Serbia, del Montenegro, dell'Italia, per evitare le incognite di una nuova conferenza, ritirò le sue truppe dal sangiaccato di Novi Bazar e si chiuse quindi da sola la porta che avrebbe dovuto, trenta anni prima, condurla per lo meno fino a Salonicco. L'Austria-Ungheria continuò ad essere una grande potenza balcanica (la guerra mondiale lo confermò), ma il suo sogno di egemonia fu pagato col problematico acquisto della Bosnia-Erzegovina. E invece essa acuì le animosità dei Serbi; spinse la Russia, irritatissima, a intervenire più decisamente nella vita balcanica e a farsi ancor più fervida sostenitrice della causa slava; mise in sospetto perfino l'alleata Italia, accrescendo i motivi di dissenso già insiti nell'alleanza. Per il momento tuttavia il pericolo d'una guerra fu evitato: ché dietro all'Austria apparve la Germania, e la Russia, non ancora risollevatasi dalla crisi del 1905, non era in grado di affrontare la lotta. Ma rimase viva la tensione morale. I Serbi intuirono che si andava avvicinando, per loro, il momento della lotta decisiva su due e forse su tre fronti (Turchia, Austria e Bulgaria). I Bulgari pure sentirono di doversi preparare all'ultimo cimento coi Turchi e, a Lausa della Macedonia, anche coi Serbi: ché l'innalzamento a regno aveva messo in evidenza le aspirazioni di egemonia bulgara. La necessità delle cose avrebbe però prima avvicinati i Balcanici contro il nemico comune, la Turchia; poi i Serbi avrebbero dovuto affrontare l'Austria-Ungheria e infine Bulgari e Serbi avrebbero dovuto giuocare fra loro la partita dell'egemonia balcanica. Questo stato d'animo serve a spiegare gli avvenimenti minuti, che si succedettero dal 1908 al 1912, anno critico della lega e della guerra balcanica.
Nel 1909, Milovanović serbo, e Malinov bulgaro, trattarono col concorso di Hartwig, ministro russo a Belgrado, una convenzione segreta di spartizione della Macedonia. Il 16 agosto 1910 Nicola del Montenegro assunse anche egli il titolo di re: alla cerimonia intervennero, cosa molto sintomatica, re Ferdinando di Bulgaria, il principe ereditario di Serbia Alessandro Karagjorgjević, il granduca russo Nikolaević e il re d'Italia Vittorio Emanuele III. Questa festa, trascorsa nella migliore cordialità apparente, nascondeva, invece, un inasprimento dell'antagonismo dinastico, serbo e montenegrino, per mettersi alla testa del movimento di redenzione di tutti i Serbi. L'antagonismo già nel 1905 aveva dato luogo a risentimentí, allorché Nicola del Montenegro aveva concesso la costituzione; nel 1907 era stato imbastito a Cettigne un misterioso "processo delle bombe" contro certuni che avrebbero voluto attentare alla vita del principe Nicola. Ma nello stesso anno 1910, anche la Grecia, prima prostrata dagl'insuccessi della guerra del 1897-98, rientrava in lizza con l'avvento al governo di Eleuterio Venizelos, che propose (nell'aprile) a Sofia un accordo, contro la Turchia. Gešov, presidente dei ministri bulgaro, stabilì (nell'ottobre) col serbo Milovanović le basi di un accordo bulgaro-serbo; nel dicembre si riunirono a Sofia i principi ereditarî degli stati balcanici per festeggiare la maggiore età di Boris di Bulgaria. Nella prima metà del 1912 maturò, all'insaputa dell'Europa, sotto gli auspici della Russia, quella Lega balcanica che sembrò essere il primo indizio di maturità politica dei popoli balcanici, ma che è invece da ritenersi l'opera alquanto affrettata di singoli uomini superiori, come Pašić, Venizelos, Gešov, Nicola del Montenegro. Seguirono le guerre, prima tra la Lega e la Turchia, poi fra gli stati stessi della Lega (v. balcaniche, guerre). Le grandi formule diplomatiche dell'"equilibrio balcanico" e dello status quo, escogitate per non toccare la spinosa "questione d'Oriente", andarono all'aria; tutti ebbero in bocca invece quella: "i Balcani ai popoli balcanici". Fu anche il momento in cui il duello diplomatico austro-russo si fece più serrato, e la tensione diplomatica fra i due paesi raggiunse il limite massimo: ché l'Austria-Ungheria, per ostacolare l'espansione serba, oltre ad aiutare la Turchia e l'Albania, si atteggio a protettrice della Bulgaria. Pomi di discordia erano Salonicco e Monastir, ambite dai Bulgari, dai Serbi e dai Greci. Ascoltando i ragionamenti di questi tre popoli a suffragio delle loro aspirazioni bisogna dire che tutti avevano ragione e torto nello stesso tempo. Chi adoperò la forza, chi l'astuzia e chi una cosa e l'altra. Quello piuttosto che fece difetto a tutti fu il senno e la moderazione politica. La nuova guerra fratricida si sarebbe potuta evitare se Pašić, che s'era sostituito ai Bulgari nelle simpatie russe, avesse fatto qualche concessione ai Bulgari nella valle del Vardar. Di fronte all'intransigenza serba la Bulgaria, spalleggiata dall'Austria (la quale aveva dichiarato che "in nessun caso avrebbe permesso la distruzione della Bulgaria") assunse un tono bellicoso: volle "la grande Bulgaria" per mezzo della guerra. Così s'iniziò la seconda guerra balcanica, conchiusa con la pace di Bucarest del 18 agosto 1913. La guerra, che doveva essere di liberazione definitiva dal giogo turco, s'era mutata in una guerra di sopraffazione reciproca tra le nazioni balcaniche.
La carta politica della regione balcanica era cambiata radicalmente; ma nessuno era molto più contento di prima. I Turchi avevano conservato Costantinopoli e Adrianopoli e questo voleva dire che il problema dei Dardanelli, elemento capitale della "questione d'Oriente", non era stato risolto a favore dell'Europa. La rinunzia a Costantinopoli rese malcontenti i Greci che avevano trionfato a Bucarest per la straordinaria abilità politica di Venizelos. I Bulgari, superiori a tutti come soldati, ma privi di uomini politici di speciale valore, assistevano, umiliati, al secondo crollo del loro sogno, realizzato per un istante a Santo Stefano. I Serbi e i Montenegrini, che potevano stendersi la mano attraverso l'ex-sangiaccato di Novi Bazar, erano delusi, i primi di aver perduto Durazzo, i secondi Scutari. I Serbi specialmente, bravi soldati e fortunati di aver avuto in Pašić un uomo politico eccezionale, non volevano arrestarsi a mezza via. L'Albania, che il 7 marzo 1914 aveva visto salire sul suo trono il principe di Wied, rappresentava un pomo di discordia fra l'Italia, ridestata dal nazionalismo, e l'Austria, che con la scomparsa del suo ultimo miraggio, Salonicco, aveva cessato di essere una potenza balcanica. Anche la Russia, delusa ed offesa, soffriva della sua impotenza. L'esaurimento generale avrebbe fatto sperare in parecchi anni di pace; ma gli animi di tutti erano arrovellati dalla sete di vendetta e di rivincita. In tanta stanchezza i Serbi, più irrequieti degli altri, continuarono a scherzare col fuoco; l'assassinio dell'arciduca ereditario d'Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914, per opera di giovani bosniaci, accese la miccia della grande conflagrazione mondiale nella guerra europea del 1914-1918.
La regione balcanica durante la guerra mondiale. - Nella guerra mondiale la regione balcanica rappresentò un teatro di operazioni interessantissimo per l'inizio, per le continue trasformazioni e complicazioni intermedie, per i risultati finali. Il raggruppamento degli stati balcanici attorno alle grandi potenze corrispose, come un corollario logico, agli avvenimenti che si erano svolti in questa penisola dal congresso di Berlino in poi. La Serbia e il Montenegro erano contro l'Austria-Ungheria, quindi dalla parte della Russia. La Turchia, che da parecchi decennî stava sotto l'influenza militare della Germania, sarebbe andata dalla parte dell'Austria. La Bulgaria non poteva, questa volta, andare insieme con la Serbia, perché la posta della partita era costituita dalla Macedonia; necessariamente si sarebbe schierata dalla parte dei Tedeschi. Schierandosi dalla parte delle cosiddette "potenze centrali", la Bulgaria avrebbe protetto il fianco occidentale della Turchia; non potendo però sperare di avere Costantinopoli, ai Bulgari conveniva che i Dardanelli non cambiassero padrone. Mai come in questo periodo i Bulgari si ricordarono di essere di origine turanica e quindi affini, nei tempi lontani, ai Turchi ed ai Magiari. La Grecia, stato semibalcanico ed eminentemente mediterraneo, doveva fare anche ora, come nella guerra balcanica, una politica differente da quella degli altri. Un trattato di alleanza la legava alla Serbia; più che delle secondarie aspirazioni territoriali, doveva però curarsi in questo momento della sua esistenza marittima, che dipendeva dall'Inghilterra e dalla Francia, ossia dall'Intesa, padrona dei mari. La Grecia doveva quindi mantenersi per qualche tempo neutrale, lasciando che re Costantino, cognato di Guglielmo II, alimentasse la corrente germanofila e che Venizelos coltivasse quella francofila (intesofila). La Romania poi, che non aveva nulla da rivendicare nella regione balcanica, ma che invece aspirava a redimere la Transilvania dagli Ungheresi e la Bessarabia dai Russi, doveva, più ancora degli altri, attendere in stato di neutralità che la sorte delle armi avesse fatto intravedere l'esito del conflitto. Anche qui ci furono due correnti, quella germanofila rappresentata dal re Carlo di Hohenzollern e quella francofila (intesofila) sostenuta da Take Ionescu e Jonel Bratianu.
I varî avvenimenti, d'indole politica e militare, che si seguirono nella regione balcanica, durante la guerra mondiale, saranno descritti a loro luogo. Qui basti ricordare che essi crebbero d'importanza, tanto dal lato marittimo internazionale, quanto da quello terrestre locale nel 1915: giacché, siccome la Russia era bloccata nel Mar Nero dalla Turchia, tutti gli sforzi dell'intesa furono rivolti ad aprire i Dardanelli (sbarco sulla penisola di Gallipoli). Durante tali tentativi la Russia precisa con un memoriale le sue pretese: la Tracia, Costantinopoli e gli Stretti. Ma le pretese russe ricevevano dura smentita dai fatti: ché l'Austria-Ungheria intraprendeva un'offensiva in grande stile verso i Balcani divenuti, dall'autunno 1915 alla fine del 1916, il teatro politico principale della grande guerra. La catastrofe serba, che culminò nel trasporto dell'esercito a Corfù per opera principale della marina italiana; l'abbandono dei Dardanelli da parte degl'Inglesi (gennaio 1916); la capitolazione del Lovćen (9 gennaio 1916) seguita presto dall'occupazione austriaca di tutto il Montenegro e poi anche dell'alta e media Albania; l'occupazione da parte di truppe bulgare della Macedonia orientale ponevano la regione balcanica per tre quarti in mano dei Tedeschi. All'Intesa non rimaneva che il campo trincerato di Salonicco. E se in un primo tempo la entrata in guerra, a fianco dell'Intesa, della Romania, poteva far presagire un mutamento generale della situazione; in un secondo tempo la defezione della Russia costrinse i Romeni a capitolare militarmente. Alla fine del 1916 tutta la Balcania continentale stava a discrezione degli Austro-Tedeschi: successo effimero, perché era solamente militare e perché l'occupazione di paesi, per lo più poveri, accelerò l'esaurimento dei viveri.
Il 1917, se fu per la Regione Balcanica un anno di momentanea stasi guerresca, fu invece ricco di eventi di natura politica. Il 9 aprile la Russia, già ferita a morte, pretese, con un manifesto, il possesso degli Stretti. Il 3 giugno fu proclamata l'indipendenza dell'Albania, sotto il protettorato italiano, in conseguenza del trattato di Londra. Ma soprattutto importante e grave di conseguenze era il cosiddetto "patto di Corfù". Il 30 luglio a Corfù, Pašić, quale rappresentante del regno di Serbia, l'avvocato Trumbić, quale presidente del "comitato iugoslavo" degl'irredenti Croati e Sloveni della monarchia austro-ungarica rifugiati all'estero, firmarono un patto, col quale furono gettate le basi del futuro stato costituzionale del Serbi-Croati-Sloveni, sotto la dinastia Karagjorgjević. Questo avvenimento segnò l'epilogo del lungo dissidio fra le due idee contrastanti della "Grande Croazia" e della "Grande Serbia" e aperse la via al nuovo imperialismo serbo. I Croati avevano cioè sperato che gli Asburgo li avrebbero aiutati a far risorgere nella nuova formula del trialismo austro-ungaro-croato, il "triregno di Croazia-Slavonia-Dalmazia", in altre parole la Grande Croazia, morta nel 1102. Questa speranza, che i Serbi nel loro sogno di ripristinare la Grande Serbia di Dušan avevano sempre combattuto, aveva indotto le masse croate a non disertare le trincee austriache. I Serbi perciò, che s'erano illusi di provocare la rivoluzione in tutti i territorî austro-ungarici, abitati da "slavi meridionali o iugoslavi", ne erano irritati. Il tentativo di fondere Croati e Serbi nell'idea superiore evoluzionista iugoslava, aveva entusiasmato solamente pochi nazionalisti, ma era stato rifiutato dalle masse, tanto serbe, quanto croate, e soprattutto da Pašić. Gli Sloveni, pochi di numero per pesare nella bilancia, si erano accodati ai Croati. Per conseguenza il "patto di Corfù", firmato senza sincerità dai suoi due autori principali, privo di risonanza fra le masse, sarebbe rimasto, assai probabilmente, lettera morta, se una parte dell'Intesa non ne avesse fatto una nuova piattaforma politica di cui i Serbi seppero approfittare, abilmente, per impostare la loro egemonia sui Croati, sugli Sloveni e sul resto dei Balcani. Venne il 1918. Il proclama di Wilson, detto dei "14 punti" (8 gennaio 1918), fece poco effetto sui Balcani. Ma il 10 aprile 1918 aveva luogo a Roma il Congresso delle nazionalità oppresse dell'Austria, da cui usciva un patto di fratellanza latino-slava, destinato ad avere ripercussioni indirette anche nei Balcani. La sorte delle armi intanto mutava a favore dell'Intesa, anche se la Romania era costretta, il 1° maggio, a firmare la pace separata di Bucarest. Il crollo dell'Impero austro-ungarico faceva scomparire dalla scena balcanica uno dei due grandi antagonisti che s'erano disputata l'egemonia sulla tormentata penisola: l'altro contendente la Russia, era stato eliminato l'anno prima. Così i popoli balcanici si trovarono soli (anche se, naturalmente, dietro ai Serbi, Romeni e Greci stesse l'Intesa). Vincitori erano riusciti i Serbi, i Romeni, i Greci; sconfitti i Bulgari e i Turchi. Gli Albanesi furono salvi anche questa volta, ma sempre per ragioni negative. Gli unici ad essere sacrificati ingiustamente furono i Montenegrini. L'abilità di Pašić, che seppe sfruttare alcuni insuccessi della politica di re Nicola, e gli interessi di alcune grandi potenze, cancellarono dalla carta politica questo piccolo stato, simpatico per il suo amore di libertà. Col 18 gennaio 1919, inizio della conferenza di Parigi, ebbero fine le agitazioni della guerra nell'occidente d'Europa, non nella regione balcanica. I popoli balcanici avevano combattuto nel quadro della grande lotta d'interessi, considerando però sempre le cose dal loro angolo visuale locale; perciò furono i più restii a comprendere le necessità dell'ora e del futuro.
Il trattato di San Germano del 10 settembre 1919 non ebbe nella regione balcanica che una debole ripercussione, in quanto sancì il distacco dall'Austria degli Slavi del sud, Sloveni, Croati, Serbi. Un trattato, eminentemente balcanico per la sua sostanza, fu invece quello di Neuilly (27 novembre 1919), firmato da Stamboliski per la Bulgaria, che ne uscì ancora rimpiccolita ed ebbe, magro conforto, la promessa di uno sbocco economico nell'Egeo. Con questi due trattati (e con quello successivo del Trianon) il Danubio fu dichiarato fiume internazionale, incominciando da Ulma, e fu posto sotto la sorveglianza di varie commissioni. In stretta relazione, poi, col trattato di Neuilly fu firmata una convenzione bulgaro-iugoslava (26 novembre 1919) sullo scambio delle popolazioni e un'altra consimile greco-bulgara (27 novembre 1919). Queste convenzioni, seguite più tardi da altre del medesimo genere, costituirono una novità nei rapporti interbalcanici e contribuirono a modificare di nuovo la compagine etnica della tormentata penisola. Seguì il trattato del Trianon, stipulato con l'Ungheria il 4 giugno 1920, che ebbe per la Regione Balcanica ripercussioni maggiori di quelle del trattato di S. Germano, perché fu un punto di partenza di quella nuova serie di alleanze, conosciuta col nome di Piccola Intesa. Infine il 10 agosto 1920 il trattato di Sèvres, che ridusse la Turchia a Costantinopoli e all'Anatolia.
La Regione Balcanica del dopoguerra. - Entrati in una nuova fase di vita, i popoli balcanici hanno tuttavia trascorso anni assai burrascosi. Da una parte i problemi interni: gravi specialmente quelli del regno dei Serbo-Croati-Sloveni per il cozzare violento delle idee egemoniche dei Serbi contro la volontà di piena uguaglianza dei Croati e Sloveni (v. iugoslavia); non lievi anche quelli della Romania (v.). E poi mutamenti di regime in Grecia, in Albania. Tutta una serie di complicazioni, minute o gravi, che saranno analizzate negli articoli dedicati ai singoli paesi balcanici, ma di cui si può dire sin d'ora che hanno mantenuto in varî stati un'atmosfera di agitazione e di lotta, poco propizia perché gli stati stessi si consolidassero.
Gravi soprattutto le questioni etnico-nazionali. Le guerre balcaniche del 1912-1913 avevano dato alla regione balcanica un nuovo assetto politico, basato sul principin di nazionalità, che pur nell'impossibilità di essere perfetto, lasciava adito a sperare in ulteriori perfezionamenti. Una volta stabilito che il principio di nazionalità dovesse essere la base giuridica della spartizione dell'eredità turca, alcuni dei nuovi stati pensarono di correggere certe deformazioni etniche entro i loro nuovi confini politici, ricorrendo ad uno scambio reciproco delle popolazioni allogene. Gli unici però che favorirono il riflusso dei loro connazionali furono i Turchi; perciò, a prescindere da varie altre ragioni, l'elemento musulmano si trova oggi in rapido regresso in tutta la regiqne balcanica. I Greci, in parte per necessità, in parte per calcolo, colonizzarono coi profughi dell'Anatolia tutto il retroterra di Salonicco e le coste della Tracia, abitate prima da Slavi (Bulgari), Armeni, Turchi. Per effetto dello scambio obbligatorio, fissato dal trattato di Losanna, quasi mezzo milione di musulmani passò in Asia Minore e un milione e mezzo, circa, di Greci ritornò in Europa. I Bulgari, invece, che non vogliono rinunziare alle speranze dell'avvenire, si sono opposti all'esodo dei loro connazionali da quelle regioni che fino a ieri erano considerate storicamente bulgare. Anche i Romeni non si mostrarono entusiasti di questi scambî di popolazioni; e hanno richiamato solo qualche piccolo nucleo, maggiormente esposto e minacciato nella Macedonia, per colonizzare i confini meridionali della Dobrugia. Gli Albanesi sono stati tagliati: la maggioranza vive entro i confini dello stato libero, ma più di un terzo è sottomesso alla Serbia e alla Grecia. Nel regno dei Serbo-Croati-Sloveni su 12 milioni di abitanti, due non sono nemmeno slavi. Nella Romania, poi, su circa 18 milioni di cittadini, 4 press'a poco non sono romeni. Il problema delle minoranze, questa moderna malattia politica, è quindi acutissimo in tutta la regione balcanica. Da esso trae alimento la questione macedone, sempre pericolosa e ad esso sono collegati tutti gli altri problemi minori odierni dei Balcani, come quello dello sbocco economico bulgaro all'Egeo, della zona serba a Salonicco, dell'Albania e della Dalmazia, quali parti integranti, le ultime due, della questione adriatica.
Importanti pure sono stati - e sono - i rapporti di politica internazionale. La creazione, sotto l'egida della Francia, della Piccola Intesa (v.), che pure comprende uno stato completamente al di fuori dagl'interessi balcanici (la Cecoslovacchia), ha permesso al regno dei Serbo-Croati-Sloveni (oggi ufficialmente Iugoslavia) di atteggiarsi a potenza egemonica nella regione balcanica. Tale politica ha naturalmente determinato forti opposizioni da parte degli altri stati: in certi momenti anche da parte della Grecia (questione di Salonicco, cioè del transito serbo attraverso la zona franca di questa città), ma soprattutto della Bulgaria e dell'Albania. Sono, si può dire, di ogni giorno le contese che sorgono tra Serbia e Bulgaria: l'attività dei Bulgari di Macedonia, che si sono decisi a ricorrere alla violenza per reagire contro il nuovo padrone serbo, è fomite continuo di discussioni e di tensioni diplomatiche nei rapporti dei due paesi. Né meno viva ha dovuto essere la reazione di stati, come l'Italia, che vedevano minaciato dai sogni serbi l'equilibrio balcanico e adriatico. Di qui, la politica italiana di stretta amicizia con l'Albania, sancita il 1926 e il 1927, coi due patti di Tirana; la cordialità dei rapporti italo-bulgari, testimoniata dalla visita del ministro degli Esteri di Bulgaria, Burov, a Roma (6 ottobre 1926), e dei rapporti italo-ellenici, sanzionata dalla visita di Venizelos a Roma (1928).
L'Italia è diventata la grande potenza direttamente interessata nella regione balcanica. La Francia, quantunque lontana dalla penisola e in essa non interessata, vi ha tuttavia svolto una notevole attività, a favore della Iugoslavia e della Romania: azione politica, a cui corrisponde una larga azione di penetrazione finanziaria e culturale delle due potenze della Piccola Intesa. L'Inghilterra invece ha ridotto d'assai il suo interessamento; l'ultimo suo grande atto di partecipazione alla politica balcanica è stato per spingere la Grecia alla guerra contro la Turchia, nel 1920-1921 (guerra che tuttavia esula completamente dalla vera vita balcanica). La Russia è stata per ora assente: la sua azione a favore della Turchia, in certe occasioni, fu ispirata da motivi extra-balcanici.
Bibl.: Come lavori d'insieme, cfr. A. Pernice, Origine ed evoluzione storica delle nazioni balcaniche, Milano 1915; Jorga, Histoire des États balkaniques, Parigi 1925; O. Randi, I popoli balcanici, Roma 1929; A. D'Alia, La Balcania nella sua evoluzione storico-politica, Bologna 1916; The Balkans. A History of Bulgaria, Serbia, Greece, Rumania, Turkey, ed. da N. Forbes e A. J. Toynbee, Oxford 1915; A. Muzet, Le monde balkanique, Parigi 1917; E. Pittard, Les peuples des Balkans, Parigi 1916; A. Wirth, Der Balkan, Stoccarda 1914. Cfr. i periodici: Balkan-Archiv, diretto dal prof. Weigand, Lipsia; Balkan Review, edita da Crawford Price, Londra. V. poi la bibl. annessa alle trattazioni sui singoli stati balcanici (albania; bulgaria; romania, ecc.), e alle voci bizantino, impero, e ottomano, impero.