PONTINA, REGIONE (A. T., 24-25-26 bis)
Regione del Lazio meridionale, che abbraccia il territorio, vasto circa 750 kmq., compreso fra i Monti Lepini, i Colli Albani e il Mar Tirreno, un tempo quasi interamente paludoso. Si ritiene che il nome derivi da quello della scomparsa città di Suessa Pometia, onde ager pometinus o pomptinus (e paludes pontinae). La pianura, interrotta soltanto all'angolo SO. dall'isolato M. Circeo di struttura analoga ai Lepini, doveva essere, ancora alla fine del Terziario e al principio del Quaternario, in massima parte un golfo poco profondo (dal quale il Circeo emergeva come un'isola), trasformato poi, durante il Quaternario, in una laguna, da movimenti di sollevamento più intensi verso il mare che alla base dei Lepini, talché la profondità maggiore di essa doveva riscontrarsi nell'interno, lungo una linea parallela all'incirca ai Lepini stessi. In seguito si ebbero probabilmente, con varia alternativa, abbassamenti c sollevamenti, per i quali l'aspetto della regione dovette più volte mutare in tempi preistorici e in tempi storici, forse anche in rapporto con oscillazioni climatiche (di piovosità) che influivano sulla portata dei corsi d'acqua e sull'intensità dei processi di alluvionamento. Oggi la piovosità è inferiore a 800 mm. sulla regione costiera e subcostiera; aumenta fin verso i m. alla base dei Lepini e supera tale cifra appena si salgono le ripide pendici di questi.
La regione si può, per i suoi caratteri naturali, dividere in tre parti:
a) La zona litoranea, che si stende da Torre Astura a Terracina. Essa è cȧratterizzata da lunghi cordoni di dune recenti (tumoleti) alte fino a 20-25 m., più o meno fissate dalla vegetazione, i quali, fra Torre Astura e il Circeo, separano dal mare alcuni laghi costieri stretti e allungati, il Lago di Fogliano, il più settentrionale e il più vasto, il Lago di Paola, oggi detto di Sabaudia, il più meridionale, e i due minori interposti, dei Monaci e di Caprolace. Essi rappresentano probabilmente antiche insenature, separate dal mare per la formazione dei tumoleti; prima dei recenti lavori di sistemazione erano soggetti ad oscillazioni di livello per la mancanza o per l'irregolare funzionamento delle comunicazioni col mare (foci) e perciò erano circondati da fasce acquitrinose invase da vegetazione palustre.
b) La regione alle spalle dei laghi, alquanto più elevata - da 20 a 40 m. - costituita da sabbie spesso marnose o calcaree, che rappresenta probabilmente una serie di dune quaternarie cementate. Essa era in buona parte ricoperta dalla macchia di pretto tipo mediterraneo, con aree di bosco d'alto fusto (querce, ecc.), e intercalazioni di radure erbose (lestre); frequenti erano piccoli stagni o pozze (piscine).
c) La regione interna, posta fra la precedente e la base dei Lepini, costituente la palude vera e propria e corrispondente all'incirca all'area nella quale la primitiva laguna aveva la massima profondità. Questa regione aveva un'idrografia quanto mai irregolare. Ricche sorgenti carsiche alla base dei Lepini - come quelle di Ninfa - alimentavano corsi d'acqua relativamente copiosi (Ninfa, Teppia), i quali, al pari di quelli provenienti dal cuore del massiccio Lepino (Amaseno), trovavano ostacolato il regolare deflusso al mare dalla piccolissima pendenza del terreno, dall'impedimento dei cordoni di dune lungo mare, e anche dall'intensità dei processi di alluvionamento e dalla vegetazione acquatica.
Date le condizioni dell'ambiente, la Regione Pontina non aveva fino a pochi anni fa abitanti stabili, tranne in pochi casali, per lo più lungo la via Appia; e le sue condizioni economiche erano quanto mai rudimentali, perché basate sull'allevamento (ovini, suini, bufali), nelle radure della macchia, e anche sul taglio dei boschi. Una popolazione temporanea viveva in capanne riunite di solito a gruppi nelle lestre, in condizioni molto primitive; essa era data da genti provenienti dal Subappennino laziale, che trascorrevano nella regione circa 8-9 mesi (ottobre-giugno).
Gli antichi (cfr. Plin., Nat. Hist., III, 5, 9) credettero che nell'età omerica solo il Monte Circeo emergesse dalle acque e che tutta la pianura circostante fosse sommersa; in seguito, con i detriti portati dai fiumi Ufente e Amaseno, che scendono dai Monti Volsci, la pianura si sarebbe in parte riempita formando le paludi. Non sappiamo però come conciliare questa ipotesi con l'altra notizia che prima dell'occupazione romana trenta città vivevano nel territorio stesso, di cui la principale era Suessa Pometia. Ciò che in ogni modo è certo, è che l'Agro Pontino, nel periodo romano, non era così malsano come fino a poco tempo fa, perché è detto da Livio (II, 34; IV, 25; VI, 5, ecc.) popoloso e fertile, e più volte vi furono condotte colonie di nuovi cittadini; inoltre due tribù furono fondate nel territorio stesso: la Pomptina e la Ufentina.
I numerosi resti di ville romane, di cisterne d'acqua, di sepolcri, di opere di canalizzazione, tra cui il famoso canale del Decennovio, oggi Linea Pia, scavato per fare da collettore alle acque più basse, sono la prova che la regione, per riuscire abitabile, richiese sempre cure per la regolazione delle acque, specialmente negli ultimi due secoli della repubblica e nel primo secolo dell'impero. Questa popolazione abitava di preferenza la zona tra i monti e la via Appia (Vallate di Sezze, di Priverno e di Terracina), le pendici del Circeo e i bordi dei laghi di Sabaudia e di Fogliano. La zona intermedia doveva essere anche durante l'antichità molto acquitrinosa, sebbene l'acqua fosse meglio regolata da opere artificiali, mentre una razionale alberatura doveva limitare la regione invasa dalle acque.
Tuttavia il problema della bonifica delle Paludi Pontine preoccupò sempre gli uomini di stato romani. Il primo tentativo si ebbe nel 160 a. C. per opera del console Cornelio Cetego, quello stesso che scavò la fossa parallela alla via Appia, collegata con altre fosse ortogonali. Sembra che il sistema desse buoni risultati, perché fino ai tempi di Cesare non si parla di nuovi lavori. La palude pontina si era, a quell'epoca, allargata invadendo tutti i campi più fertili, così da rendere quasi impraticabile la via Appia e irrespirabile l'aria dei luoghi vicini. Cesare (v. Suet., Caes., 44; Plut., Caes., 58; Cassio Dio., XLIV, 5) concepì il gigantesco disegno di sottrarre a tanta rovina le migliori campagne del Lazio, facendo scavare da Ostia a Terracina, attraverso il territorio pontino, un grande canale per immettervi, oltre a quelle della regione, le acque del Tevere. Il progetto ideato da Cesare prevedeva la deviazione di tutto il corso inferiore del Tevere, il quale, invece di scorrere dall'odierno Ponte Milvio, tra il campo Vaticano e il campo di Marte, verso Ostia, sarebbe stato diretto nel golfo di Terracina girando attorno al campo Vaticano e al Gianicolo e quindi, in linea retta, attraversando le Paludi Pontine. Mercé cotesto piano gigantesco erano d'un tratto, da un lato, moltiplicate le possibilità, rese rarissime, di fabbricare nella capitale (posto infatti il campo Vaticano sulla sponda sinistra del Tevere, esso poteva sostituire il campo di Marte e questo essere destinato a pubblici e privati edifici); dall'altro venivano asciugate le Paludi Pontine e in generale la spiaggia latina, e si procacciava alla capitale un porto di mare sicuro, già da tanto tempo sospirato.
La morte improvvisa impedì al dittatore la realizzazione del suo progetto. Augusto lo riprese forse in parte (Hor., Art. poet., 65), ma senza ottenere grandi risultati, perché Quintiliano ne parla (Inst. Orat., III, 8, 16) come una delle questioni più dubbie e più discusse al suo tempo, insieme con la creazione del porto ostiense e con la scoperta di nuove terre da parte di Alessandro Magno.
Si è supposto che Traiano, quando restaurò tutta la via Appia, sistemasse anche la palude, ma non si hanno notizie in proposito, né sul terreno si trovano tracce di opere di quel periodo. Forse Traiano ripulì il canale del Decennovio, che era prossimo alla via, ripristinando il regolare deflusso delle acque basse verso il mare.
Soltanto sotto il regno di Teodorico si parla d'un nuovo progetto di bonifica delle Paludi Pontine, eseguito in grande stile dal munifico re goto (Cassiod., Variae, II, 32-33 Corpus Inscr. Lat., X, n. 6850-51) per iniziativa di un tal Cecilio Decio, vir magnificus atque pabricius, il quale chiese al re in compenso una parte delle terre bonificate per sé e per i suoi discendenti. Possiamo immaginare in quale stato fossero le paludi dopo tanti secoli di abbandono, quando per le invasioni barbariche, per le pestilenze e soprattutto per la malaria la popolazione aveva disertato le campagne e si era ritirata entro le città fortificate o nelle immediate vicinanze. Il nobile tentativo di Teodorico, non assecondato dall'opera continuativa dei suoi successori, ebbe un effetto di poca durata e all'affacciarsi delle prime invasioni saracene l'Agro Pontino fu interamente abbandonato, né altro si tentò per tutto il Medioevo.
I papi Eugenio IV, Callisto III, Pio II compirono tentativi per redimere le paludi, ma non ebbero il merito di legare il loro nome a opere durevoli ed efficaci. Leone X concepì il vasto disegno di far prosciugare la palude e diede incarico al fratello Giuliano de' Medici di effettuarne il prosciugamento a sue spese. Ma l'impresa, tentata più volte, fallì per colpa degli stessi abitanti, che preferirono la pesca alla salubrità del terreno. Dopo altri tentativi compiuti da Sisto V e da Clemente VIII, si susseguirono investiture e concessioni fatte dai pontefici, succedutisi sulla cattedra di San Pietro (Urbano VIII, Innocenzo X, Alessandro VII, Innocenzo XI, Innocenzo XII), a impresarî, quasi sempre stranieri (Olandesi, Fiamminghi), alle quali seguirono sempre fallimenti e abbandoni dei lavori.
Nel 1730, Benedetto XIII vagheggiò il disegno di compiere l'opera tante volte e sempre invano tentata, incaricando i periti Romualdo Bertaglia e Francesco Ramberti di visitare le paludi e di proporre i lavori di prosciugamento, che furono però troncati dalla morte del papa e non poterono essere proseguiti dal suo successore Benedetto XIV. Clemente XIII affidò al geometra Angelo Sani l'incarico di studiare l'impresa: nel 1762 fu deciso di portarla a termine a spese dello stato, ma la carestia, che stremò il pubblico erario, interruppe ancora una volta i lavori.
Arriviamo così all'epoca di papa Pio VI, il quale, nel 1777, si pose all'opera, nulla risparmiando per la sua riuscita. Da Bologna furono chiamati i più celebri idraulici del tempo, Gaetano Rappini, il Boldrini e lo Zanotti. La direzione dei lavori fu affidata al Rappini, il quale, dopo un'accurata visita compiuta sul posto, delimitò le terre che dovevano essere bonificate. Il capolavoro del progetto fu rappresentato dall'apertura di un canale costeggiante la via Appia, al quale si diede il nome di Linea Pia e che è l'asse principale di scolo del bacino pontino. Al finanziamento dell'impresa fu provveduto con la costituzione di una società per azioni con un capitale di 120.000 scudi e non mancarono sul principio successi. Ma in progresso di tempo la necessità di sempre maggiori mezzi, le critiche degli scettici, le inevitabili difficoltà di un'impresa così grave, minacciarono di mandare tutto a monte. Pio VI però, con incrollabile tenacia che seppe trasfondere nei suoi collaboratori, con ripetute visite sul luogo dei lavori, quasi annuali dal 1780 al 1796, non desisté dal proposito e riuscì a conquistare alla palude alcune migliaia di ettari mediante l'opera assidua di 3500 operai, e la spesa complessiva di 1.500.000 scudi. In definitiva la palude fu notevolmente ristretta e in relazione alla bonifica del territorio pontino fu costruita, sul tracciato dell'antica via Appia, la nuova strada da Velletri a Terracina, che abbreviò notevolmente la distanza tra Roma e Napoli, ripristinando la facile e agevole comunicazione al piede dei monti, in luogo della faticosa strada che correva sulle alture fra Sezze e Priverno. Non altrettanto sollecita e tenace fu l'opera per la messa a coltura dei terreni bonificati, dati per lo più in enfiteusi al nipote del papa, Luigi Braschi. Così i benefici risultati conseguiti da Pio VI andarono poi in gran parte perduti.
Napoleone, divenuto imperatore, concepì il disegno di riprendere i lavori iniziati e così felicemente condotti innanzi da Pio VI. Ma l'astro napoleonico tramontava in breve e l'opera rimaneva, anche questa volta, incompiuta. Il trambusto politico dei tempi, dopo l'esilio di Napoleone e la restaurazione di Pio VII, pose in disparte il problema dell'Agro Pontino, e bisogna arrivare al 1817 per ricordare come questo pontefice impartì le norme per la costituzione del consorzio dei proprietarî dell'Agro, ispirandosi ai concetti che già avevano informato l'opera del suo predecessore Pio VI.
Sotto il pontificato di Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI nulla si fece di notevole per la soluzione del grave problema. Pio IX non mancò di rivolgere le sue cure all'Agro Pontino, facendovi eseguire sia pure limitati e poco rilevanti lavori, ma riuscendo finalmente a dar pratica attuazione al consorzio degli enfiteuti e dei proprietarî per le opere di manutenzione del bonificamento, le quali, fino allora, erano rimaste a intero carico della Camera Apostolica e quindi dello stato.
Nell'intenzione di tutti i bonificatori di cui siamo venuti discorrendo era invalso il concetto semplicistico che, per far risorgere quelle terre all'antica gloriosa fertilità, bastasse ovviare al disordine idraulico, facendo scorrere i fiumi nell'antico letto, riaprendo i canali che si erano ostruiti. Ma la compiutezza delle opere idrauliche non poteva bastare a ridestare all'antico splendore quelle terre: occorreva combattere e disciplinare, per il trionfo della grande impresa di risanamento di quel territorio, anche il fenomeno del nomadismo.
Ogni opera di bonifica è destinata a venir meno, se non sia consolidata dall'intervento dell'uomo tenacemente vincolato alla terra da lui coltivata con tutte le sue forze, riscattata, giorno per giorno, mercé il suo lavoro, così da unire alla terra la persona del contadino con un legame inscindibile, in modo che se manca l'uno elemento, consegue la morte dell'altro. Le bonifiche imperiali e pontificie fallirono, perché non furono precedute e preparate da un'azione perseverante intesa a ricondurre l'uomo sulla terra, a fissarvelo, a creare quelle condizioni d'ambiente che gli rendessero possibile la vita; a sostenerlo, con ogni mezzo sociale e igienico di difesa, nella sua nuova esistenza; e anche perché mancò un'azione che regolasse e disciplinasse le correnti immigratorie dell'Agro.
Il più recente studio per il bonificamento idraulico dell'Agro Pontino è stato eseguito nel 1918 dal genio civile di Roma, che lo divise in due grandi comprensorî: quello di Piscinara sulla destra del fiume Sisto e quello Pontino propriamente detto, sulla sinistra. Mentre il Consorzio della bonificazione pontina eseguiva i lavori nel comprensorio di sua spettanza, nel 1919 si costituì il Consorzio di Piscinara per l'esecuzione delle opere previste. I lavori relativi però ebbero inizio soltanto nel 1926.
Un'estesa rete di ottime strade, i grandi canali collettori, varî idrovori per il prosciugamento dei terreni più bassi, la sistemazione e il risanamento dei laghi litoranei, la colmata di vaste bassure, molta parte della rete dei colatori di bonifica rappresentano il frutto dell'attività svolta dai due consorzî per la redenzione dell'Agro Pontino.
Ma a essa non corrispondeva l'azione integrativa dei proprietarî che, pur essendo per la maggior parte enti e società forniti di mezzi, nulla avevano fatto per il miglioramento dei terreni, nel campo agrario, limitandosi a favorire i pascoli: così lungo le comode nuove strade aperte per il progresso dell'agricoltura sorgevano nuovamente le staccionate a difendere le riserve e a ostacolare il passo all'aratro. Era pertanto indispensabile un intervento superiore per integrare e valorizzare le opere di bonifica idraulica e per evitare che gli sforzi compiuti venissero frustrati dall'inerzia della proprietà privata. Benito Mussolini, con saggio provvedimento, segnava le direttive per la pronta e completa soluzione del secolare problema e affidava all'Opera nazionale per i combattenti il poderoso compito del bonificamento integrale dell'Agro Pontino.
Con esatta visione della situazione e con grande fede ed entusiasmo l'Opera nazionale per i combattenti dava immediato inizio ai lavori, e attuava, nel 1932, la prima parte del programma, eseguendo e ultimando: 1. i lavori di trasformazione fondiaria su circa 10.500 ettari di terreni, con la costruzione di 500 case; 2. i lavori per la costruzione del centro del nuovo comune di Littoria. Il 30 giugno 1932 si fondava Littoria e il 18 dicembre 1932 Benito Mussolini la inaugurava insieme con il primo lotto di bonifica. Il 5 agosto 1933 il Duce fondava il secondo comune dell'Agro Pontino: Sabaudia. Il 18 dicembre 1933 egli inaugurava il secondo lotto di bonifica e il 15 aprile 1934 il re inaugurava Sabaudia.
Oggi 1350 famiglie abitano le comode case coloniche costruite sui terreni riscattati all'acquitrino e alla malaria e procedono alle normali operazioni colturali. Nei nuovi centri di Littoria e Sabaudia e in dieci nuove borgate, che portano i nomi di gloriose pagine di eroismo, è già tutto un fervore di vita e di attività feconda.
Il 18 dicembre 1932, il capo del governo italiano, nel discorso dal balcone del Palazzo comunale di Littoria, in occasione dell'inaugurazione dei lavori eseguiti nel 1932, fissava il successivo programma di lavori che l'Opera nazionale per i combattenti con fede e slancio va attuando puntualmente. Entro il 1933 furono condotti a termine i lavori di trasformazione fondiaria relativi al secondo lotto su 14.100 ettari di terreni incolti, distribuiti nei comuni di Littoria, Cisterna, Nettuno, Sezze e Sermoneta, con la costruzione di 850 case coloniche e la costituzione di otto centri aziendali per la direzione agraria, la sperimentazione e l'assistenza tecnica ai coloni. Sono ora quasi ultimati i lavori dí trasformazione fondiaria del terzo lotto, che riguardano complessivamente 17.000 ettari di Littoria, Cisterna, Nettuno, Sezze, Sabaudia, S. Felice e Terracina, con la costruzione di 1097 case coloniche e la costituzione di quattro centri aziendali. L'Opera nazionale per i combattenti, inoltre, ha costruito una colonia marina per 400 bambini, due villaggi operai, capaci di dare alloggio a più di cinquemila persone, ciascuno dei quali comprende dormitorî, dispense, sale di riunione, lavatoi, pozzi, impianti di luce.
A dare un'idea dello sforzo poderoso compiuto dall'Opera nazionale per i combattenti per redimere le Paludi Pontine, sono più che sufficienti le cifre che si riferiscono alla situazione dei lavori al 28 ottobre 1934: case coloniche, n. 2447; strade, km. 416; canali, km. 1756; scoline, km. 9800; dicioccatura, ha. 20.300; dissodamento, ha. 41.600. Importo dei lavori appaltati, L. 197.000.000. Mano d'opera occorrente: numero medio giornaliero degli operai, 13 .500; numero delle giornate lavorative, 480; numero complessivo delle giornate di operaio, 6.483.000.
V. tavole CCVII-CCXII; e v. anche bonifica, VII, tavole LXXIX-LXXXVII, LXXXIX, XC.
Bibl.: D. A. Contatore, De historia Terracinensi, Roma 1706; N. Nicolai, De' bonificamenti delle terre Pontine, Roma 1800; G. De Prony, Description hydrographique et historique des Marais Pontins, Parigi 1822; G. Lugli, Forma Italiae, Regio I, latium et Campania I, Ager Pomptinus, Pars Secunda, Circeii, Roma 1926; V. Orsolini-Cencelli, Le paludi Pontine nella preistoria, nel mito, nella leggenda, nella storia, nella letteratura, nell'arte e nella scienza, Bergamo 1934.