REGIONE
(XXVIII, p. 1000; App. II, II, p. 680; IV, III, p. 194)
Il concetto di regione. - Geografia e scienze regionali. - Nel periodo compreso fra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta il concetto di r. è tornato alla più viva attualità, non solo nella disciplina che lo aveva prodotto, la geografia, ma in un ben più vasto campo interdisciplinare, definito appunto come ''scienze regionali''. Queste, invero, avevano preso origine già dagli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, per iniziativa di studiosi dell'economia applicata al territorio, fra i quali si segnala W. Isard; ma solo in epoca più recente la riflessione epistemologica si è rivolta (in Italia, sotto la spinta determinante di A. Vallega) a una nuova interpretazione globale dello spazio geografico, avvalendosi di isomorfismi scientifici mutuati, in particolare, dalla teoria generale dei sistemi.
Un breve excursus storico non può fare a meno di richiamare l'originaria accezione naturalistica del termine "regione", inteso come ambito uniforme per caratteri geologici, morfologici, climatici, idrografici, biologici: ciò, nel quadro della concezione ottocentesca di un determinismo ambientale pressoché assoluto, che trovava fondamento nell'ancora debole capacità modificatrice dell'uomo. Dall'inizio del Novecento, il rapporto si ribaltava nell'impostazione possibilista, che riconosceva all'intervento umano le più ampie capacità d'improntare, attraverso il proprio genere di vita, l'organizzazione di ambiti spaziali accomunati − questa volta − dalla storia e dalla cultura.
I concetti di r. umanizzata e di paesaggio, che ne derivavano, erano destinati però a trovare un limite nella crescente complessità delle relazioni sociali ed economiche, di fronte alle quali i singoli tradizionali assetti del territorio perdevano i loro connotati di originalità e sfumavano, sempre più, in un processo generale che trovava il motore nella città e l'espressione maggiormente vistosa nella localizzazione industriale. Si rendevano necessari, pertanto, nuovi strumenti interpretativi, fondati sulla polarizzazione, ovvero la capacità di attrazione esercitata da località centrali, a loro volta classificabili in una gerarchia di funzioni più o meno rare e qualificanti. In tal modo, a partire dagli anni Cinquanta, si tendeva a identificare la r. con una trama di centri (urbani) e una struttura di flussi (di beni e persone), regolati dai divari di dotazione e dalla frizione delle distanze da superare, e si affermavano decisamente i metodi quantitativi di valutazione delle potenzialità regionali, attraverso modelli gravitazionali e tecniche statistiche di analisi fattoriale.
Anche queste procedure tassonomiche, a volte troppo rigide e persino devianti, si rivelavano insufficienti a spiegare l'evoluzione dei rapporti spaziali. Riemergeva così, negli anni Settanta, l'importanza della dimensione temporale, come processo continuo lungo il quale il sistema regionale evolve, tendendo all'equilibrio (curva logistica), ma eventualmente attraversando fasi di crescita accelerata (curva esponenziale) e incontrando momenti di rottura (fasi rivoluzionarie), che può superare solo modificando il proprio orientamento in termini di impiego delle risorse, divisione del lavoro e scenari finalizzati. Si giunge, in questo modo, alla r. come ''sistema spaziale aperto'', ovvero complesso di elementi territoriali, sociali e produttivi, tutti reciprocamente interagenti, che si avvale di contributi (inputs) esterni, rielaborandoli e, a sua volta, emettendo flussi (outputs) verso altri sistemi. Naturalmente, i fenomeni di concentrazione funzionale mantengono piena rilevanza e determinano ritmi di sviluppo generalmente diversificati nelle varie parti di uno stesso sistema (allometria); ove tali squilibri tendano a estremizzarsi, il sistema in questione perde capacità coesiva e va incontro a un ''disordine'' socio-spaziale (entropia) che rischia, nei casi limite, di causarne la definitiva crisi e l'assorbimento da parte di uno o più altri sistemi.
Il limite ideologico della teoria sistemica applicata alla r., piuttosto che in presunte forme di neodeterminismo (escluse dallo stesso principio di equifinalità, secondo cui, in un sistema aperto, un medesimo stato finale può essere raggiunto in diversi modi e a partire da diverse situazioni iniziali), è forse da ravvisarsi nella condizione di sostanziale chiusura che − almeno allo stato attuale − caratterizza la Terra, massimo sistema regionale, di cui le altre entità geografiche (continenti o grandi unità fisiche; divisioni politiche; comunità economiche; alleanze militari; aree etnico-linguistiche; ecc.) costituiscono i subsistemi: problema richiamato dal più e meno recente dibattito sui limiti dello sviluppo, se è vero che la crescita urbano-industriale avrebbe innescato effetti di retroazione difficilmente reversibili in termini di sfruttamento delle risorse e danno ambientale, ormai a dimensione planetaria. Al di là della riflessione di portata più ampia, sembra utile tornare, ora, ai temi concreti della r. come ambito di analisi e di gestione dello spazio geografico, e in particolare alle modalità di una sua possibile delimitazione. Appare evidente, da quanto detto sopra, che l'individuazione di confini regionali non dovrebbe avvenire in base a criteri predeterminati (fisici o politico-amministrativi), bensì adeguarsi ai caratteri funzionali emergenti negli stadi successivi del processo di sviluppo. Di fatto, tuttavia, ciò si verifica non sempre, e anzi raramente, per la rigidità delle strutture di governo del territorio. La revisione dei compartimenti istituzionali è difficoltà comune a quasi tutti gli stati, di antica come di nuova formazione: il Regno Unito la ha affrontata nei primi anni Settanta, senza grande successo; l'Italia conserva, in pratica, l'articolazione regionale e provinciale immediatamente postunitaria; negli Stati Uniti il sistema ''a griglia'', adottato fin dal Settecento per controllare l'avanzata pioniera e basato su tratti di meridiani e paralleli, condiziona ancora oggi l'utilizzazione del suolo e la rete di comunicazioni; molti paesi di più recente decolonizzazione subiscono pesanti effetti negativi dalle divisioni territoriali anteriori all'indipendenza. D'altro canto, le barriere geografiche (rilievi, corsi d'acqua) continuano a ostacolare le convergenze regionali, anche quando le moderne tecnologie ne rendono possibile, in apparenza, il superamento: la crisi di grandi aree montane, come le stesse Alpi, sembra dipendere in misura crescente dalla mancanza di unità; mentre i fiumi − numerosissimi − lungo i quali è tracciato un confine vedono le due sponde soggette a decisioni di assetto differenti, quando non contrastanti.
I criteri di regionalizzazione (intendendo, con questo termine, gli orientamenti del processo di organizzazione regionale) dovrebbero, dunque, riferirsi a entità geografiche suscettibili di trattamento con procedure sistemiche, sia pure a scala diversa. Si ritiene, qui, di segnalare:
a) il criterio idrografico, da cui deriva una regionalizzazione su basi fisiche, tuttavia gerarchizzata dall'''albero'' delle confluenze e generalmente favorevole alla penetrazione e all'insediamento umano; la sua rilevanza è accresciuta, oggi, dalla necessità di controllare il fondamentale ciclo dell'acqua, per le interferenze degli usi agricoli, urbani e industriali, con i relativi effetti sull'inquinamento dei fiumi stessi e dei mari;
b) il criterio storico-culturale, che tende a rivalutare le preesistenze regionali e, soprattutto, il rapporto di reciproca appartenenza fra uomo e territorio, da interpretare attraverso filtri percettivi e sociologici certamente legati a una marcata soggettività, ma essenziali per favorire l'accettazione degli interventi di modificazione dell'ambiente e delle attività produttive;
c) il criterio nodale o reticolare, che privilegia la distribuzione spaziale delle funzioni e nel cui ambito ricade l'analisi dei nuovi assetti urbani, tendenti a una struttura policentrica sostenuta da elevata mobilità. Alle teorie classiche della centralità si sostituiscono modelli d'interazione maggiormente flessibili, per valutare le relazioni reciproche fra punti d'intensificazione del tessuto demo-economico e le opportunità localizzative che ne conseguono.
In ogni caso, la r. si configura come entità reale, e non semplice categoria concettuale, il cui funzionamento dipenderà dall'equilibrio raggiunto fra le diverse componenti, dalla mediazione fra esigenze di controllo e spinte evoluzionarie, dal grado di articolazione interna (si ricordi in proposito, per l'Italia, l'ampio dibattito sull'individuazione di ambiti comprensoriali intermedi fra regioni istituzionali e unità comunali) e, soprattutto, dalla capacità d'integrazione sovraregionale.
Bibl.: AA.VV., Comprensori, ristrutturazione istituzionale e territorio, a cura di M. Balbo, Milano 1978; A. Frémont, La regione, uno spazio per vivere, a cura di M. Milanesi, ivi 1978; A. Vallega, Compendio di geografia regionale, ivi 1982; AA.VV., Teorie e metodi della regionalizzazione, n. monogr. della Rivista Geografica Italiana, Firenze 1982; AA.VV., Regione e regionalizzazione, a cura di A. Turco, Milano 1984; P. Bonora, Regionalità. Il concetto di regione nell'Italia del secondo dopoguerra (1943-1970), ivi 1984; C. Gore, Regions in question. Space, development theory and regional policy, Londra 1984; A. Reynaud, Disuguaglianze regionali e giustizia socio-spaziale, a cura di M.C. Zerbi, Milano 1984; AA.VV., Sviluppo multiregionale: teorie, metodi, problemi, a cura di G. Bianchi e I. Magnani, ivi 1985; P. Aydalot, Economie régionale et urbaine, Parigi 1985; AA.VV., Il processo regionale. Teorie e politiche del cambiamento territoriale, a cura di S. Guglielmino, Catania 1986; AA.VV., Integrated analysis of regional systems, a cura di P.W.J. Batey e M. Madden, Londra 1986; G.L. Clark, M.S. Gertler, J.E.M. Whiteman, Regional dynamics. Studies in adjustement theory, Boston 1986; A. Celant, Geografia e squilibri regionali. Il Mezzogiorno d'Italia, Roma 1990.
Le regioni italiane. - Evoluzione politica e istituzionale (1968-1990). - Nel 1968 il Parlamento istituì, nel rispetto del dettato costituzionale, 15 r. a statuto ordinario e fissò al 1970 le prime elezioni regionali. Con questo atto giungeva a compimento un processo iniziato sin dal 1948 con l'istituzione delle prime r. a statuto speciale, la Sicilia, la Sardegna, il Trentino-Alto Adige e la Valle d'Aosta e proseguito nel 1963 con l'istituzione della quinta e ultima r. a statuto speciale, il Friuli-Venezia Giulia, per la quale si era dovuto attendere il ritorno di Trieste e del suo territorio all'amministrazione italiana (1954).
Le elezioni amministrative (v. tabb. 1-5), svoltesi ogni cinque anni, nelle r. a statuto speciale registrarono in generale risultati molto vicini a quelli delle elezioni politiche nazionali, a parte quelle r. come il Trentino-Alto Adige e la Valle d'Aosta, nelle quali si affermarono forti partiti autonomisti: la Südtiroler Volkspartei nella prima e l'Union Valdôtaine nella seconda, mentre in Sardegna il Partito sardo d'Azione rimase una formazione nettamente minoritaria.
Se l'istituzione di queste r. aveva costituito una risposta a istanze separatiste e a problemi posti da minoranze culturali e linguistiche, e proprio per questo motivo il loro peso sul piano nazionale era stato scarso, ben altre conseguenze ebbe la nascita delle r. a statuto ordinario. La politica di queste ultime, subito dopo la loro istituzione, si caratterizzò per il notevole sforzo di ricerca di consenso, particolarmente percepibile nel lavoro di preparazione degli statuti regionali. Le r. inoltre mirarono fin dall'inizio a interpretare con una certa ampiezza il loro ruolo, facendo riferimento alla Costituzione. Il problema era collegato al fatto che non tutti i partiti si erano mobilitati allo stesso modo a favore dell'istituzione delle regioni. Mentre quelli di sinistra ritenevano che queste potessero dare una scossa al sistema politico dell'intero paese, la DC e i partiti di destra tendevano a dare un'interpretazione riduttiva del decentramento, che consideravano prevalentemente amministrativo. Inoltre il ritardo nell'attuazione aveva favorito il consolidarsi delle tendenze centralistiche a scapito delle spinte al decentramento, cosicché i diversi apparati dello stato, ministeri e altri organismi, opponevano una resistenza attiva o passiva al trasferimento delle competenze.
Dopo le elezioni del 1970 (v. tab. 6) si costituirono in gran parte delle r. giunte di centro-sinistra tranne che nel Veneto, nel Molise, nella Basilicata, dove fu varato un monocolore DC, e in Emilia-Romagna, Toscana e Umbria dove si insediarono giunte di sinistra. All'inizio del 1974 si cominciarono a delineare, anche tra i partiti della coalizione governativa, posizioni favorevoli al passaggio di più ampi poteri alle regioni. Forti spinte in questa direzione vennero soprattutto dalla Lombardia, in cui era particolarmente attiva la sinistra democristiana, e dall'Emilia-Romagna, governata dai comunisti. Tra i più rilevanti risultati di questo nuovo atteggiamento propositivo va indicata la l. n. 1044 del dicembre 1971 istitutiva degli asili-nido, con la quale si riconosceva ai bambini dalla nascita ai tre anni il diritto all'istruzione e non alla semplice custodia: la legge, infatti, affidava alle r. il compito di stabilire i criteri per la costruzione, la gestione e il controllo di queste nuove istituzioni educative.
Queste iniziative trovarono un ulteriore incoraggiamento nei risultati delle elezioni del 1975 (v. tab. 7) in cui si registrò un notevole successo delle sinistre (+5,5% al PCI; +1,6% al PSI) e una secca sconfitta della DC (−2,5%). Essendosi il PSI svincolato dall'alleanza nazionale, fu possibile costituire giunte di sinistra (PSI+PCI) in Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Toscana. Nel Lazio, a partire dal 1976, fu varata una giunta costituita da PCI, PSI, PSDI, PRI. Le altre giunte furono omogenee alle alleanze nazionali.
La serie di iniziative volte ad allargare lo spazio dell'autonomia regionale trovò una prima significativa realizzazione concreta e generale nella l. 382 del 22 luglio 1975 che definiva le norme dell'ordinamento regionale e dell'organizzazione della pubblica amministrazione. In base a questa legge "tutti i poteri che la Costituzione attribuiva alle r., e che al momento erano esercitati dai ministeri e/o da enti nazionali, dovevano essere trasferiti in una forma organica e non frammentata; le rimanenti funzioni amministrative che non erano state trasferite nel 1972 dovevano essere decentrate; tutte le spese statali che erano attribuibili alle r., direttamente o indirettamente, dovevano essere eliminate in blocco e non con legislazione a frammenti; tutti gli enti e loro relative funzioni in settori di responsabilità regionale che coprivano più di una r. dovevano essere trasferiti; le r. dovevano avere pieni poteri amministrativi e legislativi all'interno dei parametri di legislazione nazionale e delle direttive CEE" (Putnam 1985).
Nell'ambito delle iniziative legislative che caratterizzarono i governi di solidarietà nazionale (1977-78) fu varata la riforma sanitaria (23 dicembre 1978) in base alla quale importanti funzioni venivano trasferite alle r.: infatti si sanciva la gratuità delle cure per tutti e si riordinava la medicina pubblica affidandone la gestione ad appositi organismi dipendenti dalle r., le USL (Unità Sanitarie Locali). Alle r. inoltre veniva demandata la programmazione sanitaria e quindi la gestione della medicina scolastica e del lavoro, degli ospedali e il controllo dell'igiene ambientale (potere, quest'ultimo, abrogato nel 1993 a seguito di un referendum).
La l. n. 382, nel frattempo, divenne effettiva con il d.P.R. 616/1977 operativo dal 1° gennaio 1978, al termine di un iter piuttosto travagliato durante il quale era emersa la resistenza di alcuni settori del potere centrale ad abbandonare alcune delle proprie prerogative. Comunque il decreto costituiva un salto di qualità nel potere di programmazione e di intervento delle r., prevedendo anche un consistente spostamento di risorse dal centro alla periferia. Inoltre, anche dal punto di vista della cultura politica, apriva la strada a nuove prospettive sia per ogni singola r., per la necessità che ciascuna ebbe di adeguare la propria attività legislativa, sia per la possibilità di confronto a livello interregionale e tra le r. e lo stato.
La capacità legislativa delle r. crebbe progressivamente negli anni, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, mentre parallelamente si andava delineando una differenziazione per aree geografiche. Da una ricerca dell'Istituto Carlo Cattaneo di Milano sul rendimento delle r. in fatto di legislazione di riforma nei primi quindici anni della loro attività emerge che nella fase iniziale due erano le r. ad ''alto rendimento'' (Lombardia ed Emilia-Romagna), divenute quattro al termine del periodo considerato per l'inclusione di due r. centrali (Umbria e Toscana); anche per quanto riguarda la fascia a rendimento medio, la ricerca mette in luce un analogo progresso, per cui, mentre all'inizio le r. inserite in questo gruppo erano solo del Nord e del Centro, alla fine vi si trovano anche due r. del Sud, la Basilicata e l'Abruzzo. Se si passa a considerare la fascia a rendimento basso, vi si trovano, alla fine del periodo considerato, solo r. meridionali (anche se, come precisano gli autori: "un fattore che può abbassare il rendimento legislativo delle regioni meridionali è costituito dall'attività della Cassa del Mezzogiorno, le cui iniziative rimasero sottratte al controllo regionale almeno fino al 1976 e anche oltre").
Le elezioni amministrative dell'8 giugno 1980 (v. tab. 8) registrarono una netta flessione del PCI (−2,9%) derivante da una perdita di consensi nelle r. meridionali, una sostanziale tenuta della DC (+1,5%) e del PSI (+0,7%). Quest'ultimo partito, anche grazie alla situazione politica nazionale, fu in grado di sfruttare i voti ottenuti per ottenere la presidenza nelle giunte delle Marche, della Calabria, del Lazio, del Piemonte e della Liguria.
Nell'ottobre 1983 fu istituita la Conferenza Stato-Regioni con la funzione di rappresentare un luogo di confronto istituzionale che superasse la frammentarietà dei vari organismi misti nati nel corso degli anni nel tentativo di definire le diverse competenze in ordine ai poteri e ai finanziamenti. Le attribuzioni, il ruolo e la natura della Conferenza, la cui nascita rappresentava comunque un segno della necessità di individuare nuove regole di fronte alla crescita dei poteri regionali, rimasero largamente incerti. Nel frattempo, a partire dal 1980, era stata istituita la carica di ministro senza portafoglio per gli Affari regionali, proprio per garantire i rapporti correnti del governo con le r., che fino a quel momento erano stati di competenza del ministero del Bilancio e della programmazione economica.
Secondo il Rapporto sulle r. del Cinsedo (Centro interregionale studi e documentazione), le attribuzioni di questo ministro non furono particolarmente rilevanti: infatti i suoi compiti, del resto chiaramente esplicitati nei decreti di delega "sono stati, per ora, limitati alla tenuta dei rapporti correnti con le regioni e all'istruzione di varie ed eterogenee questioni, attinenti alle regioni, da sottoporre al Consiglio dei ministri", il che "contribuisce a configurare il ministro come una sorta di 'coordinatore', al quale sono rimesse le questioni di ordinaria amministrazione, mentre rimane ferma in capo alla Presidenza del Consiglio la funzione di coordinamento generale dell'attività governativa nei confronti delle regioni" (Cinsedo 1989, p. 128).
Un'ulteriore evoluzione nei rapporti fra stato e r. si ebbe con la l. del 23 agosto 1988 sulla disciplina dell'attività del governo e ordinamento della presidenza del Consiglio dei ministri, che ridefiniva ruoli e competenze della Conferenza permanente dei rapporti tra stato, r. e le province autonome di Trento e Bolzano, istituendola presso la presidenza del Consiglio dei ministri. I compiti di tale nuova Conferenza sono di "informazione, consultazione e raccordo in relazione agli indirizzi di politica generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale". La Conferenza è presieduta dal presidente del Consiglio che ha l'obbligo di convocarla almeno ogni sei mesi. La legge prevede inoltre l'attribuzione a una nuova figura istituzionale, il Commissario del governo, di una serie di rilevanti responsabilità tese a coordinare e a uniformare l'attività delle singole r. sia rispetto alla legislazione nazionale, sia delle stesse r. fra di loro.
Le elezioni del maggio 1985 (v. tab. 9) non registrarono rilevanti variazioni percentuali, se si esclude una lieve flessione della DC e del PCI e una contenuta crescita del PSI e di Democrazia Proletaria. Un elemento di novità fu costituito dall'ingresso in molti Consigli regionali di rappresentanti delle liste Verdi. Le consultazioni nelle r. a statuto speciale svoltesi nel 1983 (Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia), 1984 (Sardegna) e 1986 (Sicilia), videro un considerevole successo delle liste autonomiste tra le quali erano presenti come nuove formazioni in Friuli-Venezia Giulia la Lista per Trieste e il Movimento per il Friuli. Anche in Sardegna il Partito sardo d'Azione registrava un discreto successo. In generale questi risultati elettorali non causarono cambiamenti di rilievo nella formazione delle giunte.
Rilevanti invece furono le novità emerse nelle elezioni del maggio 1990 (v. tab. 10) soprattutto per quanto concerne le r. del Nord, e ciò a causa del successo dei movimenti leghisti, primo fra tutti quello della Lega Nord, che in Lombardia ottenne il 18,9% dei voti, divenendo il secondo partito della r. dopo la Democrazia Cristiana (caduta dal 36% al 28,6%) e raccogliendo consensi anche in Liguria, Veneto e Piemonte con, rispettivamente il 6,1, il 5,9 e il 5,1%. La Lega otteneva consensi avendo avanzato una proposta di tipo federalista i cui contorni non erano però delineati con certezza. Il progetto oscillava infatti tra la costituzione di un vero e proprio stato federalista, una forma di federalismo fiscale, la cui attuazione pratica risultava piuttosto oscura e una semplice accentuazione del decentramento. Un altro elemento di novità fu rappresentato dal successo ottenuto dalle liste Verdi in molte r., a dimostrazione di un certo radicamento della sensibilità ambientalista. I Verdi passarono infatti dal 2,0% al 5,0%, con punte, in alcune r., del 7,1%. Sempre a livello nazionale si registrò una netta flessione del PCI (dal 30,2% al 24,0%; in Lombardia dal 26,7% al 18,8%) e un lieve arretramento della DC che passò dal 35,0% al 33,4%, se si escludono le r. meridionali dove lo stesso partito aumentò, sia pure in misura modesta, i suoi consensi.
Bibl.: R.D. Putnam, R. Leonardi, R.Y. Nanetti, La pianta e le radici, Bologna 1985; Elezioni regionali e sistema politico nazionale. Italia, Spagna, Repubblica federale tedesca, a cura di M. Caciagli e P. Corbetta, ivi 1987; Cinsedo (Centro interregionale studi e documentazione), Rapporto sulle Regioni, Milano 1989; R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, ivi 1993.
Aspetti giuridico-legislativi. - Nel periodo successivo all'attuazione del titolo v della Costituzione che ha portato alla creazione delle 15 r. a statuto ordinario, non sono mancati interventi del legislatore statale incidenti, in modo diretto o indiretto, sulla riforma regionale, i cui tratti essenziali permangono comunque sostanzialmente immutati. Resta, infatti, ferma da parte del Parlamento, del governo e, quel che più conta, da parte della Corte Costituzionale, in quanto chiamata a dirimere le controversie tra stato e r., una lettura del testo costituzionale, tra le molte che esso ammette, favorevole a un'interpretazione estensiva dei poteri statali: ciò ha consentito allo stato sia di mantenere numerosi compiti in ordine alle materie che le disposizioni costituzionali affidano alle r. (agricoltura, sanità, urbanistica, ecc.) −quali la disciplina dei rapporti tra privati e la disciplina penalistica, nonché per es. quella relativa al personale delle unità sanitarie locali − sia di condizionare incisivamente i poteri regionali tramite leggi di riforma e di cornice (in tema di caccia, di pubblico impiego, di tutela ambientale, ecc.) o leggi concernenti interessi nazionali (in tema di farmacie rurali, di servizi trasfusionali, ecc.).
Importanti riforme dei pubblici apparati (centrali e locali) hanno cambiato il quadro entro il quale opera l'ordinamento regionale. La l. 8 giugno 1990 n. 142 ("Ordinamento delle autonomie locali", poi modificata con l. 25 marzo 1993 n. 81), nel riformare l'ordinamento degli enti locali, attribuisce una serie di compiti alle r.: quali, per es. (per fare menzione solo di alcuni tra i più significativi), quello di organizzare l'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province, identificando nei settori di spettanza regionale (art. 117 e 118 Cost.) gli interessi comunali e provinciali in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio; quello di disciplinare la cooperazione dei comuni e delle province tra loro e con la r.; quello di delimitare il territorio delle aree metropolitane e d'individuarne le funzioni nell'ambito dell'elenco di materie predisposto dalla legge statale (si vedano gli art. 3 e 17 ss. della l. 142). La stessa legge (art. 11 ss.) stabilisce una normativa di principio che le r. dovranno osservare, quando (in base agli art. 117 e 133 Cost.) provvedano alle modifiche territoriali, fusione e istituzione di comuni.
Di fronte all'incapacità dimostrata dal Parlamento e dal governo di riordinare i ministeri operanti nelle materie che la Costituzione demanda alla competenza regionale (art. 117 e 118 Cost.), le r. hanno esercitato (per la prima volta) il potere a esse riconosciuto dall'art. 75 Cost., presentando una serie di richieste di referendum abrogativo, aventi a oggetto le leggi relative al ministero della Sanità, al ministero dell'Industria, al ministero del Turismo, al ministero dell'Agricoltura. I primi due referendum sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale (sent. 34 e 36 del 1993). Negli altri due casi, al voto popolare favorevole all'abrogazione ha fatto seguito la l. 4 dicembre 1993 n. 491 per il "Riordino delle competenze regionali e statali in materia agricola e forestale e istituzione del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali", che mantiene al nuovo apparato statale essenzialmente compiti relativi ai rapporti internazionali e comunitari, alla programmazione, all'indirizzo e coordinamento, e il D.L. 4 agosto 1993 n. 273 (successivamente reiterato e non ancora convertito) sul riordino delle funzioni in materia di turismo, spettacolo e sport, che trasferisce alle r. la quasi totalità delle funzioni amministrative del ministero soppresso e assegna quelle residue al presidente del Consiglio dei ministri. Infine, la l. 24 dicembre 1993 n. 537 ("Interventi correttivi di finanza pubblica") dispone un'ampia delega al governo per riordinare, sopprimere e fondere i ministeri, direttamente provvedendo alla soppressione del ministero dei Trasporti e del ministero della Marina mercantile, in luogo dei quali viene istituito un unico ministero dei Trasporti e della navigazione.
Nonostante per molti atti di spettanza statale, ma interferenti con materie regionali, sia necessaria (anche in conseguenza di decisioni della Corte Costituzionale: si veda, per es., la sent. n. 6 del 1993) la previa intesa con le r., rimangono a tutt'oggi insufficienti e disorganici gli strumenti di raccordo tra stato e regioni. Un passo avanti, pur assai modesto, è stato fatto con la l. 23 agosto 1988 n. 400 che ha ridisciplinato la Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome (già operante in via di prassi dal 1981 e istituzionalizzata con decreto del presidente del Consiglio dei ministri nel 1983), titolare di compiti d'informazione, consultazione e raccordo in relazione agli indirizzi di politica generale suscettibili d'incidere nelle materie di competenza regionale, e con il successivo decreto legisl. 16 dicembre 1989 n. 418 che ha provveduto alla soppressione e al riordino degli altri organi a composizione mista stato-regioni.
Tra le normative statali incidenti su competenze regionali assumono particolare rilievo i decreti legisl. 30 dicembre 1992 n. 502 e 7 dicembre 1993 n. 517 per il riordino della disciplina sanitaria (adottati, accanto ad altri, in attuazione della l. delega 23 ottobre 1992 n. 421), disciplina che richiede di essere completata dal legislatore locale.
Le perduranti insufficienze della regionalizzazione hanno portato a un ripensamento dello stesso titolo v della Costituzione, nell'ambito del più ampio dibattito che negli anni recenti ha riguardato il complesso delle istituzioni. La Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (cui la l. Cost. 6 agosto 1993 n. 1 aveva affidato il compito di elaborare un progetto organico di revisione della parte ii della Costituzione, a esclusione della sez. ii del titolo vi) ha prodotto un progetto di modifica delle disposizioni costituzionali relative all'assetto delle competenze regionali, attribuendo − con l'inversione dell'attuale criterio di riparto tra stato e r. − al primo la competenza in una serie di materie elencate (politica estera, difesa nazionale, sicurezza pubblica, giustizia, ecc.) e alle seconde la competenza residuale, nonché prevedendo, per talune importanti materie (agricoltura, commercio, urbanistica, ecc.), anche a favore delle r. a statuto ordinario una competenza analoga a quella di tipo pieno che oggi detengono le sole r. a statuto speciale. Ma il progetto, sul quale gli studiosi avevano avanzato non poche perplessità per l'indebolimento dell'apparato statale, non ha potuto avere seguito per lo scioglimento anticipato delle Camere disposto con d.P.R. 16 gennaio 1994 n. 27.
Statuti speciali e norme per la loro attuazione. - La l. Cost. 23 settembre 1993 n. 2 ha modificato gli statuti del Friuli-Venezia Giulia, della Sardegna, del Trentino-Alto Adige e della Valle d'Aosta, attribuendo a queste r. la competenza piena in materia di ordinamento degli enti locali, competenza già detenuta dalla Sicilia. La stessa legge ha altresì introdotto per l'attuazione dello statuto valdostano un procedimento assai simile a quello contemplato dagli altri statuti speciali, con la previsione di decreti legislativi di attuazione statutaria deliberati dal Consiglio dei ministri, sulla base di schemi elaborati da una commissione paritetica composta da rappresentanti dello stato e della r. e sottoposti al parere del Consiglio regionale.
L'attuazione del nuovo statuto del Trentino-Alto Adige, che risale al 1971, è pressoché conclusa dopo il varo di numerosi decreti legislativi, tra cui i d.P.R. 752/1976, 571/1978, 327/1982 e il decreto legisl. 253/1991 (in materia di proporzionale etnica e di conoscenza delle due lingue nel pubblico impiego), il d.P.R. 426/1984 (sul Tribunale amministrativo di Trento e la sezione autonoma di Bolzano), il d.P.R. 305/1988 (istitutivo delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e Bolzano), il d.P.R. 574/1988 (in materia di uso della lingua tedesca e ladina nella pubblica amministrazione e nei procedimenti giudiziari), il decreto legisl. 266/1992 (concernente il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale d'indirizzo e coordinamento).
Statuti ordinari. - Molti statuti delle r. ordinarie sono stati assoggettati a revisione, sempre naturalmente con le modalità previste dall'art. 123 della Costituzione. Il più delle volte si tratta di modifiche di ridotta portata, aventi a oggetto il referendum, il procedimento legislativo, il difensore civico, ecc., mentre del tutto nuovi sono gli statuti dell'Emilia-Romagna e dell'Umbria, entrambi volti a una correzione del riparto di funzioni tra Consiglio e Giunta, a favore di quest'ultima: in queste due r. è stata così attenuata la preminenza del Consiglio che aveva caratterizzato tutti gli statuti del 1971.
Controlli sulle attività regionali. - Per quanto riguarda i controlli sulle leggi regionali, una significativa innovazione, seppure di portata assai circoscritta, in quanto introdotta dal decreto legisl. 16 marzo 1992 n. 266 di attuazione dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, è quella che consente al governo d'impugnare innanzi alla Corte Costituzionale una legge regionale o provinciale, quando non sia stata adeguata entro sei mesi ai vincoli posti da nuove leggi statali di riforma o di principio: questa soluzione, se risolve il problema di leggi regionali divenute illegittime per il sopraggiungere di nuove discipline statali, ha destato perplessità, poiché l'art. 137 Cost. riserva alla legge costituzionale la regolamentazione dei modi di accesso alla Corte.
Il decreto legisl. 13 febbraio 1993 n. 40 ha operato una revisione della disciplina dei controlli dello stato sugli atti amministrativi delle regioni. È stato ridotto il numero degli atti sottoposti al controllo e, allo scopo di assicurare comuni indirizzi nell'attività di controllo, è stabilito che le commissioni di controllo istituite per ciascuna r. ordinaria (ai sensi della l. 10 febbraio 1953 n. 62) operino in conformità alle direttive emanate dal presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del comitato tecnico previsto dallo stesso decreto legislativo e sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato e le regioni. La l. 14 gennaio 1994 n. 20 ("Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti") ha stabilito che la Corte dei conti svolga, anche nei confronti delle amministrazioni regionali, il controllo sulla gestione del bilancio e del patrimonio, con riguardo al perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi di principio e di programma.
Regioni e attuazione degli obblighi comunitari. - La l. 9 marzo 1989 n. 86 (intitolata "Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari") conferma con qualche aggiustamento la soluzione già adottata dal d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 per il riparto dei compiti tra stato e r., quando occorra dare attuazione a normative CEE riguardanti materie di competenza regionale (agricoltura, artigianato, sanità, urbanistica, ecc.). La legge comunitaria (annualmente approvata dal Parlamento, sulla base di un disegno di legge che il governo presenta entro il 31 marzo, per consentire il periodico adeguamento dell'ordinamento nazionale all'ordinamento comunitario) o altra legge dello stato (di recepimento di una o più direttive comunitarie) dettano le disposizioni di principio non derogabili dal legislatore regionale e, accanto a esse, le disposizioni di dettaglio necessarie per l'integrale adeguamento, applicabili fino a quando le r. non provvedano a sostituirle con una propria disciplina. Alle r. a statuto speciale è consentito dare immediata attuazione, senza cioè attendere la legge statale di recepimento, alle direttive vertenti su materie ove esse detengono competenza piena. Se l'inattività amministrativa di una r. determina inadempimento di un obbligo comunitario, lo stato può sostituirsi alla r.; l'esercizio del potere sostitutivo statale richiede la previa assegnazione alla r. inadempiente di un congruo termine per provvedere, su parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali e sentita la r. stessa; se, scaduto il termine, perdura l'inattività regionale, il Consiglio dei ministri dispone l'intervento sostitutivo dello stato e a questo fine può anche conferire i poteri necessari a una commissione appositamente istituita.
Finanza regionale. - L'assetto della finanza delle r. ordinarie rimane nelle sue grandi linee quello disposto dalla l. 16 maggio 1970 n. 281, ma su tutte le componenti ivi previste (tributi propri; quote, ripartite con criteri perequativi, di un fondo comune iscritto nel bilancio dello stato; assegnazioni provenienti da un fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo) hanno inciso successive discipline, la più rilevante delle quali introdotta dalla l. 14 giugno 1990 n. 158 e dal decreto legisl. 27 dicembre 1990 n. 398. Ai contributi speciali, anch'essi previsti dalla legge del 1970, in attuazione dell'art. 119, comma iii Cost., nel corso del tempo si erano aggiunti numerosi altri finanziamenti (interessanti anche le r. ad autonomia differenziata) vincolati nella loro destinazione, in quanto provenienti da fondi settoriali iscritti nel bilancio statale; successivamente molti di questi fondi sono stati soppressi e fatti confluire nel fondo comune e nel fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo (v. ancora la l. 158/1990, ma già la l. 19 maggio 1976 n. 335 e il d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616). Tra i fondi rimasti si segnala, per la sua particolare entità, il fondo sanitario nazionale, ridisciplinato dal decreto legisl. 30 dicembre 1992 n. 502. A integrare le entrate regionali concorrono anche taluni fondi della Comunità economica europea (fondo europeo di sviluppo regionale, fondo per i programmi integrati mediterranei, ecc.).
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