Regioni e biblioteche: un'occasione mancata
Il ruolo delle regioni nel campo delle biblioteche ha le sue radici nella configurazione del sistema bibliotecario italiano – o, per essere più chiari, del ‘non-sistema’ bibliotecario italiano – come si è venuto a definire a seguito dell’Unità. Con l’avvio delle regioni a statuto ordinario, infatti, queste non acquisirono semplicemente un’astratta competenza legislativa, sulla base del dettato dell’art. 117 della Costituzione repubblicana, ma si videro trasferito, pur con lentezze e resistenze, un complesso di risorse e di attività, quello delle soprintendenze bibliografiche statali, che contava già mezzo secolo di storia.
Dal 1972, anno del trasferimento delle soprintendenze bibliografiche alle regioni a statuto ordinario, inevitabilmente l’azione dei nuovi enti si venne a collocare in una cornice di continuità/discontinuità con quella svolta fino ad allora dagli organi statali. Alla tradizione che questi avevano sviluppato si affiancava un bagaglio normativo limitatissimo, tanto da rendere irrilevante il problema di un’analoga continuità/discontinuità a livello legislativo.
Occorre allora prendere le mosse dalle origini delle soprintendenze e dallo sviluppo delle loro funzioni, anche per poter valutare se, e quanto, queste funzioni abbiano subito un’evoluzione prima e dopo il 1972. Inoltre, le difficoltà e incertezze che si manifestarono al momento dell’avvio delle regioni, e che tuttora permangono, si ricollegano ad ambiguità ed elementi di debolezza che avevano già segnato l’origine e l’attività delle soprintendenze.
Il giovane Stato unitario non mancò di attenzione tempestiva alla questione delle biblioteche ma si trovò di fatto ad affrontare soprattutto problemi di gestione immediata: riordinare e amministrare le numerose biblioteche che aveva ereditato, non per scelta ma perché gestite a livello centrale dagli Stati preunitari, senza che si potesse mettere mano alla questione di fondo del loro numero e delle loro funzioni. Mancò insomma una considerazione complessiva del settore, come vi fu per la scuola: né il Regno d’Italia né la Repubblica hanno mai emanato una legge d’insieme sulle biblioteche.
Soltanto all’inizio del 20° sec., nella fitta serie degli interventi regolamentari sulle biblioteche dello Stato, cui faceva riscontro l’assenza di una vera legge, più volte sollecitata, si introduce il primo riferimento a un’attività di «sorveglianza anche sulle biblioteche non governative», da svolgere da parte del Ministero della Pubblica Istruzione appoggiandosi al personale delle biblioteche governative (r.d. 24 ott. 1907 nr. 733, art. 10). Questo primo passo – mimetizzato nell’ennesimo regolamento per le biblioteche pubbliche governative – si doveva probabilmente alle preoccupazioni sui risultati dell’incameramento delle raccolte librarie delle corporazioni religiose soppresse a seguito del r.d. 7 luglio 1866 nr. 3036 e al desiderio di assumere un ruolo attivo nella tutela del patrimonio culturale nazionale (l. 12 giugno 1902 nr. 185). Del resto, già il r.d. 27 ag. 1905 nr. 498 aveva affidato a 12 biblioteche governative il compito di rilasciare le licenze di esportazione per i libri antichi, sostituendo per questo ambito gli uffici della Direzione generale delle belle arti.
Da questo primo cauto passo del regolamento si arrivò quindi all’istituzione, nel 1919, delle soprintendenze bibliografiche, in analogia evidente – ma anche più apparente che reale – con le soprintendenze ai monumenti, scavi e gallerie istituite nel 1904. Il procedimento fu anche in questo caso un po’ curioso, perché l’istituzione dei nuovi organi venne inserita in un decreto legge dedicato all’ordinamento del personale delle biblioteche (r.d.l. 2 ott. 1919 nr. 2074), cioè in un provvedimento d’urgenza che aveva come scopo principale l’adeguamento di stipendi e carriere nella fase postbellica.
L’art. 1 del decreto istituiva «12 Soprintendenze bibliografiche» a cui spettava «la tutela dei codici, degli antichi manoscritti, degli incunabuli e delle stampe e incisioni rare e di pregio, giusta le norme della l. 20 giugno 1909, n. 364, e la conservazione e l’incremento delle biblioteche pubbliche». Tra le 12 «attribuzioni» elencate all’art. 2, si partiva dal vegliare «sulla conservazione dei codici, degli antichi manoscritti, degli incunabuli, delle stampe e incisioni rare e di pregio possedute da Comuni, da enti morali, o da privati» (punto 1°) e «sulle raccolte incamerate e date in consegna a Comuni e ad enti morali per devoluzione dei beni di corporazioni religiose soppresse» (punto 2°), proseguendo con le funzioni previste dalla legge di tutela (notifiche, diritto di prelazione, permessi di esportazione, ecc.), e arrivando solo al punto 10° a prefigurare «gli aiuti da concedersi sul bilancio del Ministero alle biblioteche dei Comuni e degli Enti per l’ordinamento e l’incremento delle collezioni» e all’11° (l’ultimo concerne le statistiche) ad aggiungere che esse «promuovono l’istituzione di nuove biblioteche, e vigilano sulle biblioteche popolari, riferiscono al ministero circa le condizioni di esse e il loro incremento».
Il provvedimento, come spesso accade in Italia, era un piccolo passo, a ‘costo zero’ o quasi, di quelli che si spera poi di estendere di leggina in leggina. Le tappe di questo ‘sbarco’ delle biblioteche statali sul territorio furono lente, e sembra che nessuno avvertisse l’urgenza di passare dalle parole ai fatti. L’istituzione effettiva delle soprintendenze bibliografiche va posticipata infatti di un anno, non essendo stato dato alcun seguito al provvedimento dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Alfredo Baccelli (1863-1955) né dal suo successore Andrea Torre (1866-1940). La benemerenza di avere effettivamente avviato la loro attività va quindi riconosciuta, con tante altre, al breve ma importante mandato di Benedetto Croce, dal giugno 1920 al luglio 1921, nell’ultimo governo Giolitti.
Le prime nomine dei soprintendenti, che erano per il momento un semplice ‘incarico’ aggiuntivo in capo ai direttori delle maggiori biblioteche governative, vennero fatte solo nel settembre 1920, e anche in seguito, per l’assenza di finanziamenti specifici, fu in pratica impossibile avviare la loro attività. Croce, nella lettera di nomina, informava: «Un’apposita Commissione ha già elaborato il regolamento, che detterà norme precise e particolareggiate sui servizi propri delle Soprintendenze», ma in attesa della sua emanazione (che non avvenne mai) ci si sarebbe dovuti basare sulla legge del 1909 e relativo regolamento, «in quanto [...] da ritenere applicabili» salvo che per il punto 11°, su cui il ministro si riservava di «dare istruzioni con comunicazione a parte» (che non risulta esistere). Cosicché l’unica indicazione specifica era quella relativa al carteggio, da tenere «rigorosamente distinto» da quello della biblioteca.
Se alcuni direttori, oltre a inaugurare un nuovo protocollo, cercarono di avviare qualche minima attività all’interno delle biblioteche, le soprintendenze cominciarono a essere operative solo nella seconda metà del 1926, dopo la costituzione della Direzione generale delle accademie e biblioteche (r.d. 7 giugno 1926 nr. 944). Le nuove funzioni, acquisite fin lì solo sulla carta, vennero finalmente messe in moto con i primi finanziamenti e l’insediarsi della Direzione generale. Questa provvide subito agli accreditamenti di fondi per le missioni, dato che l’unico modo per rendersi conto delle situazioni e instaurare un dialogo con le autorità locali era recarsi sul posto, e costituì un fondo per distribuire ‘sussidi’, incentivi indispensabili per sostenere le iniziative locali (tra il 1926 e il 1932 vennero distribuiti contributi a 388 biblioteche per circa 2,2 milioni di lire). Sulla carta era rimasto anche il r.d. 27 sett. 1923 nr. 2320 che aveva istituito gli ispettori bibliografici onorari (non dipendenti e non retribuiti): le prime nomine partirono nel 1926 e poi, nel 1931, vennero formalizzati anche gli incarichi di ispettore, affidati come compito aggiuntivo ad alcuni funzionari delle biblioteche governative.
Anche nell’uniformità delle competenze, le soprintendenze bibliografiche assumevano di fatto fisionomie notevolmente differenti nelle diverse circoscrizioni, per le caratteristiche del territorio in cui andavano a operare. Mezzi e poteri erano così evidentemente inadeguati che ciascun soprintendente doveva darsi da sé gli obiettivi che riteneva prioritari e alla sua portata. Basti pensare alla Soprintendenza per la Lombardia, affidata a Tommaso Gnoli (1874-1958), direttore della Biblioteca Braidense di Milano, che oltre a un territorio molto vasto e ricco di biblioteche avrebbe dovuto sorvegliare quella che era allora la capitale del commercio antiquario italiano e i canali di esportazione diretti in Svizzera, o alla Soprintendenza per la Puglia e la Lucania, in cui un unico giovane funzionario, con una studentessa avventizia alle prime prove di dattilografia e un usciere mutilato in prestito dalla Provincia di Bari (F. Barberi, Schede di un bibliotecario (1933-1975), 1984, p. 21), avrebbe dovuto coprire una circoscrizione grande come il Belgio, lunga 400 km e larga da un mare all’altro, con comunicazioni arretratissime e naturalmente senza disporre di un mezzo di trasporto. Condizioni generali erano la mancanza di un ufficio apposito e di personale dedicato, circoscrizioni molto vaste e mal collegate, fondi da distribuire modestissimi, nessun reale potere di intervento sugli enti locali, su cui vigilavano gelosamente le prefetture.
iversi furono gli interventi che la Direzione generale cercò di compiere per migliorare la funzionalità delle soprintendenze, nonostante la rigida opposizione del Ministero delle Finanze e la carenza di personale. Si riuscì comunque ad ampliarne il numero da 12 a 15, staccando nel 1933 la Liguria dal Piemonte e nel 1935 sdoppiando la Soprintendenza per la Sicilia, quella per l’Emilia-Romagna (costituendo la Soprintendenza di Bologna, che però assorbiva quella per le Marche, mentre a quella di Modena restava solo l’Emilia) e quella per il Veneto (senza però attivare completamente la nuova sede di Verona). Nello stesso anno si costituirono uffici autonomi per l’Abruzzo e Molise e per la Puglia e Lucania (in precedenza affidati provvisoriamente a direttori di biblioteche di Roma e Napoli). Si sviluppò anche una riflessione professionale, con due importanti interventi di Francesco Barberi (1905-1988), soprintendente alle biblioteche della Puglia e Lucania, al V e al VI Congresso dell’Associazione italiana per le biblioteche (1938 e 1940).
Le soprintendenze iniziarono comunque ad acquisire un ruolo sul territorio, non tanto come organi di vigilanza, di una tutela intesa quale intervento autoritativo, ma piuttosto come agenti di sollecitazione e di sviluppo, per la modernizzazione e la professionalizzazione delle biblioteche locali. Le soprintendenze bibliografiche, insomma, ‘inventarono’ il proprio ruolo, secondo le capacità dei funzionari che le dirigevano più che seguendo il generico dettato normativo (mai aggiornato), e giunsero così ad assumere il profilo che costituì poi la base del loro trasferimento alle regioni. Un esempio è quello dell’attività di formazione, iniziata nel 1936 con i corsi di preparazione per i servizi delle biblioteche popolari e scolastiche curati dai soprintendenti, che ha costituito poi una delle principali linee d’azione delle regioni.
Ma la questione è molto più generale. Sfogliando le relazioni annuali che i soprintendenti inviavano al Ministero, si nota che sono in massima parte dedicate all’attività rivolta alle biblioteche degli enti locali, mentre altre funzioni – dalla vigilanza sulle raccolte private all’esportazione del materiale di pregio – sono menzionate solo marginalmente. Stando al volume ufficiale Manoscritti e libri rari notificati (Ministero della Pubblica Istruzione, 19482), comprendente tutte le notifiche di raccolte librarie e singoli pezzi fino al 1947, queste ammontavano soltanto a 239, meno di 20 per soprintendenza in oltre vent’anni. Si potrebbe ironizzare sul numero irrisorio di notifiche rispetto alla ricchezza del materiale allora in mani private o in commercio nella ‘Penisola del tesoro’, ma sta di fatto che i soprintendenti erano privi di poteri reali e che – come sostenne Gnoli al I Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliografia (1929) – il problema di sensibilizzare enti e privati alla conservazione e all’arricchimento del patrimonio librario nazionale era molto più importante che inviare una notifica.
L’azione nei confronti delle biblioteche locali, a parte il compito pure importante di sollecitare sindaci e altre autorità, era innanzitutto di convincimento, di diretta e indiretta formazione professionale. La ‘leva finanziaria’ della promessa di qualche sussidio aveva un ruolo significativo ma limitato: non andava a sostituire l’azione locale, ma era intesa come cofinanziamento, in una intelligente distinzione tra gli impegni che dovevano essere onorati dall’ente locale (sede e personale) e gli ambiti di supporto statale (acquisti di pubblicazioni moderne, scaffalature e attrezzature). Finanziamenti più rilevanti si vedranno più tardi, con lo sviluppo di una prassi assistenzialistica dello Stato repubblicano, a guida democristiana, dove gli interventi in alcune aree avranno il carattere di realizzazioni interamente calate dall’alto.
Anche l’attenzione dei soprintendenti per le condizioni del materiale antico e di pregio in biblioteche locali (o, più di rado, ecclesiastiche) non è tanto riconducibile all’astratta funzione di ‘tutela’, quanto a una delle componenti della buona organizzazione di una biblioteca. I soprintendenti indirizzavano gli operatori delle biblioteche locali verso una corretta gestione biblioteconomica, che comprende risvolti di tutela ma non li isola dalle altre attività (per es. l’organizzazione del patrimonio in settori, la catalogazione, la cura delle elementari esigenze di conservazione). Questo quadro è confermato dai contributi finanziari, raramente destinati a interventi di restauro e per lo più rivolti all’ammodernamento delle attrezzature e all’acquisto di pubblicazioni recenti, così da potenziare la funzione di ‘biblioteca pubblica moderna’ degli istituti locali.
Gli obiettivi che le soprintendenze bibliografiche realmente assunsero si possono riassumere con le parole di una delle relazioni di Barberi: «Mettere in efficienza le biblioteche di provincie e comuni istituite spesso con materiale dei conventi soppressi; renderle sempre più vive, e dar loro una fisionomia di biblioteche moderne; promuovere lo sviluppo, oltre che di esse, di tutte le altre, popolari e non, che abbiano carattere di biblioteca pubblica; crearne dove mancano: ecco il compito, tutt’altro che lieve, divenuto oggi fondamentale per le nostre Soprintendenze» (Problemi delle soprintendenze, «Accademie e biblioteche d’Italia», 1938, 12, 3-6, p. 299).
La funzione principale svolta dalle soprintendenze in questa fase, anche se non la sola, fu quella di sollecitare la trasformazione delle biblioteche locali in biblioteche moderne. L’intervento legislativo più significativo fu non a caso la legge sulle biblioteche dei capoluoghi di provincia (l. 24 apr. 1941 nr. 393), che puntava a realizzare un reticolo di biblioteche effettivamente funzionanti in tutto il territorio nazionale e introduceva la concezione molto avanzata, per diversi aspetti ancora attuale, del sostegno di tutti i livelli istituzionali (Stato, provincia e comune) e di enti diversi al servizio erogato dalla biblioteca più idonea, indipendentemente dalla sua titolarità. Iniziano inoltre a cogliersi, in questo periodo, i primi spunti di una visione coordinata del servizio bibliotecario sul territorio, che vada oltre l’obiettivo di una buona funzionalità dei singoli istituti, con forme di raccordo tra biblioteche maggiori e minori e di diversa titolarità. Sarà questa la principale direzione d’impegno delle soprintendenze dagli anni Cinquanta in poi e, a metà del secondo decennio degli anni Duemila, è ancora al centro della loro attività.
Gli interventi compiuti in questa fase possono apparire insufficienti per portare il tessuto bibliotecario italiano al livello di funzionalità dei Paesi più avanzati, ma l’abbondante documentazione bibliografica e archivistica testimonia risultati notevoli di professionalizzazione e modernizzazione del settore, che in questo periodo è in grado di interloquire in maniera credibile nelle attività internazionali (nella Federazione internazionale delle associazioni bibliotecarie, l’odierna IFLA, costituita durante il Congresso del 1929, e nella Commissione internazionale di cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni) e riuscirà ad affrontare con tempestività, ottimo coordinamento e buoni risultati l’attività di protezione delle biblioteche dai rischi della Seconda guerra mondiale.
Anche se l’istituzione delle soprintendenze bibliografiche e la prima (e unica) approssimativa definizione delle loro funzioni avvenne in analogia con il modello della legge di tutela, in concreto esse svilupparono un profilo molto diverso dalle consorelle e tale da prefigurare quelli che saranno più tardi gli ambiti principali d’intervento delle regioni. Questa fu forse la ‘colpa d’origine’ che al momento dell’avvio delle regioni portò a rovesciare l’impostazione legislativa del 1919, interpretando le funzioni di tutela che vi dominavano come competenze ‘residue’ e quelle di promozione dello sviluppo delle biblioteche di enti locali, che vi comparivano marginalmente, come ‘prevalenti’.
Il cambiamento del sistema politico dopo la Liberazione, con la Costituzione repubblicana, non modificò sostanzialmente il profilo di attività delle soprintendenze nei primi anni del dopoguerra. La rapida ‘normalizzazione’ politica del Ministero della Pubblica Istruzione, con il democristiano Guido Gonella (1905-1982) al timone dal 1946 al 1951, rappresentò una cocente delusione: la battaglia perduta dai bibliotecari al Convegno per le biblioteche popolari e scolastiche organizzato dal Ministero a Palermo nel novembre 1948, da cui prese inizio una squallida vicenda di dispersione di cospicui finanziamenti pubblici in iniziative inconsistenti e clientelari (‘centri di lettura’, ‘centri sociali di educazione permanente’ ecc.), pesò a lungo su tutto il settore.
Tuttavia, anche se con difficoltà legate alla debolezza della Direzione generale delle accademie e biblioteche rispetto alla linea ministeriale, all’insufficienza dei mezzi e a qualche resistenza, nel dopoguerra maturano due cambiamenti determinanti per gli sviluppi degli anni Settanta e Ottanta.
Per quanto riguarda le strutture, venne finalmente affrontata l’anomalia di aver istituito, come si disse, l’incarico di soprintendente e non le soprintendenze. Con il d. legisl. 7 maggio 1948 nr. 546, che ampliava gli organici delle biblioteche governative, si ponevano infatti le basi per separare le soprintendenze, con una propria dotazione di funzionari, dalle biblioteche statali. In pratica la separazione si realizzò per la maggior parte delle soprintendenze soltanto nel 1952 (per alcune anche più tardi), spesso con strascichi di conflittualità per i problemi pratici da risolvere. La separazione delle funzioni evidenziava però elementi di debolezza e di ambiguità, perché i soprintendenti e i direttori delle biblioteche statali erano figure non subordinate fra loro e poco equilibrate, dato che alle strutture solide e prestigiose delle biblioteche si venivano a giustapporre soprintendenze con funzioni in linea di principio molto importanti ma con mezzi e poteri modesti. Non a caso, all’epoca di Bottai, si era prospettata una soluzione diversa, analoga al settore delle arti, in cui le soprintendenze avrebbero dovuto assumere il ruolo principale subordinando a sé le biblioteche statali della circoscrizione. L’attività delle soprintendenze prese comunque maggiore impulso, con una specializzazione di interessi e competenze tra i funzionari che mantenevano il classico profilo del bibliotecario e quelli che si dedicavano ai compiti di soprintendente o ispettore.
La svolta più rilevante dal punto di vista delle funzioni maturerà anch’essa negli anni Cinquanta, con lo sviluppo delle reti di prestito, dei ‘sistemi di Soprintendenza’ e quindi del Servizio nazionale di lettura. È stato rilevato che il tratto più peculiare dello sviluppo delle biblioteche pubbliche in Italia è proprio l’insistenza, persino eccessiva, sul concetto di ‘sistemi bibliotecari’, piuttosto che sulla biblioteca pubblica come singolo istituto. Probabilmente a causa della debolezza (soprattutto finanziaria) e polverizzazione degli enti locali e insieme della presenza di tante biblioteche civiche di origine erudita, di cui non era facile né banale la trasformazione in biblioteche pubbliche moderne, la spinta verso la creazione di servizi bibliotecari per tutti si indirizzò sul territorio, sui centri minori, tramite lo sviluppo di piccole reti. L’esperienza pilota della Biblioteca governativa di Cremona, che nel 1950 aveva avviato una rete di posti di prestito nei piccoli centri della provincia, diventò rapidamente per la Direzione generale – soprattutto per impulso della bibliotecaria e studiosa Virginia Carini Dainotti (1911-2003) – e per molti soprintendenti il modello da estendere e sviluppare, anche se con mezzi modesti, in tutta la penisola, raggiungendo già alla fine degli anni Cinquanta una quarantina di sistemi, con 650 posti di prestito, e arrivando a coinvolgere, alla vigilia del trasferimento alle regioni delle competenze sulle biblioteche, 4 regioni e circa 1500 biblioteche.
Se si affermò una ‘meccanica’ operativa molto standardizzata (cassette per i libri, modulistica ecc.), il modello poi si declinava, sul piano organizzativo, in modi diversi, con la funzione di centro-sistema svolta caso per caso da biblioteche governative (perfino con funzioni molto differenti, come nel caso della rete sviluppata dalla Biblioteca universitaria di Pisa), soprintendenze, biblioteche civiche di capoluogo o di grossi comuni. Al di là delle soluzioni organizzative, la leadership dei sistemi rimase sempre alle soprintendenze, con finanziamenti ministeriali inizialmente modesti ma che cresceranno rapidamente negli anni Sessanta, soprattutto con il Piano di sviluppo della scuola 1966-70, e un coinvolgimento molto variabile delle province (con finanziamenti, mezzi di trasporto ecc.), dei comuni maggiori e piccoli, di altri enti di carattere locale (per es. nelle aree di bonifica), assistenziale o culturale.
Da quest’attività si svilupperanno, oltre a tanti sistemi bibliotecari tuttora in attività pur con le necessarie trasformazioni, anche i Consorzi per la pubblica lettura nelle province di Bologna, Forlì, Ferrara e Ravenna, che si proporranno negli anni Settanta come punte più avanzate dell’organizzazione dei servizi. Ma al di là della riuscita, molto variabile, di queste esperienze, i nodi irrisolti resteranno sempre gli stessi: la debolezza della grande maggioranza dei comuni, anche per motivi di dimensioni, a cui non possono supplire i capoluoghi, già in difficoltà a garantire i servizi per i propri cittadini, e di conseguenza la necessità di un forte intervento di livello superiore (dello Stato, della regione o della provincia). Questo intervento, per es. nella forma di finanziamenti nazionali ai capoluoghi per svolgere servizi a favore dei centri minori oppure a organismi su scala distrettuale, è infatti normalmente previsto dalla legislazione dei Paesi più avanzati (Traniello 1999, p. 66), oltre che richiesto dal Manifesto per le biblioteche pubbliche dell’UNESCO (United nations educational, scientific and cultural organization). Se invece, come in Italia, questo supporto centrale manca, è aleatorio (affidato per es. alla buona volontà di qualche amministrazione provinciale) o marginale, diventa inevitabile che i sistemi bibliotecari stagnino in una condizione di sviluppo a metà in cui gli enti partecipanti (i comuni) non sono in grado di conferire risorse adeguate a sostenere un’infrastruttura capace di moltiplicare i benefici riducendo nel contempo i costi di gestione delle singole strutture (per es. con centri di acquisto e di catalogazione, collezioni speciali per alimentare i punti di servizio e servizi frequenti di circolazione dei materiali, consulenti o specialisti per attività particolari dalla conservazione alla promozione ecc.).
All’immediato dopoguerra risale l’intervento determinante, cioè l’inserimento delle «biblioteche di enti locali» tra le materie di futura competenza legislativa regionale elencate nell’art. 117 della Costituzione. Anche in questo caso si tratta di un intervento piuttosto curioso, in cui il felice risultato di vedere ricordate le biblioteche nel più importante testo normativo della Repubblica contrasta con la sostanziale assenza delle biblioteche stesse dalla legislazione non solo del Regno ma anche, successivamente, del nuovo Stato democratico.
Questo inserimento sembra avere un’origine piuttosto casuale: le biblioteche «compaiono e scompaiono, senza giustificazioni di sorta», nei documenti preparatori e poi negli emendamenti al testo finale (R. Pagetti, L’ente Regione e le biblioteche degli enti locali: considerazioni relative all’art. 117 della Costituzione, «Accademie e biblioteche d’Italia», 1965, 33, 4-5, pp. 332-41). La loro indicazione venne inserita nel novembre 1946 nel testo preparato dalla II Sottocommissione su proposta del repubblicano Tomaso Perassi (1886-1960), a partire da informazioni generiche sulla legge del 1941, e gli interventi all’Assemblea costituente che vi fanno riferimento sono «assai scarsi e piuttosto vaghi» (Traniello 1983, p. 7), fino all’approvazione definitiva dell’alinea ‘Musei e biblioteche di enti locali’ nella seduta dell’8 luglio 1947. Indubbiamente l’elenco delle materie di competenza regionale si presenta deludente e abborracciato (spaziando da «fiere e mercati» a «acque minerali e termali» e «cave e torbiere»), pur con qualche voce di notevole portata (assistenza sanitaria, istruzione professionale, urbanistica), riflettendo la tendenza a elencare minuti ambiti di carattere ‘locale’ in senso restrittivo (Traniello 1983, p. 8) e non la considerazione del settore dei servizi culturali su un piano comparabile a quelli di rilievo sopra citati. È significativo che l’alinea citato sia l’unico che non indica una materia ma un tipo di istituti, semplicisticamente accomunati per identità di proprietario (non per una moderna visione di ‘beni culturali’).
In seguito la questione non suscitò particolari riflessioni e anche l’avvio delle regioni a statuto speciale non ebbe conseguenze significative. Dell’apertura di un primo dibattito va dato merito a Renato Pagetti (1919-1979), forse il bibliotecario di più lucida visione politica del dopoguerra, con la sua relazione su L’ente Regione e le biblioteche degli enti locali: considerazioni relative all’art. 117 della Costituzione al XIV Congresso dell’Associazione italiana biblioteche (AIB) nel 1962. L’avvio delle regioni a statuto ordinario sembrava allora imminente, perché compreso nel programma del centrosinistra, e negli ambienti politici e amministrativi lombardi si andavano elaborando le prime riflessioni. Pagetti dichiarava apertamente di affrontare «in chiave squisitamente regionale e pertanto di chiara marca autonomistica, un tema – quello dell’organizzazione delle biblioteche degli enti locali – che fino ad ora era stato svolto, pur con tesi suggestive e meditate e tuttora valide nel loro aspetto sostanziale, con impliciti riferimenti ad un’organizzazione di tipo centralizzato e statalistico» (L’ente Regione e le biblioteche degli enti locali, cit., p. 332). Dando per scontato il trasferimento delle funzioni statali – anche quelle di tutela – riguardo alle biblioteche di ente locale (e a suo avviso anche a quelle popolari e scolastiche), Pagetti riteneva necessaria l’emanazione di una legge quadro statale per fissare il principio di un servizio bibliotecario pubblico, per tutti, con parametri minimi di funzionalità. Quanto alle soprintendenze, escludendo una duplicazione di uffici, individuava la soluzione del loro trasferimento alle regioni con delega delle funzioni statali residue – quella che verrà poi realizzata – come «decisamente da preferirsi» rispetto alla situazione ambigua stabilitasi fino a quel momento nelle regioni autonome. Ricordava, infine, «che non c’è autonomia se non c’è responsabilità, non c’è responsabilità se non c’è autonomia finanziaria e non c’è autonomia finanziaria se non c’è autonomia tributaria» (p. 339), ponendo con chiarezza, quindi, il problema della provenienza e dell’entità delle risorse finanziarie da impegnare se si voleva dare contenuto concreto alla funzione delle regioni.
In un altro convegno tenuto nello stesso anno, tuttavia, Carini Dainotti (1969, pp. 530-31), in maniera certo tendenziosa e politicamente discutibile, mostrava già l’altra faccia della medaglia: «Credete voi che se nel 1947, trattando di biblioteche, i costituenti avessero avuto davanti agli occhi della mente non già il modello ottocentesco della biblioteca di provincia, rifugio ombroso e polveroso di pochi eruditi locali e decoroso cimitero di libri monastici, ma invece l’immagine moderna e dinamica della biblioteca di capoluogo, organo di propulsione di un attivo sistema provinciale e insieme pilastro di un’organizzazione nazionale di lettura pubblica, credete voi che avrebbero mai pensato di includere le biblioteche tra le materie affidate alla competenza regionale perché di interesse esclusivamente locale? Lo stesso accostamento tra musei e biblioteche è illuminante».
Un dibattito politico, anche in seguito, non decollò o si impantanò in pregiudizi e gelosie o in questioni di dettaglio, non essendone definito, e tanto meno compreso, l’oggetto: si parla di biblioteche pubbliche, cioè di un servizio per tutti, come nei Paesi più avanzati, nel qual caso, da una parte, la titolarità delle strutture è irrilevante – punto a cui era già arrivata la legge del 1941 – e dall’altra occorre inevitabilmente riesaminare anche la posizione delle biblioteche statali (non solo quelle di Cremona, Lucca o Gorizia), o si gira intorno alla vaga notizia che i comuni possiedono, tra l’altro, qualche biblioteca e qualche museo, i quali, appartenendo a ‘ente locale’, potrebbero quindi ricadere fra le competenze della regione?
Le norme fondamentali per il trasferimento delle funzioni statali alle regioni a statuto ordinario vennero fissate dalla l. 16 maggio 1970 nr. 281: ancora in modo piuttosto incongruo, in un articolo delle norme finali e transitorie di una legge intitolata ai Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle regioni a statuto ordinario. La legge prevedeva l’emanazione di decreti delegati che avrebbero dovuto basarsi sul criterio dei «settori organici di materie», «mediante il trasferimento degli uffici periferici dello Stato» e ricorrendo «di massima» alla delega di eventuali «competenze statali residue», prevista genericamente per «altre funzioni amministrative» dall’art. 118 della Costituzione, quando uffici statali avessero – come fu deciso nel caso delle Soprintendenze bibliografiche – funzioni «prevalenti» che rientrassero nel trasferimento.
A seguito di questa delega, il d.p.r. 14 genn. 1972 nr. 3 provvedeva nell’art. 7 a trasferire alle regioni «le funzioni amministrative degli organi centrali e periferici dello Stato in materia di musei e biblioteche di enti locali» (aggiungendo nel secondo comma «o di interesse locale»), nell’art. 8 a stabilire che «Le soprintendenze ai beni librari sono trasferite alle Regioni a statuto ordinario nel cui territorio hanno sede», e quindi «cessano contemporaneamente dall’esercitare le loro competenze sul territorio di altre Regioni», e nell’art. 9 a delegare alle regioni le funzioni amministrative che «residuano alla competenza statale» (non solo quelle della tutela, ma anche il compito di «promuovere l’istituzione di nuove biblioteche e vegliare sulle biblioteche popolari non di enti locali»). L’unico compito delle soprintendenze a venire interamente trasferito era quindi la concessione di sovvenzioni (il punto 10°), mentre al punto 11°, che tradizionalmente fondava la loro attività di promozione, era soltanto aggiunta, per le biblioteche popolari, la specificazione «non di enti locali».
Tra i due provvedimenti, il d.l. 28 dic. 1971 nr. 1121 (convertito nella l. 25 febbr. 1972 nr. 15) aveva fissato la decorrenza del trasferimento delle funzioni statali, sempre per le regioni a statuto ordinario, al 1° aprile 1972.
Sul piano istituzionale, nel giugno 1970 si erano tenute le prime elezioni dei consigli regionali e subito dopo era partita l’elaborazione degli statuti. Tra il 1970 e il 1972, quindi, il dibattito sul ruolo delle regioni nell’ambito bibliotecario riprese in maniera intensa e concitata, in un clima politico molto diverso da quello del primo centrosinistra e della programmazione pilotata dall’alto: con il 1968-69 era emersa «l’esigenza di nuove forme più partecipate di vita culturale», insieme a un confronto politico e ideale molto più aperto, anche aspro, e non di rado velleitario (Traniello 1983, pp. 27-28). Le affermazioni pur generiche degli statuti regionali sul «diritto all’istruzione e alla cultura», sulla democratizzazione dell’informazione, sulla partecipazione, su una visione più ampia e innovativa dei servizi sociali e culturali, costituivano segni di un interesse politico nuovo, che forse si indirizzava alle biblioteche non per un’effettiva conoscenza della loro funzione, quanto perché istituti suscettibili, a una considerazione un po’ superficiale, di diventare una sorta di laboratorio privilegiato di una nuova politica culturale.
È evidente, nei documenti del tempo, lo ‘spiazzamento’ tra le ambizioni di protagonismo e di politiche innovative, per quanto vaghe e per lo più velleitarie, dei nuovi esponenti regionali, da una parte, e le illusioni di politici, dirigenti statali e bibliotecari di ingabbiare i nuovi enti entro compiti sostanzialmente esecutivi dei programmi faticosamente messi in moto dalle soprintendenze e dal servizio nazionale di lettura. Proprio nel decennio che precede il 1972 l’attività delle soprintendenze e lo sviluppo dei sistemi bibliotecari avevano preso crescente forza e velocità, con il massiccio incremento dei finanziamenti legati al piano della scuola e anche con l’elaborazione dei primi standard (La biblioteca pubblica in Italia: compiti istituzionali e principi generali di ordinamento e di funzionamento, 1965), redatti da una commissione dell’AIB di cui facevano parte Carini Dainotti e Pagetti. Il lavoro era poi proseguito in sede ministeriale, sia per elaborare quella legge quadro sulle biblioteche, di cui si avvertiva la mancanza da quasi un secolo e l’urgenza con l’avvio ormai prossimo delle regioni, sia per mettere a punto standard operativi che stabilissero cosa poteva considerarsi (e non) un servizio bibliotecario pubblico degno di questo nome.
La sovrapposizione cronologica tra un’iniziativa statale finalmente consistente e professionalmente attrezzata ma decollata tardi e l’aspettativa di novità con l’avvio delle regioni indubbiamente non fu fortunata: quando durante il convegno di Roma su Lettura pubblica e organizzazione dei sistemi bibliotecari (1970) Carini Dainotti e la Direzione generale presentarono gli ormai cospicui risultati del servizio nazionale di lettura e le ipotesi per una legge quadro sulle biblioteche, era inevitabile – come spiegò Pagetti – il fermo altolà delle regioni, e quando il ministro Oscar Luigi Scalfaro diramò, il 5 agosto 1972, il primo documento ufficiale che definiva i parametri funzionali delle biblioteche pubbliche («Accademie e biblioteche d’Italia», 1972, 40, 4-5, pp. 345-49), esso non poteva che venire ignorato, o considerato una ‘provocazione’. Anche se qualche anno più tardi le regioni più avanzate si sarebbero messe a riscrivere documenti analoghi.
In maniera più pronta e politicamente avvertita si era mossa l’Associazione italiana biblioteche, dichiarando fatto «assolutamente positivo» l’attuazione del dettato costituzionale, pur con la consapevolezza che «molto probabilmente dovremo rilevare nello stesso tempo dati positivi e negativi» (R. Pagetti, Le Regioni: nota per una azione dell’A.I.B., «Bollettino d’informazioni AIB»,1969, 6, p. 201), e quindi sposando la scelta regionalista nelle sue proposte di riforma presentate al Congresso del 1971 (G. De Gregori, La politica per le biblioteche in Italia, in I congressi 1965-1975 dell’Associazione italiana biblioteche, 1977, pp. 184-93), che sostenevano il trasferimento alle regioni e alle università di gran parte delle biblioteche statali e l’attribuzione al nuovo ente di funzioni di politica bibliotecaria che avrebbero dovuto coinvolgere tutte le biblioteche esistenti sul territorio, di qualsiasi titolarità. L’AIB sostenne le ragioni delle regioni, ritenendo «fuori discussione» che dovessero trasferirsi «tutte le funzioni già esercitate» dalle soprintendenze (F. Balboni, O. Marinelli, Prospettive per un sistema bibliotecario italiano dopo l’emanazione della legge delegata, «Bollettino d’informazioni AIB», 1972, 2-3, p. 63) e sostenne, in particolare, la richiesta della Regione Toscana di cessione anche di numerose biblioteche statali. L’AIB avanzò l’interessante proposta di integrare nei sistemi bibliotecari regionali pure le biblioteche scolastiche e richiamò l’attenzione sulla questione dell’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche (poi soppresso nel 1977) e sui cospicui fondi statali in vario modo destinati alle biblioteche e non trasferiti alle regioni. Tuttavia, come mostrò l’incontro con gli assessori regionali alla cultura organizzato dall’AIB al Congresso del 1971, il dialogo tra i tecnici e i nuovi interlocutori politici non era facile, dovendosi ‘ripartire da zero’ rispetto alla sensibilizzazione acquisita entro l’amministrazione statale, con l’impressione che nell’esperienza compiuta fin lì (non solo dallo Stato, ma sotto la direzione statale) si rischiasse di non riuscire a distinguere gli elementi positivi da mantenere.
L’accanita e pretestuosa resistenza ministeriale nell’iter del decreto delegato e i passi falsi ricordati inasprirono la tensione, mentre la ‘soluzione’ del d.p.r. nr. 3 del 1972, con il trasferimento delle soprintendenze ma non del servizio nazionale di lettura (e dei relativi finanziamenti, che sembravano tanto appetibili), risultava un’inutile beffa, essendo materialmente e politicamente impossibile portarne avanti l’attività dopo l’amputazione degli organi e in una situazione di conflitto istituzionale (dove sarebbe occorsa, invece, una cordiale collaborazione di stampo scandinavo tra autorità centrali e territoriali). La guerra di logoramento intorno a inutili brandelli di competenze statali si prolungò fino al d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616, che completò il trasferimento alle regioni anche dei compiti relativi al servizio nazionale di lettura e alle biblioteche «comunque di interesse locale», compresi i residui delle improduttive iniziative del dopoguerra.
Al di là dell’esito della vicenda, ormai acquisito ma senza soddisfazione di nessuna delle due parti, è interessante notare che nel ventaglio delle posizioni – da chi cercava di svuotare il trasferimento di quasi tutti i contenuti concreti (come era accaduto fin lì per le regioni a statuto speciale) a chi invece, come la Toscana, sollecitava la cessione di quasi tutti gli organi e istituti statali – vennero avanzate ipotesi di compromesso opposte. Nell’ambiente bibliotecario si era per lo più contrari alla cessione delle soprintendenze (o almeno, per es. nel caso di Barberi, alla rinuncia a un ufficio statale per le sole funzioni di tutela) mentre si riteneva naturale la cessione da parte dello Stato di molte, se non quasi tutte, le biblioteche della cui gestione si era caricato con l’Unità e oltre: biblioteche di carattere chiaramente locale, da Cremona a Lucca, o universitarie (Pavia, Padova, Bologna ecc.), o con un profilo duplice o triplice (come le universitarie di Genova e di Cagliari, biblioteche storiche dell’area regionale, o la Marucelliana di Firenze), fino, eventualmente, alle biblioteche centrali dei grandi Stati preunitari (le nazionali di Torino, Milano, Venezia e Napoli). Ovunque si voglia fissare un limite ragionevole tra istituti di carattere propriamente nazionale e istituti che non vanno oltre una funzione regionale, locale o speciale, è evidente che gran parte delle biblioteche statali si colloca al di là di quel limite e che sono improponibili sia le vaghe ambizioni degli anni Quaranta di puntare alla statalizzazione di una biblioteca in ogni capoluogo di provincia sia quelle più concrete degli anni Settanta di mantenere o impiantare una biblioteca ‘nazionale’ in ogni regione (contraddizione in termini, in uno Stato regionale).
Dalla parte delle regioni emerse invece una posizione opposta, poco o nulla interessata all’acquisizione di istituti bibliotecari – anche se centrali in un ipotetico sistema bibliotecario regionale – e invece molto attaccata al trasferimento delle soprintendenze. È facile rilevare che la gestione di istituti culturali importanti è un serio onere, non solo finanziario, mentre strappare allo Stato una funzione di (apparente) autorità e prestigio si prospettava più attraente e molto meno oneroso. Del resto anche la ripresa della politica di decentramento con la legge Bassanini (l. 15 marzo 1997 nr. 59) arrivò poi a prevedere la possibilità di cessione da parte dello Stato delle sole «Biblioteche pubbliche statali universitarie» (d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112), rimasta limitata al caso di Bologna, in maniera incompleta e poco soddisfacente.
I trasferimenti sia di funzioni sia di organi, invece di portare ordine in una situazione confusa e di porre le basi per una programmazione complessiva, evidenziarono lacune e aprirono nuovi scompensi: non veniva razionalizzata l’azione statale, appesantita di funzioni gestionali per le ‘sue’ biblioteche – troppe fin dall’Unità – e amputata degli organi forse più vitali, e le competenze sul territorio rimanevano molto frammentate (biblioteche statali dove presenti, biblioteche locali di competenza regionale, biblioteche universitarie, scolastiche, speciali), mentre continuava a mancare una chiara e stabile programmazione delle risorse finanziarie necessarie e della loro ripartizione tra i diversi livelli istituzionali.
La sterile contrapposizione di rivendicazioni, a cui non faceva riscontro nessuna assunzione di impegni precisi, e l’indisponibilità da parte statale a un riesame complessivo dell’assetto venutosi a creare dopo l’Unità resero di fatto impossibile la definizione di un quadro condiviso d’azione, e in particolare l’emanazione di una legge cornice e l’effettivo svolgimento delle funzioni di indirizzo e coordinamento a livello nazionale.
Il trasferimento delle funzioni e degli organi statali alle regioni a statuto speciale fu anche più lento e farraginoso, pur trattandosi almeno in parte di attuare quanto stabilivano da tempo i loro statuti (nel caso della Sicilia addirittura dal 1946).
L’emanazione degli statuti delle regioni autonome (per Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Sicilia e Sardegna con leggi costituzionali del 1948, per il Friuli Venezia Giulia nel 1963) non aveva in generale comportato interventi di rilievo nel nostro ambito. Gli statuti della Valle d’Aosta e della Sardegna elencano semplicemente tra le materie di competenza regionale «biblioteche e musei di enti locali» (si noti l’inversione rispetto alla Costituzione), mentre la sfera di competenza risulta ampliata nel caso della Sicilia («musei, biblioteche, accademie»), del Trentino-Alto Adige, che ha delegato alle due province autonome l’ambito delle «istituzioni culturali (biblioteche, accademie, istituti, musei) aventi carattere provinciale», e del Friuli Venezia Giulia, che fa riferimento a «istituzioni culturali, ricreative e sportive, musei e biblioteche di interesse locale e regionale».
Le regioni a statuto speciale avrebbero avuto la possibilità di legiferare sul settore delle biblioteche prima del 1972, ma una produzione normativa significativa si sviluppò soltanto dal 1973. In precedenza furono emanate solo alcune leggine per la distribuzione di finanziamenti, direttamente alle biblioteche o con il tramite delle soprintendenze statali (per es. la l. 24 nov. 1950 nr. 64 della Sardegna – che sarà sostituita da una legge organica solo nel 2006 –, la l. 30 dic. 1960 nr. 46 della Sicilia e le l. 29 ott. 1965 nr. 23 e 2 luglio 1969 nr. 11 del Friuli Venezia Giulia).
Il trasferimento delle soprintendenze alle regioni a statuto ordinario comportò però interventi immediati anche per le altre: ottemperando a quanto prescritto dal d.p.r. 14 genn. 1972 nr. 3, un decreto ministeriale del 30 marzo 1972 ‘appoggiò’ a tre biblioteche statali (la Reale di Torino, l’Universitaria di Padova e l’Isontina di Gorizia), dal 1° aprile, le funzioni relative alle regioni Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, aggregate fino a quel momento alle soprintendenze del Piemonte e del Veneto.
Il trasferimento degli uffici avvenne soltanto tra il 1973 e il 1978, a partire dal Trentino-Alto Adige (d.p.r. 1° nov. 1973 nr. 691), dove non vi erano attività statali nell’ambito del tema qui trattato, concludendosi con la Valle d’Aosta (l. 16 maggio 1978 nr. 196). Per l’altra regione autonoma del Nord, il Friuli Venezia Giulia, il trasferimento delle funzioni statali avvenne dal marzo 1976, con il d.p.r. 25 nov. 1975 nr. 902, che precisava tra l’altro che rimanevano allo Stato le biblioteche di Gorizia e Trieste e vari musei in quanto «considerati d’interesse statale».
Alla Sardegna le competenze statali in materia di musei e biblioteche di enti locali erano state trasferite sulla carta già dal 1966 (con il d.p.r. 24 nov. 1965 nr. 1532), mantenendo però allo Stato la soprintendenza bibliografica, che venne infine trasferita nel 1975 (d.p.r. 22 maggio 1975 nr. 480).
Nello stesso anno furono emanate anche le norme di attuazione dello statuto della Regione siciliana riguardo al trasferimento delle competenze su accademie e biblioteche (d.p.r. 30 agosto 1975 nr. 635), rinviando però a provvedimenti successivi la definizione del passaggio del personale alla regione. Il caso della Sicilia, pur trascinatosi a lungo, fu il solo in cui il trasferimento delle funzioni statali fu completato con il passaggio alla regione, al principio del 1976, anche di tre importanti istituti bibliotecari, la Biblioteca nazionale di Palermo (ora Biblioteca centrale della Regione siciliana) e le universitarie di Catania e Messina, con l’assetto poi definito dalla l. reg. 1° ag. 1977 nr. 80.
In concreto, nel caso delle biblioteche, l’avvio delle regioni a statuto ordinario fu rappresentato più che dall’acquisto di astratte competenze, da quello di concreti uffici, con persone, sedi e attrezzature, e una tradizione consolidata di attività che comportavano relazioni con interlocutori esterni di ogni genere e livello. Sotto questo aspetto ogni soprintendenza ha la sua storia, dove possono entrare in gioco molti fattori. Inoltre mentre la maggioranza delle regioni si vide trasferito un ufficio funzionante, per altre fu necessario crearlo da zero, ricevendo soltanto qualche blocco di carte.
Una chiave di lettura sicuramente efficace è quella del fattore umano, riportata con forza in primo piano nell’attuale stagione della storiografia delle biblioteche. Forse una prima distinzione si dovrebbe quindi fare, più che su caratteristiche geografiche, socioeconomiche o politiche, tra il caso del trasferimento di uffici in continuità di direzione e quelli con una sostanziale discontinuità, a cui aggiungere quelli creati ex novo.
Le circoscrizioni delle soprintendenze ai beni librari (questa la nuova denominazione che avevano da poco assunto all’interno di un provvedimento sul personale, con il d.p.r. 31 marzo 1971 nr. 283) non coincidevano infatti con le regioni. Non solo il Veneto, l’Emilia-Romagna e la Sicilia avevano sul loro territorio due soprintendenze, ma quelle venete comprendevano l’una il Trentino-Alto Adige e l’altra il Friuli Venezia Giulia, quella di Bologna comprendeva anche le Marche, e inoltre la Valle d’Aosta era aggregata al Piemonte, l’Umbria al Lazio, il Molise all’Abruzzo, la Calabria alla Campania, la Basilicata alla Puglia, e anche nel caso della Liguria la competenza sulla provincia di Massa e Carrara doveva essere scorporata e devoluta alla soprintendenza toscana. Su venti regioni, insomma, solo per la Lombardia e la Sardegna vi era piena coincidenza tra vecchia e nuova circoscrizione.
Ma una continuità sostanziale – pur con i necessari aggiustamenti – era possibile per le soprintendenze di Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Pescara, Napoli, Bari, Palermo e Cagliari, cioè in dodici regioni su venti, le maggiori. Pochissimi i soprintendenti statali che optarono per passare alle regioni, anche se si tratta di nomi di peso: Maria Sciascia (1916-1996), soprintendente del Lazio (prima in Liguria) e Luigi Balsamo (1926-2012), soprintendente per l’Emilia nord-occidentale e prima in Sardegna, che solo dal marzo 1972 era passato a capo della soprintendenza di Bologna. Molti soprintendenti, nell’imminenza del trasferimento degli uffici alle regioni, erano andati in pensione, o erano passati alla direzione di una biblioteca, o si preparavano a usufruire dell’‘esodo’ agevolato del 1972-73, rimanendo ancora qualche mese in servizio nell’amministrazione statale. Al contrario, i funzionari relativamente più giovani e con parecchi anni di carriera davanti a sé, quelli che avevano occupato le posizioni di soprintendente, spesso con nomine interinali nelle ultimissime fasi (e probabilmente l’attribuzione di questi incarichi era connessa proprio alla disponibilità a transitare nei ruoli regionali), optarono quasi tutti per passare alle regioni. Questi funzionari, per lo più tra i 40 e i 50 anni, colsero l’occasione – anche se quasi tutti avrebbero potuto continuare la loro carriera in una biblioteca della stessa città – per dare il loro contributo di idee e di impegno in una prospettiva in cui credevano.
La continuità personale fu in molti casi determinante per l’attività successiva (funzionari provenienti dallo Stato operarono in molte regioni fino agli anni Ottanta e in alcune anche oltre), ma dal punto di vista degli uffici le vicende furono spesso confuse e non prive di tensioni, soprattutto perché, tra polemiche e preconcetti ideologici, venne sottovalutata – se non semplicemente ignorata – l’esigenza di comprendere il profilo delle soprintendenze in un’ottica di teoria e storia dell’amministrazione. Le soprintendenze bibliografiche erano infatti organi eminentemente tecnici, sempre affidati a bibliotecari e mai a funzionari amministrativi, inseriti nell’apparato ministeriale ma sostanzialmente autonomi nel loro territorio e nella sfera tecnico scientifica, e a maggior ragione esterni al circuito della politica. La loro autorevolezza, magari un po’ rétro (come il loro nome), faceva leva sulla competenza professionale e culturale, e quindi sulla forte anche se conculcata tradizione delle carriere tecniche dell’amministrazione statale postunitaria, che avevano avuto un ruolo importantissimo nella costruzione di un moderno Stato liberale europeo. Questo profilo era difficilmente trasferibile nel nuovo contesto politico burocratico delle regioni, anzi fu in genere incompreso e spesso malvisto. Si determinarono spesso situazioni poco chiare, in cui l’ex soprintendenza statale mantenne per qualche tempo una sua autonomia (a volte anche una separazione dagli uffici regionali, restando nella sua sede) con scarsi o difficili collegamenti con le nuove strutture create a supporto degli assessorati. Nel tempo risultò inevitabile l’annacquamento della specificità dell’ufficio e il declino della sua autorevolezza tecnica con l’assorbimento nella struttura burocratica dell’ente, una struttura di tipo amministrativo con mobilità di dirigenti e funzionari tra i diversi settori, soggetti a loro volta a una girandola di accorpamenti e ribattezzamenti secondo le mode e le esigenze politiche del momento. Oltre alla dipendenza immediata dalla politica locale, che in più di un caso fece rimpiangere la lontananza non solo geografica dei ‘palazzi’ romani.
Nella varietà delle vicende locali anche la possibile chiave interpretativa del mantenimento della soprintendenza o della sua soppressione non offre però risultati del tutto lineari. Nella maggior parte delle regioni la soprintendenza cessò nell’arco di alcuni anni di esistere come tale, spesso – ma non sempre – formalmente soppressa: per es. in Toscana con la l. 3 luglio 1976 nr. 33 (che istituiva al suo posto il Servizio regionale per i beni librari e archivistici), in Friuli Venezia Giulia con la l. 18 nov. 1976 nr. 60, in Liguria con la l. 30 maggio 1978 nr. 27, in Piemonte con la l. 28 ag. 1978 nr. 58, in Emilia-Romagna con la l. 23 apr. 1979 nr. 12 (ma fu poi ricostituita), in Puglia con la l. 17 apr. 1979 nr. 22. E in quest’ultimo caso non si può non ricordare che, ottenuto il trasferimento della soprintendenza statale, la regione si affrettò a depositare le sue carte all’Archivio di Stato di Bari, come ente soppresso, dimostrando così l’evidente, completa rinuncia a esercitare le funzioni trasferite o delegate, essendo impensabile operare in questo campo senza la conoscenza della situazione pregressa.
Dove non era stato presente un ufficio statale, oltre ai casi di inerzia, vi fu qualche iniziativa che si riallacciava alla tradizione, come la creazione nella Regione Umbria di un ufficio che fu per parecchi anni tra i più qualificati e attivi e l’istituzione ex novo in Basilicata (l. 19 luglio 1974 nr. 13) di una soprintendenza ai beni librari che svolse, soprattutto negli anni Ottanta, un’azione di sensibilizzazione importante in un’area particolarmente difficile.
Casi a sé, per l’ampiezza delle materie trasferite, sono quelli della Regione Sicilia, nella quale con la l. 1° ag. 1977 nr. 80 vennero costituite a livello provinciale o interprovinciale le soprintendenze per i beni culturali e ambientali (inizialmente sei, poi nove), con competenza generale sul settore e articolate in sezioni specifiche, tra le quali una sezione per i beni bibliografici, e della Provincia di Bolzano, nella quale con la l. 12 giugno 1975 nr. 26 fu costituita la Soprintendenza provinciale ai beni culturali con al suo interno un servizio archivi e biblioteche storiche (abolita però nel 2001, assegnando le relative competenze alla ripartizione Beni culturali, un’articolazione meramente amministrativa).
Anche nelle poche regioni nelle quali si è mantenuta una soprintendenza ai beni librari (alla fine degli anni Settanta ne risultavano cinque, ma le variazioni anche in seguito sono state frequenti), questa è stata per un periodo soppressa e poi ricostituita – è il caso della Lombardia e dell’Emilia-Romagna – oppure ha subito nel tempo – come nel Lazio e in Abruzzo – un grave depauperamento di risorse.
In merito alle vicende degli uffici e delle persone, si riscontrano situazioni nelle quali le soprintendenze, o i nuovi ma consistenti e riconoscibili servizi regionali, hanno continuato a operare mantenendo un profilo tecnico-scientifico autorevole, con funzionari provenienti dai ruoli statali o comunque qualificati e partecipi dell’elaborazione professionale, rispetto ad altre realtà, dove, in mancanza di continuità di uffici o di persone, l’attività non si è per molti anni avviata o è diventata sempre più modesta e opaca, fino all’inerzia. Appare in molti casi evidente la mancanza di un organo che possa svolgere con efficacia le funzioni trasferite o delegate: spesso è anche difficile identificarlo, perchè la denominazione di soprintendenza non è usata o non corrisponde alla denominazione effettiva dell’ufficio nell’organigramma dell’ente, soggetto in genere a frequenti mutamenti.
Ciò conferma che un organo tecnico con precise funzioni – se non altro quelle di tutela – non riesce a trovare una collocazione chiara e stabile in un contesto politico-burocratico ispirato, comprensibilmente, a esigenze del tutto diverse, quelle della rispondenza diretta all’indirizzo politico e dell’adattamento a continue ristrutturazioni in cui possono entrare tanti fattori ma non quelli più pertinenti al nostro caso, stabilità e chiarezza di competenze e consolidamento di professionalità tecnico-scientifiche specifiche. Analogamente, quando le leggi regionali istituiscono organismi collegiali di confronto o ipotizzano rapporti di collaborazione, fanno spesso riferimento alle figure dei soprintendenti archeologici, architettonici e artistici e/o a quelli archivistici – tutti statali – mentre poi per l’ambito bibliotecario prevedono figure anonime e non tecnicamente qualificate che rappresentino la regione per delega politica o in quanto dirigenti di aree amministrative vaste e generiche o dai confini improbabili. In altri termini, l’esistenza di precise figure responsabili con competenze tecnico-scientifiche è salvaguardata (ancora, almeno in parte) per le strutture rimaste nell’ambito statale, mentre non è in alcun modo garantita, anzi è per lo più messa fuori questione, dall’impostazione politico-burocratica dell’ente regione.
Sembra quasi che si sia chiuso il cerchio delle decisioni prese a metà e quindi incapaci di adeguare gli strumenti agli obiettivi: dall’istituzione, nel 1919, di soprintendenti senza soprintendenze (senza uffici e senza autonomia) alle soprintendenze senza soprintendenti (spesso anche senza uffici, quasi sempre senza autonomia).
Come sempre avviene – anche se i decisori politici non se ne interessano – molti effetti si vanno a dispiegare nel tempo, non immediatamente, e nel nostro caso questo risulta evidente anche per gli elementi di continuità personale ricordati. In particolare, la perdita della dimensione di autorevolezza tecnica indipendente si è manifestata nel tempo, con la progressiva sostituzione in quasi tutte le regioni di soprintendenti con un prestigio tecnico-scientifico e culturale – come erano stati per lo più fino al 1972 – con anonimi funzionari amministrativi, sconosciuti nell’ambiente bibliotecario e per forza di cose sempre meno al corrente dell’evoluzione biblioteconomica sul piano internazionale e nazionale. Le eccezioni riguardano le pochissime strutture più forti (Emilia-Romagna, Toscana, Lombardia) nelle quali si è preservata una tradizione di competenza tecnico-scientifica e di rapporti costanti con gli istituti bibliotecari e di cultura. Le benemerite norme sulla trasparenza, rendendo visibili in rete (non sempre) i curricula dei dirigenti, permettono di verificare l’affidamento della responsabilità in questo settore a funzionari con il bagaglio di preparazione ed esperienza più disparato, che va da laureati in giurisprudenza o scienze politiche – nella migliore delle ipotesi – fino alla chimica industriale.
L’evoluzione dell’intervento regionale ha seguito linee largamente comuni, basate sullo sviluppo dell’elaborazione professionale dei bibliotecari e delle realizzazioni di servizio prima e dopo il 1972. Non sono mancate, tuttavia, differenze d’impostazione, enucleate nei confronti sistematici della legislazione di settore nelle sue diverse ‘generazioni’. Molte regioni hanno prodotto leggi organiche, anche in due o tre riprese, ma alcune si sono limitate a interventi di ordinaria amministrazione, regolamentando la distribuzione di contributi finanziari.
Queste differenze, tuttavia, non sembrano configurare strategie o prospettive diverse, ma piuttosto livelli molto variabili di impegno effettivo, in cui le proposte delle regioni più attive hanno costituito un modello per le altre. Non è un caso che parecchie leggi si limitino a ripetere nel titolo la stessa formula, Norme in materia di biblioteche di enti locali o di interesse locale, adottata dalla prima legge organica, quella della Lombardia (nr. 41 del 4 sett. 1973), e poi ricalcata da parecchie altre (Veneto nr. 46/1974, Valle d’Aosta nr. 30/1976, Abruzzo nr. 22/1977, Liguria nr. 61/1978, Calabria nr. 17/1985, e con piccole varianti Piemonte nr. 78/1978 e Puglia nr. 22/1979), eventualmente con l’aggiunta del riferimento agli archivi storici di enti locali (Toscana nr. 33/1976, Emilia-Romagna nr. 42/1983, Marche nr. 39/1987 – dopo un primo intervento del 1974 rivolto all’intero ambito dei beni culturali –, e con varianti la legge del Lazio nr. 30/1975 e le successive leggi della Lombardia nr. 81/1985 e della Toscana nr. 35/1999) e qualche volta anche ai musei, accomunati nel dettato costituzionale (Umbria nr. 39/1975, Provincia di Trento nr. 17/1977, Molise nr. 37/1980, con qualche ampliamento la l. nr. 60/1976 del Friuli Venezia Giulia e poi la nuova legge del Veneto nr. 50/1984). Lasciando da parte gli interventi minimali, come la legge di finanziamento della Campania (nr. 49/1974, integrata dalla nr. 4/1983), un tentativo di ridefinizione dell’ambito d’intervento regionale si può trovare nelle leggi della Basilicata (nr. 37/1980, intitolata Disciplina dei servizi di pubblica lettura e degli interventi di educazione permanente) e della Provincia di Bolzano (nr. 41/1983, Per la disciplina dell’educazione permanente e del sistema di biblioteche pubbliche).
«Le regioni – secondo l’analisi di D’Alessandro (2007, p. 358) – hanno dunque ispirato la propria normativa a principi generali comuni, ma [...] dopo un iniziale rapportarsi reciprocamente con leggi molto simili tra loro [...] hanno poi modificato i loro interventi normativi», emanando «norme che sono difficilmente riconducibili ad un’unica matrice», riguardo per es. all’indicazione di standard di servizio, alla programmazione dei sistemi su base territoriale, alla qualificazione del personale, ai finanziamenti.
Nell’ormai consueta ripartizione della produzione legislativa delle regioni in ‘generazioni’, la prima, che prende avvio dal punto di vista sia cronologico sia di modello con la legge lombarda del 1973, riflette essenzialmente l’elaborazione biblioteconomica degli anni Sessanta sulle funzioni della biblioteca pubblica e l’esigenza di organizzazione in sistemi; su questi elementi innestava però un’aspirazione, o velleità, di politica culturale e democrazia partecipativa, secondo il clima dei tempi, con la promozione di attività culturali diverse e la creazione di commissioni di gestione, in genere di nomina politica. Ma per questi ultimi aspetti l’esperienza, pur se inizialmente utile in qualche caso a svecchiare l’immagine della biblioteca e a coinvolgere forze politiche e sociali, si rivelò rapidamente dispersiva e infruttuosa, per l’assenteismo o le ingerenze delle rappresentanze politiche.
Tra le leggi di ‘seconda generazione’ hanno avuto maggiore risonanza quelle dell’Emilia-Romagna (27 dic. 1983 nr. 42), che apre questa fase, e della Lombardia (14 dic. 1985 nr. 81), che la rappresenta forse nel modo più organico e compiuto. Queste leggi, e quelle a loro ispirate, focalizzano di nuovo l’attenzione soprattutto sull’efficace organizzazione del servizio bibliotecario e informativo, lasciando cadere le velleità dell’animazione culturale e della partecipazione, e richiamando di fatto – anche se in un contesto differente – l’elaborazione professionale precedente al 1972, in cui si era cercato appunto di definire modelli organizzativi e standard minimi di servizio.
Tirando le somme del primo decennio, Traniello (1983, pp. 123-24) metteva all’attivo essenzialmente la crescita numerica delle biblioteche pubbliche di ente locale, soprattutto nei primi anni e in alcune aree, favorita anche dai finanziamenti regionali, cospicui in Lombardia e in qualche altra regione ma irrisori in altre, non solo del Mezzogiorno. Tuttavia, una chiara tendenza di incremento quantitativo era evidente già negli anni Sessanta, per ovvi motivi di crescita culturale ed economica della società italiana (il boom economico, la scuola media unica, un’editoria tascabile di nuova concezione ecc.), cosicché le regioni, almeno in gran parte, sembrano aver raccolto i frutti di un’onda da tempo avviata e che semmai dovranno sostenere quando andrà a spegnersi nelle difficoltà, sia finanziarie sia sociali, degli anni Settanta.
Le biblioteche comunali nate in questo periodo erano per lo più strutture deboli o debolissime, a volte istituite solo sulla carta, non in grado di proporre un’offerta comparabile a quella dell’industria culturale che si andava sviluppando molto più rapidamente (basti pensare alla produzione libraria che tra il 1955 e il 1995 raddoppia in numero di titoli ogni dieci anni circa, oltre allo sviluppo della televisione, del cinema e degli spettacoli). Non è un caso quindi che il tasto sempre battuto fosse quello dei ‘sistemi bibliotecari’, che non si può certo considerare nuovo. Se, come notava Traniello (1983, p. 124), è comunque positivo che l’idea si diffonda e raggiunga un consenso generalizzato, limitati rimasero i frutti reali, sia perché i sistemi operativi erano poco numerosi (parecchi altri stagnarono nelle fasi di avvio), sia perché strutture piccole e deboli poco potevano dare anche se collegate tra loro. Tra i sistemi realmente operativi dopo oltre un decennio dal trasferimento delle funzioni, la maggior parte risaliva a epoca precedente, al vituperato Servizio nazionale di lettura, e parecchi, soprattutto tra gli ultimi nati, potevano essere considerati solo con molta generosità (per es. i ‘sistemi urbani’ che si riducevano a una o pochissime succursali di una sede principale modesta) o coprivano aree intercomunali insufficienti a un minimo di funzionalità e di economia di scala.
Si può sostenere, tuttavia, che l’elaborazione professionale vada in questi anni oltre i modesti orizzonti dei ‘sistemi di soprintendenza’, riassumibili – un po’ riduttivamente – «nella circolazione di limitato materiale librario e di qualche iniziativa culturale» (Traniello 1983, p. 125), in genere perché si progettano – o soltanto si accarezzano – sistemi informativi avanzati, che elaborino e diffondano informazioni bibliografiche, anche per la formazione di cataloghi collettivi, con tecnologie informatiche e centri di servizi appositi. Qualche realizzazione – soprattutto il Dizionario bibliografico con indici di parole chiave prodotto dal Consorzio provinciale per la pubblica lettura di Bologna, pubblicato da «Il Mulino» dal 1972 al 1975 e proseguito da «L’informazione bibliografica» – fece notizia anche (o più) fuori dell’ambiente professionale, ma si andò poi esaurendo. Anche le iniziative apparentemente più avanzate, dai punti di servizio nelle fabbriche o all’aperto fino all’impiego degli audiovisivi, si trovano in genere già sperimentate negli anni Cinquanta e Sessanta, e non acquisirono poi quella solidità o diffusione di cui mancavano. La questione centrale, quella della penetrazione o impatto dei servizi bibliotecari su una larga percentuale della popolazione, sembra aver fatto pochi e lenti passi avanti, manifestando piuttosto da caso a caso andamenti altalenanti che, in qualsiasi periodo, dipendono principalmente dagli impegni e investimenti degli enti locali, oppure da trascuratezza e inerzia. Per fare un solo esempio, la Biblioteca comunale di Cesena, che ai primi del Novecento, con Renato Serra, dava in lettura oltre 8000 volumi all’anno e con il suo successore Manlio Dazzi ne dava in prestito nel 1925 quasi 4500, nel 1981 dichiarava poco più di 3000 prestiti (A. Petrucciani, Libri e libertà: biblioteche e bibliotecari nell’Italia contemporanea, 2012, p. 297).
La lenta modernizzazione dei servizi si accompagnò però a una notevole modificazione nel ‘sistema comunicativo’ del mondo delle biblioteche. Basta uno sguardo d’insieme a una collezione stratificata di pubblicazioni d’argomento bibliotecario per notare che, nel corso degli anni Settanta e forse più nel decennio successivo, alla modesta (per quantità e qualità) produzione di qualche librettino grigio che riportava gli atti di un convegno o i documenti di un’attività, si sostituisce una produzione numericamente folta, consistente, colorata e talvolta anche accattivante di atti di congressi, cataloghi, mostre, pubblicazioni documentarie e un po’ anche autocelebrative, insieme a una fioritura di riviste e bollettini che rispetto ai precedenti si presenta con tutt’altra veste e professionalità, con il sostegno di regioni, province (come quelle di Milano, Pavia, Bologna, Foggia), comuni, sistemi bibliotecari. Pur con le difficoltà di carattere finanziario che vengono progressivamente a incidere nel corso degli anni Novanta, si tratta di un periodo di notevole crescita, di modernizzazione e internazionalizzazione, di approfondimento delle conoscenze biblioteconomiche e di riflessione sulle funzioni della biblioteca pubblica.
Tornando al piano legislativo, il risultato più organico e convincente del primo trentennio di attività delle regioni è rappresentato forse dalla legge toscana del 1° luglio 1999 nr. 35, sintetica e precisa, con le sue limpide definizioni delle «biblioteche pubbliche degli enti locali» e delle loro funzioni, la chiara suddivisione di compiti e responsabilità tra regione, province e comuni, la netta affermazione che «La rete locale costituisce la modalità ordinaria di gestione delle attività e dei servizi documentari integrati».
Tuttavia non si è riusciti ancora a sciogliere il nodo più elementare, nemmeno al livello dell’oggetto della legislazione: ‘biblioteche degli enti locali’ è infatti espressione opaca e inappropriata, perché indica un proprietario e non una funzione (ovviamente molti grandi comuni e quasi tutte le province possiedono biblioteche, di vario genere e con varie finalità interne ed esterne all’ente, che non hanno nulla a che vedere con le biblioteche pubbliche a cui la legislazione si riferisce). ‘Biblioteche pubbliche’, il termine corretto da usare (e che comprende, sia pure in misura minoritaria, istituti che non sono di proprietà degli enti locali ma di enti morali, fondazioni o associazioni, o hanno comunque una diversa configurazione giuridica), rimane off limits nella legislazione, per l’antico equivoco delle ‘biblioteche pubbliche statali’ e può essere usato, come nella legge toscana, solo appesantito dalla precisazione della titolarità (oppure ricorrendo alla formula «di interesse locale», sancita dal d.p.r. nr. 3 del 1972 ma anch’essa inappropriata sia per eccesso sia per difetto a delimitare l’ambito del servizio bibliotecario pubblico).
Si parla poi, in genere, di una ‘terza generazione’ della legislazione bibliotecaria regionale a partire dai primi anni Duemila, a seguito della riforma del titolo V della Costituzione (2001) e dell’emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004), che hanno modificato – anche in se in modo non privo di ambiguità e di rischi – il quadro generale di riferimento.
È bene ricordare infine che poche regioni hanno toccato e superato tutte le tappe con cui in genere si schematizza lo sviluppo della legislazione bibliotecaria: alcune hanno all’attivo tre o più interventi legislativi (per es. il Veneto e la Toscana), ma altre mantengono ancora in vigore le leggi della seconda metà degli anni Settanta (nr. 80/1977 della Sicilia, nr. 58/1978 del Piemonte, nr. 22/1979 della Puglia) o del decennio successivo (nr. 37/1980 del Molise, nr. 37/1980 della Basilicata, nr. 4/1983 della Campania, nr. 41/1983 della Provincia di Bolzano, nr. 50/1984 del Veneto, nr. 17/1985 della Calabria, nr. 81/1985 della Lombardia, nr. 12/1987 della Provincia di Trento). Agli anni Novanta risalgono le leggi vigenti dell’Umbria (nr. 37/1990), della Valle d’Aosta (nr. 28/1992), del Lazio (nr. 42/1997) e dell’Abruzzo (nr. 77/1998), a cui si può aggiungere la nr. 18/2000 dell’Emilia-Romagna. Successive alla riforma costituzionale del 2001 sono invece le leggi della Liguria, del Friuli Venezia Giulia, della Sardegna, delle Marche e della Toscana.
Nella poco felice coincidenza di tempi dell’attuazione dell’ordinamento regionale con la fase di maggiore impegno dello Stato rientra anche un’altra vicenda importante, quella dell’istituzione del Ministero per i Beni culturali e ambientali (d.l. 14 dic. 1974 nr. 617, convertito in l. 29 genn. 1975 nr. 5), in cui trovava finalmente uno sbocco – seppure parziale, distorto, insoddisfacente – l’importante elaborazione della commissione Franceschini (1964-1966).
Se con la sconfitta delle proposte innovative della commissione Franceschini il predominio dell’apparato burocratico sulle competenze tecnico-scientifiche si era definitivamente imposto in ambito sia statale sia regionale, nel nuovo Ministero trovarono comunque un certo spazio i tentativi di dare impulso, a partire dall’accettazione dei nuovi equilibri istituzionali e politici, alla politica bibliotecaria e alla funzione degli istituti statali.
Infatti a seguito della Conferenza nazionale del 1979 Per l’attuazione del sistema bibliotecario nazionale, promossa dal Ministero per i Beni culturali alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini e con interventi delle regioni, veniva lanciato dalla parte più avanzata dei bibliotecari italiani, per impulso soprattutto di Angela Vinay (1922-1990) direttrice dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane (ICCU) e presidente dell’AIB, il progetto del Servizio bibliotecario nazionale (SBN). La vicenda non edificante dell’ex Centro nazionale per il catalogo unico, istituito con una legge del 1951 e impantanato nella farraginosa redazione centrale di un catalogo collettivo delle principali biblioteche statali, veniva capovolta in un progetto di cooperazione interbibliotecaria a livello nazionale, che prendeva le mosse dalla catalogazione partecipata ma avrebbe dovuto coinvolgere tutti i servizi, utilizzando le nuove potenzialità offerte dall’elaborazione elettronica (già sperimentata e utilizzata nelle biblioteche nazionali di Firenze e di Roma ma con applicazioni molto parziali, anche per il livello arretrato della tecnologia).
Il progetto SBN utilizzava l’esperienza delle reti bibliotecarie americane, ma nella sua ispirazione, a livello del quadro istituzionale, era evidente un’analogia con il Servizio sanitario nazionale, istituito con la legge di riforma del 1978. Venne fin dal principio concepito come iniziativa comune del Ministero per i Beni culturali e delle regioni, con il coordinamento tecnico dell’ICCU. Il quadro di riferimento fu sancito nel protocollo d’intesa firmato il 30 maggio 1984 dal Ministero e dal Coordinamento delle regioni, rappresentato dall’assessore toscano Mayer; all’impostazione del progetto sul piano tecnico, a partire dal 1982, e poi allo sviluppo dei programmi – molto innovativi perché basati su una rete distribuita di elaboratori di diversi produttori con software differenti, architettura di difficile realizzazione prima dei protocolli Internet – hanno partecipato diverse regioni: soprattutto la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia-Romagna (in particolare con la Provincia di Ravenna), poi la Toscana, il Veneto, l’Umbria, il Lazio, la Sardegna e via via quasi tutte le altre.
Sul piano istituzionale il progetto è evoluto con un nuovo protocollo d’intesa, firmato il 10 marzo 1994, che vedeva entrare come partner insieme al Ministero per i Beni culturali e al Coordinamento delle regioni anche il Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR), seguito dall’accordo del 22 giugno 2000 per la riorganizzazione del servizio sancito dalla conferenza Stato-Regioni, dal protocollo d’intesa del 18 maggio 2007 tra Ministero dei Beni e delle Attività culturali (MIBAC), Conferenza delle regioni e delle province autonome e Ministero della Pubblica Istruzione, per la partecipazione delle biblioteche scolastiche, e quindi da quello del 31 luglio 2009 in cui i partner si ampliavano ancora a comprendere, oltre al MIBAC, al MIUR e alla Conferenza delle regioni, anche il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione, l’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI) e l’Unione delle province d’Italia (UPI).
Entro questo quadro, le regioni hanno di fatto operato in maniera abbastanza differenziata, sia rispetto all’idea iniziale – presto tramontata perché irrealistica nell’inerzia di diverse regioni – di articolazioni territoriali coincidenti con le regioni e da loro coordinate e gestite, sia rispetto agli sviluppi organizzativi e tecnologici successivi, cosicché il loro impegno diretto è attualmente molto variabile, non sempre esiste un polo SBN regionale (quasi mai un polo unico, che aggreghi tutti gli istituti aderenti alla rete) e il livello delle adesioni arriva solo in alcune aree a coprire quasi tutte le biblioteche di enti locali attive. In qualche caso, inoltre, si è preferito privilegiare un sistema esclusivamente locale, con risultati in sé apprezzabili (per es. in Trentino), ma tagliandosi fuori dalla prospettiva di un servizio informativo unitario offerto a tutti i cittadini del Paese.
La rete SBN – sviluppata per iniziativa statale d’intesa con le regioni e col coordinamento tecnico di un istituto centrale – ha comunque rappresentato, nonostante i limiti e gli aspetti discutibili che ne hanno caratterizzato la vicenda, la principale realizzazione in ambito bibliotecario dagli anni Ottanta, forse l’unica che abbia effettivo rilievo di politica bibliotecaria, non solo sulla carta ma come servizio reale per i cittadini, oltre il livello meramente locale.
Un piccolo numero di regioni ha rappresentato, in modo diverso, un modello, o comunque un esempio. La Lombardia ha fin dal principio proposto una sua leadership (che sfuggiva, tra l’altro, alla facile contrapposizione politica tra regioni ‘rosse’ e ‘bianche’), potendo contare su un robusto tessuto di autonomie locali e di biblioteche pubbliche e affermando una tradizione di efficienza, innovazione e consistenza di investimenti, senza i quali le buone intenzioni rimangono tali. Non è un caso, quindi, che da lì siano arrivate già alla vigilia del trasferimento alcune ferme prese di posizione rispetto alle pretese statali in extremis e che poi la prima legge organica sulle biblioteche del 1973, come quella successiva del 1985, abbia ispirato molte altre regioni.
L’attività della Regione Lombardia si è subito caratterizzata per concretezza di interventi (finanziari, edilizi, di formazione ecc.) ma anche per solidità di basi, per es. con la prima – e tuttora quasi unica – produzione di una serie continua di dati statistici, fondamento di un sistema di monitoraggio che rimane l’esempio più organico e affidabile. Rilevante è stata pure la sua produzione di repertori, anche specialistici e di taglio innovativo (carteggi, archivi d’impresa, periodici femminili ecc.), oltre alla realizzazione di strumenti professionali e all’organizzazione di convegni di notevole risonanza.
Nelle difficili fasi di definizione dell’assetto e delle prospettive del sistema bibliotecario e del ruolo delle regioni, e poi in alcuni snodi cruciali, una posizione di primo piano ha spesso assunto la Toscana, punta avanzata delle posizioni autonomistiche sul piano politico e soprattutto forse unica regione che sia riuscita fin dal principio a mettere insieme politica e competenze tecnico-scientifiche, assicurandosi la collaborazione, a diverso titolo, di Emanuele Casamassima (1916-1988), fino al 1970 direttore della Biblioteca nazionale di Firenze, di Luigi Crocetti, primo soprintendente regionale già anche lui alla BNCF, e di Franco Balboni (1926-1977), bibliotecario universitario e dirigente dell’AIB. Non si tratta di un caso: lì la Regione si insediava nella città che si è sempre considerata ‘capitale delle biblioteche’ e dove il dialogo tra istituti statali e locali, università e istituzioni culturali diverse, era non solo abituale, ma sentito come indispensabile, e le competenze tecnico-scientifiche circolavano e si confrontavano al di là degli steccati, altrove molto più percepibili e introiettati, costituiti dalle appartenenze amministrative.
Cadute le proposte più innovative e rimasta abbastanza isolata sul piano della discussione politica, la Toscana dovette poi limitarsi a una sorta di leadership di cultura bibliotecaria, con il prestigio del Servizio regionale per i beni librari e archivistici, collane come gli Inventari e cataloghi toscani che si contrapponevano alla lentezza e staticità dei precedenti statali, convegni, e in generale mantenendo un approccio non settoriale, colto e problematico, per es. sui temi della catalogazione, della conservazione e del restauro. In mancanza di mezzi adeguati agli orizzonti di riferimento – mezzi, si potrebbe dire, da grande Land tedesco – di fatto le realizzazioni sul piano dei servizi sono però rimaste limitate: la maggior parte delle innovazioni della cultura biblioteconomica italiana dagli anni Settanta del Novecento in poi è partita da Firenze e dalla Toscana, ma dopo la ‘scossa’ dei primi anni d’attività della regione la situazione degli istituti bibliotecari si è stabilizzata a un livello medio relativamente modesto, salvo alcune punte innovative; solo negli ultimi 10-15 anni investimenti precisamente finalizzati hanno impresso un nuovo dinamismo alle biblioteche. Comunque, oltre a una leadership di elaborazione professionale, soprattutto negli ambiti più tecnici, la Toscana è stata sempre in prima fila in iniziative di cooperazione – dal Consiglio interbibliotecario toscano (CITO) a SBN – che uscissero dallo steccato delle biblioteche di ente locale.
Sulla distanza, dalla prospettiva di oggi, sembra emergere particolarmente un modello emiliano-romagnolo, che si è delineato più lentamente di altri e, per certi aspetti, per strade indirette. Già Traniello (1983, pp. 81-84), in quella che rimane la monografia fondamentale su questo tema fino alla terza legislatura regionale, notava che l’Emilia-Romagna, rimandando l’elaborazione di una legge bibliotecaria organica, era intervenuta invece sulla formazione del personale (l. 15 genn. 1973 nr. 4) e, soprattutto, aveva deciso di dotarsi di una struttura tecnico-scientifica di alto profilo e notevoli ambizioni, l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali (l. 26 ag. 1974 nr. 46). L’approccio era quindi volutamente complessivo, non circoscritto all’ambito degli enti locali, e come in Toscana con un forte accento sull’aspetto tecnico-scientifico e sul coinvolgimento dei tecnici statali (basta citare Andrea Emiliani). Ma il percorso è stato diverso, forse più pragmatico: non proposte di radicale riassetto del settore o assunzione di pesanti responsabilità operative, ma affermazione progressiva di una struttura tecnico-scientifica autorevole, supportata da interventi amministrativi e finanziari e quindi capace di stabilire relazioni fruttuose con istituti culturali di ogni titolarità e con il mondo della ricerca e degli studi, per stimolare e sostenere progetti innovativi non effimeri ma che anzi si vanno via via legando come tessere di un mosaico.
Non è mancata l’attenzione al terreno dei servizi e del loro sviluppo, anche nei termini più semplici di efficienza e volumi di circolazione, che del resto vedevano nella regione esperienze leader come la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e, in Romagna, la prima rete bibliotecaria automatizzata (1986). Ma forse la battaglia più difficile è stata giocata tra tradizione e innovazione, dove la necessaria modernizzazione dei servizi e anche del rapporto con il pubblico è andata di pari passo, senza dualismi, con la coltivazione delle radici storico-culturali delle biblioteche, cosicché il tessuto più significativo appare costituito da istituti che sposano (o in cui comunque convivono, anche quando gli estremi sono lontanissimi come per la Malatestiana di Cesena) un moderno approccio di servizio di biblioteca pubblica, per tutti, con una seria e corretta valorizzazione dei loro fondi e della storia culturale del territorio. Il complesso di queste componenti può variare, e talvolta una delle due può avere peso prevalente nell’immagine dell’istituto, ma le funzioni di memoria culturale e di servizio sono rimaste di solito unitariamente concepite e organicamente collegate (contrariamente alla posizione spesso sostenuta dell’inevitabilità e anzi della convenienza di separare ‘biblioteca storica’ e ‘biblioteca di pubblica lettura’, e alle generalizzate difficoltà, anche in regioni avanzate, di modernizzare le biblioteche civiche di antica fondazione).
Può sembrare un’eccezione il caso di Bologna, con la Biblioteca dell’Archiginnasio sempre più lucidamente indirizzata alla sua funzione di biblioteca storica e di ricerca e affiancata da una grande biblioteca pubblica moderna (Salaborsa, aperta nel dicembre 2001), oltre che dalla rete delle biblioteche di quartiere, ma risponde alle esigenze peculiari del capoluogo e alle dimensioni del suo tessuto culturale.
Progetti culturali di rilievo, basati sugli istituti bibliotecari, non sono mancati anche in altre regioni – per es. quelli lombardi sui carteggi e sui periodici e quello toscano sui fondi storici e personali – ma il ventaglio delle iniziative portate avanti in Emilia-Romagna ha un’ampiezza e una coerenza che non si riscontrano altrove, caratterizzandosi anche per il coinvolgimento di tutte le presenze sul territorio (strutture statali, università, istituti culturali, enti religiosi ecc.), per l’attenzione al contemporaneo (basta citare la serie di convegni annuali Conservare il Novecento) e per la ricchezza di temi non circoscritti ai confini regionali.
Tra le regioni più piccole, qualche elemento analogo – nonostante evidenti differenze – si può forse riscontrare nel caso trentino. Le regioni o province autonome, soprattutto se piccole, difficilmente possono costituire un esempio di riferimento, per ragioni non solo finanziarie ma anche di tradizioni, conformazione del territorio e rapporti tra questo e il capoluogo (che si potrebbero dire, non a caso, di carattere ‘provinciale’ più che ‘regionale’). Il caso trentino, pur se un po’ defilato, si segnala per rapporti di cooperazione territoriale più stretti che altrove, spesso col coinvolgimento di enti diversi oltre alle biblioteche comunali, e per l’impegno nello sviluppo di un catalogo collettivo di qualità, il Catalogo bibliografico trentino (CBT), e di attività di formazione per la crescita di professionalità specifiche e aggiornate, così da poter arrivare nel tempo a proporsi programmi di notevole responsabilità scientifica come la serie di cataloghi del Patrimonio storico e artistico del Trentino. L’assetto organizzativo, tuttavia, risulta sempre problematico e aleatorio: nel 2003 è stata istituita una Soprintendenza per i beni librari e archivistici (l. 17 febbr. 2003 nr. 1), separata però dall’ufficio per il Sistema bibliotecario trentino, collocato in altra area, e poi trasformata in Soprintendenza per i beni librari e archeologici (d.p.p. 26 genn. 2009 nr. 3-5/Leg), fino a venire riassorbita in una eclettica Soprintendenza per i beni storico-artistici, librari e archivistici.
Tratti originali interessanti ha avuto anche l’esperienza di altre regioni, come il Piemonte, il Lazio e la Sardegna, soprattutto riguardo al coinvolgimento di istituti bibliotecari o culturali di diversa titolarità e di altri attori (organi statali, università, fondazioni e associazioni ecc.), e quindi al tentativo di assumere un ruolo di effettivo coordinamento dei servizi bibliotecari, per l’informazione e la ricerca sul territorio di riferimento, e non solo di referente amministrativo di secondo livello per gli enti locali.
In parecchie aree del Paese, tuttavia, le amministrazioni regionali sono rimaste nel campo delle biblioteche un attore di seconda o terza fila, di supporto a qualche attività locale ma di impatto modesto rispetto alle iniziative più significative che, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, hanno fatto capo a grandi comuni o, particolarmente sul versante adriatico, a diverse province.
Con la riforma costituzionale del 2001 (l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) le funzioni delle regioni hanno visto un notevole ampliamento, almeno sulla carta, anche se nella nuova formulazione è purtroppo scomparsa la menzione esplicita delle biblioteche, che con l’ambito dei beni culturali hanno un rapporto stretto, certo, ma anche di connotazione riduttiva.
Il nuovo art. 117 ribalta l’impostazione originaria, stabilendo che «Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Confermata come materia di legislazione esclusiva dello Stato la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» – pur con l’‘apertura’ dell’art. 118 che prevede che vengano disciplinate con legge statale «forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali» –, l’ambito della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali» è stato invece incluso fra quelli di «legislazione concorrente» per i quali «spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».
Il percorso indicato dalla riforma costituzionale ha avuto come esito l’emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42), con successive modificazioni che hanno ulteriormente ampliato le funzioni delle regioni nel settore della tutela dei beni librari. Nella guerra di posizione sulle competenze di tutela, che vista dall’esterno appare piuttosto futile dato che entrambe le parti mancano dei mezzi e delle capacità (forse anche della volontà) per esercitare realmente le funzioni che si contendono, il problema dello sviluppo di servizi bibliotecari pubblici adeguati a un Paese che voglia dirsi economicamente avanzato e politicamente democratico rischia inevitabilmente di finire in secondo piano, anzi di venire praticamente ignorato. Peraltro anche nell’ambito della tutela, dalla vigilanza sulle raccolte private all’esportazione, è chiaro che ogni questione di competenze rimane vuota se non ci sono le professionalità e i mezzi finanziari per gli interventi (per es. per seguire il commercio librario e per esercitare il diritto di prelazione) e se manca il coordinamento tra gli attori: come si fa, per es., ad arricchire razionalmente il patrimonio librario pubblico senza coinvolgere le due biblioteche nazionali centrali, che devono documentarlo a livello complessivo, o gli altri principali istituti di conservazione sul territorio (che appartengono allo Stato o ai comuni, ma non alle regioni)?
In questi anni si collocano anche i provvedimenti di attuazione della nuova legge sul deposito legale (l. 15 apr. 2004 nr. 106) che ha finalmente sostituito quella fascista del 1939 ritoccata solo formalmente nel 1945. Gli «archivi delle produzioni editoriali regionali», istituiti con il relativo regolamento (d.p.r. 3 maggio 2006 nr. 252) a fianco dell’archivio nazionale assicurato dalle Biblioteche nazionali di Firenze e di Roma, sono stati poi definiti dalle regioni. Il quadro delle relative decisioni, raccolte nel d.m. 28 dic. 2007 e successive modifiche, evidenzia purtroppo, nelle scelte eterogenee o dilatorie, la difficoltà di confrontarsi con programmi e responsabilità di lungo periodo in un ambito complesso e mal conosciuto: costituire raccolte bibliografiche il più possibile complete, sicure e utilizzabili anche a lunga scadenza è un compito che va visto nell’ordine dei decenni (se non dei secoli, che costituiscono l’orizzonte della conservazione dei documenti d’interesse culturale) e richiede scelte stabili, istituti solidi e affidabili anche nel lungo periodo, professionalità tecnico-scientifiche di alto livello, finanziamenti consistenti e permanenti. Di fatto, anche in questo caso ci si è inevitabilmente trovati di fronte al problema di fondo dell’architettura del sistema bibliotecario: la sua ossatura è costituita dalle biblioteche statali (nella maggioranza dei capoluoghi di regione e in alcuni capoluoghi di provincia) e dalle biblioteche civiche dei grandi comuni, rispetto alle quali la regione non può o non vuole avere il ruolo di forte punto di riferimento istituzionale che l’amministrazione statale aveva ricoperto, pur con innegabili limiti, fino al 1972.
Due anni dopo la riforma costituzionale, le Linee di politica bibliotecaria per le autonomie, approvate il 23 ottobre 2003 dalla Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, dall’ANCI e dall’UPI, si proponevano di definire finalmente, nella permanente assenza di indicazioni di principio a livello nazionale sia prima sia dopo il 1972, «un quadro di riferimento programmatico per il sistema delle biblioteche pubbliche», aperto alla condivisione con lo Stato (e all’ambito delle biblioteche statali, universitarie e scolastiche, a quelle ecclesiastiche e di istituti culturali). Le Linee (§ 1) hanno affermato il principio secondo il quale «Il sistema bibliotecario pubblico risponde al diritto primario di tutti i cittadini a fruire, indipendentemente dal luogo di residenza, di un servizio di informazione e documentazione efficiente. In questo modo si creano le condizioni per il libero accesso alla conoscenza, al pensiero, alla cultura e alla informazione, che costituiscono le basi per l’esercizio pieno e consapevole dei diritti di cittadinanza».
Ma al di là delle indubbie qualità del documento e delle idee proposte – che non sorprendono perché vi hanno collaborato i migliori tecnici che operano nelle regioni e negli enti locali – resta il solito limite: la ‘lezione di politica bibliotecaria’ è ineccepibile ma gli impegni presi restano solo sulla carta e sono rapidamente dimenticati, mancando una reale volontà politica di investire in questo campo (e a monte, probabilmente, la comprensione di cosa siano e cosa possano produrre questi servizi). Anche lasciando da parte terreni su cui il documento insiste ma su cui nessuno ripone speranze immediate (le risorse umane, ossia formazione specifica e occupazione), sulla carta è rimasto l’impegno di individuare entro 18 mesi gli indicatori di servizio e soprattutto «gli standard di investimento sulle risorse proprie» degli enti coinvolti, e più in generale l’impegno a «individuare le risorse utili» allo scopo, cioè necessarie «per raggiungere in un numero ragionevole di anni i livelli di qualità dei servizi riconosciuti in ambito internazionale» (§ 7).
Per i contenuti, il documento in sostanza ripropone – in una sede per la prima volta di questo livello – linee che non si possono dire nuove, ma anzi, al contrario, radicate da diversi decenni nelle esperienze a cui si è accennato, dalla cooperazione territoriale agli standard di servizio, senza dimenticare naturalmente l’impegno per ogni comune di fornire il servizio bibliotecario anche in forma associata e il principio di gratuità dei servizi fondamentali.
Ma passando dalle buone intenzioni all’operatività, a distanza ormai di quarant’anni dal trasferimento delle funzioni statali e dalle prime leggi regionali e a dieci anni dalle Linee di politica bibliotecaria, i risultati effettivi sembrano piuttosto modesti (Galli 2012). Un altro intervento recente ci informa che, a tutt’oggi, la maggioranza delle regioni non dispone di statistiche del servizio bibliotecario né di standard di servizio (o almeno non li mette a disposizione) e non svolge né sostiene attività di formazione e aggiornamento professionale in questo campo (Rosa 2012).
Il servizio bibliotecario, quando c’è, di modesta o qua e là anche di ottima qualità, rimane sostenuto quasi interamente dai comuni, forse con minore supporto esterno di quanto non ne abbiano ricevuto nel dopoguerra dallo Stato, e talvolta con un impegno molto forte nella realizzazione di sedi adeguate alle aspettative di oggi (gli esempi, di città capoluogo e anche di minori dimensioni, sono numerosi). Possono esservi situazioni diverse – in particolare in alcune regioni autonome con finanziamenti cospicui – ma quando si prova a tirare delle somme il contributo delle regioni, pur apparendo a volte come quello di generosi benefattori, conta per pochi punti percentuali nella spesa complessiva. Fra l’altro in diverse aree, dal Nord al Sud, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, un ruolo positivo sono riuscite a svolgere le province, sul piano finanziario o offrendo funzioni di raccordo organizzativo ai comuni: ma la loro abolizione sembra oggi la riforma più auspicata.
Non esistono dati precisi e recenti sulla spesa complessiva nel settore delle biblioteche, ma una stima attendibile ha valutato, per le biblioteche pubbliche sul territorio, a poco meno del 90% il contributo dei comuni, con l’altro 10% diviso, in proporzioni di circa 2 a 1, tra regioni e province (G. Solimine, La dimensione economica delle biblioteche, «Bollettino AIB»,1995, 35, 2, pp. 233-41). I dati disponibili e analizzati periodicamente nel Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1999-2000 (2005) non permettono di distinguere i singoli settori: per l’intero ambito dei ‘beni culturali’, al 2000, la spesa risultava dovuta allo Stato per il 59%, ai comuni per il 27%, alle regioni per il 13% e alle province per l’1%, con tendenza all’aumento della quota degli enti locali e alla diminuzione di quella regionale (p. 80, 87); in questo aggregato il settore delle biblioteche rappresenta circa il 10% e non è meglio specificabile. Nella spesa regionale il settore delle biblioteche e degli archivi rappresenta solo il 5% della spesa totale connessa alla cultura (comprensiva anche di finanziamenti allo spettacolo, all’industria culturale ecc.), che corrisponde a quasi il 12% restringendo l’ambito ai ‘beni culturali’ (p. 97). Nel complesso la spesa per la cultura ha un’incidenza molto più rilevante negli enti locali (2,8% della spesa totale, sia per i comuni sia per le province) che nello Stato (0,9% della spesa totale) e nelle regioni (0,8%), e in queste ultime si allarga la forbice tra quelle del Centro-Nord e quelle del Sud, in cui quasi sempre la spesa diminuisce anche in termini nominali.
Tornando alla legislazione regionale, si rifanno alla cornice del Codice dei beni culturali le leggi più recenti, della Liguria (nr. 33/2006, modificata dalla l. nr. 19/2007), del Friuli Venezia Giulia (nr. 25/2006), della Sardegna (nr. 14/2006), delle Marche (nr. 4/2010) e della Toscana (nr. 21/2010); in altre regioni sono stati presentati disegni di legge analoghi. A eccezione della legge del Friuli, intitolata Sviluppo della rete bibliotecaria regionale, tutela e valorizzazione delle biblioteche e valorizzazione del patrimonio archivistico e analoga alle migliori leggi della generazione precedente, quelle degli ultimi anni si sono proposte di riunire in un testo unico delle disposizioni in materia di beni, istituti e attività culturali (così s’intitola quella toscana) una notevole quantità di questioni e di ambiti di intervento: un obiettivo forse lodevole per la trasparenza di una molteplicità di azioni spesso polverizzate in ogni direzione in maniera incontrollabile, ma che richiama involontariamente, per l’eterogeneità e fantasiosità delle voci, certi elenchi di Lewis Carroll o di Borges. In queste accumulazioni finiscono per prevalere gli ambiti che appaiono politicamente più spendibili, più idonei a ‘finire sui giornali’ o ad alimentare una ragnatela di piccole e spesso improbabili iniziative, in diversi casi con un rapporto alquanto labile con la cultura, con il probabile esito di estendere, invece di tagliare con decisione, l’inestricabile intreccio di favori reciproci tra politica e società. Una ‘politica dei cento fiori’ (annaffiati con il denaro dei contribuenti) può anche apparire apprezzabile in astratto, o per qualche aspetto, ma nell’Italia reale lo sterminato orizzonte di ambiti, funzioni e obiettivi che molte regioni si prefiggono di coprire, evitando poi indicazioni normative precise e impegni ben definiti, contrasta in modo evidente con la pochezza dei mezzi e delle professionalità specifiche a disposizione.
In queste leggi si possono trovare affermazioni altamente apprezzabili, per es. la definizione – nella legge della Liguria – dell’organizzazione bibliotecaria come «complesso dei servizi e delle attività rivolte a favorire l’accesso di tutti i cittadini alla conoscenza e all’informazione» e quella – nella legge della Toscana – che «Il sistema documentario pubblico risponde al diritto di tutti gli individui a fruire, indipendentemente dal luogo di residenza, o da impedimenti derivanti da condizioni fisiche e culturali, di un servizio di informazione e documentazione efficiente ed adeguato ai bisogni della contemporaneità». Ma nei fatti i ‘piani bibliotecari’ previsti dalle leggi spesso rimangono sulla carta o non sono nemmeno redatti, le sedi di coordinamento o consultive (comitati, osservatori ecc.) e le strutture operative non vengono attivate o hanno risorse umane e materiali inconsistenti, i finanziamenti distribuiti restano irrisori rispetto alla spesa che grava sugli enti locali. Prendendo come esempio i dati 2012 di una sola regione, non certo tra le peggiori, il finanziamento regionale complessivo a sistemi bibliotecari, enti locali e singoli istituti pubblici e privati sul territorio ammonta a 66 centesimi di euro annui per abitante e la maggioranza dei contributi ai comuni consiste di cifre irrisorie, da 491 a 2000 euro annui.
Il periodo di circa trent’anni dall’avvio delle regioni alla riforma costituzionale del 2001 appare quindi soprattutto come una grande ‘occasione perduta’. Sulla base dell’inclusione alquanto casuale delle biblioteche nelle materie di futura competenza regionale nella Costituzione, in un’epoca in cui il contesto era molto diverso – poche e per lo più molto tradizionali le biblioteche civiche, inesistente un’istruzione superiore di massa e minoritaria anche quella postelementare, assente una moderna editoria di largo consumo e tutta l’industria culturale che caratterizzerà la seconda metà del Novecento, a partire dalla televisione –, le regioni si trovarono davanti negli anni Settanta l’opportunità di sviluppare un moderno servizio bibliotecario in un ambiente radicalmente cambiato, con un’istruzione di massa e culturalmente e socialmente molto più evoluto, nel quale la modernizzazione dei servizi a livello europeo e la diffusione del libro e dell’informazione per una cittadinanza consapevole potevano essere a portata di mano.
Di fatto, invece, in gran parte d’Italia è stato difficile andare oltre quella linea di progressiva e faticosa diffusione di servizi bibliotecari minimi sul territorio, che le soprintendenze avevano portato avanti negli anni Cinquanta e Sessanta. In alcune zone l’intervento è forse andato anche indietro – se lo consideriamo non in numeri assoluti ma relativamente allo sviluppo sociale – e solo in poche aree, concentrate al Nord e non omogenee nemmeno nelle regioni più avanzate, si è diffuso un servizio bibliotecario di base che si possa definire moderno (anche se tutt’altro che opulento). In questo quadro, l’elemento più innovativo – pur con aspetti criticabili – è stato probabilmente rappresentato dal progetto SBN, sia per le regioni che vi hanno partecipato sia come modello generale di cooperazione tramite le tecnologie informatiche, anche per i sistemi bibliotecari rimasti separati dalla rete nazionale.
La riforma del titolo V della Costituzione e l’evoluzione successiva, rispondendo a una pressione tutta politica per acquisire maggiore visibilità delle regioni nell’ambito dei beni culturali, e soprattutto nelle iniziative effimere che danno appunto maggiore visibilità mediatica, possono rappresentare per diversi aspetti, insieme agli elementi positivi che pure contengono, un limite e un pericolo.
L’opportunità offerta nel 1972 era quella di sviluppare e governare un servizio al cittadino, un servizio di rilevanza inferiore a quello scolastico e a quello sanitario – in Italia, anche se non sempre nei Paesi più avanzati – ma inserito con quelli nell’ambito dei servizi sociali e significativo per la crescita civile di un Paese che, come ci ricorda impietosamente ogni statistica comparativa dell’istruzione, della cultura e dell’innovazione tecnologica, non è ancora uscito da condizioni di arretratezza, da quella ignoranza di cui i politici venuti dal Risorgimento erano ben consapevoli.
Spostare l’ottica dal servizio bibliotecario e informativo per tutti i cittadini all’ambito della ‘valorizzazione dei beni culturali’ comporta forti rischi di tornare indietro con l’illusione di andare avanti. In questo campo, oltre alla visibilità politico-mediatica tanto agognata, si possono prospettare iniziative di un certo interesse, anche in relazione al turismo, se si dispone di fondi consistenti da investire e di professionalità tecnico-scientifiche adeguate, condizioni che però raramente si verificano. Ma è sicuramente negativa la tendenza, che si è subito manifestata nell’organizzazione degli uffici regionali e in parte nella produzione legislativa (e nella distribuzione dei finanziamenti tra i vari settori della cultura), a ricondurre il servizio bibliotecario, anche quello delle biblioteche pubbliche di base, entro una cornice di ‘beni culturali’ che gli è poco appropriata ed è già, verosimilmente, all’origine del progressivo inarrestabile declino delle biblioteche statali, che hanno in gran parte perso i legami molto più fecondi con il campo della ricerca e dell’istruzione superiore. Gli stessi beni culturali, d’altra parte, sono sempre più attratti, o sovrastati, dall’interesse per l’intervento pubblico nello spettacolo: sulla strada della ricerca della visibilità effimera, non c’è da stupirsi che l’evento allo stato puro si prospetti più attraente anche delle mostre-evento, che comportano comunque esigenze di storicizzazione, di tutela e magari (sempre meno) di ricerca. Nessuno discute, naturalmente, le ricadute economiche (modeste) di eventi e spettacoli sull’indotto immediato e sul turismo, ma le questioni in ballo sono molto più serie, riguardano la storica debolezza del Paese sotto il profilo della conoscenza, della ricerca e dell’innovazione, e quindi anche il suo declino industriale ed economico, che non può essere mascherato e tanto meno intaccato dal sostegno pubblico a consumi di carattere genericamente culturale rivolti per lo più a minoranze colte e con una dimensione prevalente di entertainment (anche di altissima qualità, ma non è questo il punto: l’eccellenza estetica, dal Rinascimento a oggi, è una delle poche cose di cui l’Italia non ha mai avuto mancanza).
Questo fenomeno sembra incidere in maniera preoccupante anche nelle regioni che in passato hanno fatto investimenti di un certo rilievo nei servizi bibliotecari: per es. in Lombardia nel settore cultura, tra il 2005 e il 2009 (non sono stati diffusi dati più recenti), sono aumentati sostanziosamente i finanziamenti per lo spettacolo, per la comunicazione e la promozione culturale, per i musei (indicati qui in ordine di entità) e diminuiti quelli per le biblioteche e gli archivi, sempre in ultima posizione (Rapporto sulle biblioteche italiane, 2010, p. 14). La sola spesa per ‘comunicazione e promozione’ è più del triplo della spesa per biblioteche e archivi: ossia non solo l’effimero, ma anche l’autopromozione politica, assorbono una quota crescente delle (scarse) risorse pubbliche, riducendo al minimo le spese di investimento in servizi per i cittadini. Sussidiare consumi passivi, effimeri e rivolti a fasce ristrette, giovanili o di minoranze colte, non sembra costituire, in un Paese notoriamente semialfabeta come il nostro e in ritardo su tutti gli indicatori di istruzione e cultura, un’alternativa ragionevole a investire in servizi che, quando raggiungono un livello adeguato di offerta, stimolano la crescita culturale e anche economica del Paese, smuovendo comportamenti e mentalità arretrati che sono all’origine del divario che separa l’Italia dagli altri grandi Paesi europei.
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