Regioni ecclesiastiche e regioni civili: parallelismi e influssi
Fin dal costituirsi dello Stato unitario, la Chiesa cattolica italiana è stata caratterizzata, nella propria attività sinodale, conciliare e congressuale, dal fatto di essere una Chiesa frastagliata, con spiccati tratti regionali, riflesso della complessa storia regionalistica italiana, con le sue peculiarità geografiche ma ancor prima culturali e religiose. Si tratta di un’attività che, pur svolgendosi secondo le leggi particolari del diritto canonico e in funzione delle direttive centralistiche dello Stato pontificio, è stata comunque influenzata a vari livelli dalla particolare struttura regionale dello Stato italiano. Al formarsi delle regioni costituzionali, ricalcate sui comparti statistici disegnati da Pietro Maestri (1816-1871) nel 1863, ha fatto per es. seguito, nel 1889, l’istituzione da parte della Santa Sede di 17 regioni ecclesiastiche. Se in buona parte queste divisioni seguivano criteri di ripartizione che tenevano conto della presenza di diocesi e province ecclesiastiche con la loro secolare storia, esse erano anche l’esito, nonostante il clima di conflitto che all’epoca regnava tra i due Stati, di un inevitabile confronto da parte della Sede apostolica con le regioni costituzionali create dallo Stato italiano.
Ugualmente, nel secondo dopoguerra, in reazione alla costituzione delle regioni a statuto speciale, e poi alla nascita effettiva delle regioni nel 1970, ma soprattutto in risposta al nuovo protagonismo degli enti locali negli anni Novanta, quando crollano i partiti fondativi della Repubblica e nuove leggi sono varate per regolare la rappresentanza locale (la cosiddetta terza regionalizzazione), anche da parte della Chiesa italiana ha fatto riscontro una presenza forte sul piano regionale con il rinnovamento delle regioni ecclesiastiche, cui è stata alla fine riconosciuta personalità giuridica dalla Conferenza episcopale italiana (CEI). Benché esse non coincidano talora con le regioni civili, pare indubbio che il processo di regionalizzazione civile, in particolare nelle sue fasi più recenti, è stato colto in tutta la sua importanza dalla CEI, che ha favorito, attraverso le Conferenze episcopali regionali, una serie significativa di intese a livello regionale, attivando a sua volta una sorta di ‘federalismo ecclesiastico’.
Le conseguenze di questo più generale processo toccano vari livelli della vita della Chiesa italiana. Oltre alle numerose intese a livello regionale su materie di particolare importanza come l’assistenza spirituale, i beni culturali di interesse religioso o il turismo, si va dalla creazione di sedi distaccate di facoltà teologiche regionali, che si sono moltiplicate fra gli anni Novanta e la fine del primo decennio degli anni Duemila proprio per venire incontro alle domande di formazione di un pubblico anche laico a livello locale, alla valorizzazione regionale di centri di vita spirituale come monasteri e santuari. Si tratta di un processo in fieri, che non è dunque possibile valutare in modo adeguato e i cui esiti sono lungi dall’essere scontati. La deriva particolaristica della legislazione regionale, per es., ha teso talora a mettere in discussione la ridefinizione degli equilibri tra le fonti centrali statuali e quelle periferiche regionali nella disciplina del fatto religioso, con l’esito di privilegiare le istanze delle maggioranze cattoliche presenti sul territorio e la conseguente attribuzione alla religione di maggioranza relativa (cioè la cattolica) di un regime di privilegio, in deroga a qualunque principio generale di libertà di culto garantito costituzionalmente.
Che si tratti, comunque, di una svolta profonda nei secolari rapporti tra Stato italiano e Santa Sede è difficile negarlo. Basti pensare al modo in cui i maggiori specialisti di questi rapporti, come per es. Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), hanno sempre ritenuto di dover escludere a priori qualunque interferenza legislativa o amministrativa da parte delle regioni in tema di beni ecclesiastici, come archivi e biblioteche della Chiesa, in quanto tutta la materia ‒ compresa quella concernente il patrimonio storico-artistico – doveva restare riservata alle disposizioni concordatarie e alle leggi generali dello Stato. Un quadro che è stato messo radicalmente in crisi dal processo di federalismo statale e dal modo in cui la CEI ha deciso di rispondere a questa sfida della regionalizzazione statale. Se una linea di fondo emerge in questo rapporto tra i processi di regionalizzazione e di federalismo regionale dello Stato italiano, da un lato, e le dinamiche canonistiche e pastorali soggiacenti alla vita delle regioni ecclesiastiche della Chiesa italiana e delle rispettive Conferenze episcopali, dall’altro, questa sembra essere una progressiva, per quanto problematica, osmosi tra regioni civili e regioni ecclesiastiche.
Il 4 novembre 1994 la Congregazione per i vescovi, con una serie di decreti simili tra loro, ha conferito la personalità giuridica pubblica alle regioni ecclesiastiche italiane, approvando nel contempo per ciascuna di esse lo statuto. In apertura, i decreti ricordano le motivazioni che giustificano l’esistenza della regione ecclesiastica: «promuovere l’azione comune di diverse diocesi vicine, secondo le circostanze di tempi e di luoghi» e «favorire maggiormente le relazioni reciproche tra i vescovi diocesani» (Redaelli 2000, pp. 421 e segg.). Il nome utilizzato nello statuto, che è redatto in italiano, ripreso nei decreti ministeriali di riconoscimento civile, è il sostantivo, e non l’aggettivo, italiano: Regione ecclesiastica Lombardia, Regione ecclesiastica Campania, ecc. Nel terzo capoverso si ricorda poi che la domanda presentata dal presidente della CEI ai fini dell’erezione di ciascuna regione in persona giuridica è motivata dall’esigenza che «l’opera pastorale di questa regione possa essere svolta con più efficacia». Segue poi la formale erezione in persona giuridica con riferimento al can. 433 del nuovo Codice di diritto canonico. Nei mesi successivi, oltre a dare esecuzione canonica ai decreti della Santa Sede, si è provveduto, con il coordinamento della presidenza della CEI, a richiedere il riconoscimento civile delle predette regioni. Questo ha avuto luogo con una serie di decreti ministeriali (datati 16 febbr. 1996 e pubblicati sulla «Gazzetta ufficiale», 14 marzo 1996, nr. 53). Per la Chiesa, i vantaggi conseguenti l’ottenimento della personalità civile da parte delle regioni ecclesiastiche sono essenzialmente due: la possibilità di intestare direttamente alla regione ecclesiastica, anche agli effetti civili, dei beni (per es., la sede della conferenza episcopale, del seminario regionale, del tribunale regionale), e di fornire, nel contempo, un maggior fondamento giuridico ai rapporti con l’autorità civile. Se già prima di tale riconoscimento vi erano state intese a livello regionale, particolarmente in materia di beni culturali, il fatto che ora il soggetto ecclesiastico sottoscrittore di un’intesa sia un ente civilmente riconosciuto (la Regione) o un organo statutario di un ente civilmente riconosciuto (la Conferenza episcopale regionale) ha il vantaggio di identificare chiaramente, anche nell’ordinamento italiano, la controparte della regione civile. Si è aperta così, nei rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica, una nuova stagione in cui le relazioni e la collaborazione tra regioni civili e regioni ecclesiastiche sono diventate particolarmente intense.
La decisione del 1994 è frutto di una serie di cambiamenti dovuti a complessi fattori sia interni alla vita della Chiesa, sia collegati al mutare dei rapporti con lo Stato italiano in seguito al Concordato del 1984, sia, soprattutto, conseguenza del processo di regionalizzazione, che ha portato lo Stato italiano a trasferire alle regioni numerose competenze di interesse ecclesiastico, come i beni culturali e la sanità. Sullo sfondo del federalismo vi è, infatti, la realtà di una storia religiosa che non può essere dimenticata: l’importanza della periferia cattolica, coincidente con il fitto reticolato delle diocesi, che ha per secoli valorizzato questo tessuto locale, mentre la presenza delle Conferenze episcopali regionali, che mirano a ricomporre in quella nazionale la molteplice realtà delle antiche ‘Italie’, ha finito per favorire i rapporti con le autorità civili e le realtà politiche, sociali e culturali delle regioni.
A favorire da un punto di vista interno la crescita del ruolo non puramente comprimario delle regioni ecclesiastiche e delle rispettive Conferenze episcopali è stato certamente il crescente protagonismo acquisito dalla CEI in Italia. Dopo il Christus Dominus, il decreto del Concilio Vaticano II sul ruolo dei vescovi, la composizione della CEI viene allargata, mentre le Conferenze regionali continuano a recitare una parte importante. Il trasferimento dallo Stato alle regioni civili di numerose competenze favorisce questo processo. Per ovviare al problema della difformità tra regioni ecclesiastiche e civili, che rischiava di creare molti problemi a livello di intese tra le due, nel 1976 un decreto della Congregazione dei vescovi sopprime le Conferenze episcopali beneventana e lucano-salernitana, istituisce la Regione Basilicata (comprendente la Provincia ecclesiastica di Potenza) e attribuisce le altre diocesi delle regioni soppresse alle Conferenze della Puglia, della Campania e dell’Abruzzo, che muta la propria denominazione in Abruzzo-Molise. Vengono inoltre unificate, con ulteriore decreto dello stesso anno, le Conferenze emiliana e romagnola. Il processo di revisione e accorpamento dà così luogo a 16 regioni ecclesiastiche: Piemonte e Valle d’Aosta, Lombardia, Triveneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo-Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna (Le diocesi d’Italia, 2007).
Questa riorganizzazione, favorita dalla prima fase della regionalizzazione civile, ha trovato nuovo alimento nella stipula, il 18 febbraio 1984, fra la Santa Sede e la Repubblica italiana, dell’Accordo, con protocollo addizionale, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio del 1929 (l. 25 marzo 1985 nr. 121) e più precisamente nell’inciso secondo cui «ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione fra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza episcopale italiana». Infatti, fino ad allora la CEI rappresentava, per la Chiesa italiana, più che un’entità giuridicamente stabile, un momento organizzativo sorto, al pari delle Conferenze regionali, per appianare e risolvere «con mutuo consiglio» e «reciproco consenso» le difficoltà che i vescovi incontravano nel governo delle rispettive diocesi. Era dunque concepita con scopi eminentemente pratici, rivelando l’impulso centrale a configurare un episcopato nazionale che favorisca una presenza della Santa Sede nella vita del Paese in modo indiretto.
Il nuovo statuto promulgato il 18 aprile 1985, che tiene conto non solo della promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico, ma soprattutto dell’Accordo del 18 febbraio 1984, apporta una novità decisiva: la CEI si pone ora come personalità giuridica autonoma. L’accordo concordatario, eseguito con la l. 121 del 1985, prevede infatti l’attribuzione alla Conferenza episcopale italiana del potere di rappresentanza, verso il governo italiano, di determinati interessi della Chiesa cattolica in Italia, integrando, senza sostituirla, l’ordinaria rappresentanza della Santa Sede. A questo nuovo interlocutore dello Stato, per es., ci si può rivolgere per determinati problemi attuativi dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica (art. 5, lett. b, nel Protocollo addizionale compreso nella l. 121 del 1985), o anche per la determinazione dell’organico degli ecclesiastici da applicare al servizio di assistenza spirituale nelle strutture costrittive (art. 11, 2° co., nella l. 121), per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali ecclesiastici (art. 12, 1° co.) e più in generale per la collaborazione che si manifesti necessaria in ulteriori materie, rispetto a quelle trattate negli accordi del 1984 (art. 13, 2° co. nella l. 121 del 1985).
Ciò non è privo di conseguenze anche per le regioni ecclesiastiche e i loro organi: a livello regionale, infatti, gli unici interlocutori ecclesiastici dei pubblici poteri risultano essere le Conferenze episcopali regionali. Un’affermazione che, a prima vista, può apparire discutibile, dal momento che gli espliciti riferimenti a questo istituto nella normativa pattizia sono pochi e scarsamente significativi. Tra questi, per es., figurano la menzione delle Conferenze episcopali regionali come soggetti ecclesiali cui è assicurata «la reciproca libertà di comunicazione e di corrispondenza» (art. 2, nr. 2 dell’Accordo); o la previsione di una loro collaborazione con le rispettive regioni civili per l’aggiornamento professionale degli insegnanti di religione dipendenti da queste ultime (d.p.r. 16 dic. 1983, nr. 751, punto 4.7); o, ancora, la competenza loro riconosciuta circa i cappellani territoriali della polizia di Stato (art. 3, lett. a; art. 10, lett. a, nel d.p.r. 27 ott. 1999, nr. 421).
L’erezione canonica e il riconoscimento agli effetti civili delle regioni ecclesiastiche hanno comportato una riconsiderazione del ruolo delle Conferenze episcopali regionali e dei loro rapporti con la CEI. Sullo sfondo vi è la presa d’atto che le materie costituzionalmente assegnate alla competenza regionale non mancano di aspetti di rilievo ecclesiastico: così la Sanità (per la partecipazione degli enti religiosi al servizio sanitario e per i servizi di assistenza spirituale ai degenti), l’assistenza ai bisognosi, agli anziani, ai minori (che può essere svolta anche da enti privati e confessionali, art. 38 Cost.), l’urbanistica (le attrezzature religiose sono opere di urbanizzazione secondaria, realizzabili anche direttamente dalla pubblica amministrazione), l’istruzione artigiana e l’assistenza scolastica (strutture confessionali), il turismo e l’industria alberghiera (opere di pellegrinaggi, ricettività conventuale), e in particolare i beni culturali a carattere religioso di interesse locale.
Il problema creato da questa nuova situazione è stato affrontato nel motu proprio di Giovanni Paolo II del 23 luglio 1998, Apostolos suos, che approfondisce il nodo delle Conferenze episcopali e della collegialità episcopale, evidenziandone il fondamento teologico e giuridico, onde evitare il rischio che si concepisca la Chiesa universale come una somma o una federazione di Chiese particolari. In questo modo, il documento si incarica di sottolineare il primato romano di giurisdizione: «gli organismi formati dai vescovi di un territorio (nazione, regione, ecc.) e i vescovi che li compongono hanno un rapporto che, pur presentando una certa somiglianza, è invero ben diverso da quello tra il Collegio episcopale e i singoli vescovi».
L’efficacia vincolante degli atti del ministero episcopale esercitato congiuntamente in seno alle Conferenze episcopali e in comunione con la Sede Apostolica deriva dal fatto che questa ha costituito tali organismi e ha loro affidato, sulla base della sacra potestà dei singoli vescovi, precise competenze» (art. 13 Cost.). Tra i vari spunti significativi di questo documento, merita di essere sottolineato il modo in cui è delimitata l’autorità dell’ordinario diocesano, riconfermata nel suo fondamento apostolico, ma anche subordinata al bene collettivo e alle supreme decisioni della Santa Sede. Infatti l’esercizio della sacra potestà del vescovo può essere circoscritto, entro certi limiti, in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli, con esplicito richiamo a una norma del Codice di diritto canonico ove si legge: «Compete al vescovo diocesano nella diocesi affidatagli tutta la potestà ordinaria, propria e immediata che è richiesta per l’esercizio del suo ufficio pastorale, fatta eccezione per quelle cause che dal diritto o da un decreto del Sommo Pontefice sono riservate alla suprema oppure ad altra autorità ecclesiastica» (can. 381, § 1).
Tutto ciò si riflette negli statuti della CEI emanati rispettivamente il 19 ottobre 1998 e il 1° settembre 2000, che regolano a tutt’oggi i delicati rapporti tra CEI e Conferenze regionali (Zambon 2010). Queste ultime, in parallelo con quanto stava succedendo nell’ordinamento civile italiano, ma anche in conseguenza della cosiddetta terza fase della regionalizzazione (di cui si dirà meglio a seguire), tendono ad acquisire un ruolo sempre più importante nella vita della Chiesa italiana. Affermando che «alla Conferenza episcopale italiana sono stabilmente collegate le Conferenze episcopali regionali», lo statuto, mentre sottolinea il rapporto stretto e la comunicazione reciproca tra le due, evidenzia nel contempo l’assenza di sovrapposizione strutturale e l’inesistenza di ogni tipo di gerarchia formale.
Emblematico, al riguardo, l’art. 4, 4° co. (non presente nello statuto del 1985) secondo il quale «la Conferenza (episcopale italiana) rispetta e valorizza la presenza e le attività delle conferenze episcopali regionali esistenti in Italia, espressione della ricchezza di storia e di impegno cristiano delle diverse regioni ecclesiastiche». In particolare, si precisa che il presidente della CEI convoca i presidenti delle Conferenze episcopali regionali «allo scopo di favorire il coordinamento della attività delle conferenze stesse e di consultarli su problemi pastorali di comune interesse, specialmente su quelli connessi con il territorio e con gli indirizzi delle Regioni civili» (art. 43 § 3). Si riconosce, infine, che in previsione il loro ruolo è destinato a crescere. In sintesi, negli statuti e nei regolamenti della CEI progressivamente è stato chiarito il collegamento e l’autonomia delle Conferenze episcopali regionali. Queste godono di uno spazio loro proprio, sia a livello di promozione dell’azione pastorale e di relazioni reciproche tra i vescovi diocesani, sia di rapporti con le autorità civili, aspetto quest’ultimo che si è fatto via via più significativo man mano che le regioni civili acquistavano maggiore rilevanza.
Su uno sfondo di reciproco scambio tra le regioni ecclesiastiche e la CEI, dunque, tre sono gli ambiti che hanno attirato un’attenzione sempre maggiore in conseguenza della crescente collaborazione tra regioni civili ed ecclesiastiche: quello giuridico legislativo, che ha portato al sorgere di un osservatorio dedicato a tale settore; quello per i beni culturali ecclesiastici, che ha dato luogo alla creazione del delegato regionale; quello dell’insegnamento della religione cattolica, che ha prodotto la figura del referente regionale. Grazie ai recenti decreti della CEI, le regioni ecclesiastiche hanno quindi assunto una più precisa configurazione giuridica e una maggiore dignità istituzionale. In particolare, sono state erette in persone giuridiche pubbliche e dotate di statuti approvati dalla stessa Santa Sede. Inoltre, in alcuni casi e sia pure in ambiti rigorosamente determinati, esse hanno ricevuto il potere di assumere decisioni vincolanti. Infine, si è espressamente previsto che ognuna disponga di un proprio patrimonio e chieda il riconoscimento agli effetti civili. Nel complesso, l’autonomia che questo istituto ha acquistato, anche dal punto di vista statutario, appare in larga misura suggerita e favorita dalla notevole rilevanza che tali organismi hanno assunto nei rapporti con le autorità civili, stipulando con esse numerose intese. Chiarita, dunque, l’origine di questa realtà, le sue principali trasformazioni e in particolare la rilevanza che essa ha assunto a partire dal 1994, si può passare a esaminare il modo concreto in cui regioni civili e regioni ecclesiastiche, sulla base dell’autonomia crescente acquisita dalle prime a partire dal 1970 e dell’autonomia giuridica conquistata dalle seconde, hanno inaugurato, soprattutto dopo il 1994, grazie all’Accordo tra Stato e Santa Sede del 1984, una nuova stagione di rapporti a livello regionale.
Dall’avvento della Costituzione repubblicana in poi, la disciplina regionale del fenomeno religioso testimonia un’esigenza di tutela delle differenze in continua evoluzione, ma con diversi gradi di intensità (Bolgiani 2012). Nel corso delle prime legislature regionali, tale sviluppo risente di una lettura delle norme costituzionali relative al fatto religioso in chiave essenzialmente centralistica, che poco spazio lascia alle autonomie regionali. È altresì da constatare che il protagonismo delle regioni in questo campo, innescato dalla loro crescente autonomia, si inserisce in un quadro costituzionale che ha al suo centro la difesa della libertà di religione, la quale porta a legittimare il ruolo degli enti locali nella valutazione delle esigenze religiose presenti nelle periferie. E ciò in quanto proprio tali soggetti, quali rappresentanti degli interessi delle comunità – e nella doverosa osservanza dei limiti derivanti dalle loro competenze – appaiono in grado di assicurare una più efficace soddisfazione di tali necessità.
Per un’attenta disamina occorre partire dalla presenza di alcuni filoni ‘storici’ di leggi regionali attinenti alla materia religiosa. Tra questi spiccano senza dubbio l’edilizia di culto e l’assistenza spirituale nelle strutture sanitarie, cui si sono aggiunti, con il passare del tempo, altri settori significativi quali i beni culturali di interesse religioso, il volontariato e il diritto allo studio (prima regionalizzazione). Tra quelli divenuti, invece, oggetto di attenzioni più recenti, si segnalano le leggi regionali riguardanti il turismo religioso e gli oratori, le disposizioni in tema di divieto di discriminazione per motivi religiosi, le norme concernenti i riti funebri (seconda regionalizzazione). Si tratta di interventi normativi che esprimono, sia pure ciascuno con una diversa intensità e con una differente diffusione sul territorio, la vocazione delle regioni a farsi rappresentanti delle esigenze e delle «aspettative di ordine spirituale» delle collettività, che ha prodotto quella che è stata definita «una sorta di bilateralità diffusa» (Cardia 1996, p. 240).
A ciò si è potuti pervenire prima di tutto attraverso i decreti di conferimento alle regioni delle funzioni amministrative che riconoscono a tali enti locali una serie di potestà concernenti – sia pure in via indiretta – anche la disciplina del fenomeno religioso. Un iter che è stato ulteriormente rafforzato e valorizzato dalle novità introdotte dalla cosiddetta terza regionalizzazione, ultimo snodo di un percorso che a partire dalla l. 15 marzo 1997 nr. 59 e passando attraverso i relativi decreti, giunge al massimo grado di federalismo possibile a Costituzione invariata. In effetti, dopo la riforma costituzionale del titolo V della parte seconda della Costituzione riguardante le regioni, le province e i comuni (l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3, «Gazzetta ufficiale», 24 ott. 2001, 248), si è assistito a un riequilibrio delle competenze legislative, in seguito al quale le regioni hanno competenza esclusiva per tutto ciò che non è espressamente riservato allo Stato. Con riferimento ai rapporti con le confessioni religiose, rimane materia espressamente riservata allo Stato la disciplina dei «rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose». La competenza regionale sembra potersi collocare in un ambito di collaborazione e di partecipazione tra istituzioni pubbliche e confessioni religiose, nei limiti fissati dalla legislazione pattizia e dalla Costituzione. In conclusione, proprio in ragione della rinnovata autonomia promossa dall’avvenuta riforma, le regioni possono oggi venire considerate titolari di una competenza ‘funzionale’ in forza della quale esse sono legittimate a intervenire ogni qual volta, in fase di regolamentazione delle materie rientranti nella loro sfera di attribuzione, sorga la necessità di soddisfare particolari profili di interesse religioso connessi con le esigenze della comunità territoriale rappresentata (Bolgiani 2012, p. 51).
Prima di esaminare i principali settori di intervento della normativa regionale in relazione alle intese con le locali Conferenze episcopali regionali conviene accennare a due ordini di problemi che sono emersi, rispettivamente, a proposito della legislazione regionale e della configurazione delle regioni ecclesiastiche, come conseguenza della ormai quarantennale relazione politica, ma ancora prima legislativa, tra questi due enti. Il primo riguarda il proliferare dell’attività legislativa anche in merito alle intese con le regioni ecclesiastiche. Basta uno sguardo alla selva di leggi e leggine prodotte da tale rapporto tra i primi anni Novanta e il primo decennio degli anni Duemila (CESEN 2009) per cogliere il rischio di una deriva particolaristica della legislazione regionale, con il risultato di mettere in discussione l’equilibrio fondamentale tra fonti centrali e periferiche in una materia così delicata, e costituzionalmente tutelata, come la disciplina del fatto religioso.
Infatti nei regimi federali si tende a privilegiare le istanze delle maggioranze dei segmenti delle popolazioni presenti sul territorio, con il corollario pericoloso dell’attribuzione alla religione di maggioranza relativa nella comunità territoriale di un regime di privilegio, in deroga a qualunque principio generale di libertà di culto garantito costituzionalmente. Il fatto che, in questo processo a risultare favorita sia la Chiesa cattolica dipende, d’altro canto, non soltanto dalla sua forte capacità organizzativa sul territorio e dal potere di pressione dei suoi gruppi dirigenti, ma anche dalle difficoltà che trovano altre confessioni e minoranze religiose: per l’assenza, come nel caso dell’islam, di un’autorità di riferimento centrale ‒ che si traduce, tra l’altro, nella mancanza di un’intesa a livello nazionale ‒ oppure, come avviene in genere per gli altri raggruppamenti religiosi, per via della loro scarsa consistenza numerica e visibilità territoriale. Si tratta di questione delicata e complessa, sulla quale la Corte costituzionale è intervenuta più volte nel tentativo di precisare come la natura di «confessione religiosa» non possa basarsi sulla semplice auto-qualificazione dei soggetti interessati, ma debba risultare da altri indici, come precedenti riconoscimenti pubblici, uno statuto che ne esprima chiaramente il carattere, o comunque la comune considerazione (sent. 195/1993).
A livello regionale, la conseguenza rilevante di tali decisioni sta nel fatto che per identificare questi soggetti e per poter beneficiare di disposizioni a vantaggio dell’esercizio del diritto di libertà religiosa le intese a livello nazionale con lo Stato non costituiscono la condizione necessaria. Il crescere della produzione legislativa a livello regionale, se da un lato può avere ricadute positive per i rapporti con le rispettive regioni ecclesiastiche nella misura in cui favorisce intese a livello locale, presenta però un aspetto più problematico. La tendenza più recente dei legislatori regionali a orientarsi verso leggi settoriali di riordino, per evitare il crescere incontrollato degli interventi episodici e microsettoriali, ha portato, infatti, a favorire interventi macrosettoriali. La materia di interesse religioso, come per es. il problema degli edifici di culto, si è trovata, di conseguenza, a essere trattata in non pochi casi all’interno di leggi generali come quelle finanziarie, con il rischio di perdita di quella specificità che a livello statale le è costituzionalmente garantita.
Al primo nodo, di ordine teologico-canonistico, concernente il rapporto tra poteri episcopali diocesani o collegiali e Conferenze episcopali regionali, cui abbiamo appena accennato, si intreccia il secondo ordine di problemi, relativo alla configurazione delle regioni ecclesiastiche, ovverosia alla possibilità o meno di una loro corrispondenza con le regioni civili. Questo intreccio è rivelativo del modo profondo in cui il processo di regionalizzazione ha inciso e continua a incidere a vari livelli sulle strutture della Chiesa cattolica italiana.
Naturalmente, la Chiesa italiana ha seguito con grande attenzione la trasformazione regionalista nelle sue varie fasi, cogliendone fin da subito la rilevanza per la sua azione pastorale, che poteva assumere in Italia una maggiore concretezza e incisività grazie proprio al filtro delle regioni. Ora, un ostacolo non da poco che la CEI ha incontrato nel promuovere questa politica di ‘federalismo ecclesiastico’ è stato appunto la non concordanza – che come abbiamo visto ha profonde radici storiche – tra regioni civili e regioni ecclesiastiche (Brunetta, in Confessioni religiose e federalismo, 2000). In precedenza, gli accordi conclusi con le autorità civili, al pari delle altre delibere delle Conferenze regionali, potevano entrare in vigore nelle singole diocesi solo se promulgate dal rispettivo vescovo, per cui anche soltanto l’opposizione di uno dei membri della conferenza bastava a impedire qualunque accordo. Con l’attribuzione di personalità giuridica alle regioni ecclesiastiche e alle rispettive Conferenze regionali, la situazione era destinata inevitabilmente a mutare, mettendo in moto un processo che ha portato alla «limitazione della autonomia diocesana» (Feliciani, in Confessioni religiose e federalismo, 2000, pp. 110-11).
Di fatto, sussistono due situazioni problematiche diverse che, se non adeguatamente affrontate, porterebbero a un blocco del processo collaborativo con le regioni civili nella difficoltà di individuare, da parte della Chiesa, un chiaro referente giuridico. Da un lato, ci sono regioni ecclesiastiche che non arrivano a comprendere l’intero territorio delle rispettive regioni civili, come per la Regione ecclesiastica Marche o Liguria. Dall’altro, vi è il caso opposto in cui il numero delle diocesi presenti in una determinata regione civile non è stato considerato sufficiente a giustificare l’istituzione della relativa conferenza, sicché un’unica regione ecclesiastica comprende più regioni civili. In questo senso, per es., Abruzzo e Molise sono stati riuniti in un’unica regione ecclesiastica; lo stesso è avvenuto per il Veneto, il Trentino-Alto Adige e il Friuli, mentre la diocesi di Aosta è stata incorporata nella Regione Piemonte. In quest’ultimo caso, i vescovi coinvolti non possono «collegialmente assumere decisioni giuridiche circa le intese con le pubbliche autorità» (Feliciani, in Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia, 2007, p. 146), dal momento che le disposizioni contenute negli statuti approvati dai decreti del 1994 prevedono tale facoltà esclusivamente in favore delle regioni ecclesiastiche corrispondenti a una sola regione civile.
Ne consegue che, ai fini della definizione degli accordi, si rende ancora necessario il consenso di tutti i vescovi preposti alle diocesi interessate. Così è avvenuto per il Protocollo d’intesa in tema di assistenza religiosa nelle strutture sanitarie, sottoscritto il 9 ottobre 2001, tra il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia e i vescovi del Friuli Venezia Giulia (CESEN 2009, pp. 273 e segg.). Una diversa via è stata tentata dai vescovi della Provincia ecclesiastica Veneta che, nell’intesa sottoscritta nel 2010 sempre in tema di assistenza spirituale, hanno previsto la firma di un solo vescovo, il metropolita di Venezia, che in questo caso agisce in nome proprio e per delega conferitagli da ciascuno dei confratelli chiamati in causa (Bolgiani 2012, p. 158).
Diverse le conseguenze della non coincidenza tra regioni ecclesiastiche e regioni civili nel primo caso. Negli statuti approvati nel 1994 la Congregazione per i vescovi aveva attribuito agli accordi con le regioni civili forza vincolante anche nei confronti dei vescovi membri di altra Conferenza per la porzione del territorio della loro diocesi rientrante nei confini della regione civile che sottoscriveva l’intesa. Si esigeva soltanto che questi ultimi fossero consultati prima della firma. Tale stato di cose è stato modificato da una Lettera inviata dalla Nunziatura apostolica in Italia ai presidenti delle Conferenze episcopali regionali nel 2002, contenente alcune avvertenze circa le procedure da seguire per ottenere la vincolante recognitio delle intese da parte della Santa Sede. Nella fattispecie, il documento, invece della semplice consultazione, tornava a chiedere il ‘consenso’ del vescovo interessato appartenente ad altra Conferenza.
Ne derivava un problema oggettivo non di poco conto, dal momento che, come è stato rilevato, la contrarietà di un solo vescovo, per di più estraneo alla regione ecclesiastica, avrebbe potuto impedire «la stipulazione di accordi approvati da tutti i vescovi della regione stessa» (Feliciani, cit., p. 148). A tale problema si è cercato di porre rimedio con una Lettera circolare della Congregazione dei vescovi del 26 maggio 2008, rivolta ai presidenti delle Conferenze episcopali regionali. In essa, oltre a varie precisazioni e disposizioni chiarificatrici, si precisa che se «nella Regione ecclesiastica che stipula l’intesa vi fossero parti del territorio di una diocesi la cui sede si trovi in una regione civile diversa, il presidente della Conferenza episcopale regionale dovrà chiedere il parere previo (non più il consenso come era stato precedentemente previsto) al vescovo interessato, affinché l’accordo abbia efficacia nel territorio soggetto alla sua giurisdizione». Si è così di fatto ritornati alle disposizioni precedenti la lettera della Nunziatura del 2002.
Tali vicende relative ai problemi che la discrasia tra regioni ecclesiastiche e regioni civili provoca (e continuerà a provocare) mettono meglio in luce alcune linee di tendenza di fondo, che un’analisi nel dettaglio delle varie intese rischierebbe di non far emergere. La prima considerazione concerne la progressiva perdita di importanza delle province ecclesiastiche provocata dai processi di regionalizzazione civile ed ecclesiastica. Di fatto, soltanto la diocesi della Valle d’Aosta e delle Province autonome di Trento e Bolzano, in cui il vescovo preposto all’unica sede può procedere agli accordi che ritenga opportuni nell’esercizio della sua potestà ordinaria (Codice di diritto canonico, can. 381, § 1), conservano un’autonomia rispetto alla possibilità di stabilire intese, preservando così la loro sovranità diocesana. La linea di tendenza che si è affermata, e oggi dominante, vede come soggetto giuridico a parte Ecclesiae nella stipula di intese con le rispettive autorità regionali soltanto le Conferenze episcopali regionali in quanto dotate di personalità giuridica.
La Chiesa italiana ha dunque non soltanto promosso ma favorito in modo decisivo il processo di federalismo ecclesiastico, anche se ha cercato di correggere il tiro sulla questione delicata della oggettiva perdita di potere, nei casi esaminati, dell’ordinario diocesano, facendo leva su un’ecclesiologia di comunione. La richiesta del consenso – e il fatto che comunque il suo parere non è più vincolante – viene infatti giustificata «con il prevalente interesse della regione ecclesiastica stipulante, e si impone al vescovo non consenziente in forza dell’atto della recognitio con il quale la Santa Sede, nel contesto e nella situazione concreta, fa prevalere le esigenze del bene comune su quelle espresse dal vescovo non concorde» (Zambon 2010, p. 182).
Sullo sfondo dei processi generali sopra delineati, si può passare a prendere in esame il modo in cui concretamente le regioni civili sono intervenute sempre più ampiamente, attraverso una serie di intese e protocolli con le rispettive Conferenze episcopali regionali, in diversi settori di competenza della loro potestà legislativa, creando, soprattutto dopo la svolta del 1994, un nuovo panorama legislativo all’interno del più generale quadro concordatario stabilito dall’Accordo del 1984. Questi interventi si sono mossi all’interno dell’ambito costituzionale e, nello specifico, degli articoli che tutelano la libertà di religione e di culto, allo scopo di difendere e salvaguardare i bisogni religiosi emergenti a livello locale. Prima di disegnare una mappa delle intese e dei protocolli intercorsi durante il ventennio che parte dai primi anni Novanta tra le regioni civili e le rispettive Conferenze episcopali regionali, è perciò necessario ricordare brevemente i principali settori di intervento della normativa regionale di interesse religioso, tenendo presente che essa, in accordo con il dettato costituzionale, prevede la tutela dei diritti di tutte le confessioni religiose presenti sul territorio.
Il primo settore d’intervento, anche in ordine di tempo, è quello relativo agli edifici di culto. Sul piano statuale, le esigenze in tale ambito avevano trovato una prima attenta considerazione nella l. 27 genn. 1977 nr. 10 (legge Bucalossi), dedicata alla materia dell’edificazione dei suoli. Invece, sul piano regionale, a lungo ci si è mossi in modo esitante, anche se il settore dell’urbanistica costituisce una delle materie incluse nella potestà legislativa delle regioni, nonché nelle funzioni amministrative che loro competono. Con il tempo, però, anche i legislatori regionali, nel rispetto delle proprie competenze e dei vincoli posti dal dettato costituzionale, hanno ampliato il loro raggio d’intervento, facendosi carico anche del problema degli edifici di culto.
La nuova normativa relativa all’edilizia di culto si occupa, da un lato, della definizione delle aree da destinare agli edifici di culto delle varie confessioni, dall’altro, delle previsioni finanziarie per la loro costruzione e/o manutenzione. Senza entrare nel merito specifico, è sufficiente osservare che tale normativa ha cercato di individuare spazi appositi (Bolgiani 2012, p. 75) per la realizzazione di quelle che sono state definite «attrezzature religiose». Queste ultime in genere si basano sul concetto centrale degli edifici destinati al culto, per poi estendersi sia a quelli ideati per l’abitazione dei ministri di culto e del personale di servizio sia a quelli adibiti, nell’esercizio dell’attività pastorale, ad attività educative, culturali, sociali e ricreative che non abbiano fini di lucro, come gli oratori cattolici.
Quanto alla questione dei finanziamenti pubblici in favore di tale tipologia di edifici, tutte le regioni si sono munite nel tempo di un’apposita legislazione che garantisse la possibilità di concessione di contributi alle diverse confessioni religiose per la costruzione e/o il mantenimento di tali edifici. Nel complesso, si può affermare come «le linee portanti dell’impianto complessivo di questo tipo di interventi regionali, salvo alcune eccezioni, si siano mantenute tendenzialmente inalterate negli ultimi dieci anni. La disciplina regionale dell’edilizia di culto ha cioè raggiunto un assetto complessivamente stabile ed omogeneo» (p. 78).
Un secondo ambito di intervento regionale, che precede i processi di regionalizzazione più recenti, è quello relativo all’assistenza spirituale nelle strutture sanitarie. A tutela della libertà religiosa, infatti, si richiede la predisposizione di misure idonee ad assicurare l’esercizio della pratica di culto da parte dei fedeli e il sostegno dei rispettivi ministri (Consorti, Morelli 1993, pp. 1 e segg.). Di qui la scelta normativa di prevedere, all’interno delle strutture sanitarie pubbliche, un servizio di assistenza spirituale a favore degli appartenenti alle diverse confessioni religiose. L’art. 38 nella l. 23 dic. 1978 nr. 833, istitutivo del Servizio sanitario nazionale, prevede che «presso le strutture di ricovero sia assicurata l’assistenza religiosa nel rispetto della volontà e della libertà di coscienza del cittadino» e che l’Unità sanitaria locale (poi ASL) provveda per «l’ordinamento del servizio di assistenza religiosa cattolica, d’intesa con gli ordinari diocesani» e per gli altri culti «d’intesa con le rispettive comunità».
Va altresì precisato come, nonostante tali dichiarazioni legislative, il sistema di disciplina dell’assistenza spirituale, così come delineato dall’attuale normativa statale, risulti di fatto ancora organizzato, almeno in linea di principio, secondo il cosiddetto ‘doppio binario’ e cioè secondo una realizzazione legislativa di tipo concordatario che privilegia di fatto la Chiesa cattolica. È quanto si evince dall’art. 47 nel d.p.r. 20 dic. 1979 nr. 761 sullo stato giuridico del personale sanitario relativo all’inquadramento degli assistenti religiosi nei ruoli religiosi (art. 1). Tale articolo riserva l’inquadramento ai soli ministri di culto della Chiesa cattolica, favorendo in questo modo la presenza organica di un servizio di assistenza spirituale in forma stabile unicamente a favore dei fedeli appartenenti a questa confessione religiosa: una situazione evidentemente in contrasto con i principi costituzionali sopra ricordati e che, nonostante la successiva abrogazione del decreto in questione, permane nei contratti collettivi di lavoro, con evidente discriminazione delle altre confessioni religiose. Si tratta di un problema spinoso, qui evidenziato solo per le sue ricadute a livello regionale, anche se non appare molto convincente la risposta di quei canonisti, anche autorevoli, che hanno cercato una giustificazione ‘pratica’, sostenendo che in casi determinati, come quello in questione, certe disparità di trattamento potrebbero essere considerate non lesive della libertà dei culti né dell’uguaglianza dei rispettivi aderenti dal momento che, come nel caso appena esemplificato, il differente grado di diffusione delle confessioni sul territorio, con il suo conseguente «rilievo pratico», giustificherebbe «una diversità qualitativa della disciplina normativa» (Cardia 1996, p. 209).
A livello regionale, il compito di definire nel dettaglio, e per quanto riguarda le proprie competenze, tale disciplina nel quadro degli accordi tra Stato e altre confessioni religiose (per quanto concerne la Chiesa cattolica, si veda l’art. 11 dell’Accordo di Villa Madama; per le confessioni munite d’intesa con lo Stato, si veda l’art. 6 nella l. 11 ag. 1984 nr. 449 e le successive applicazioni) ha dato luogo negli anni a una serie di provvedimenti normativi di diversa ampiezza e portata, sotto la spinta del processo di regionalizzazione del sistema sanitario (Giovetti 2003); tali provvedimenti in buona parte esulano dall’analisi intrapresa e, comunque, come emergerà più chiaramente a proposito del caso specifico delle intese con le rispettive Conferenze episcopali regionali, sono stati in parte superati dallo svilupparsi di intese bilaterali. Si tratta di materia complessa e delicata, che investe, per es., l’ambito dei piani sanitari o sociosanitari in cui talora essa tende a essere regolamentata, ma anche la questione dell’assistenza prestata nelle strutture sanitarie private e/o convenzionate, per non dire del problema, forse il più delicato e difficile, di garantire i diritti del paziente e soprattutto dei pazienti terminali; problematica rimane infine la natura e la definizione di questa assistenza, dei suoi contenuti e delle sue modalità.
Se l’edilizia di culto e l’assistenza spirituale già rientravano nella competenza legislativa delle regioni prima della riforma del 2001, diversa è invece la situazione dei beni culturali di interesse religioso, dal momento che la formulazione originaria dell’art. 117 Cost. riservava alla competenza legislativa regionale solo la materia relativa a musei e biblioteche. Le regioni, d’altro canto, anche prima di acquisire maggior potere legislativo in merito, non hanno potuto fare a meno di intervenire nel corso degli anni in tale ambito con azioni di carattere prevalentemente finanziario, dato l’innegabile legame esistente tra patrimonio culturale e territorio regionale (Beni culturali di interesse religioso, 1995; CESEN 2003).
Poiché la legge costituzionale del 2001 ha espressamente riservato «la tutela dei beni culturali» alla competenza esclusiva statale, mentre ha assegnato alla potestà legislativa concorrente di Stato e regioni la «valorizzazione» del territorio, ne è conseguito da parte delle varie Regioni un incremento di interventi e disposizioni unilaterali in tema di beni culturali di interesse religioso. In genere ‒ anche se con le debite eccezioni, come avvenuto per es. in Piemonte con la l. reg. 20 febbr. 2005 nr. 5, che ha istituito la riserva naturale speciale del Sacro Monte di Oropa e il Centro di documentazione dei sacri monti calvari e complessi devozionali europei ‒ questi provvedimenti si collocano all’interno di interventi di più ampia portata, quali le previsioni annuali di spesa delle regioni o le disposizioni relative alla valorizzazione dei beni culturali in generale.
La definizione esatta del concetto di «beni culturali di interesse religioso» costituisce un nodo problematico non privo di ambiguità (Feliciani, introduzione a Patrimonio culturale di interesse religioso, 2007, pp. 5-14). L’art. 9 del Codice Urbani (d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42, recante la dicitura ‘Codice dei beni culturali e del paesaggio’), più precisamente rubricato come ‘Beni culturali di interesse religioso’, individua una nuova categoria di beni caratterizzata dall’interesse religioso. Questa esige, anche per la sua rilevanza istituzionale, adeguata attenzione, che si è tradotta nella promozione di una politica di collaborazione tra autorità civili e autorità delle varie confessioni religiose con lo scopo di favorire la conservazione, la tutela e la valorizzazione di tali beni, sulla base dell’osservanza di quanto previsto dagli accordi sottoscritti dalle autorità dello Stato con le varie confessioni religiose.
Dal punto di vista concordatario, l’art. 16 delle disposizioni pattizie «sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio della diocesi», che ha regolamentato l’accordo quadro del 1984 (l. 20 maggio 1985 nr. 222), qualifica espressamente agli effetti civili come «attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, all’azione missionaria, alla catechesi e all’educazione cristiana». Analoghe disposizioni si trovano poi sottoscritte, in attuazione dell’art. 8 Cost., con confessioni religiose diverse dalla cattolica. Oggi si tende dunque a sostenere che «i beni culturali funzionali alle attività così qualificate sono senz’altro da considerarsi aventi, anche agli effetti civili, «interesse religioso» (Feliciani, introduzione a Patrimonio culturale..., 2007, p. 7). Di conseguenza, se da un lato possono essere qualificati quali «beni culturali di interesse religioso» anche beni non appartenenti necessariamente a enti o istituzioni ecclesiastiche, dall’altro possono venire considerati «beni culturali» a tutti gli effetti anche quelli che, pur non essendo classificabili come «di interesse religioso», siano di proprietà di tali enti.
Secondo una definizione accreditata di «turismo religioso» (Chizzoniti 1999, p. 5), l’espressione comprende in senso stretto il turismo religioso oggettivo (viaggi o permanenza in luoghi diversi da quello di normale residenza motivati da un fine religioso) e in senso lato il turismo religioso soggettivo. Trattandosi di definizione ampia, sono prima di tutto riconducibili a tale categoria fenomeni come il pellegrinaggio nei suoi molteplici aspetti, di cui il più rilevante ai fini della disamina in corso, concerne il legame con i santuari: una realtà religiosa fondamentale nel paesaggio cattolico italiano, che implica anche aspetti canonistici e giuridici, ma soprattutto una evidente ricaduta regionale, come dimostra l’attività svolta tra i primi anni Novanta e il primo decennio degli anni Duemila dall’Associazione internazionale per le ricerche sui santuari (AIRS), che ha condotto un censimento sistematico di circa 4500 santuari italiani, relativo alle differenti regioni.
Accanto a fenomeni importanti ma eccezionali come il Giubileo del 2000, rientrano in questo ambito anche una serie di casi in cui il fine religioso del viaggio appare più sfumato – e per certi aspetti problematico – come, per es., la gita organizzata dall’oratorio parrocchiale. In realtà, circoscrivendo l’analisi al caso più diffuso e cioè quello cattolico, l’elenco è ben più lungo e comprende la disciplina riguardante le regole per l’apertura e la gestione delle strutture ricettive complementari (case per ferie, ostelli e case di ospitalità religiosa), le disposizioni circa lo svolgimento dell’attività di guida in forma non professionale, infine le norme relative all’organizzazione dei viaggi da parte di associazioni senza scopo di lucro che operino naturalmente per finalità religiose.
Ciò spiega l’incremento legislativo a livello regionale su tale materia, dal momento che, a partire dai primi anni Duemila, più di una regione ha provveduto a inserire, all’interno delle norme adottate in tema di turismo (cominciando dalla l. quadro 17 maggio 1983 nr. 217) previsioni apposite concernenti il turismo religioso. Tutta questa normativa si è accresciuta dopo la riforma del titolo V e la quasi contestuale promulgazione della l. 29 marzo 2001 nr. 135. Va altresì tenuto presente che tale legislazione è stata poi abrogata dal nuovo Codice della normativa statale in tema di ordinamento del mercato e del turismo entrato in vigore il 21 giugno 2011, con esiti sulla legislazione regionale forse non ancora criticamente valutabili (Bolgiani 2012, pp. 94 e segg.).
In questa ampia produzione regionale, due casi meritano particolare attenzione. Il primo, per la Regione Piemonte, è costituito dalla l. reg. 23 ott. 2006 nr. 4 (Iniziative a sostegno dello sviluppo del turismo religioso) primo e sinora unico esempio di intervento normativo interamente dedicato a tale settore; il secondo, per la Regione Lazio, dalla l. reg. 4 ag. 2008 nr. 12, relativa a Interventi di promozione in occasione della celebrazione dell’Anno Paolino, un caso emblematico che, in linea con le disposizioni regionali concernenti il Giubileo del 2000, è specificamente rivolta alla tutela del diritto di libertà religiosa di una comunità determinata in occasione di un evento di carattere sacro.
Un ultimo ambito di intervento delle regioni in materie di interesse religioso riguarda la normativa sull’erogazione dei cosiddetti servizi alla persona da parte di soggetti confessionali. Questo settore ha avuto una fase di forte espansione grazie a una politica sociale sempre più pronta a coinvolgere soggetti terzi nei servizi pubblici (per es., istruzione, sanità, assistenza), ma anche a valorizzare tutte quelle forme di attività disinteressata (il settore del no profit), genericamente qualificate come ‘terzo settore’ (per es., associazioni di promozione sociale, onlus, ONG, organizzazioni di volontariato). Si tratta in genere di enti con carattere confessionale prevalentemente cattolico nei cui confronti la legislazione regionale è intervenuta rifacendosi a due diverse modalità di erogazione dei finanziamenti.
Nel caso dello svolgimento di pubblici servizi, infatti, il legislatore regionale ha teso a disciplinare il suo intervento nei confronti dei vari soggetti confessionali per consentire, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, l’erogazione di prestazioni caratterizzate da qualità ed efficienza (R. Botta, Le strutture per le attività sussidiarie gestite da confessioni religiose, in Federalismo, regionalismo e principio di sussidiarietà orizzontale, 2005, pp. 226 e segg.). Nel no profit di ispirazione religiosa, invece, l’attenzione normativa regionale è volta a fare in modo che lo svolgimento delle attività, proprio in virtù del loro valore sociale, «possa avere luogo in termini agevolati e quanto più possibile incentivanti, avendo cura pertanto di selezionare i beneficiari di tali disposizioni con riguardo tanto al loro profilo soggettivo, quanto all’aspetto oggettivo delle attività poste in essere» (Bolgiani 2012, pp. 100-01). Si tratta, in realtà, di questione delicata e controversa. Per ciò che concerne nello specifico la situazione prevalente di un ente ecclesiastico, se è ben vero che, accanto alle proprie attività di religione o di culto, esso può svolgerne anche altre, senza perdere con ciò stesso la qualifica di ente religioso, è altrettanto vero che queste attività non debbono assumere, rispetto a quelle di culto che lo qualificano, un ruolo preponderante, a garanzia del fatto che tali attività «diverse» non sono svolte a scopi di lucro. Stabilire la linea di confine tra queste due attività è questione difficile e delicata, ma essenziale, dal punto di vista sia statuale sia del diritto regionale a ciò consacrato.
All’interno del variegato corpus normativo che si è venuto formando in materia vi sono, in particolare, le disposizioni sul volontariato di ispirazione religiosa; quelle relative alla realizzazione di un sistema integrato di servizi sociali da attuarsi anche mediante il possibile coinvolgimento di soggetti confessionali; le disposizioni in materia di diritto allo studio per gli aspetti concernenti gli alunni delle scuole confessionali. Un caso a parte è costituito dalla legislazione regionale per gli oratori, luoghi destinati «su licenza dell’Ordinario, al culto divino in favore di una comunità o di un gruppo di fedeli che ivi si radunano, e al quale possono accedere anche altri fedeli con il consenso del Superiore competente» (can. 1223). Alla legge quadro 8 nov. 2000 nr. 328, relativa alla costituzione di un nuovo «sistema integrato di interventi e servizi sociali», segue nel 2003 la regolamentazione legislativa a livello nazionale consacrata al «riconoscimento della funzione sociale svolta dagli oratori» e alla «valorizzazione del loro ruolo» (Bolgiani 2012, pp. 103 e segg.).
È da sottolineare il modo diverso in cui essa è stata interpretata a livello regionale per la valorizzazione di tali strutture all’interno del sistema integrato dei servizi alla persona. Mentre alcune regioni hanno dedicato agli oratori una disciplina dettagliata, prevedendo tra l’altro forme di consultazione con le autorità ecclesiastiche interessate e la possibilità di definire apposite convenzioni a livello regionale, in altri casi la vicenda è stata risolta attraverso la previsione di specifici finanziamenti regionali in favore dello svolgimento di tali attività. Queste due modalità di scelta rivelano, in realtà, due differenti approcci di gestione delle politiche regionali, non circoscritti ai servizi alla persona da parte di soggetti confessionali, ma di valenza più generale. Mentre, da un lato, vi sono regioni che mirano a garantire gli interessi di tipo religioso in gioco attraverso forme di collaborazione, mettendo in opera una forma di sussidiarietà orizzontale (Federalismo, regionalismo e principio di sussidiarietà orizzontale, 2005), altre preferiscono affrontare la questione, anzichè a livello microsettoriale, a livello macro, per es. a livello di leggi finanziarie.
Il caso degli oratori evidenzia ulteriormente le discrasie che esistono nel comportamento legislativo delle varie regioni in materia di interesse religioso e che possono mettere in discussione quei principi generali di laicità su cui si fonda il nostro Stato. Le differenti interpretazioni e applicazioni dei principi costituzionali in merito di difesa della libertà religiosa attivano forme locali alternative di laicità, con il rischio di una dissonanza cognitiva a livello generale. La fattispecie dell’oratorio, quella cioè di un tipico istituto cattolico di cui è difficile trovare paralleli in altre confessioni religiose, non solo fa di nuovo emergere il rischio di un privilegiamento eccessivo dell’interesse religioso di una confessione particolare a scapito delle altre; non solo ripropone con evidenza a livello regionale il delicato problema, cui si è già fatto cenno, di come identificare localmente una confessione religiosa di cui si decida di tutelare gli interessi, ma rimanda più in generale alla questione delle diverse ed eterogenee soluzioni in pratica adottate in sede di legislazione regionale (Bolgiani 2012, p. 107). Alcune regioni, infatti, si limitano a un generico rinvio agli «enti religiosi competenti» o alle «autorità competenti, secondo l’ordinamento della confessione religiosa», mentre altre preferiscono rivolgersi specificamente agli «enti costituzionalmente competenti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni, i cui rapporti con lo Stato sono tutelati ai sensi dell’art. 8, comma 3 della Costituzione». Nel caso specifico degli oratori, di fronte alla difficoltà di definire l’oggetto dal punto di vista dell’«interesse religioso», la tendenza è stata quella di un particolarismo regionale che ha creato una situazione non facilmente componibile con gli interessi generali del Paese.
Come già accennato, se il formarsi di una sorta di federalismo ecclesiastico, in parallelo a quello civile, è stato favorito dal crescere dell’autonomia delle regioni civili, esso è stato anche, o prima ancora, il portato del ruolo particolare che la CEI ha recitato in Italia dopo l’Intesa del 1984. A partire da quella data, infatti, la CEI ha assunto, per formale delega della Santa Sede che le ha conferito personalità giuridica, la gestione e lo sviluppo globale delle statuizioni concordatarie. Ciò non sorprende, se si tiene conto del fatto che la struttura della Chiesa cattolica non prevede, a livello di nazione, una funzione episcopale pari a quella localmente svolta dal vescovo diocesano. Di conseguenza, la sua prevalente attività è stata di fatto spostata dalle problematiche strettamente dottrinali, che pur le competono, come riconosce il motu proprio del 1998 Apostolos suos, a un settore in cui, accanto alla componente pastorale, la CEI assume per forza di cose un ruolo decisivo nella gestione amministrativa, incalzata anche dalle esigenze pressanti dell’apparato dello Stato (e in seguito delle regioni).
Questa strutturazione ha comportato naturalmente nuove logiche organizzative e la necessità di ricorrere a forme di mediazione come le Conferenze episcopali regionali. Le intese che la CEI ha stipulato a livello nazionale con lo Stato italiano tramite il suo rappresentante legale, il presidente di turno ‒ naturalmente previa autorizzazione della segreteria di Stato ‒ costituiscono dunque il quadro generale che occorre tenere presente per comprendere e valutare anche le intese tra regioni civili e rispettive Conferenze episcopali. Secondo quanto concordato a tutto il 2012, queste intese sono 15, di cui soltanto 9 vigenti, in quanto le altre sono state sostituite da accordi successivi. Tra tutte queste intese merita un’attenzione particolare quella del 1985, dedicata all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, modificata nel 1990, cui hanno fatto seguito altre intese, fino a quella del 2012 con il ministro Francesco Profumo. Rilevanti per le ricadute regionali sono anche l’intesa del 1990 circa l’assistenza spirituale alla polizia di Stato, sostituita da altra intesa nel 1999; quella del 1996 in tema di beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche, pure sostituita nel 2005; infine l’intesa del 2000 relativa ad archivi e biblioteche appartenenti agli stessi soggetti (CESEN 2009).
Prima di entrare nel merito di tali accordi e per una loro migliore valutazione è utile una riflessione su alcuni elementi di fondo emersi nel corso di questo ormai quarantennale rapporto e che si sono manifestati in modo sempre più evidente dai primi anni Novanta. La perdita di importanza del centro a favore delle periferie, in questo caso regionali, che ha caratterizzato il processo di regionalizzazione in particolare nella sua fase più recente, per certi aspetti corre parallelo all’aumento di potere di forme decentrate come le regioni ecclesiastiche italiane nei confronti del centralismo romano. Queste ‘vite parallele’ trovano conferma nella crescente fioritura di accordi regionali non solo sui temi tradizionali portati avanti dalle intese della CEI con lo Stato italiano, ma anche su questioni nuove e talora rilevanti. Accanto, infatti, ad ambiti come la valorizzazione dei beni culturali, l’assistenza spirituale, l’insegnamento della religione cattolica, in questa collaborazione vengono esplorati spazi di intesa nuovi, rivelatori del potenziale che tali intese posseggono rispetto a quelle a livello nazionale (Bolgiani 2012, p. 154). Vanno in tale direzione, per es, l’accordo tra le Marche e la Regione ecclesiastica Marche «per l’assistenza ai sacerdoti anziani», del 1° sett. 2009; il Protocollo d’intesa tra Regione Toscana e Conferenza episcopale toscana «per l’assistenza agli anziani non autosufficienti» (8 febbr. 2011); o, infine, il Protocollo di relazioni tra la Conferenza episcopale piemontese e la Regione Piemonte per il riconoscimento del Tavolo tra gli organismi di ispirazione cristiana operanti nel settore sanitario, del 21 giugno 2011.
Tutto ciò ha finito per avere, dal punto di vista organizzativo della Chiesa, una ricaduta positiva, che si è tradotta nella possibilità di mediare meglio a livello regionale la propria presenza pastorale, talora anche, come nel caso dell’assistenza spirituale (da più parti contestata) nelle strutture sanitarie pubbliche, con una evidente utilità in termini finanziari. Ma, al pari di quanto è a volte accaduto per le regioni civili, che hanno visto moltiplicarsi le proprie strutture di governo, si è assistito nel contempo al proliferare di nuove figure di mediazione anche nelle regioni ecclesiastiche.
Emblematico è l’esempio del responsabile regionale. A differenza di altre realtà pastorali, l’organizzazione territoriale per regione corrisponde alle regioni civili, non a quelle ecclesiastiche, allo scopo di mantenere i rapporti con le competenti autorità degli uffici scolastici regionali. Questo responsabile è chiamato – in parallelo con il preesistente responsabile diocesano – a coadiuvare la Conferenza episcopale regionale nella gestione di quanto attiene all’Insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole di ogni ordine e grado. Mentre è cura dei vescovi delle diverse diocesi nominare i responsabili diocesani, tocca alle singole Conferenze regionali nominare il proprio responsabile, che fa riferimento al vescovo delegato regionale per il settore tematico IRC. Queste figure sono impegnate sul territorio a seguire le questioni relative all’insegnamento della religione cattolica nella scuola, per conto della Conferenza episcopale regionale, in collaborazione con i rispettivi uffici scolastici regionali e a promuovere ed elaborare percorsi di aggiornamento degli insegnanti di religione cattolica in ciascuna regione. Si viene così a creare una figura destinata prima o poi a entrare in concorrenza, o comunque a portare avanti una non semplice collaborazione, con i preesistenti responsabili diocesani, i quali, oltre a compiti prettamente pastorali e a quello di mantenere viva la comunione ecclesiale con gli uffici pastorali e i servizi di Curia, devono collaborare con i rispettivi ordinari per le procedure di nomina degli insegnanti, in rapporto con i corrispondenti uffici scolastici provinciali e gli istituti scolastici.
Anche nel caso della promozione dell’edilizia di culto, al fine di favorire i suoi diversi aspetti e la corretta applicazione delle disposizioni nelle diocesi italiane, è stata creata una nuova figura di ‘mediatore’, il delegato regionale. Egli dura in carica cinque anni con i seguenti compiti: a) seguire l’iter formativo dei disegni di legge regionali in materia di edilizia di culto, con particolare riguardo all’applicazione di quanto previsto dall’art. 53 nella l. 20 maggio 1985 nr. 222, informando tempestivamente la Conferenza episcopale regionale e il Servizio nazionale per l’edilizia di culto; b) promuovere a livello diocesano, in accordo con la Conferenza episcopale regionale e con i vescovi delle singole diocesi, i vari aspetti dell’edilizia di culto (liturgico, architettonico, artistico, economico-finanziario, tecnico, amministrativo); c) offrire orientamenti al Comitato per l’edilizia di culto per la formulazione e la gestione del programma annuale; d) garantire la corrispondenza delle opere costruende con i contributi della CEI ai progetti approvati; e) certificare lo stato delle opere ammesse a contributo in tutte le fasi di esecuzione.
Se da un lato il moltiplicarsi di queste figure di mediazione si è reso indispensabile per una più efficace collaborazione con le autorità regionali nei vari cantieri aperti dalle intese, dall’altro è evidente il rischio che esso comporta, legato al crescere di una burocrazia ecclesiastica parallela a quella delle regioni civili; né è un caso che, nel tentativo di coordinare questi vari soggetti sia a un certo punto comparsa la nuova figura del referente regionale, incaricato, con quello diocesano, di svolgere il fondamentale compito di raccordo tra le diocesi, le comunità parrocchiali, le associazioni, gli enti di ispirazione cristiana e l’Ufficio nazionale della CEI.
Per quanto concerne i beni culturali di interesse religioso, si contano a livello regionale circa una ventina di protocolli tra intese di carattere generale e altre, invece, dedicate a temi specifici, quali per es. la catalogazione del patrimonio o gli archivi ecclesiastici (CESEN 2009). Come si è già ricordato, queste intese si sono svolte all’interno del più generale quadro legislativo a partire dall’Accordo del 1984 e in particolare dall’art. 12, che si apre con la seguente affermazione: «La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico ed artistico». Una prima attuazione di questo principio concordatario si è avuta soltanto nel 1996 con l’Intesa relativa «ai beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche», sottoscritta dal ministro per i Beni culturali e ambientali e dall’allora presidente della CEI, card. Camillo Ruini. A essa fece seguito quattro anni dopo, tra queste stesse autorità, l’Intesa relativa alla conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche. Questa seconda Intesa rimase in vigore, ma quella del 1996 fu abrogata e sostituita dall’accordo del 2005, che tiene conto della riforma costituzionale che ha ampliato le competenze regionali e del Codice Urbani. La nuova Intesa, «mentre conferma, con formule all’occorrenza rivisitate e aggiornate, le disposizioni precedentemente concordate, estende la sua attenzione a problemi quanto mai specifici e concreti, quali l’inventariazione e la catalogazione, l’eventuale trasferimento dei beni in sedi diverse da quelle originarie, i requisiti professionali degli operatori, le misure di sicurezza, l’accesso e la visita, le richieste di prestiti per mostre» (Feliciani, introduzione a Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia, 2007, p. 9).
Le intese regionali che emergono dal quadro generale in mutamento rivelano, dunque, una duplice tipologia di intervento: da un lato, le intese che hanno sostituito vecchi accordi, aggiornandoli alla luce del nuovo quadro nazionale, dall’altro, quelle che rappresentano delle novità. Il fatto che le intese concluse dopo l’accordo quadro del 2005 siano complessivamente poche può essere dovuto in parte alle difficoltà insorte in sede di attuazione dell’accordo, dal momento che esso pone il delicato problema dello spazio di autonomia di intervento delle singole Regioni. Un’altra complicazione è dovuta al mutamento dei referenti statali, dal momento che i soprintendenti regionali sono stati sostituiti dai direttori regionali per i beni culturali e paesaggistici, che hanno assunto con il tempo ruoli e compiti sempre più estesi. Di qui una inevitabile difficoltà di gestione anche da parte ecclesiastica, che per un verso si è trovata di fronte a interlocutori di parte civile diversi dai precedenti, per un altro, come si è già accennato, anche in reazione a questo processo, è stata indotta alla creazione di nuove figure, con problemi di mediazione interna ed esterna.
Per quanto concerne i contenuti generali degli accordi vigenti in tale ambito, grande attenzione è rivolta dalle parti contraenti alla individuazione dei compiti ‘prioritari’ della collaborazione. Quanto poi alle forme, ai modi e ai tempi di queste azioni, la maggioranza di queste intese stabilisce che essi vengano concordati, tra Regione e Conferenza episcopale regionale, sulla «base di piani di intervento annuali o pluriennali». In questo senso va, per es., l’art. 2, 1° co. nel Protocollo d’intesa tra Regione Piemonte e Conferenza episcopale piemontese per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche del 30 marzo 1998, cui se ne potrebbero aggiungere altri (per es., l’art. 2, 1° co. nella Intesa tra la Regione autonoma Valle d’Aosta e la Diocesi di Aosta per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche del 27 dic. 1999). Per il perseguimento di questi obiettivi Regioni e Conferenze episcopali regionali si impegnano poi espressamente, ciascuna per la propria sfera di competenza, a svolgere un’azione tra gli enti locali e le diocesi per la realizzazione di piani locali di intervento, oltre che a cercare di sviluppare accordi e programmi congiunti con gli organi periferici del ministero, delle province e dei comuni.
Al fine di agevolare la realizzazione di tali obiettivi, le intese in questione prevedono in genere il ricorso a uno strumento particolare: l’istituzione di una commissione paritetica, destinata a esaminare i problemi comuni, approfondire gli ambiti della collaborazione e consentire lo scambio reciproco di informazioni, come anche, in più di un caso, a istruire i progetti, individuare le risorse e garantire l’armonizzazione degli interventi. In genere, tra i membri di parte civile di queste commissioni si trovano l’assessore e il funzionario dell’assessorato competente, mentre in qualche caso è coinvolto direttamente anche il soprintendente regionale (ora, direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici).
Per quanto concerne invece i membri di parte ecclesiastica, talvolta questi vengono indicati come «rappresentanti» designati dalla Conferenza episcopale regionale, in altri casi invece si fa riferimento a «delegati» o «incaricati» diocesani per i beni culturali ecclesiastici, mentre soltanto in alcuni accordi è menzionata esplicitamente la figura dell’incaricato regionale per i beni culturali, di recentissima formazione, sopra ricordata. In alcuni accordi, infine, viene stabilito che tali organismi debbono «verificare con continuità l’attuazione delle forme di collaborazione», riconoscendo dunque loro un espresso compito di controllo. In effetti, anche se non è possibile, data la mancanza di studi approfonditi in materia, verificare l’esatta incidenza di questo strumento di collaborazione regionale, vari indizi lasciano pensare che non sempre il funzionamento delle commissioni abbia corrisposto alle aspettative. Né è un caso che si sia cercato di correggerlo e integrarlo, come dimostra per es. l’Intesa siciliana del 6 agosto 2010 che, scegliendo un impegno alla collaborazione su larga scala, individua espressamente tra i soggetti coinvolti a tali scopi, oltre all’assessore competente e al vescovo delegato, anche il dirigente generale del dipartimento regionale dei beni culturali e il direttore dell’Ufficio regionale per i beni culturali ed ecclesiastici della Conferenza episcopale siciliana (art. 1).
Per quanto riguarda questa seconda area di accordi, a differenza della prima, manca, a tutto il 2012, tra Stato italiano e Santa Sede (nella fattispecie la CEI), un’intesa a livello nazionale che funga da quadro di orientamento e termine di confronto per le intese regionali, che hanno trovato di conseguenza il loro incentivo più importante nella regionalizzazione del sistema sanitario nazionale. Né è un caso che a partire dal 2000 siano stati conclusi, a conferma della presa di coscienza da parte delle regioni delle proprie potenzialità, ben nove accordi nuovi tra regioni e rispettive Conferenze episcopali regionali, che riguardano le seguenti regioni civili: Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Lazio, Puglia, Provincia autonoma di Trento, Lombardia, Toscana, Veneto.
Il quadro di riferimento delle intese regionali è costituito, oltre che dall’art. 38 nella l. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, dalle essenziali disposizioni contenute nell’art. 11 dell’Accordo del 1984 di Villa Madama che recita: «1. La Repubblica italiana assicura che l’appartenenza alle forze armate, alla polizia, o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici». In assenza di un’intesa a livello nazionale, ciò ha dato luogo nei fatti a interpretazioni di queste norme talora divergenti. In alcuni casi, infatti, le disposizioni contenute nelle intese prese in esame rientrano nel quadro della normativa generale, mentre in altri se ne distaccano in modo evidente. Un caso emblematico è rappresentato dall’individuazione degli assistenti spirituali. Mentre la maggioranza dei protocolli stabilisce come tale incarico debba venire necessariamente assunto da un presbitero, in alcuni casi viene espressamente previsto che esso possa essere ricoperto anche da diaconi o, eccezionalmente, da religiose. Per es., il Protocollo d’intesa tra la Regione Lazio e la Regione ecclesiastica Lazio «per il servizio di assistenza religiosa agli infermi e al personale nelle aziende sanitarie» del 7 dicembre 2001, stabilisce che il servizio di assistenza possa essere svolto «da cappellani, denominati anche assistenti religiosi», indicando espressamente come tali «sacerdoti e diaconi».
Sulla stessa linea, l’art. 3, 4° co. nel Protocollo d’intesa tra la Regione Toscana e la Regione ecclesiastica Toscana «per la disciplina del servizio di assistenza religiosa cattolica nelle strutture di ricovero delle aziende ospedaliere», del 1° aprile 2008, prevede che «in relazione alle diversificate esigenze dell’assistenza religiosa, nelle aziende sanitarie in cui debbano essere designati due o più assistenti religiosi», l’ordinario diocesano possa conferire l’incarico di assistente spirituale, oltre che a sacerdoti, «eccezionalmente a diaconi permanenti e a religiose», in numero non superiore alla metà del totale degli assistenti previsti: una norma in evidente contrasto con l’art. 11, sopra ricordato, dell’Accordo del 1984, che riserva unicamente a «ecclesiastici» il compito di assistenza spirituale (con evidente esclusione di religiosi e religiose: più delicata e controversa la questione sulla inclusione o meno dei diaconi tra gli «ecclesiastici»).
Tale divaricazione interpretativa ha ricadute varie e di un certo rilievo, tra le quali il problema della retribuzione. Alcune intese, infatti, come quella tra Regione Umbria e la Conferenza episcopale umbra del 19 novembre 2001, hanno a cuore di precisare come solo i sacerdoti possano venire regolarmente retribuiti, mentre «diaconi, religiosi/e e laici coadiuvano al lavoro dei presbiteri a titolo di volontariato» (art. 4, 1° co.). In altri casi, invece, come nel Protocollo d’intesa tra la Regione Piemonte e la Conferenza episcopale piemontese del 22 luglio 1998, il personale di assistenza religiosa viene genericamente individuato in «presbiteri, diaconi, religiosi/e e laici»: una formula vaga, interpretata da alcune convenzioni locali come introduttiva della possibilità di remunerazione anche di tali collaboratori, contribuendo in tal modo ad alimentare le polemiche che a livello nazionale hanno accompagnato la scelta di assumere e retribuire come personale fisso, con costi non indifferenti per la comunità, gli assistenti spirituali cattolici. Questa situazione problematica ha tra le sue cause la crescente diffusione delle cappellanie ospedaliere come mezzo per una più capillare e incisiva presenza pastorale della Chiesa cattolica nelle strutture ospedaliere, presenza che ha trovato nelle intese regionali un mezzo privilegiato di diffusione.
Una linea di tendenza significativa di queste intese consiste nell’allargare il campo dell’assistenza spirituale, secondo forme e modi non proprio rigorosi e univoci. Già la definizione dei contenuti di questa assistenza risulta problematica, oscillando tra una caratterizzazione più ristretta specificamente religiosa e una più vaga e aperta a varie interpretazioni, di tipo spirituale. Nello specifico, l’assistenza religiosa, com’è definita dalla pastorale in merito, comprende «la celebrazione quotidiana del culto divino, l’amministrazione dei sacramenti, la catechesi» (art. 4, lett. c nel Protocollo d’intesa tra Regione Piemonte e Conferenza episcopale piemontese). Accanto a questi compiti pastorali tradizionali, nelle intese più recenti trovano spazio ulteriori contenuti. Così, per es., nel Protocollo d’intesa tra la Regione Lombardia e la Regione ecclesiastica Lombardia del 21 marzo 2005, all’art. 5 si precisa che il servizio di assistenza religiosa ha per oggetto anche altre finalità come «a) il sostegno al processo terapeutico della persona ammalata; b) la promozione di attività culturali a carattere religioso; c) l’accompagnamento spirituale e umano e la relazione di aiuto; d) il contributo in materia di etica e di umanizzazione nella formazione del personale in attività di servizio e la eventuale partecipazione nei comitati etici; e) la promozione del volontariato, in particolare per la umanizzazione delle strutture, dei servizi e dei rapporti interpersonali; f) l’attenzione al dialogo interconfessionale ed interreligioso». In genere, le intese regionali vigenti estendono poi tale servizio anche ai familiari dei degenti che lo richiedano e – cosa che ha suscitato varie critiche – anche al personale delle aziende sanitarie (Bolgiani 2012, p. 151).
La divergenza d’interpretazione si estende altresì alla definizione del rapporto di lavoro tra l’assistente spirituale e l’azienda sanitaria. Gli accordi in questione prevedono infatti in genere due distinte tipologie: da un lato, l’assunzione degli assistenti spirituali mediante «immissione in ruolo»; dall’altro, la facoltà di ricorrere a incaricati «in regime convenzionale», più autonomi rispetto alla struttura ospedaliera di riferimento in quanto non direttamente inseriti nel personale sanitario. Per quanto concerne i criteri per stabilire il numero degli assistenti religiosi, dall’esame delle Intese emerge, pur con una certa variabilità, una relazione fra il loro numero e quello degli ospedali e posti letto. Il computo degli assistenti religiosi segue per lo più due diversi parametri. In un caso (Toscana, Lazio, Veneto, Trento) si rimanda a una certa «discrezionalità» delle Aziende; l’Umbria elabora un sistema estremamente complesso ma che poi prevede molteplici deroghe. In generale però, la maggior parte delle intese prevede che in ogni ospedale debba essere presente almeno un assistente religioso, numero che viene incrementato di una ulteriore unità ogni 200-350 posti letto. Inoltre nelle intese non si specifica mai il tipo dei posti letto (day hospital, day surgery, degenza ordinaria o a pagamento), né è sempre chiaro se l’accordo riguardi solo le strutture di ricovero pubbliche o anche quelle accreditate. Per quanto concerne infine l’aspetto finanziario, mancano complessivamente, a tutto il 2012, dati sicuri e verificabili.
In conclusione, è evidente il ruolo trainante che anche in questo caso, come per i beni culturali di interesse religioso, la regionalizzazione del sistema sanitario nazionale ha avuto nella strutturazione e organizzazione della salute della Chiesa cattolica italiana, che si è a sua volta maggiormente regionalizzata per approfittare nei limiti del possibile, a seconda delle situazioni politiche di volta in volta presenti, dell’occasione offerta sia per una presenza stabile (e retribuita!) del personale dedicato sia per estendere a macchia d’olio altre forme di assistenza spirituale.
Le forme di regionalizzazione ecclesiastica fin qui descritte sono il portato di un processo di lunga durata che ha prima di tutto cause interne, ma ha trovato nuova linfa anche nel processo di regionalizzazione civile, in particolare negli ambiti esaminati. È importante chiedersi, pertanto, se e in che misura tale processo abbia avuto effetti, ed eventualmente di che tipo, su realtà ecclesiastiche preesistenti, che hanno assunto nel corso del Novecento una fisionomia anche regionale proprio in conseguenza di una maggiore promozione dell’istituto delle regioni ecclesiastiche. È questo il caso, in particolare, dei seminari e delle facoltà regionali.
Il seminario come luogo privilegiato della formazione del clero diocesano è stato promosso dal Concilio di Trento ed è rimasto in epoca moderna il luogo deputato alla formazione teologica e spirituale del futuro sacerdote. La spinta all’istituzione dei seminari regionali venne, all’inizio del Novecento, da Pio X che, in tal modo, desiderava venire incontro alle reali e gravi necessità di tante piccole diocesi, che non erano in grado di provvedere da sole a una buona formazione dei loro sacerdoti. Si trattava, per l’epoca, di un’impresa che presentava non poche difficoltà, dovendo fare i conti, oltre che con la frantumazione delle diocesi e la sostanziale irrilevanza organizzativa, già menzionata, delle allora esistenti regioni ecclesiastiche, anche con la situazione generale della Chiesa italiana, che non aveva ancora risolto il suo conflitto con lo Stato italiano. Queste difficoltà furono generalmente superate grazie all’ aiuto della Sacra Congregazione dei seminari e delle università degli studi, eretta nel 1915 da Benedetto XV, la quale assunse una speciale vigilanza sui seminari regionali e ne garantì il sostegno economico.
Dopo il Concilio Vaticano II, in ottemperanza al dettato del decreto del 28 ottobre 1965 sulla formazione sacerdotale (Optatam totius, III, 7), i seminari regionali, con una Nota della Sacra Congregazione per l’educazione cattolica del 6 luglio 1966 (Criteri e suggerimenti pratici per il passaggio dei Seminari regionali italiani dalla Santa Sede alle Conferenze episcopali regionali, in Enchiridion Clericorum: documenta ecclesiae futuris sacerdotibus formandis, 1975, pp. 1499-502), furono trasferiti alla giurisdizione delle rispettive Conferenze episcopali regionali. Si trattava di un passaggio non facile, che esponeva la realtà dei seminari regionali al rischio della frantumazione. Il dicastero vaticano competente, consapevole di ciò, ribadì perciò «l’impegno di ogni singola Conferenza episcopale di considerare il regionale come il proprio seminario maggiore, con obbligo da parte dei vescovi cointeressati di inviarvi i propri alunni e di provvedere il personale dirigente e insegnante» (Enchiridion Clericorum, cit., § 1). Precisò inoltre che la giurisdizione sui seminari dovesse essere esercitata, «con uguaglianza di diritti e di doveri, dai membri delle singole Conferenze» (§ 2).
Se, in questo caso, non è stato possibile reperire chiare prove di un influsso diretto dei processi di regionalizzazione civile sulle fortune dei seminari regionali, è tuttavia indubbio che la valorizzazione di questi ultimi è anche il risultato del ruolo crescente esercitato dalle regioni ecclesiastiche e dalle rispettive Conferenze episcopali. Di questo processo si possono portare alcuni indizi, a cominciare dal discorso di Benedetto XVI del 26 gennaio 2012, rivolto ai superiori e ai seminaristi dei pontifici seminari campano, calabro e umbro in occasione del centenario di fondazione.
In questo particolare contesto, il Pontefice ha sottolineato con vigore il fatto che l’esperienza dei seminari regionali «si presenta ancora assai opportuna e valida. Grazie al collegamento con Facoltà e Istituti teologici, consente di avere accesso a percorsi di studio di livello elevato, favorendo una preparazione adeguata al complesso scenario culturale e sociale nel quale viviamo. Inoltre, il carattere interdiocesano si rivela una efficace ‘palestra’ di comunione, che si sviluppa nell’incontro con sensibilità diverse da armonizzare nell’unico servizio alla Chiesa di Cristo. In questo senso, i Seminari regionali forniscono un incisivo e concreto contributo al cammino di comunione delle Diocesi, favorendo la conoscenza, la capacità di collaborazione e l’arricchimento di esperienze ecclesiali tra i futuri presbiteri, tra i formatori e tra gli stessi pastori delle Chiese particolari. La dimensione regionale si pone inoltre come valida mediazione tra le linee della Chiesa universale e le esigenze delle realtà locali, evitando il rischio del particolarismo».
Anche la CEI ha teso a sottolineare il ruolo significativo di queste realtà di formazione regionale. Infatti, la nuova edizione di Orientamenti e norme per i seminari italiani, promulgata il 4 novembre 2006, facendo sue le conclusioni della Nota della Commissione episcopale per il clero (Linee comuni per la vita dei nostri seminari) rilancia la prospettiva dei seminari interdiocesani o regionali e la qualifica come «scelta profetica di cooperazione» (Conferenza episcopale italiana, La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari, 20073).
In generale, come emerge anche dai nuovi statuti, i seminari regionali sembrano aver svolto – e continuare a svolgere – al pari delle regioni ecclesiastiche un importante compito di mediazione, da un lato, evitando pericolosi localismi, dall’altro, presentandosi come luoghi opportuni di mediazione nei confronti delle linee nazionali di pastorale sacerdotale promosse dalla CEI. La Chiesa italiana sembra aver colto l’importanza del livello regionale della sua azione in questo campo. I vescovi delle regioni ecclesiastiche, non più unici responsabili di seminari diocesani ormai privi di soggetti per la crisi delle vocazioni, sono così invitati ad assumere una corresponsabilità di formazione sia pastorale sia teologica nella cogestione del rispettivo seminario regionale: una forma di razionalizzazione che implica anche risvolti economici nella formazione di un clero che ha ora anche un orizzonte regionale come obiettivo della sua vocazione sacerdotale.
A questo obiettivo ‘regionale’ nell’azione della Chiesa cattolica italiana, che sembra essere diventato sempre più importante dai primi anni Novanta, concorrono senza dubbio anche le facoltà teologiche regionali. Per comprendere la valenza e la natura di questo processo, senza tuttavia perdersi nei meandri di una storia complessa e plurisecolare ‒ quella delle facoltà teologiche italiane prima e dopo la loro abolizione nel 1873 in qualità di facoltà teologiche di Stato, e dopo che nel 1931 con l’enciclica Deus scientiarum Dominus, a eccezione delle facoltà romane, vennero abolite tutte le facoltà teologiche delle regioni conciliari escluse quelle di Milano e Napoli ‒, occorre tenere presente che, oltre al caso particolare costituito dalle numerose facoltà teologiche presenti nelle università pontificie romane, attualmente le altre sono organizzate in tre grandi centri: Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, con sede Milano; Facoltà teologica dell’Italia centrale, con sede Firenze; infine, Facoltà teologica dell’Italia meridionale, con sede Napoli.
Il crescere del ruolo delle Conferenze episcopali regionali e in particolare, come già menzionato, l’acquisizione nel 1994 da parte delle Conferenze di personalità giuridica, ha avviato nel tempo un processo di autonomizzazione regionale che ha finito per mettere in crisi il sistema delle tre grandi facoltà teologiche interregionali. Cominciando con la costituzione di ‘Sezioni parallele’ delle tre facoltà interregionali – come nel caso della Facoltà teologica presente a Torino, sezione distaccata della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (G. Tuninetti, Facoltà teologiche a Torino: dalla Facoltà universitaria alla Facoltà dell’Italia settentrionale, 1999) –, si è poi passati alla costituzione, sotto la spinta delle rispettive Conferenze episcopali regionali, di vere e proprie facoltà teologiche regionali. Esistono quindi, di fatto, cinque facoltà teologiche regionali: del Triveneto, dell’Emilia-Romagna, della Puglia, della Sicilia e della Sardegna. Pur non potendo entrare nei dettagli di una storia intricata e diversificata, vale la pena sottolineare alcuni elementi di fondo presenti nel loro percorso di formazione e nei loro statuti, che sembrano confermare l’influsso che sulla loro nascita ha avuto una prospettiva regionalistica legata alla formazione teologica di sacerdoti, religiosi e laici.
La Facoltà teologica del Triveneto, per es., fu istituita inizialmente a Padova a partire dal 1° novembre 1972 come ‘Sezione parallela’ della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Nelle fasi successive risultò evidente, anche in conseguenza di fattori come la riforma degli studi indotta dalla Costituzione Apostolica Sapientia Christiana promulgata da papa Giovanni Paolo II il 15 aprile 1979 per il riordinamento delle università ecclesiastiche e delle facoltà teologiche, che la sua istituzione aveva innescato un processo di coordinamento e centralizzazione con le altre attività formative presenti sul territorio regionale, favorito dagli interventi della Conferenza episcopale triveneta. Quest’ultima, nella Lettera pastorale La croce di Aquileia del 30 gennaio 1991, che raccoglieva il lavoro svolto nel Convegno organizzato dalla Regione ecclesiastica del Triveneto affermava tra l’altro: «Alcuni settori di collaborazione sembrano particolarmente urgenti e necessari, e devono diventare spazio concreto di attività comune per le nostre Chiese. Il primo è il potenziamento della formazione teologica, al quale vorremmo provvedere anche assicurando alla nostra regione ecclesiastica la presenza di istituti teologici accademici, che siano luogo e stimolo per un permanente approfondimento delle verità della fede nel contesto culturale della nostra terra, e per la preparazione di operatori pastorali e di maestri» (Comunità cristiane e futuro delle Venezie. Atti del I Convegno ecclesiale, Aquileia-Grado 28 aprile - 1° maggio 1990, 1991, pp. 21-33).
L’operazione di collegamento, tesa a «rendere più compiuta la dimensione regionale della formazione teologica accademica» per garantire «un suo reale radicamento sul territorio della Regione Ecclesiastica», ha portato alla fine il 10 marzo 2006, con decreto del ministro dell’Interno (DCAC 18 - fascicolo nr. 5399/PD) al riconoscimento della sua personalità giuridica civile.
Parallelo, anche se in parte diverso in conseguenza, tra l’altro, della sua differente storia, è il percorso che ha portato alla formazione della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna. In questo caso è più evidente la coincidenza di processi tra il costituirsi e il progredire di una regione ecclesiastica e il tentativo di dare a questa nuova realtà una sua facoltà teologica per rafforzarne l’identità. Il cammino di formazione della facoltà inizia proprio l’8 dicembre 1976, con la ricostituzione della Regione ecclesiastica Emilia-Romagna. La Conferenza episcopale della nuova regione fonda dapprima lo Studio teologico accademico bolognese «nel seicento diciottesimo anno dalla fondazione della prima facoltà bolognese» (21 giugno 1978), con decreto della Congregazione per l’educazione cattolica Petroniana metropolis. Quasi 26 anni dopo, il 29 marzo 2004, si procede all’erezione di una facoltà regionale, capace di unificare le realtà accademiche esistenti, interessate a entrare in un progetto unitario «destinato a rendere più compiuta la dimensione regionale».
I motivi che hanno spinto in questa direzione sono molteplici ed eterogenei, dal numero di studenti all’esigenza di confrontarsi con una realtà universitaria statale di notevole rilievo. Indubbiamente, la spinta a rivalutare una importante tradizione di studi teologici, dando loro una collocazione ma anche una più forte impronta regionale, ha avuto, come già nel caso di Padova, un ruolo tutt’altro che secondario.
Senza disperdersi nell’iter formativo delle altre facoltà teologiche regionali, è utile osservare che in certi casi questo iter di regionalizzazione ha finito per favorire, sotto forma di accordi di cooperazione con le università statali, una collaborazione regionale che ricorda per certi aspetti quelle promosse dalle intese già prese in esame. È il caso, per es., della Pontificia facoltà teologica della Sardegna ‒ iscritta nel Registro delle persone giuridiche presso il Tribunale di Cagliari a seguito del d.m. del 7 dic. 1998 ‒, che ha stipulato il 9 febbr. del 1993 un Accordo di cooperazione con l’Università degli studi di Cagliari, rinnovato il 15 nov. 2004, onde favorire, nel rispetto dell’autonomia propria delle due istituzioni, un iter formativo e di reciproco riconoscimento a livello di percorsi curricolari dei propri studenti.
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