ARCHITETTURA, REGNO D'ITALIA
La committenza architettonica di diretta matrice federiciana nel Regno d'Italia non è assolutamente paragonabile a quanto fu promosso dalla Corona nel Regnum Siciliae, sia per numero sia per qualità di iniziative. Essa appare destinata a soddisfare precise esigenze di politica territoriale, trovando soprattutto applicazione nel campo dell'edilizia castellare in concomitanza con le campagne militari condotte contro la Lega lombarda e la prima espressione nel presidio di Lodi, elevato dopo la battaglia di Cortenuova sul finire del 1237 (Agnelli, 1917, pp. 214, 276; v. Castelli, Regno d'Italia, architettura, e sistema dei).
Da tali premesse si arguisce che l'evergetismo imperiale ebbe modo di manifestarsi con notevole ritardo rispetto al Meridione della penisola, dove già nel 1223 era stata intrapresa l'edificazione di castella a Gaeta e Foggia insieme al rinnovamento della rocca normanna di Aversa e di Castel Capuano a Napoli, e che ciò escluse ‒ perché non sussistevano le condizioni ‒ la realizzazione di quella categoria di edifici costituita dalle domus solaciorum, le cui funzioni abitative e di rappresentanza si sposavano spesso a ulteriori mansioni da collegare allo sfruttamento agro-pastorale e forestale dei territori demaniali in cui venivano a trovarsi.
Ora, tralasciando le compagini castrali rappresentate dal mastio quadrato di Monselice e dal maniero ad ali regolari di Prato, gli interventi federiciani sicuramente documentati nell'Italia centrosettentrionale si restringono a pochi episodi, quasi tutti di edilizia residenziale urbana, distribuiti in un breve arco temporale che va dal novembre 1238 al marzo 1243. Il dato cronologico stabilisce che essi sono, così come i castelli in precedenza ricordati, il portato del momento più incisivo della dominazione sveva nel Regno d'Italia ma, a differenza delle fabbriche militari, sono la testimonianza di un programma edilizio di più basso profilo, rimasto in alcuni casi allo stato embrionale. Di fatto si tratta di cantieri mirati a rimodernare più antichi complessi e a migliorarne l'assetto difensivo come a Parma e a Roma, oppure di operazioni ‒ quale l'episodio di Viterbo ‒ tese all'acquisizione di un settore periferico dell'abitato murato al fine di creare un proprio quartiere residenziale; solo per Foligno è forse lecito parlare di un palatium innalzato ex novo e portato a compimento.
Qualora poi si aggiunga che consistenti sopravvivenze architettoniche rimangono unicamente per la magione di Parma, diventa il più delle volte impraticabile sia formulare un giudizio sull'entità e sulla qualità dei manufatti sia, di conseguenza, rapportarli o meno ai monumenti fatti allestire dalla Curia nel Regnum Siciliae nel corso del quarto e quinto decennio del Duecento. La via da percorrere per avere un quadro di massima circa il tipo di intervento messo in pratica è offerta soprattutto dalle fonti coeve, benché esse risultino piuttosto laconiche. Queste hanno in ogni modo l'indubbio merito di fornire le coordinate atte a sistemare le fabbriche sveve nella giusta sequenza cronologica a partire dall'impresa parmigiana, avviata nel novembre del 1238.
Nel caso della domus emiliana, così come avvenne l'anno seguente per la turris Cartularia nell'Urbe, l'operazione fu rivolta al ripristino e all'aggiornamento di una struttura da tempo operativa. Infatti del pallacium imperatoris, più comunemente noto con l'appellativo de Rena o de Arena perché localizzato sui ruderi dell'anfiteatro romano, è nota l'esistenza fin dalla seconda metà del XII sec. lungo il versante sudorientale delle mura (Ronchini, 1880; Parmeggiano, 1964; Valenzano, 1995; Bortolami, 2001, p. 158). Secondo quanto riportano gli Annales Placentini Gibellini, Federico II fece rinnovare e ampliare la magione e, sempre in quella occasione, ordinò che venisse circondata da una solida cinta, segno che l'edificio era allora esterno al circuito di Parma ("et palacium quod habebat in Parma fecit ampliare et reficere, claudendo illud per girum firmissimo muro", Annales Placentini, 1863, p. 480). L'ormai vetusta domus, che aveva ospitato Federico Barbarossa nel 1164 e Ottone di Brunswick nel 1210, fu resa più confortevole e, in particolare, fu chiusa entro un giro di mura, le quali dovevano raccordarsi alla cerchia cittadina, conferendo al complesso pure l'inedito compito di piazzaforte. In definitiva si trattava di una cittadella pressoché autonoma che veniva a fiancheggiare l'accesso urbano dall'esplicativo nome di porta Maiestatis.
Ancora tangibili sono le emergenze monumentali della domus imperiale, trasformata dai Lalatta in complesso abitativo a metà del Cinquecento, quindi radicalmente manomessa nel XVII e XVIII sec. e di nuovo nel 1831, quando Maria Luigia vi insediò il "Collegio dei Nobili". Siffatte trasformazioni, tuttavia, non hanno del tutto compromesso le strutture medievali riemerse durante il restauro del complesso (dal 1896 "Convitto Nazionale Maria Luigia"), operato sotto la guida di Giuseppe Parmeggiano, il quale ne diede notizia nel 1964. A lui si deve sia l'individuazione dell'organismo più antico, o almeno di quella parte sopravvissuta che costituisce l'odierno braccio settentrionale del convitto, sia la ricostruzione della fronte prospettante su Borgo Lalatta, che sviluppa una lunghezza pari a 46,80 metri. In particolare l'attenta analisi della facciata ha evidenziato che il corpo edilizio, di forma rettilinea, era il risultato dell'unione di due fabbriche in laterizio: a un blocco quadrangolo, di modeste dimensioni, che occupava la porzione occidentale dell'ala, si addossava in continuità una struttura più tarda e di considerevoli proporzioni. Quest'ultima si differenziava dalla prima anche per una diversa veste architettonica dell'alzato che, attenendosi al modello dei broletti lombardi della prima metà del Duecento, era contraddistinta a pianoterra da un vasto ambiente porticato dotato di sostegni monolitici con capitelli a dado scantonato, sopra cui insistevano una o più aule, raggiungibili tramite una scala esterna e fornite di almeno quattro trifore sul lato nord. Il fatto che per questo settore della domus imperiale siano state ravvisate convergenze sul piano progettuale con il locale palazzo vescovile, rifatto dall'architetto Rolandello nel 1232-1234, e per il disegno delle trifore con i vani finestrati del palazzo del podestà, documentato per la prima volta nel 1243 (Schulz, 1982, p. 287; Valenzano, 1995), concorre a circoscrivere agli stessi anni il prolungamento della magione, così da ricollegarne l'edificazione alla committenza federiciana del 1238.
Nulla di sicuro si può invece affermare riguardo al modo in cui la residenza sveva si veniva a relazionare con il contestuale circuito difensivo, di cui non si conosce il percorso. Se è presumibile che la domus si disponesse al centro della corte e in posizione isolata rispetto alle mura, le strutture superstiti rivelano da un lato la piena adesione della fabbrica al linguaggio degli edifici pubblici e di rappresentanza padani, dall'altro lato rappresentano un modello di residenza urbana fortificata alternativo al castrum ad ali con funzioni palaziali, applicato in anni immediatamente precedenti nelle principali città della Campania e della Puglia (Napoli, 1223, 1233; Aversa, 1223; Bari, 1230 ca.; Trani, 1233; Brindisi, 1233). Questa tipologia fu esportata nel Settentrione della penisola soltanto dopo il 1241, con la realizzazione del castello toscano di Prato (Agnello, 1954; Kappel-Tragbar, 1996).
Ancora lontana dall'essere dipanata è la vicenda della turris Cartularia, la cui mole s'innalzava dalla seconda metà del XII sec. sulle "radici del Palatino", a breve distanza dall'arco di Tito, sfruttando come fondazione il basamento in blocchi di peperino del tempio di Giove Statore (Fasella, 1990; Cecamore, 2002, pp. 129-145). Dopo essere a lungo appartenuta alla famiglia Frangipane (Augenti, 1996, pp. 90-92), la torre passò nelle mani di Federico II presumibilmente al principio degli anni Trenta nel clima di temporanea pacificazione tra Papato e Impero scaturito dal trattato di San Germano (1230) e l'insediamento, posto ai margini orientali del Foro, costituiva l'emblema della presenza imperiale nell'Urbe. E a caricarlo di tali valenze non contribuiva tanto la configurazione di residenza turrita, peraltro comune a molti casamenti del baronato romano, quanto la sua particolare ubicazione topografica, tale da farne un vessillo piantato nel cuore monumentale della città antica e nel mezzo di quell'asse ‒ al contempo stradale e visivo ‒ che aveva come capi il Palazzo Senatorio sul colle capitolino e il complesso pontificio del Laterano.
In questo caso la ricostruzione della turris dei Frangipane si rese necessaria a seguito dei danni apportati nel 1235 dalla fazione filopapale (Le Liber Censuum, 1889-1910, II, p. 28) e dopo il suo collasso strutturale verificatosi nel luglio del 1239, come annota Riccardo di San Germano nei Chronica (1936-1938, p. 202). A quattro mesi di distanza da quest'ultimo evento la Corona ne decise il ripristino. Ciò è attestato da tre mandati del 15 e 17 ottobre, mediante i quali Federico II ‒ allora accampato alle porte di Milano ‒ incaricava il magister Giovanni di San Germano, fratello del notaio Riccardo, di recarsi subito a Roma per sovrintendere all'impresa, affinché "super edificiis Cartolarie juxta formam pristinam procedatur" (Historia diplomatica, V, 1, pp. 450-451).
Si evince, dunque, che le condizioni di rudere, oltre a rendere inagibile il monumento, ledevano il prestigio del potere imperiale in una città ostica, e che le parole del mandato esplicitavano un tipo di intervento volto a rispettarne il primitivo assetto. Tuttavia, il fatto che nelle carte federiciane sia costantemente adoperato il termine edificiis al posto di turris è la spia di come sulle pendici del Palatino il sovrano controllasse un organismo ben più articolato, il quale forse incorporava la munitio addossata al fianco dell'arco di Tito sul lato verso la basilica di S. Maria Nova (odierna S. Francesca Romana), anch'essa appartenuta ai Frangipane, e quindi lo stesso arco di trionfo.
Di tale compagine non è oggi possibile dare un'attendibile restituzione tranne che per la torre, scapitozzata nel 1257 al tempo del senatorato di Brancaleone degli Andalò e definitivamente atterrata nel 1829, con l'eccezione di una porzione dello spigolo sudorientale. La sua veste architettonica si ricava sia da alcune vedute cinque-seicentesche del versante settentrionale del Palatino, sia attraverso la descrizione che ne seppe fare Antonio Nibby (Nibby, 1839, pp. 471-472; Ashby, 1928; Augenti, 1996, pp. 93, 142-143). Il manufatto fu riedificato nel 1239 sulle vestigia della più antica turris Cartularia, facendo uso quasi esclusivo di laterizio di recupero, e replicava in forme monumentali caratteristiche progettuali delle case-torri duecentesche, con un quadrangolo di base che misurava 12,7 x 10,7 m, finestre rettilinee ‒ con mostre a listelli di calcare o marmo ‒ aperte al centro dei piani alti, e un portone volante sul prospetto occidentale, tale da conferirgli una totale autonomia e un dispositivo di difesa ridotto all'essenziale. Si trattava, in ultimo, di un esemplare in linea con la tradizione costruttiva locale, ma che comunque dimostrava di possedere fattezze e prerogative di un vero e proprio mastio residenziale, un genere edilizio fino ad allora ignoto alla committenza romana e potenziale modello della domus fortificata fatta realizzare nel 1244 dal vicario pontificio, il cardinale Stefano Conti (m. nel 1254) lungo lo scosceso fronte settentrionale del monastero dei Ss. Quattro Coronati sul Celio.
Relativamente alle altre due imprese sveve note attraverso i documenti duecenteschi, ovverosia i palatia di Foligno e di Viterbo, ambedue le iniziative s'inscrivono nel quadro di riconquista dei territori dell'Italia centrale assoggettati al dominio della Chiesa, azione culminata con l'istituzione dei vicariati delle Marche, dell'Umbria e della Tuscia tra l'estate del 1239 e il febbraio del 1240.
Conseguenza diretta della riforma amministrativa federiciana fu anche la volontà di allestire idonee residenze nei capoluoghi dei nuovi distretti, operazione che fu accompagnata dall'erezione del presidio curiale di Spello (Sensi, 2001, pp. 91-95), mentre alcune comunità urbane pianificavano un allargamento dell'abitato murato (Foligno; Schubring, 1988; 1990; 1993) o apportavano migliorie alle mura, come attesta l'iscrizione posta sulla porta di S. Bartolomeo nel borgo umbro di Coccorone (odierna Montefalco), a ricordo della sua costruzione nel 1244, al tempo del podestà Leopardo e a opera di un Petrus magister (Nessi, 1977, pp. 73, 87 n. 182).
Nel caso di Foligno, da sempre fedele roccaforte ghibellina, l'esistenza di una magione non è registrata da documenti coevi, ma è menzionata per la prima volta in una bolla di Alessandro IV datata 2 marzo 1255, mediante la quale si autorizzava la locale comunità francescana a occupare il "palatium Curiae [...] quod imperiale vocatur" per farne il proprio convento. In una seconda bolla, di tre anni più tarda e sempre destinata ai Frati minori, è esplicitamente indicata l'area in cui si trovava l'edificio, confinante con la nuova cerchia cittadina, ed è descritto l'insediamento costituito da una recinzione in muratura che conteneva il cortile con il palazzo (Sbaralea, 1761, II, pp. 19 n. 26, 272 n. 398; Sensi, 2001, pp. 88, 90).
Il contenuto degli atti pontifici stabilisce in maniera inequivocabile che la residenza era localizzata dove ancora oggi si eleva la chiesa di S. Francesco con il cenobio mendicante e cioè in un'area allora periferica del quadrante sudorientale dell'abitato, inclusa all'interno delle mura nel corso degli anni Quaranta del XIII sec. (Schubring, 1988; 1990; 1993). Malgrado le bolle non facciano di proposito luce sulla paternità federiciana del monumento, sono le sole carte a riportare l'esistenza di un palatium a Foligno e ciò rende plausibile l'ipotesi che vuole ancorarne la fondazione alla decisione presa dal comune ‒ il 9 febbraio 1240 ‒ di allargare la cinta urbana, un provvedimento maturato durante il lungo soggiorno dell'imperatore nella città umbra (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 205; Sensi, 2001, pp. 82-84). Pertanto la domus veniva a costituire uno dei capisaldi di un progetto urbanistico di più ampia portata destinato a trasformare l'assetto di Foligno anche in funzione del recente ruolo di capoluogo distrettuale, e la fabbrica ‒ a differenza di quelle di Parma e Roma ‒ non doveva sfruttare strutture preesistenti ma partire da zero. Purtroppo il murus claustri palatii della bolla del 1258 segnala soltanto l'organizzazione della residenza imperiale: troppo poco per avere un'idea concreta del complesso svevo, le cui sorti furono segnate dalle esigenze del subentrante insediamento minoritico.
Abbondante è invece la documentazione inerente l'impresa viterbese, in assoluto la più ricca per quanto riguarda una committenza dell'imperatore Federico II. Essa raccoglie infatti ben quarantuno atti, che, stipulati nei giorni 26 febbraio, 22 e 30 marzo del 1243, furono poi trascritti quarant'anni più tardi nel Liber memorie omnium privilegiorum et instrumentorum et actorum communis Viterbii e protocollati alla voce "domus palatii imperatoris" (1990, pp. 46-58, nrr. 126-166). Si tratta, quasi certamente, di tutti i contratti relativi all'acquisto di case e terreni privati stipulati dal giudice pugliese Maggiore di Giovinazzo in rappresentanza del sovrano. Gli immobili erano concentrati tanto incontrata e inhora di S. Giovanni degli Zoccoli, quanto in contrata e in hora della limitrofa S. Maria Podii o in Poggio (l'attuale basilica della Crocetta), e tutt'insieme formavano un'ampia proprietà demaniale, situata a ridosso del tratto orientale delle mura urbane e in posizione dominante sull'abitato viterbese.
Nell'area in questione, oggi racchiusa tra la tortuosa via del Palazzaccio e la cinta cittadina medievale, la cronaca quattrocentesca di Niccolò della Tuccia, (Cronache di Viterbo e di altre città, 1872) così come la successiva storiografia locale, ha ritenuto che fosse stata elevata la magione imperiale, rasa al suolo dal cardinale e legato pontificio Raniero Capocci subito dopo la morte dell'imperatore Federico II (1250). Inoltre la tradizione individua nei ruderi di un casamento a settentrione della porta della Verità le vestigia della residenza, al di sopra della quale ‒ sempre secondo il resoconto di Niccolò della Tuccia ‒ furono tracciate le nuove mura, sicché "mezzo ne istava di fuori di detta città" (Niccola della Tuccia, 1872, p. 30; Pinzi, 1887, I, p. 496).
In realtà nulla prova la realizzazione del complesso palaziale in quel breve lasso di tempo che corre dalla data di acquisto degli immobili alla cacciata degli imperiali dal capoluogo della Tuscia, avvenuta nell'ottobre del medesimo anno.
Al contrario tutto fa credere che l'operazione si arrestò in un primo momento all'acquisizione di una zona in via di urbanizzazione, in quanto la maggior parte degli stabili risultava priva di tetti e di tegole, per essere quindi ripresa tra il 1247 e il 1250, durante la seconda fase della signoria sveva su Viterbo. Soltanto allora fu pianificata la costruzione del palazzo, ma non si dovette andare oltre un inizio dei lavori, perché una rubrica degli Statuta comunali del 1251 lo registra come "inceptum" (Niccolò della Tuccia, Cronache di Viterbo e di altre città, 1872, pp. 343-344; Pinzi, 1887, I, pp. 373-374). Ed è dunque verosimile che quanto era stato edificato venisse smantellato negli anni a seguire anche per ricavare materiale con cui elevare il nuovo fronte orientale della cinta urbana, dove in effetti l'apparecchio murario è allestito utilizzando materiale lapideo di recupero, tra cui alcuni blocchi in peperino a bugnato piatto. D'altronde l'immediata demolizione della domus trova una conferma indiretta in un documento del giugno del 1254, nel quale il vicario del podestà di Viterbo si appropriava delle proprietà di cui era entrata in possesso la Curia nel 1243 e, nel registrare i beni, non si menzionava specificamente l'edificio, bensì "de casalinis et ortis et tota tenuta palatii imperatoris Frederici" (Liber memorie, 1990, p. 95, nr. 280).
A fianco di queste iniziative rimangono nel Regno d'Italia sporadici segni di una committenza federiciana che non rientri nella classe di monumenti fin qui esaminati, né nell'ambito dell'edilizia fortificata. Di fatto, ancor più di quanto si verifica nel Regnum Siciliae, quasi del tutto inconsistente è l'evergetismo a favore del mondo religioso, tanto secolare che monastico (Belli D'Elia, 1995). Il tutto, per l'appunto, si riduce a due singoli episodi, ovvero il portale ogivale di facciata dell'abbaziale cistercense di Fossanova, nella Marittima laziale, e la fondazione della cattedrale di Vittoria, presso Parma: l'uno peraltro presunto, l'altra rimasta quasi nelle intenzioni.
L'intervento imperiale nel cantiere di Fossanova è stato circoscritto al blocco di ingresso timpanato della chiesa in base all'iscrizione "Fridericus imperator semper augustus hoc opus fieri fecit" che un tempo correva sulla lunetta. L'identificazione del "Fridericus" nominato nel testo della perduta epigrafe con Federico II e non con l'avo Barbarossa, come ancora di recente la critica ha sostenuto (De Rossi, 2002, p. 42), sarebbe motivata dalla cronologia pienamente duecentesca del manufatto, e il patrocinio troverebbe una più che ragionevole giustificazione nello stretto legame instauratosi sin dal principio degli anni Venti tra la Curia sveva e l'ordine di Cîteaux (Cadei, 1980, pp. 210-211). Riguardo la chiesa vescovile di Vittoria, nei pressi, come detto, della città di Parma, la cui costruzione ebbe inizio in contemporanea con la fondazione della città emiliana nell'ottobre del 1247 e che assieme a essa fu distrutta alcuni mesi dopo dalle milizie parmigiane, si sa esclusivamente che era dedicata a S. Vittore (Salimbene de Adam, 1905-1913, p. 194).
A sé stante, dato l'inusuale tipo di committenza, era l'organismo architettonico innalzato sul Campidoglio per custodire i resti del Carroccio milanese, di cui Federico si era impadronito con la vittoria a Cortenuova nel novembre del 1237. Alla stregua di un novello "Cesare", l'imperatore nell'aprile dell'anno successivo aveva inviato a Roma il segno del suo trionfo sui ribelli comuni lombardi e aveva imposto la realizzazione di un apposito monumento da collocare nel Palazzo Senatorio, all'interno del quale il trofeo fu appeso, come allude l'epigrafe composta da tre distici elegiaci: + CESARIS AVGVSTI FRIDERICI ROMA SECVNDI DONA TENE CURRVM P[ER]PES IN URBE DECVS / HIC MEDIOLANI CAPTVS DE STRAGE TRIVMPHOS CESARIS UT REFERAT INCLITA PREDA VENIT / HOSTIS IN OPP[RO]BRIVM PENDEBIT IN VRBIS HONOREM MICTITVR HVNC VRBIS MICTERE IVSSIT AMOR (Guarducci, 1984; 1986).
Problematica si configura la ricostruzione del monumento, di cui si conservano il lungo architrave marmoreo (Palazzo Senatorio, Sala del Carroccio), sopra il quale è apposta l'iscrizione dedicatoria in lettere capitali con l'inserimento di elementi gotici, e una coppia di colonne in verde antico con relativi capitelli ionici (Palazzo dei Conservatori, Sala dei Capitani). Tali elementi, insieme ad alcune colonne in granito grigio oggi non più rintracciabili, furono riscoperti nel 1727 dal marchese Alessandro Gregorio Capponi nelle carceri capitoline, dove erano stati murati forse durante il pontificato di Sisto V (Modena, Biblioteca Estense, Archivio Muratoriano, f. 58, fasc. 26; Guarducci, 1984). Tuttavia lo smembramento della fabbrica federiciana era avvenuto tempo addietro e anteriormente alla metà del XV sec., allorché le sue spoglie erano state osservate da Nicolò Signorili "in claustro Cancellerie capitolii dictii pallatii". È comunque certo che il complesso, sopravvissuto alla subi-tanea distruzione del cimelio da parte dei romani (Salimbene de Adam, 1905-1913, p. 95), non fu smantellato nel corso della costruzione del nuovo palazzo comunale, intrapresa da Brancaleone degli Andalò entro il 1257, perché è menzionato nella cronaca di Tomaso Tosco, scritta sul finire dell'ottavo decennio del Duecento (1872, p. 513).
Quanto si era salvato al momento del rinvenimento settecentesco sta a indicare che i pezzi provenivano da una struttura a giorno di modeste proporzioni. Questa possedeva una fronte trabeata, lunga intorno ai 6 m, ed era sorretta da almeno quattro colonne di reimpiego, le quali, oltre ad avere un'altezza di circa 11 palmi (2,47 m) e un diametro di un palmo e mezzo (33,51 cm), dovevano essere provviste di capitelli ionici. Se comunque appare indiscutibile la fattura romana dell'opera, del tutto aperta rimane la tipologia del manufatto architettonico al cui interno erano appesi i resti del Carroccio. Infatti, sia l'architrave sia i sostegni hanno un formato tale da essere riconducibili a un portico che si doveva verosimilmente addossare al Palazzo Senatorio, ma al tempo stesso nulla esclude che costituissero gli elementi di un baldacchino, il quale avrebbe trovato un'idonea collocazione in un'aula dell'edificio comunale.
Fonti e Bibl.: N. Signorili, Descriptio Urbis Romae eiusque excellentia, in Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chigiano I, VI 204, c. 27v; J.H. Sbaralea, Bullarium franciscanum, II, Romae 1761, pp. 19 nr. 26, 271-273 nr. 398; Statuta Communis Parmae, I, Parmae 1856, pp. 41, 207; II, 1857, p. 142; Historia diplomatica Friderici secundi, V, 1, pp. 161-163, 450-453; Annales PlacentiniGibellini, in M.G.H., Scriptores, XVIII, a cura di G.H. Pertz, 1863, p. 480; Tomaso Tosco, Gesta imperatorum et pontificum, ibid., XXII, a cura di G.H. Pertz, 1872, p. 513; Niccola della Tuccia, Cronache di Viterbo e di altre città, in I. Ciampi, Cronache e Statuti della Città di Viterbo, Firenze 1872, pp. 20, 30, 343-344; Le Liber Censuum de l'Église Romaine, a cura di P. Fabre-L. Duchesne, I-II, Paris 1889-1910: II, p. 28; Chronicon Parmense, in R.I.S.2, IX, 9, a cura di G. Bonazzi, 1902, p. 49; Salimbene de Adam, Cronica, in M.G.H., Scriptores, XXXII, a cura di O. 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