Giudici, Regno d'Italia
Nel corso del lungo periodo federiciano giunse a maturazione una trasformazione profonda delle istituzioni pubbliche nel Regno. Essa non poté non investire anche la collocazione dei giudici. In primo luogo, perché questi furono volta a volta espressione e momento della politica di Federico e/o delle città nel loro spesso drammatico conflitto con l'imperatore; in secondo luogo, perché essi erano gli eredi di una tradizione ormai molto antica e al tempo stesso un gruppo culturale e sociale fortemente rinnovato, in quanto investito in prima linea dalle novità introdotte dalla cultura universitaria ‒ molto diffusa in quel tempo proprio nelle aree del Regno.
Gli iudices erano presenti naturalmente anche prima del periodo federiciano, in particolare nella documentazione giudiziaria, pervenuta in modo relativamente ricco per il Regno. In essa compaiono al tempo stesso nel ruolo di consiglieri delle autorità pubbliche che presiedono il tribunale (re, vescovi, marchesi, conti), nel senso che cooperano con loro alla formazione della decisione, sia come presidenti della corte giudicante, già preannunziando la figura del giudice che amministra la giustizia e giudica in prima persona (v. già i casi per la Romagna in Ficker, 1868-1874, III, ad es. pp. 271-272, 321). In alcuni tribunali, come in quello della contessa Matilde, gli iudices possono anche comparire affiancati da causidici, denominati talvolta anche iuris periti o in modo analogo: in qualità di esperti questi fungevano da consiglieri sia dei giudici che delle parti in causa (Fried, 1974, p. 37); nel corso del sec. XII si trovano anche designati come sapientes o advocati (Ficker, 1868-1874, III, pp. 96-102). Nello stesso secolo gli iudices, prima presenti in maggioranza nei tribunali, si riducono spesso a tre circa (come in Muratori, 1738-1742, II, p. 503, anno 1194, dove compare un imperialis curie judex che opera consilio sociorum meorum, ossia di tre colleghi ugualmente imperialis curie judicum, uno di Cremona, un secondo di S. Ginesio e il terzo di Piacenza). Al tempo stesso si nota una maggiore professionalizzazione della carica.
Prima, per lo più, gli iudices provenivano da famiglie di nobili (Fried, 1974, pp. 30-32; Keller, 1995, pp. 287-288, 327-328) o almeno dal ceto dirigente cittadino e non è provato che avessero una preparazione giuridica specifica; era la loro pratica nell'espletamento dell'ufficio di giudice che li portava comunque alla conoscenza di tecniche appropriate anche se non 'dotte', cioè di formazione scolastica. La loro contiguità con il potere politico ci fa capire come fosse normale che in alcune famiglie la carica ‒ e assieme ad essa, probabilmente, molte conoscenze ‒ si trasferisse di padre in figlio (Ficker, 1868-1874, III, p. 27; Fried, 1974, pp. 163-164), associata talvolta a quella di notarius (Ficker, 1868-1874, III, p. 97) ‒ come risulta per Lucca dal sec. X, oppure per Firenze e Pistoia dall'XI: a Lucca dal 1160 l'associazione diviene la regola, mentre a Pisa essa continua a essere un'eccezione (Meyer, 2000, pp. 88-89).
I processi accelerati di scritturazione che si notano nel corso del sec. XII sollecitano comunque la professionalizzazione della carica, unitamente alla diffusione della cultura giuridica ‒ personificata da Irnerio, il primo protagonista della Scuola di Bologna, attestato come iudex in documenti famosi (Spagnesi, 1970) ‒, che si traduce anche nella diffusione degli ordines iudiciarii, sorta di manuali per il nuovo processo di derivazione romanistica (Fowler-Magerl, 1994). Diviene normale, ad esempio, mettere per scritto la sentenza e darne lettura al momento di annunciare il verdetto, per lo più in seduta (Ficker, 1868-1874, III, pp. 300-303). Anche il compimento di studi giuridici diviene la regola: per i giudici di Lucca, ad esempio (per i quali v. il dettagliato studio di Wickham, 2000, pp. 96-100; per l'area emiliana cf. Fried, 1974).
Per quanto riguarda la nomina dei giudici bisogna però ricordare una complicazione che introduce alle questioni più intricate del periodo federiciano. Essa discende dal nuovo ruolo che le città si assicurarono nel corso del sec. XII, dapprima in singoli casi grazie a diplomi ufficiali o anche informalmente, e poi in modo generalizzato grazie all'interpretazione dominante che si dette della pace di Costanza del 1183, quella che concluse il grande scontro tra Federico I e i comuni della Lega lombarda.
Infatti, per effetto della prolungata assenza dei sovrani dall'Italia nella prima metà del sec. XII e della crescita anche istituzionale delle città (a un tempo causa ed effetto di quella assenza), si ebbero sia giudici di nomina regia (e tale era sempre stata ritenuta la competenza per queste nomine: v. ad esempio Ficker, 1868-1874, II, p. 88) che giudici di nomina comunale.
Tali erano infatti i consoli che si affermarono spesso proprio in veste di giudici, anche se a volte soltanto arbitrali. La presenza in un comune di appositi consules de iustitia, cioè specificamente addetti all'amministrazione della giustizia, attesta anche formalmente l'acquisizione di questa competenza, di cui i comuni andavano molto fieri perché consacrava la piena autonomia da loro raggiunta.
I consoli erano i giudici della città e ne amministravano il diritto prodotto autonomamente: esso risultava dai brevia di cui i consoli stessi giuravano l'osservanza e dai primi statuti cittadini per Pisa (v. Storti Storchi, 1998). I consoli potevano essere giudici e ormai anche giuristi importanti, divenuti a volte celebri, come Oberto dall'Orto redattore dei Libri feudorum (1154-1158), operante a Milano, città che ha lasciato documenti giudiziari ricchi e importanti (Classen, 1983; Manaresi-Baroni-Perelli Cippo, 2000; Grillo, 2001).
La teoria, insegnata dai giuristi bolognesi e difesa dalla corte imperiale, era comunque che ogni iurisdictio discendeva dall'imperatore, per cui anche chi amministrava la giustizia nel Regno d'Italia doveva direttamente o indirettamente averne ricevuto mandato dal re-imperatore. Perciò i comuni di Pisa e di Genova, per tanto tempo alleati dell'Impero e dunque disponibili ad accogliere le sue concezioni dell'ordine costituzionale, ebbero tanta cura nel farsi riconoscere il potere di amministrare la giustizia. Queste idee si leggono con chiarezza nel diploma per la Pisana civitas del 1162 (M.G.H., Diplomata, 1975-1990, 2, nr. 356), che va ricordato in dettaglio sia per la ormai prevalente cultura romanistica che attesta, sia perché sarà il modello per altri atti analoghi concessi da Federico II (in particolare ancora Genova 1220: Historia diplomatica, I, p. 869); ebbene, in esso si garantisce a Pisa una piena giurisdizione, comprensiva dell'amministrazione della giustizia, con le competenze che oggi chiamiamo di 'volontaria giurisdizione' ("plenam jurisdictionem et potestatem faciendi iusticiam et etiam vindictam et dandi tutores et mundualdos et alia, que iudex ordinarius vel quilibet protestate preditus ab imperatore habere debet ex sua iurisdictione in suo districtu et in suos"). Già prima di Federico II, quindi, abbiamo la concorrenza di giudici reali e di giudici cittadini, con una diversa fonte di legittimazione diretta. I primi sono per lo più designati come imperialis curie iudices (Regesta Imperii, V, 1, nr. 1123) o più semplicemente iudices curie (ibid., nr. 1168).
Si capisce ora come nel periodo federiciano i giudici del Regno d'Italia potessero ormai essere una presenza importante sul piano istituzionale, culturale e sociale. Nelle città in rapidissimo e tumultuoso sviluppo essi, assieme ai notai (v. Notai, Regno d'Italia), da tempo ormai dominavano la vita giuridica locale, nella quale si rendeva sempre più necessario il ricorso al loro aiuto professionale, prestato in ossequio alla sempre più nota e complessa dottrina dei giuristi di cattedra, richiamo di studenti da tutta Europa nei nascenti Studi delle città più vivaci del Regno (Orfino da Lodi, 1998; Cecchini, 1911-1912; Walther, 1986; Redon, 2000).
A stretto contatto con loro erano i notai, il cui numero si moltiplicò rapidamente (anche se non in modo esponenziale come nel secondo Duecento) nel corso del periodo federiciano. Recenti ricerche (Meyer, 2000, pp. 328 e 332) ci ricordano che a Lucca, ad esempio, i notai passarono da circa ottanta nel 1220 a circa centonovanta nel 1250. Essi dettero forma, secondo formulari che divennero proprio allora molto tecnici grazie allo sviluppo delle scuole professionali ‒ in particolare di quella bolognese, illustrata da teorici importanti come Salatiele e Ranieri da Perugia ‒, alle infinite disposizioni giuridiche che l'intensificarsi e tecnicizzarsi delle relazioni sociali rendevano sempre più frequenti, mentre lo svolgimento dei processi teneva sempre più conto degli ordines iudiciarii.
A un altro livello (quando non sono loro stessi anche dei notai) incontriamo i giudici, che divengono operativi in alcuni settori fondamentali per la vita pubblica del tempo. I giudici cittadini erano ufficiali nelle corti locali e ne amministravano la giustizia ordinaria (fino all'affermarsi del sistema podestarile, quando furono sostituiti dai forestieri per dettato statutario); erano arbitri eletti dalle parti che volevano evitare la giustizia ordinaria o arbitri al cui ricorso costringeva la legislazione cittadina quando nel caso di litiganti appartenenti a determinate categorie (ad esempio congiunti o soci commerciali); erano consulenti dei privati e delle istituzioni locali, comuni, associazioni di ogni genere ‒ dai consorzi gentilizi, alle corporazioni d'arti e mestieri, agli enti ecclesiastici ‒ che avevano sempre più bisogno di dare forma giuridica alle proprie attività ed erano spesso in lite tra loro; erano chiamati come assessori dei podestà a ricoprire le funzioni di giudice a latere, civile o criminale, nelle città che sempre più spesso adottavano il sistema del governo affidato a un podestà forestiero (Vallerani, 1998); infine, erano loro richiesti lucrosi pareri ufficiali da parte dei giudici locali in conseguenza dell'affermarsi del sistema del consilium sapientis, cioè dell'istituto processuale per cui la corte affidava la soluzione delle questioni più delicate al parere dotto del tecnico esterno al tribunale (Ascheri, 1999).
Tra le loro svariate attività furono soprattutto importanti quelle discendenti dalla loro posizione di tecnici del diritto a livello locale. Ciò comportò, in primo luogo, che le istituzioni si riferissero 'naturalmente' ad essi per orientare la propria attività: come sapientes i giudici concedevano consilia ai pubblici poteri sull'esempio autorevolissimo di quanto avevano già fatto i 'quattro dottori' bolognesi a Roncaglia a favore del Barbarossa. Si pensi alla loro utilità per dar forma giuridica alle relazioni intercittadine ‒ che richiedevano l'uso di paradigmi di governo comuni, quando non addirittura l'adozione di organi comuni di soluzione dei conflitti, come in occasione della seconda Lega lombarda (Chiodi, 1999) ‒, ma anche alla loro collaborazione tecnica per la redazione degli statuti, per i libri di diritto dei comuni, la cui elaborazione ricevette forte impulso dopo la pace di Costanza e, soprattutto, dopo l'adozione del sistema podestarile, che richiedeva la predisposizione di testi normativi per quanto possibile chiari ed esaustivi da sottoporre al giuramento e all'applicazione delle équipes podestarili.
Il ricorso ai giudici rispondeva a un bisogno politico-ideologico profondo di queste istituzioni locali spesso nate dalla ribellione, e quindi nella illegittimità formale. La giustizia doveva essere affermata e accreditata come il valore supremo di questi organismi politici (Rubinstein, 2001). Il culto della giustizia era proprio quel che li distingueva dalle tirannidi, come già diceva Giovanni di Salisbury (1909, VIII, XVII). Perciò la letteratura politica del tempo dava molta importanza ai giudici ed era essa stessa prodotto spesso di giuristi operanti localmente come 'giudici' (Cecchini, 1911-1912; Artifoni, 1994). L'Oculus pastoralis, ad esempio, riportato ora al 1222, ora al 1240-1242, e quindi comunque al periodo federiciano, indica che la forma legittima del potere era proprio quella pastoralis, e perciò il baculum portato dal capo dell'équipe podestarile era "simillem baculo pastorali, quem tenet Ecclesia ob figuram" (Franceschi, 1966, VI, 5); il giudice sentenziava non "ex arbitrio suo […] sed iuxta leges et iura" (ibid., II, 5).
Paradossalmente, però, la permanente centralità in città dei 'giudici' locali si spostò dalle corti comunali agli studi professionali o nel servizio al seguito di un podestà in città forestiere. Questo sistema comportò, infatti, che il giudice locale potesse operare nelle corti della propria città di regola come consulente esterno (consilia sapientum) o come avvocato di una parte; insomma, il giudice non era più un giusdicente in 'patria', ma in qualità di avvocato o consulente realizzava una sorta di contrappeso al formale predominio locale di giudici (giudicanti) forestieri.
Il prestigio e la pluralità di funzioni da loro svolte furono però rafforzati da questa nuova situazione. Non a caso nel periodo federiciano si hanno le prime prove sicure di una loro organizzazione in collegia (Trombetti Budriesi, 1990), a volte assieme ai notai, ma talvolta anche autonomamente. A Firenze, per la quale possediamo un'attestazione precoce (dato che quella di Siena, spesso citata per il 1176, non riguarda un collegio vero e proprio), si parla di rectores iudicum et notariorum già al 1212 (Davidsohn, 1901, III, p. 229); le altre attestazioni sono però più recenti, anche se può naturalmente significare soltanto che menzioni più antiche sono andate perdute: Bologna 1252, societas iudicum (Fasoli, 1974, p. 619; qui i notai, dei 'popolari', tennero molto a distinguersi dai 'nobili' giudici), Padova 1260 (Hyde, 1985, p. 124). Ciò significa che essi erano riusciti non solo ad affermare la specialità della propria organizzazione ‒ i collegia non sono semplici 'arti', in latino denominate in modo a-valutativo come universitates, ma associazioni più 'nobili' già nel nome come collegia di tradizione romanistica, che si trova usato anche per indicare soltanto l'organizzazione dei doctores degli Studi universitari istituzionalizzati nel corso dello stesso secolo dagli interventi sia pontifici che imperiali (Nardi, 1992) ‒, ma che si erano anche fatti riconoscere il monopolio e l'organizzazione della vita giuridica a livello locale.
Una carica tanto prestigiosa non poteva più essere ereditaria in alcune famiglie delle élites locali. Proprio durante questo primo Duecento la tecnicizzazione della vita giuridica impose l'abbandono delle pratiche tradizionali e l'adozione di standards professionali superiori, che comportarono probabilmente corsi di apprendistato rigorosi ed esami finali anteriori all'accesso del giovane alla professione, così come avveniva contemporaneamente per l'accesso alla professione notarile. Del resto è quel che avveniva per i giudici al seguito dei podestà, che gli statuti cittadini sempre più spesso esigevano addottorati o almeno con una certa anzianità come studenti. Gli statuti di Verona del 1228 richiedevano tre anni di studio (Ficker, 1868-1874, III, p. 28; per quelli di Brescia, ibid., senza data, ma v. la redazione del 1313 con rubriche certamente risalenti al primo Duecento in Statuti di Brescia, 1877, III, 202) e il cosiddetto 'privilegio teodosiano' per lo Studio di Bologna, un famoso falso concepito tra il 1226 e il 1234, prescriveva cinque anni (Fasoli, 1974, p. 618); la tendenza in generale fu verso requisiti più rigorosi (Padova 1265: sei anni; Ficker, 1868-1874, III, p. 28).
Certo i giudici riuscirono a controllare localmente l'accesso indiscriminato alla qualifica, dato che abbiamo indicazioni precise che il loro numero fu di regola assai più limitato rispetto a quello dei notai. A Lucca, ad esempio, nel 1220 solo venti persone (circa) dovevano recare il titolo di iudex, che raggiunsero le trenta unità nel 1250 (Meyer, 2000, p. 332). Il rapporto numerico tra le due qualifiche giuridiche a livello locale è bene espresso da un dato padovano: nel 1254, un accordo con Cremona fu firmato da quattordici giudici e da ben ottantasei notai (Hyde, 1985, pp. 59, 123).
Ma ci furono naturalmente altri giudici nel Regno d'Italia, quelli più propriamente federiciani, anche se mai oggetto di una disciplina generale con la quale Federico potesse programmaticamente aspirare a dare loro compiti uniformi e stabili ‒ come avvenuto invece nel Regno di Sicilia ‒ in conseguenza dell'incerto e fluttuante dominio esercitato di fatto nel Regno. Egli infatti legiferò in modo assai modesto per il Regno (v. Constitutio in basilica beati Petri), e comunque non poté mai proporsi concretamente di emanare una normativa per l'amministrazione del Regno d'Italia ‒ ed è un aspetto del suo doversi limitare a fronteggiare l'emergenza.
Perciò, a parte i giudici cittadini fin qui considerati, si devono distinguere quelli direttamente dipendenti da Federico e quelli invece da lui semplicemente riconosciuti come tali e lasciati a esercitare autonomamente la giustizia. Gli uni e gli altri sono comunque molto espressivi di quella specie di combattuta diarchia che caratterizzò con alterne vicende il più che trentennale periodo federiciano nel Regno. Infatti, quelli soltanto riconosciuti con i poteri di iudices legittimi ma autonomi per privilegio (per i quali v. in particolare Zorzi, 1994) erano dei potenti del Regno ‒ città o signori ‒ con i quali Federico sperava di intrecciare un solido rapporto di alleanza o che voleva impiegare a fini politici specifici, ad esempio per indebolire dei nemici vicini. Così lo vediamo nel 1219 garantire ad Alba "omnimodam iurisdictionem […] crimine lesae maiestatis dumtaxat excepto" (Historia diplomatica, I, pp. 689-691); nel 1220 al piccolo centro di Poggibonsi "plenam iurisdictionem" al fine di esonerarla "a comitatu et districtu ac iurisdictione Florentie et omnium civitatum Tusce, ita quod non respondeant in aliquo nisi Imperio nec aggraventur vel requirantur ab aliqua civitate" (ibid., II, pp. 37-40), mentre per Genova si parlò di "facultatem liberam faciendi iustitiam, puniendi maleficia in civitate et in districtu suo […] et cetera omnia que iudex ordinarius habere debet ab imperatore in sua iurisdicitone" (ibid., I, p. 869), e per gli advocati di Lucca, sempre in quel 1220 (ibid., II, p. 84), sopraggiunse il riconoscimento a "comites palatii et missi domini imperatoris" con la conseguenza che "potestatem et ordinariam iurisdictionem eis […] concedimus iudices faciendi sive mittendi, notarios faciendi et mittendi, emancipationes celebrandi […] homines pena sui banni alligandi et publicandi et viarum publicarum destructores multa puniendi et pugnam legaliter ordinandi vel imperandi"; a Modena concesse "iurisdictionem plenam tam in criminalibus quam in civilibus causis in civitate et extra in districtu et comitatu suo" (ibid., pp. 614-617) qualche anno dopo, nel 1226, ossia nello stesso anno in cui si riconosceva che il vescovo di Imola e i suoi successori in città e nell'episcopato fossero "iudicem ordinarium, dantes ei plenam et liberam potestatem atque iurisdictionem quicquid ratio iuris expostulat tam in maioribus quam in minoribus, pupillis et viduis" (ibid., p. 657). È coerente con questi atti la pratica di delegare a propri nuncii gli appelli (come nell'atto del 1219 per il territorio di Parma: ibid., I, pp. 608-610) o addirittura di rinunciare ad essi. Ad esempio, quando nel 1216 Federico concesse a Como la giurisdizione su "causas appellationum quae ad Imperium spectant tam in civitate quam in districtu" (ibid., p. 467) e nel 1220 per Bergamo e il suo distretto concessione analoga fu fatta a Rodolfo "de Noxa et Suzoni Coleono" (ibid., II, pp. 56-58), mentre quella al vescovo di Volterra riguardò "totam Tusciam" (ibid., pp. 41-45). L'anno successivo però lo stesso legato in Italia, Corrado vescovo di Spira e di Metz, che nel 1220 si era pronunciato con una sentenza riguardante il noto monastero toscano di S. Michele di Marturi (Regesta Imperii, V, 1, nrr. 12654, 12655), assegnò a un proprio nuncius ‒ Everardo da Lutra ‒ la competenza giudiziaria dell'Impero per la Tuscia nelle cause sia civili che criminali (Historia diplomatica, II, pp. 115-116), e quest'ultimo lo ritroviamo, ad esempio, l'anno successivo a sentenziare in una causa per alcuni castelli tra il vescovo e il comune di Pistoia (ibid., p. 116).
Come si vede, sulla scia della tradizione, Federico alienava in molte realtà del Regno ‒ in toto o in parte ‒ la propria originaria competenza giudiziaria (quando non il governo complessivo, come avvenne nel 1223 per la Marca trevigiana a favore di Ezzelino da Romano), che la dottrina del tempo riconosceva appunto ai 'giudici ordinari' sulla scorta del diritto romano (quale, ad esempio, rintracciabile in Codex Justinianus 1.3.32: "iudices ordinarios, hoc est provinciarum rectores"): basterà pensare a una formula risalente al 1215 tramandata da Boncompagno da Signa, autorevolissimo maestro del tempo (Ficker, 1868-1874, III, p. 32), oppure a un passo del canonista Tancredi da Bologna (m. 1236) edito da Bergmann (1842, I, 1, § 1). Ci sono comunque noti anche iudices ordinarii proprio di questi anni, a Ravenna, che rispondono più alla figura degli arbitri nominati specificamente per la soluzione di una controversia: nel primo caso, che risale al 1213, si dice infatti che è stato nominato il "iudex ordinarius super discordia [...] faciendi omnia tamquam iudex ordinarius electus a partibus", mentre nel secondo, del 1214, si riferisce che due alti prelati hanno eletto due vescovi "tamquam iudices ordinarios ad cognoscendum de litibus et di-scordiis que vertebantur inter eos" (Ficker, 1868-1874, III, pp. 34-35, il quale del resto qui e in IV, nr. 282, Nachbemerkung, senza grande convinzione sostiene che il iudex ordinarius non era quello con potere pieno, ma solo l'arbitro nominato dalle parti).
Inizialmente troviamo comunque gli iudices attivi accanto a Federico II come iudices curie, giudici di corte. Possiamo menzionare per il 1220 personaggi poco noti come "Gualfridus de Turricella", "Johannes de Regio" e "(Girardus) de Tebaldis" (Regesta Imperii, V, 1, nr. 1168), ma anche il poi ben noto giurista Roffredo da Benevento, ricordato come "iuris civilis professor et imperialis et regalis curie magister et iudex" (ibid., nr. 1248). Fra il 1220 e il 1223 come giudici di corte operanti in tribunali dei legati imperiali, lontano dalla corte, attivi come giudici a latere o come testimoni, si incontrano tanti altri personaggi: Rufino "de Porta", "Presbyter Caccia", il già ricordato Gerardo "de Tebaldis" di Parma, Roberto "de Sancta Maria ad Montem", "Modalbergus" di Milano, Guido "Buonicombi" di Bologna, Pisano di Pisa, Obertino di Firenze, "Detesalvus Capellus" di Pavia, Uberto "de Mannate" e Alberico "de Rovereto" di Pavia (Ficker, 1868-1874, III, pp. 173-174). Dopo la data del 1223 i giudici compaiono essenzialmente al seguito dei vari podestà (ibid.) e di conseguenza sono scelti direttamente dal titolare dell'équipe podestarile.
I giudici continuano comunque a essere insigniti del titolo da parte di Federico o di suoi legati autorizzati a questo scopo, trattandosi ufficialmente di una competenza sovrana (ibid., II, p. 88). Ad esempio, nel 1220 Federico conferisce il mandato per la nomina di giudici e notai, o la facoltà di confermarli nella loro attività dietro pagamento di una tassa, al vescovo Corrado di Metz e Spira (ibid.); nel 1239 ai suoi legati generali e al figlio Enzo (ibid.), e nel 1246 al figlio Federico di Antiochia, vicario generale della Tuscia (Regesta Imperii, V, 1, nr. 3560). Si apprende anche in maniera indiretta dell'esercizio di questo mandato quando, per esempio, nel 1244, in un ricorso, si dice che il vicario generale per la Tuscia, Pandolfo di Fasanella, ha illegalmente insediato dei giudici nei possedimenti del monastero di S. Salvatore al Monte Amiata (ibid., nr. 3455).
La fine del tribunale imperiale (imperialis curia), e quindi anche dei giudici nominati per esso, è da porsi in relazione al rinnovamento istituzionale introdotto da Federico II, quando procedette alla suddivisione del Regno d'Italia dapprima in due grandi circoscrizioni (Italia settentrionale e Italia centrale) e poi in tre distretti, rendendo autonoma la Romagna (Ficker, 1868-1874, II, pp. 159-160), in contemporanea con gli interventi nel Regno di Sicilia dove riorganizzava la Magna Curia regia, il tribunale centrale di origine normanna (ca. 1170; Romano, 1989, p. 225) con giudici detti "magne imperialis aule iudices" competenti per gli affari del Regno siciliano (Ficker, 1868-1874, II, pp. 350-351; III, pp. 175-176) e operanti secondo uno specifico ordo iudiciarius accolto nelle importanti Costituzioni melfitane del 1231 (v. Liber Constitutionum). Ricorderemo che il titolo di iudex imperialis aule compare occasionalmente per Pier della Vigna nel 1232 (per esempio, Regesta Imperii, V, 1, nr. 6919), o nel caso di "Theodemus" nel 1236 (ibid., nr. 2199: "iudex curie nostrae"). Del resto, proprio dalla gran corte imperiale Firenze fu condannata nel 1232 al pagamento di 100.000 marche d'argento al fisco per aver violato il bando imperiale che proteggeva Siena (Historia diplomatica, IV, pp. 415-419).
Dopo la vittoria di Cortenuova (1237), Federico poté tentare un'amministrazione della giustizia più organica, sia nominando direttamente podestà e vicari nei centri a lui fedeli (Maire Vigueur, 2000, ma v. il caso speciale di S. Gimignano 1241 in Zorzi, 1994, p. 102), sia portando direttamente alla gran corte imperiale questioni importanti, riguardanti tanto il Regno d'Italia quanto quello di Sicilia. Nel 1238, ad esempio, i giudici Roffredo di San Germano e Peregrino di Caserta trattavano in una sessione a Parma questioni riguardanti il capitolo di Verona (Regesta Imperii, V, 1, nr. 2406); Roffredo e Lorenzo di Parma nel 1239 deliberavano in merito a un affare che interessava Vercelli (ibid., nr. 2417). Negli anni seguenti il tribunale discuteva anche questioni riguardanti il Regno d'Italia nel Regno meridionale. Accade ad esempio nel 1244, quando vennero trattate questioni inerenti a Civitanova nelle Marche (ibid., nr. 3449), o nel 1247, allorché furono discussi affari riguardanti Piancastagnaio, a sud di Siena (ibid., nr. 3612). D'altra parte, avveniva anche che il tribunale si riunisse nel Regno d'Italia, per esempio a Faenza o a Tivoli, per trattare questioni relative all'Italia meridionale (ibid., nrr. 3159 o 3222). Del resto, durante i suoi soggiorni nel Regno d'Italia, Federico II era accompagnato non di rado da giudici della gran corte, come è attestato spesso per Pier della Vigna (che nel 1239 a Verona bandì Azzo d'Este e altri nemici di Ezzelino; Historia diplomatica, IV, pp. 318-323) o Taddeo da Sessa. Compare anche, negli ultimi anni, la denominazione di iudex generalis, riferito a un giudice attivo a fianco di Riccardo di "Theate", vicario generale per la Romagna, le Marche e Spoleto (Kantorowicz, 1976, Appendice, p. 745), poi imprigionato dagli avversari dell'imperatore (Regesta Imperii, V, 1, nr. 3701).
fonti e bibliografia
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(traduzione di Maria Paola Arena)