LINGUE, REGNO D'ITALIA
Dal momento che i tempi della storia linguistica, e più in generale culturale, non si possono scandire precisamente su quelli della storia politica, sarà inevitabile in questa trattazione sforare sia in un senso che nell'altro i limiti esatti dell'età fridericiana (1220-1250). Tuttavia in una periodizzazione stretta ci atterremo ai testi con sicurezza o con buona probabilità prodotti tra il 1211 e il 1261, ossia tra il Libro di conti di banchieri fiorentini e la Rettorica di Brunetto Latini. Ciò ci permette da un lato di ricollegarci alla trattazione sistematica dei testi delle Origini compiuta da Livio Petrucci (1994), dall'altro di arrestarci a una data che segna simbolicamente l'avvio dell'egemonia fiorentina. Dal punto di vista geografico includiamo anche quei territori che, pur appartenenti al Regno di Sicilia, rientrano in quell'area linguistica e culturale che si suole definire mediana. Il quadro tracciato andrà letto tenendo a mente, da una parte, che sono irrimediabilmente perdute le produzioni volgari affidate solo alla voce (si pensi alla parola dei predicatori e dei giullari), dall'altra, che la dispersione delle produzioni scritte ha verosimilmente colpito soprattutto le tipologie testuali affidate a supporti più effimeri (come lettere o Liederblätter). La ricostruzione della situazione geolinguistica, infine, sconta una doppia limitazione: quella generale costituita dal filtro tra lo scritto e il parlato e quella particolare di doversi basare su testi successivi alla nostra epoca.
Il volgare e il latino. Nell'età fridericiana in Italia centrosettentrionale, ancor più che in altre aree romanze, il volgare vive in un regime di bilinguismo verticale (o senz'altro di diglossia) con il latino, a cui è ancora riservata la maggior parte delle funzioni alte e degli usi scritti. Il latino è la lingua della speculazione teologica e filosofica, dei testi scientifici, storiografici, retorici, oltre che di una fiorente letteratura. La lingua antica è uno strumento ancora duttile e vitale, e ancora comprensibile nei suoi registri meno aulici a larghi strati della popolazione pur privi di competenza attiva. Questa situazione però non è affatto cristallizzata, anzi è in pieno movimento e vede un progressivo accrescimento della funzionalità del volgare variamente misurabile a seconda dei domini o ambiti d'uso.
Il volgare, che è lo strumento normale della comunicazione quotidiana, nell'ambito economico accede prima che altrove agli usi scritti. Qui l'uso della lingua nuova si rivela coerente con la novità dei contenuti. I frammenti fiorentini del 1211 costituiscono insieme il primo documento di una tradizione pienamente volgare e il primo libro di conti pervenuto, nonché in Italia, in Europa. Documenti analoghi provengono da Pistoia (1240-1250) e da Imola (ma ad opera di banchieri toscani, 1260). Da Pistoia proviene anche il primo quaderno di capitali (1259). In volgare il senese Mattasalà Spinello annota le spese di casa e altre ricordanze (1231-1243). Relativamente numerose sono altre tipologie di 'testi pratici' prodotti sia da privati che da enti religiosi o laici: annotazioni relative a spese, inventari di beni, registri di censi, liste di nomi con i relativi obblighi o dazi. In volgare avveniva anche la corrispondenza mercantile: infatti, anche se non possediamo testimonianze per la nostra epoca, Boncompagno da Signa nella Rhetorica antiqua (1215) avverte che i mercanti "in suis epistolis verborum ornatum non requirunt, quia fere omnes et singuli per idiomata propria seu vulgaria vel corruptum latinum ad invicem sibi scribunt et rescribunt [nelle loro lettere non cercano l'ornato delle parole, ma quasi tutti si scrivono e rispondono o nei propri idiomi volgari o in un latino corrotto]" (Migliorini, 1960, p. 90). L'amministratore dell'Opera della Primaziale di Pisa scrive in volgare al suo rappresentante a Roma (1231). In volgare corrispondono privati cittadini sangimignanesi (ante 1253) e senesi (1253 e 1260).
L'uso del volgare in ambito giuridico non può dirsi pienamente affermato. Le occorrenze volgari rientrano infatti quasi completamente nella fenomenologia individuata da Petrucci per l'epoca immediatamente precedente. Si tratta cioè o di passi volgari inseriti in documenti latini (eventualmente per lassismo o ignoranza del notaio) o di testi 'paragiuridici' destinati a promuovere un documento latino. Si aggiunga l'esistenza di resoconti volgari di atti latini (Verona 1214 e 1223; S. Gimignano 1228; Corsica 1248 e 1260). Era normale tuttavia la pratica di tradurre estemporaneamente in volgare ad uso delle parti i documenti latini, come provano gli Statuti di Bologna del 1246, che prescrivono ai candidati notai di mostrare "qualiter sciunt scribere, et qualiter legere scripturas quas fecerint vulgariter et litteraliter [di saper scrivere e leggere le scritture in volgare e in latino]" (ibid., p. 125). Significativa è l'esistenza di un volgarizzamento delle formule notarili di Ranieri del Lago assegnabile all'area di Viterbo e alla prima metà del Duecento.
Nell'ambito della vita pubblica l'uso del volgare viene favorito dall'accesso crescente di laici illitterati alla partecipazione politica. Nelle assemblee comunali "il notaio era chiamato ad esporre in volgare il contenuto dei testi o documenti, scritti in latino, su cui era necessario deliberare" (Bruni, 1991, p. 176). Un documento volgare del 1219 sancisce l'alleanza dei cittadini di Montieri presso Volterra (Breve di Montieri), ma si tratta di un testo strumentale volto alla formulazione di un atto latino, l'unico giuridicamente valido. Il primo statuto volgare, quello di Montagutolo dell'Ardinghesca, compare soltanto nell'ultimo quarto del secolo (1280-1297). Nelle relazioni con gli stati arabi il volgare emerge più frequentemente: il privilegio accordato dal sultano di Aleppo nel 1207 (o 1208) viene tradotto dall'arabo al veneziano; in volgare viene steso un resoconto della trattativa tra i veneziani con il successivo sultano (1225); in volgare sarà tradotto più tardi il trattato di pace fra i pisani e l'emiro di Tunisi (1264).
Se nell'uso cancelleresco il latino prevale ancora nettamente, il volgare doveva avere la meglio nelle dicerie, cioè nelle arringhe. Si pone così il problema della nascita di una retorica volgare. Nella prima parte del Liber de Regimine Civitatum di Giovanni da Viterbo, la cui composizione attribuita da Folena al 1253 va secondo Zorzi (2001) anticipata al 1234, è descritta la procedura della nomina e dell'insediamento del podestà con un formulario di lettere e di-scorsi, dove il latino trapassa insensibilmente nel volgare e sono presenti intere formule volgari. Più decisa l'opera di Guido Faba: la Gemma purpurea (1240 ca.) è un trattato latino di retorica epistolare seguito da formule non solo latine ma anche volgari; i Parlamenta et epistole (1243 ca.) raccolgono trame esemplari di discorsi e di lettere, facendo seguire a un brano volgare tre redazioni latine (maior, minor, minima). Questo processo prosegue nella seconda metà del secolo con le Arringhe di Matteo de' Libri e di Giovanni da Vignano, mentre le lettere di Guittone e il volgarizzamento delle citazioni ciceroniane di Brunetto Latini rappresentano la compiuta affermazione della retorica volgare.
Nell'ambito ecclesiastico il ruolo del latino è confermato ovviamente dalla sua prerogativa di lingua sacra. Tuttavia non tutti i settori sono impermeabili al volgare come la liturgia e la trasmissione dei testi sacri. Da tempo la confessione avveniva, secondo prescrizioni, "rusticis verbis". I Sermonessubalpini, scritti in Piemonte probabilmente a cavallo tra Cento e Duecento, attestano la tradizionale apertura della predicazione ai registri e alle varietà romanze. Della prima metà del Duecento è la traduzione parziale di un'omelia latina contenuta in un codice padovano. Un impulso allo sviluppo del volgare è dato dalla fondazione degli Ordini mendicanti, in particolare di quello francescano. Non c'è dubbio che la predicazione ai laici avvenisse in volgare, anche se non sappiamo "quali volgari" fossero realmente impiegati "e fino a che punto mescidati e puntellati dal latino" (Delcorno, 2002, p. 417).
All'ombra e col nutrimento della liturgia latina nascono i primi testi religiosi volgari. Appartengono ancora al sec. XII i tre quinari doppi assonanzati della Passione cassinese, resto probabilmente di una quartina che concludeva una sacra rappresentazione recitata nella settimana santa. Ai salmi biblici si ispirano le Laudes creaturarum di s. Francesco (1224 ca.). Le cronache di Riccardo di San Germano e di Salimbene de Adam ci tramandano i quattro versicoli irrelati cantati da un frate itinerante nel 1233, anno del moto dell'Alleluia (Benedictu laudatu et glorificatu lu Patre). Alla metà del secolo appartiene la lauda in forma di serventese proveniente da Verona e forse anche la Lauda dei Servi della Vergine bolognese in forma di lassa monorima di alessandrini. La stessa lauda-ballata potrebbe essere nata nella prima metà del Duecento nell'ambito delle confraternite laiche già esistenti, ancor prima del moto dei Disciplinati (1259-1260) e della fondazione dei Laudesi (1267), anche se le testimonianze rimaste sono sicuramente legate a questi eventi storici.
Il latino è la lingua delle sempre più numerose università, tanto nella produzione libraria quanto nella pratica orale delle lezioni e delle dispute. Nella scuola il volgare serve come appoggio all'insegnamento del latino e di questa funzione strumentale sono testimonianza le glosse volgari che compaiono in un'operetta grammaticale latina (Dottrinale di Mayfredo di Belmonte, Vercelli 1225) e alcuni esercizi di traduzione presenti su un frammento pergamenaceo veneziano (Esercizi scolastici veneti, Padova prima metà sec. XIII?). Un'analoga funzione didattica presentano, in ambito monastico, le glosse cassinesi al Carmen Pascale di Sedulio. La sicura cultura grafica che mostrano sin dal loro apparire i testi mercantili ha fatto ipotizzare che già nel sec. XII esistesse una qualche forma di insegnamento del volgare. Tuttavia solo alla fine del Duecento sono documentate in Toscana le scuole dei mercanti (o scuole d'abaco e d'algorismo), integralmente volgari. Del 1278 è la prima 'pratica della mercatura'.
Isolata è l'apparizione di ricette mediche in volgare aggiunte probabilmente da uno speziale toscano in uno spazio bianco di un libro di medicina in latino (1253). A cavallo tra medicina e religione si colloca lo scongiuro aquinate contro il morso del serpente (prima metà del sec. XIII), che rappresenta la trascrizione di un genere orale ben noto in area romanza.
Si consolida nel nostro periodo l'uso letterario del volgare. In Italia settentrionale fiorisce la poesia didattica (Proverbia super natura feminarum, Uguccione e Pseudo-Uguccione, Patecchio, Anonimo veronese). Il Ritmo lucchese (1213) ricorda una vittoria di Lucca contro una coalizione nemica. Ser Petru da Medicina (metà del sec. XIII) è un non ben decifrabile esempio di poesia satirica. Alta maiestà celestiale (1252) è un serventese contro i Frati minori. All'egemonia francese e provenzale, cui accenneremo in seguito, andrà imputata l'assenza di una produzione epica e il relativo ritardo della lirica in Italia centrosettentrionale.
Come è normale, lo sviluppo della prosa è più tardo di quello della poesia. I primi esperimenti prosastici risalgono alla metà del secolo e dipendono tutti da una fonte latina: il Panfilo veneto, traduzione della famosa commedia elegiaca latina, nata forse come esercizio scolastico; la traduzione pure veneta dei diffusissimi Disticha Catonis, che ha probabilmente un'origine simile; le Miracole de Roma, rielaborazione dei Mirabilia Urbis Romae; le Storie de Troia e de Roma, volgarizzamento di un'operetta latina del secolo precedente. Solo nella seconda metà del secolo, e in Toscana, si affermerà l'uso della prosa in opere dottrinali, con la Rettorica di Brunetto Latini (traduzione-commento del De inventione di Cicerone), i Fiori e vita di filosafi (ante 1275, compendio dei Flores historiarum di Adamo di Clermont), il Volgarizzamento dei trattati morali di Albertano a opera di Andrea da Grosseto (1268), e con la prima opera "relativamente autonoma" (Segre, in Prosa del Duecento, 1959, p. 740), il Libro de' vizi e delle virtudi di Bono Giamboni (1270 ca.). Solo nell'ultimo quarto del secolo si afferma compiutamente la narrativa breve (Conti di antichi cavalieri, Novellino), compaiono il primo esperimento di prosa scientifica (Restoro d'Arezzo, Composizione del mondo, 1282) e la prima opera storiografica (Cronica fiorentina, sec. XIII ex.).
Il bilinguismo latino-volgare condiziona fortemente la maggior parte delle produzioni citate. Spesso nei testi pratici le testimonianze volgari sono subordinate a documenti latini (scritte, brevi, regesti) o sono emersioni pressoché casuali all'interno di documenti latini (elenchi di nomi o di beni, registrazioni di censi). Ma anche nelle tipologie testuali più evolute talvolta il bilinguismo è strutturale. "Nei Sermoni il volgare appare ancora subordinato al latino. L'incipit di ciascun sermon è in latino, come in latino è sempre la parola sacra, mentre in volgare è la traduzione e la glossa" (Stella, Piemonte, 1994, p. 78). Ci sono opere mescidate come quella di Giovanni da Viterbo. Il bilinguismo latino-volgare è costitutivo anche delle opere di Guido Faba, ma qui il volgare "assume di pieno diritto funzioni che sembravano riservate al latino, e del latino accoglie soprattutto il prestigio formale: gli artifizi retorici, il cursus" (Segre, in Prosa del Duecento, 1959, p. XV).
La pratica dei volgarizzamenti si muove da una situazione di bilinguismo in praesentia, non ben distinguibile dalla glossa, a una di bilinguismo in absentia. L'Omelia padovana è il "primo caso noto di volgarizzamento, condotto per le prime 32 righe sull'interlinea del testo latino del cap. XXI del vangelo di Marco, mentre nelle restanti sette righe si passa direttamente al testo volgarizzato" (Paccagnella, in Cortelazzo-Paccagnella, 1992, p. 226). Anche nei casi in cui il latino non sia materialmente presente, esso tuttavia agisce come modello sintagmatico (nella prassi della traduzione) e paradigmatico (come modello linguistico e stilistico). Il volgarizzamento, infine, è "situazione mentale prima ancora che attività specifica", se è vero che testi autonomi "possono sembrare in più punti foggiati su un modello latino che non esistette mai" (Segre, 1963, p. 49).
L'influsso del latino si verifica non solo nella produzione scritta, ma anche nella comunicazione orale: "La predicazione volgare, non foss'altro perché fondata su una catena di citazioni scritturali, e abitualmente costruita su articolazioni enunciate in latino, è subordinata alla cultura latina. Si aggiunga che lo sforzo di tradurre in volgare contenuti dottrinali espressi in latino riversa nella lingua viva dei laici un altissimo numero di latinismi" (Delcorno, 2002, p. 417).
Il lessico volgare si arricchisce così nel nostro periodo di numerosi lessemi non solo di carattere tecnico (religioso, giuridico, filosofico) ma anche di uso comune. Il volgare, ad esempio, rimodella sul latino il lessico delle passioni e dell'interiorità: parole come timore, desiderio, gaudio, fastidio, pigrizia, afflizione, tormento, appaiono secondo il Dizionario Italiano Sabatini Coletti (1997) tutte nel corso del XIII secolo.
Il volgare e la scrittura. Va sottolineato il carattere avventizio di molte testimonianze scritte volgari, affidate spesso a materiali di risulta o agli spazi bianchi dei testi latini: è il caso non solo di testi documentari, come appunti o promemoria, ma anche di produzioni poetiche come la Lauda veronese, il ritmo caudato Ser Petru da Medicina o il serventese Alta maiestà celestiale. Fatta eccezione per il libro di conti, la forma-codice è estranea al volgare, tanto che per spiegare la sua comparsa nel caso dei Sermoni subalpini si è pensato a un'influenza d'oltralpe. I manoscritti che conservano le produzioni in versi sono al più presto della fine del secolo.
Appaiono allora tanto più significativi i casi in cui il volgare è 'esposto'. Un'iscrizione commemora la costruzione di un mulino presso Sovicille nel 1246. Una lapide marmorea più o meno coeva ricorda due imprese vittoriose dei pisani. In una lapide genovese del 1259, a un ricordo in latino della morte dei fratelli Lercari, seguono due senari volgari a rima baciata: qui non c'è subordinazione del volgare al latino, bensì "autonomia funzionale", perché a questo è affidata l'enunciazione dei dati oggettivi, a quello "l'appello alla pietà del passante" (Stussi, 1997, pp. 152-153).
Ebraico e volgare. Nelle comunità giudaiche italofone (particolarmente importante quella romana) l'ebraico ha una funzione analoga a quella svolta dal latino nelle comunità cristiane. L'ebraico è la lingua del culto e della Scrittura, della produzione teologica e filosofica, ma rimane appannaggio solo di un'élite intellettuale. Il volgare è la lingua della comunicazione quotidiana ed è impiegato anche in funzione ancillare all'ebraico: il nostro periodo, pur privo di testimonianze, si inserisce infatti in una secolare tradizione di attività glossatoria ebraico-volgare.
Medesimo carattere paraliturgico della poesia religiosa cristiana ha in ambito ebraico l'Elegia giudeo-italiana (inizio del sec. XIII?), destinata a essere cantata durante il digiuno del giorno 9 del mese di Ab. Tanto le glosse quanto l'Elegia sono scritte in caratteri ebraici, rappresentando l'unico caso di uso di caratteri non latini per testi volgari in Italia centrosettentrionale.
Geografia e tipologia delle testimonianze volgari. Se si volessero analizzare le testimonianze volgari (esclusa la produzione lirica) in base a un principio tipologico, un'opposizione tra 'testi di carattere pratico' e 'testi letterari' risulterebbe inadeguata, sia perché nella prima categoria rientrerebbero testi di natura e intenzione molto diversa (come una nota di contabilità e una lapide commemorativa), sia perché nella cultura medievale anche testi letterariamente elaborati hanno una precisa finalità pratica, legata al loro contesto sociale, al loro Sitz im Leben. D'altra parte la dicotomia zumthoriana tra 'documento' e 'monumento' finirebbe con l'eclissare le differenze presenti all'interno dei testi che si sollevano al di sopra della funzione primaria del linguaggio (mettiamo, tra omelia e poesia religiosa). Proponiamo dunque una tripartizione tra 'documenti' (con pura funzione comunicativa, comprese glosse, lettere, ricette), 'monumenti' e 'testi letterari'. Quest'ultima distinzione ci permette di distinguere, ad esempio, tra Benedictu laudatu et glorificatu lu Patre, "forma embrionale e quasi ancora liturgica" (Contini, in Poeti del Duecento, 1960, II, p. 4), e il Cantico di s. Francesco; tra lo scongiuro aquinate, in cui "la struttura ritmica è probabilmente di natura formulare, e le rime hanno la funzione di semplici omoteleuti" (Avalle, in Concordanze, 1992, p. XVII), e le produzioni più decisamente artistiche. Si noti che la distinzione tra poesia e prosa è trasversale a questa tripartizione e può riguardare anche il primo termine, come mostrano le Decime mugellane, chiuse da un distico assonanzato ("Spugnolico da Casa Vitali die dare / iii paia di buoni kapponi per Natale"). Classificando i testi secondo questa griglia, notiamo che su settantacinque testi ben quarantanove hanno carattere documentale, dieci hanno carattere 'monumentale' (includendo anche i formulari volgari) e quindici carattere letterario (di cui undici in versi e solo quattro in prosa).
Analizzando geograficamente le testimonianze volgari, notiamo l'assenza del Friuli (il cui primo documento volgare è del 1290) e in generale la scarsa presenza delle aree laterali, più esposte a tradizioni scrittorie allogene, tanto che ancora cinquant'anni dopo Dante ne negherà il carattere italiano ("dicimus Tridentum atque Taurinum nec non Alexandriam civitates metis Ytalie in tantum sedere propinquas, quod puras nequeunt habere loquelas; ita quod, si etiam quod turpissimum habent vulgare, haberent pulcerrimum, propter aliorum commixtionem esse vere latium negaremus [diciamo che le città di Trento e Torino nonché Alessandria siedono così vicine ai confini dell'Italia che non possono avere delle parlate pure; cosicché, anche se avessero un bellissimo volgare ‒ e lo hanno bruttissimo ‒, a causa della commistione con le altre lingue, non potremmo definirlo veramente italiano]" (Stella, Piemonte, 1994, p. 76). Notevole il fatto che più della metà (quarantadue) delle testimonianze proviene dalla Toscana (inclusa la Corsica), meno di un terzo dall'area settentrionale (ventuno) e meno di un sesto da quella mediana (dodici). Il dato sarà sicuramente distorto da elementi accidentali ‒ la straordinaria continuità nella conservazione della memoria scritta che ha caratterizzato la Toscana contro la "ricorrente dissipazione e autodistruzione" (Dizionario, 1997) cui altre aree geografiche hanno sottoposto i propri documenti; le attenzioni maggiori e le ricerche più fitte di cui è stata oggetto la culla della lingua nazionale ‒ ma è anche sintomatico dell'imminente boom culturale e linguistico della regione. Assistiamo nel nostro periodo al trapasso dall'egemonia dell'area mediana (da cui, ricorda Baldelli, 1988, p. 95, provengono i due terzi dei testi dalle Origini fino ai principi del Duecento) a quella della Toscana (dove però Firenze ha ancora un ruolo defilato).
Combinando la prospettiva tipologica e quella geografica, si nota però che la Toscana produce soprattutto testi documentali (trentotto contro nove dell'Italia settentrionale e tre dell'Italia mediana), mentre nelle altre tipologie testuali (quattro testi) segue l'Italia mediana (nove) e quella settentrionale (dodici). In particolare, in Toscana non sono presenti produzioni letterarie in prosa, mentre le altre aree ne contano due esemplari ciascuna. Dall'Italia settentrionale proviene la maggior parte delle produzioni letterarie in verso (sei, contro tre mediane e due toscane).
Il provenzale e la lingua della lirica. Accanto alla diglossia latino-volgare occorre considerare il bilinguismo 'orizzontale' tra lingue romanze. In Italia sono impiegate entrambe le varietà gallo-romanze, quella d'oc e quella d'oïl.
A partire dalla fine del sec. XII diversi trovatori occitanici si muovono in Italia e trovano accoglienza nelle corti dei Malaspina, di Monferrato e d'Este. A Treviso viene allestito intorno al 1240 da Uc de Saint Circ il Liber Alberici, da cui deriva la sezione più antica del canzoniere estense D. Uc è autore di vidas e razos e forse anche della grammatica detta Donat proensal, in ogni caso composta in Italia per istanza di Giacomo di Morra (v.) funzionario imperiale (1234-1239?) "ad dandam doctrinam vulgaris provincialis et ad discernendum inter verum et falsum vulgare [per insegnare il volgare provenzale e discernere tra vero e falso volgare]" (Folena, 1990, p. 105). Se i trovatori d'oltralpe si inseriscono nelle vicende politiche dell'Italia settentrionale, ben presto anche gli italiani cominciano a poetare in lingua d'oc. In una rassegna caricaturale di trovatori riuniti intorno al 1170 (o al 1162) a Puig Vert, Peire d'Alvernha (Pillet-Carstens, 1933, 323,11) fa menzione di un "veilletz lombartz" (ma non è certo se 'lombardo' sia un etnico o valga come 'usuraio'). Peire de la Caravana (ibid., 334,1), forse veronese, nel 1194 esorta i Lombart ad allearsi contro Enrico VII che si prepara a scendere in Italia. Dai primi anni del XIII sec. è attivo Lambertino Buvalelli, magistrato bolognese che si muove tra corti e comuni padani. Al 1220 risalgono le prime notizie di Sordello mantovano, cavaliere aggiullarato che poi si sposterà in Provenza per ritornarne al seguito di Carlo d'Angiò. Scrive in provenzale lo stesso Alberico da Romano. Genova è un focolaio di poesia provenzale, prima con Lanfranco Cigala, poi con Percivalle Doria (v.) e Bonifacio Calvo; anche l'attività poetica del veneziano Bartolomè Zorzi sembra legata alla sua prigionia genovese (1266-1273). Né il provenzale appare l'unica lingua impiegata dai trovatori italiani: Bonifacio Calvo intorno al 1254 scrive Un nou sirventes ses tardar (ibid., 101,17) in provenzale, francese e galego-portoghese (quest'ultimo conosciuto nel suo soggiorno alla corte di Alfonso X il Saggio).
Di fronte a tale fioritura si intende come stenti ad affermarsi una tradizione lirica autoctona. Le rare emersioni di testi lirici in volgare italiano non sembrano sfuggire a un carattere di episodicità. Raimbaut de Vaqueiras, ospite nell'ultimo decennio del sec. XII del marchese Bonifacio di Monferrato, in Domna, tant vos ai preiada (ibid., 391,7) oppone anche linguisticamente un giullare provenzale e una genoesa che respinge rudemente il suo galante corteggiamento. Nel discordo plurilingue dello stesso, Eras can vei verdeiar (ibid., 392,4), l''italiano' sembra contrapporsi (insieme al guascone) alle tre lingue già dotate di dignità letteraria, il provenzale, il francese e il galego-portoghese. La comparsa del volgare italiano sembrerebbe da addebitarsi integralmente allo sperimentalismo del trovatore provenzale, che in entrambi i casi se ne serve in funzione espressionistica come contraltare 'basso' alla lingua letteraria: anche il bilinguismo orizzontale tra lingue romanze diventa un bilinguismo verticale. Episodico appare anche l'uso del volgare settentrionale nel Serventese lombardesco attribuito a Sordello (dove si sottolinea la novità della scelta linguistica: "Poi qe neve ni glaza / non me pot far guizardo, / e qe dolzamentr' ardo / en l'amor qe m'abraza, / ben è rason q'eo faza / un sirventés lonbardo, / qé del proenzalesco / no m'acresco: ‒ e fôra cosa nova, / q'om non trova ‒ sirventés lombardesco [Poiché né neve né ghiaccio mi può far vizzo [?], e dolcemente ardo nell'amore che mi abbraccia, è giusto che io faccia un serventese lombardo, ché dal provenzale non posso trarre gloria, e sarebbe una cosa nuova e inaudita un serventese lombardesco]" (Poeti del Duecento, 1960, I, p. 503). Un esperimento più consistente si ha nelle Noie composte da Girardo Patecchio e Ugo di Perso (e, stando alla sua testimonianza, anche da Salimbene), che riscrivono in lombardo il microgenere provenzale dell'enueg.
Presto tuttavia si diffonde il movimento irradiato dalla corte fridericiana. Un frammento di Giacomino Pugliese è trascritto probabilmente in Friuli tra il 1234 e il 1235. Un ruolo importante per la diffusione settentrionale della poesia siciliana è attribuito tradizionalmente alla prigionia di re Enzo a Bologna dal 1249. Partecipano alla Scuola siciliana anche autori dell'Italia centrale, come Paganino da Sarzana e l'Abate di Tivoli. Una maggiore resistenza sembra opporre l'Italia settentrionale, per la perdurante tradizione provenzale. Percivalle Doria, che scriveva come abbiamo visto in provenzale, compone anche due canzoni siciliane, ma probabilmente solo dopo l'entrata al servizio di Manfredi nel 1258. Nella canzone trevigiana Eu ò la plu fina druderia, ancora fortemente provenzaleggiante, si rinvengono già echi della lirica meridionale.
L'intero quadro che abbiamo appena ricostruito rischia però di essere messo in dubbio dall'esistenza di una intera canzone (Quando eu stava in le tu cathene) e di un breve frammento in una pergamena romagnola databile tra la fine del sec. XII e l'inizio del XIII. La recenziorità della scoperta e della pubblicazione lascia in sospeso questioni decisive: in particolare riesce spinoso separare nella veste linguistica della canzone l'elemento settentrionale da quello mediano, e comprendere se dal punto di vista letterario si tratti di un esperimento isolato o dell'emersione di una tradizione altrimenti perduta. Non si può escludere con Castellani che l'ibridismo linguistico sia originario e spiegabile con le condizioni dell'antico romagnolo, mentre appare assai oneroso ipotizzare sulla base di pochi indizi una decisa retrodatazione della Scuola poetica siciliana. Stussi (La canzone, 1999, p. 612) ha sottolineato la similarità del v. 21 (Eu so quel ke multo sustenea) della canzone romagnola con il primo verso della strofa italiana del discordo di Raimbaut (Io son quel che ben non aio), il che potrebbe far pensare a un intento parodico del trovatore nei confronti di una tradizione preesistente.
Se i trovatori d'Italia rivelano talvolta la loro origine nelle composizioni in lingua d'oc, la nascente lirica italiana è profondamente permeata dall'influsso provenzale. Influsso che travalica anche questa limitazione generica, come mostrano le occorrenze di un lessema emblematico come giullare (〈 juglar), già nel ritmo marchigiano su s. Alessio (fine sec. XII), poi nella Lira senese del 1235 e in Mattasalà (1242). Sulla base del Dizionario Italiano Sabatini Coletti è stato calcolato che nel sec. XII entrano in italiano dodici provenzalismi e nel XIII novantasette (di cui rispettivamente sette e trentatré appartenenti al vocabolario di base).
L'influenza francese. Altrettanto se non più rilevante è l'influsso della lingua d'oïl. L'iconografia e l'onomastica francese sono attestate in Italia già nel sec. XII. La circolazione dei romanzi e dei poemi epici francesi è vivace. Giullari francesi attraversano la penisola seguendo le vie dei pellegrini. Il giurista bolognese Odofredo (m. 1265) parla di "ioculatores qui ludent in publico causa mercedis [giullari che si esibiscono pubblicamente a pagamento]" e di "orbi qui vadunt in curia communis Bononie et cantant de domino Rolando et Oliviero [ciechi che vanno nella curia del comune di Bologna e cantano di Orlando e Oliviero]" (Migliorini, 1960, p. 126).
In Italia settentrionale si producono anche opere originali in francese. Anteriore al 1251 è un poemetto sull'Anticristo, cui l'autore ritiene di dover premettere una giustificazione linguistica: "Por ce qe je say le francois / E qe [je] soy parler ancois / Franchois qe nul altre lengaje, / Si me samble strange e sauvaje / De ce qe j(e) aipris en enf(r)ançe / Laiser, car le lengue de Françe / Est tels, qi en primer l'aprent / Ja ni pora mais autrement / Parler ne autre lengue aprendre. / Por ce ne me doit nus reprendre / Qi m'oie parler en francois, / Qe j'ai apris [a] parler anchois [Poiché io so il francese, e so parlarlo meglio di ogni altro linguaggio, mi sembra strano e innaturale lasciare ciò che ho imparato sin dall'infanzia; ché la lingua di Francia è tale, che chi l'apprende per prima non potrà mai parlare altrimenti o apprendere un'altra lingua. Perciò nessuno mi deve riprendere se mi ode parlare francese]". Secondo Meyer (1904) l'autore è un italiano che ha imparato il francese da piccolo, ma secondo Walberg (1928) è un francese che deve alla sua permanenza italiana alcuni tratti linguistici. Comunque sia, questa giustificazione, simmetrica a quella del serventese lombardesco, mostra che l'uso della lingua allogena appare meno scontato per la poesia didattica che per la lirica. Tra il 1238 e 1249 Daniel Deloc di Cremona traduce il Moamin (v.) e il Ghatrif, che dedica a re Enzo. Più tarde sono le Estoires de Venise di Martin da Canal (1267-1275). Tuttavia il carattere 'coloniale' del francese d'Italia, che conserva delle caratteristiche che scompaiono in Francia nella prima metà del sec. XIII, mostra che la sua gestazione e fissazione si collocano proprio nel nostro periodo.
La produzione di testi francesi da parte di autori toscani sembra più tarda e più legata a fattori contingenti. Aldobrandino da Siena si trova in Francia quando scrive Le régime du corps (prima del 1257). Brunetto Latini collega la scelta linguistica del Tresor (1260-1266) alla sua residenza francese ma anche al fatto che quella d'oïl è la "parleüre [...] plus delitable et plus commune a tous gens [la parlata più piacevole e più universalmente diffusa]" (Renzi, Il francese, 1976, p. 564). Intorno al 1270 Rustichello da Pisa mette insieme la sua vasta compilazione di materiale arturiano (il Meliadus). Alla fine del secolo la comune prigionia genovese dello stesso Rustichello e del mercante veneziano Marco Polo segna l'incontro tra la tradizione settentrionale e quella toscana e dà origine alla più grande opera in francese d'Italia, il Divisament dou monde (poi Milione). Non sappiamo che credito dare alla testimonianza di Tommaso da Celano che s. Francesco improvvisasse canti in lingua francigena.
L'uso del francese da parte di italiani settentrionali era favorito dalla relativa vicinanza dei sistemi linguistici (per quanto Daniel Deloc definisca "greveuse chose a ma lange profferre le droit françois, por ce qe lombard sui [gravoso per la mia lingua proferire il retto francese perché sono lombardo]"; ibid., p. 576) e dallo scarso prestigio e tradizione del volgare locale (almeno in prosa). Anche tra francese e italiano settentrionale si configura dunque un rapporto di tipo verticale. La nascita del franco-italiano non dovrà dunque sorprendere, se è vero che la presenza di due varietà diglottiche geneticamente legate tende sempre a dare origine a formazioni di compromesso. Questa Mischsprache nasce probabilmente proprio nel nostro periodo attraverso graduali e in parte inconsapevoli adattamenti dei testi francesi da parte dei copisti o dei giullari. Ma la sua codificazione come koinè letteraria è più tarda ed è un fatto essenzialmente tardoduecentesco e soprattutto trecentesco.
L'importanza del francese appare ancora più evidente se si pensa che la maggior parte della poesia didattica e narrativa italiana reca palesi influssi metrici, retorici, lessicali dei modelli d'oltralpe. Del resto l'influenza francese non si manifesta soltanto per vie letterarie. Va ricordata l'ipotesi di Folena (1990, p. 255) che il franco-veneto, "prima che un fenomeno culturale e convenzione di genere letterario, dev'essere stato una esperienza comunicativa", nata nei contatti tra francesi e veneziani particolarmente intensi in oltremare (v. Lingue, Regno di Gerusalemme) dopo la quarta crociata e la presa di Costantinopoli (1204). Già il primo trattato con Aleppo presenta dei francesismi, mentre sono senz'altro in francese le lettere con cui l'ultimo soldano di Aleppo conferma i loro privilegi ai veneziani (1254). Intensi sono i contatti tra i mercanti lombardi e toscani e i mercanti francesi in Francia, Fiandre, Inghilterra, territori d'oltremare. La lingua dei mercanti doveva essere intrisa di francesismi, come si deduce da documenti più tardi: nella lettera di Andrea de' Tolomei scritta nel 1262 da Tresi (Troyes) ai compagni della sede senese, Castellani (2000, p. 101) registra entrea 'inizio di una fiera' (〈 entrée), churatagio 'senseria' (〈 couretage), lisgire 'agio' (〈 leisir), adosgiare 'aumentare' (〈 aoisier).
Al di là di simili casi estremi, continua in generale la corrente di prestiti che aveva già dato all'italiano alcuni lessemi fondamentali come mangiare, parlare, bisogno. Nei nostri testi troviamo attestati per la prima volta leale (Breve di Montieri, lial Proverbia, liale primo patto con Aleppo), malvagio (malvaso, Storie de Troia e de Roma), rimembrare (Giacomo da Lentini, re- Elegia, Uguccione), avvenente (avinent Proverbia, avinente Panfilo, avenanti Elegia, avenante Jacopo Mostacci), onta (Patecchio, Proverbia, Pseudo-Uguccione). Come si vede l'influsso francese travalica le differenze generiche, geografiche, religiose. Sulla base del Dizionario Italiano Sabatini Coletti è stato calcolato che nel sec. XII entrano in italiano diciannove francesismi e nel XIII centosettantasei (di cui rispettivamente dodici e sessantatré appartenenti al vocabolario di base).
Varietà romanze e non romanze in contatto. La presenza politica e linguistica tedesca si fa sentire in tutta la penisola, come già denuncia Peire de la Caravana: "Granoglas resembla / en dire 'Broder, guaz', / lairan quant s'asembla / cum cans enrabiaz [sembrano ranocchie, nel dire Bruder was?, latrando quando si riuniscono come cani arrabbiati]" (De Bartholomaeis, 1931, I, p. 37; Folena, 1990, p. 25). Ma l'influsso tedesco è particolarmente forte in Trentino e in Friuli, parte integrante di quell'area politico-culturale che andava "da Lamagna infino in Agulea" (Giacomino Pugliese, cf. Brunetti, 2001, p. 690). Il friulano Tommasino di Cerclaria nel 1215-1216 scrive in tedesco un poema didascalico (il Wälscher Gast). D'altra parte lo stesso parla di un'altra sua opera scritta "in welscher Zunge" (in lingua romanza, ma quale?). Il tedesco è la lingua della classe, potente ma poco numerosa, formata da nobili e alti prelati, che "non può trascinare tutta la regione nell'orbita culturale germanica, ma è in grado di bloccare un suo deciso orientamento verso il mondo romanzo 'esterno'" (Benincà, 1995, p. 46).
Di primaria importanza sono i rapporti di Venezia con l'Oriente sia bizantino che arabo. Dal greco Venezia trae lessemi come liagò 'terrazzo', dromo, squero. Nel primo trattato con Aleppo si trovano, oltre a calchi dall'arabo, prestiti come doana, fontigo, cecha 'zecca'. Venezia è il tramite della diffusione europea di parole come arsenale, attestato come arsana in latino medievale veneziano nella prima metà del sec. XIII (cf. ancora l'arzanà de' Viniziani in Dante), dall'arabo dāṛṣinā῾a, probabilmente attraverso la mediazione di un greco τ᾿ἀϱσανᾶ in cui la consonante iniziale è stata reinterpretata come articolo. Viceversa il greco πανδοχεῖον ha dato attraverso l'arabo l'italiano fondaco (attestato in latino già nel sec. XII e irradiato probabilmente da Amalfi).
L'Italia dialettale. La nota affermazione di Giuseppe Vidossi secondo cui nel Medioevo "la carta linguistica e dialettale d'Italia non doveva differire, almeno nelle linee essenziali, da quella presente" (1956, p. XXXIX) va alquanto stemperata. Innanzitutto è prevedibile che al maggior sgretolamento politico corrispondesse anche una maggiore differenziazione dialettale. Basta pensare al fatto che un centro come Torino non possedeva allora nessuna funzione direttrice, mentre Venezia non esercitava ancora la sua pressione anche linguistica sulla terraferma.
In alcuni casi erano differenti i rapporti tra le parlate italo-romanze e le parlate allogene o alloglotte. Ampi territori sudtirolesi non erano germanizzati, ma i germanofoni erano numerosi anche nell'attuale provincia di Trento, con propaggini nell'alto Vicentino e nel Veronese (donde le sopravvivenze moderne: 'mòcheni' e 'cimbri'). L'elemento slavo in Friuli doveva essere più consistente. Al sec. XIII risale l'immigrazione dei pastori rumeni in Istria (ma originariamente anche sul Carso e nelle vicinanze di Trieste). Già nel secolo precedente erano iniziati gli insediamenti tedeschi dall'alto Vallese nelle valli aostane orientali e piemontesi settentrionali e dalla Carinzia in Friuli.
Passando ai rapporti tra le parlate romanze, Pellegrini (1977, p. 22) ritiene che "i dialetti piemontesi medievali (nella forma autentica del parlato) non dovessero divergere sensibilmente dal provenzale o franco-provenzale e che la loro fisionomia per lungo tempo sia stata ancor di più marcatamente 'allo-italiana', come dimostrano del resto anche i 'Sermoni subalpini'". La fascia attuale di parlata gallo-romanza rappresenterebbe l'effetto più di una conservazione che di infiltrazioni d'oltralpe. In ogni caso la microtoponomastica mostra come la frontiera geografica sia del tutto permeabile; nel nostro periodo l'elemento occitanico deve essere stato rafforzato prima dalla diaspora valdese (1190) poi dagli effetti della crociata contro gli albigesi (1209-1229). Dall'altro lato dell'arco alpino, l'area friulana doveva essere più estesa (si pensi alla sopravvivenza di una varietà friulana a Trieste fino al sec. XIX). D'altra parte le distanze tra il tipo gallo-italico e il tipo alpino (comprendendo in questa denominazione gli elementi comuni di ladino e friulano) erano probabilmente minori.
Anche i rapporti tra i dialetti italo-romanzi non erano identici a quelli attuali, come appare evidente se cerchiamo di ricostruire quale dovesse essere il decorso antico delle isoglosse individuate da Pellegrini come caratteristiche dell'Italia dialettale:
Conservazione di -S latina. Questo tratto, e i due tratti successivi, caratterizzano le aree allo-italiane (provenzale, franco-provenzale, ladino, friulano) ma con varie estensioni nei dialetti lombardi alpini. I testi antichi mostrano le tracce di una conservazione più generalizzata. La -s è conservata nella seconda persona singolare in piemontese (eres, haveras, as), veneziano (nel verso citato da Dante per le plaghe di Dio tu no verras), bellunese (has, vuos). Il ms. Saibante attesta il fenomeno tanto nei testi veneti (Cato pos, vos; Panfilo avras, vergonçaras) che nel cremonese Uguccione (as, es, vos, albergaràs). Il fenomeno sopravvive talvolta nei dialetti moderni (veneziano credis-tu? 'credi?', milanese sis-tu? 'sei tu?', torinese as tu fait? 'hai fatto?').
Conservazione dei nessi iniziali PL, BL, FL, CL, GL. Il fenomeno appare molto più esteso in antico. I nessi sono conservati, almeno graficamente, nei testi lombardi (plas, blastemad, flad), mantovani (pluma, blanch, flama), emiliani (plato, floresse), veneziani (clave, plu, blanca). La palatalizzazione dev'essere stata più precoce nei nessi con velare, dove aveva ragioni organiche. Alla fine del secolo la grafia clera 'cera' in Giacomino da Verona dimostra che anche clara e clama erano pronunciati con [tʃ]. Bonvesin ha plen, blanco, flevereza, ma giamando, giadio.
Palatalizzazione di CA e GA (come in ladino chiavra, grigionese chavra, fr. chèvre 'capra'). L'evoluzione potrebbe avere investito aree più ampie dell'Italia settentrionale, come dimostrano regressioni indebite come trevisano rustico camar 〈 ciamar. Non è certa l'appartenenza a questo fenomeno delle forme veneziane antiche chian 'cane', chiani 'cani'. La palatalizzazione (almeno davanti a vocale tonica, come in alcuni dialetti alpini) doveva esistere in Piemonte meridionale, come dimostra il dialetto gallo-italico di S. Fratello in Sicilia ([῾kçeŋ] 'cane' ma [kɑ῾vew] 'cavallo', [῾gjew] 'gallo' ma [gɑ῾dinɑ] 'gallina').
Esiti PL > [tʃ] e BL > [dʒ] in Liguria. Il fenomeno è assente nelle carte latine dei secc. X-XII, ma già in Raimbaut de Vaqueiras troviamo chu 'più', poi iastemar 'bestemmiare', ecc.
Sviluppo [a] > [e] negli infiniti di prima coniugazione in Piemonte. Tratto già presente nei Sermoni subalpini e nei testi piemontesi antichi (parler, porter, salver).
Sviluppo [a] > [e] nell'Italia superiore e mediana. Fenomeno emiliano-romagnolo che coinvolge anche Pesaro, Urbino, Arezzo e Perugia (es. bolognese nès, aretino nèso 'naso'). L'evoluzione non è attestata nei più antichi testi dell'area in questione, ma va detto che per la sua natura (originariamente) allofonica potrebbe sfuggire alla rappresentazione grafica.
Palatalizzazione di U lunga latina. Liguria, Piemonte, Lombardia ma anche Piacenza e la montagna reggiana e modenese (lüna 'luna', brüt 'brutto'). Il fenomeno non è immediatamente percepibile nella grafia, ma si crede fosse già presente in antico nell'area in questione ed esteso anche a Parma, Reggio, Modena e Verona.
Esito CT > [jt] (>[tʃ]). Piemontese, ligure e lombardo occidentale, ma anche lombardo orientale (Bergamo) e lombardo alpino orientale (per alcuni lessemi il fenomeno investe anche la maggior parte dell'Emilia). Attestato nei testi antichi piemontesi (fait), liguri (faito), lombardi (nel verso citato da Dante in improperio dei milanesi e dei bergamaschi ochiover 'ottobre'). Il fenomeno sembra già separare i testi bergamaschi (nog) da quelli bresciani antichi (not). Ma l'esito [jt] doveva essere più esteso in antico, giacché se ne trovano tracce in mantovano (peit, fruyte) e in veronese (fruito, noito); nel ms. Saibante esso compare sia nei testi cremonesi (Uguccione fruito, truita, Patecchio fruito, sainti) che nei testi veneti (Proverbia noite, fruitante, Panfilo peito, fruito). Tenuto conto che l'esito [t] può essere dovuto a semplificazione di [jt], si può ipotizzare che alla soluzione gallo-italica fossero estranei un tempo solo i territori bizantini (Venezia e la Romagna).
Dileguo delle vocali postoniche. Distingue i dialetti emiliano-romagnoli (es. gumde, gònt 'gomito') da quelli veneti (gómio) ma cf. veronese antico batro 'battere', bevro 'bere'. Nei Proverbia albri 'alberi' e orda 'orrida' sono forse francesismi.
Sonorizzazione delle sorde intervocaliche e degeminazione. Separano i dialetti settentrionali da quelli centromeridionali (linea Massa-Senigallia). Il fenomeno non investiva le Marche settentrionali, mentre è possibile che in Romagna fosse presente la sonorizzazione ma non la degeminazione, così come oggi in alcune varietà di confine delle Marche: cf. nell'Anonimo ravennate çogo, povol, cathene (con valore di fricativa sonora), ma notte, condutto, tuttavia; nel più tardo serventese romagnolo monede, segura, levere, ma fatto, trattu, tutta. La sonorizzazione era lessicalmente più diffusa in toscano (soprattutto in serie suffissali come -ade, -adore).
Come ha mostrato Castellani e ricorda lo stesso Pellegrini, l'evoluzione toscana RJ > [j] (es. aia, paio, fornaio) includeva anche le Marche settentrionali, tutta l'Umbria e Viterbo.
Aspirazione delle occlusive intervocaliche (es. amiho 'amico', la hasa 'la casa'). Pellegrini distingue una zona con spirantizzazione più massiccia con al centro Firenze e una zona di espansione recente (Lucca, Pisa, Volterra, Siena). Del resto non si hanno sicure attestazioni del fenomeno prima del sec. XVI.
Assimilazione dei nessi ND > [nn], MB > [mm]. A sud di una linea Talamone-Amiata-Perugia-Ancona (es. quanno 'quando', piommo 'piombo'). È possibile che l'esito centromeridionale sia stato respinto più a sud dall'influsso rispettivamente toscano e settentrionale.
Conservazione della distinzione di -O e -U (fuocu 〈 FOCU, ma otto 〈 OCTO). Sezione centrale delle Marche, meridionale dell'Umbria, Lazio centrosettentrionale (ma non Roma), Toscana meridionale (Pitigliano e massiccio dell'Amiata). Il fenomeno si estendeva in antico oltre questa linea includendo Viterbo, Orvieto e le Marche settentrionali. Anche nei testi romagnoli esiste una tendenziale distinzione tra -o e -u (Anonimo ravennate quando ma risu, Serventese romagnolo venutu ma credo).
Sonorizzazione di sorda dopo N. A sud di una linea che va dai monti Albani a Trevi in Umbria a Giulianova in Abruzzo (biango 'bianco', dende 'dente', cambo 'campo'). Non ci sono nei testi antichi dati sicuri del fenomeno, che però, per il suo carattere fonetico e non fonologico, sfugge facilmente alla rappresentazione grafica.
Posposizione del pronome possessivo (pàtremo). Oltre all'area descritta dal fenomeno precedente include buona parte dell'Umbria e delle Marche. La posposizione era anticamente anche del romanesco ed è stata a lungo diffusa in toscano, sebbene in stili o dialetti marginali.
Conservazione dei nessi con L in un'area centrale dell'Abruzzo. Il fenomeno (clara, flore, planu) appare generale nei testi antichi di area mediana (tranne che a Roma).
Vediamo dunque come la coincidenza delle isoglosse antiche e moderne è l'eccezione piuttosto che la regola. Per lo spostamento di confini discriminanti alcune aree sono passate addirittura da un sistema dialettale all'altro. Il marchigiano settentrionale non apparteneva all'area settentrionale ma a quella mediana (assenza di sonorizzazione, distinzione tra -o e -u). La Romagna potrebbe aver costituito una zona di transi-zione tra le due aree (assenza di degeminazione, distinzione tra -o e -u). Roma era ancora lontana dalla 'svolta' verso il toscano e presentava caratteri vistosamente centromeridionali: oltre a quelli indicati, la dittongazione metafonetica (dienti, cuorpo), l'esito B > [v] (vocca, varva), *J > [j] (iente, leiere), BJ > [j] (raia 'rabbia'), SJ > [s] (caso 'cacio'), PJ > [tʃ] (saccio), CJ > [ts] (braço), il condizionale dal piuccheperfetto latino (àbbera 'avrei'). Anche Viterbo e Orvieto possedevano, oltre alla distinzione tra -o e -u, l'esito B > [v], *J > [j], BJ > [j], SJ > [s]. Ci sono stati ovviamente anche spostamenti subareali. L'astigiano era probabilmente orientato verso il basso piuttosto che verso l'alto piemontese. Verona era più vicina linguisticamente a Trento e alla Lombardia. Il mantovano gravitava verso il lombardo orientale, il pavese verso la zona alessandro-monferrina, mentre oggi entrambi si sono avvicinati all'emiliano. La Corsica era già da tempo (sec. VIII) nell'area toscana; esisteva già la colonia genovese di Bonifacio (1195), ma l'influenza linguistica genovese sarebbe cominciata solo dopo la vittoria della Meloria (1284).
Ci sono differenze strutturali tra dialetti antichi e moderni. In Italia settentrionale la metafonia era molto più diffusa. Il fenomeno della caduta delle vocali finali diverse da -A nei dialetti lombardi non era ancora compiuto, mentre la caduta era più pronunciata nei dialetti veneti, per cui le condizioni antiche del vocalismo finale veneziano, veronese e soprattutto trevisano-bellunese non dovevano essere molto diverse dal lombardo. L'opposizione di lunghezza nelle consonanti liquide e nasali forse era ancora viva in alcune varietà. Nella morfologia verbale non era ancora generale la confusione della III persona singolare e plurale. Il perfetto era ancora vitale. In Toscana gli esiti di C + vocale palatale (aceto) e di -SJ- (camiscia) sono ancora distinti. La forma base dell'articolo è lo, passibile di aferesi dopo vocale ('l). Nella morfologia verbale si distingue cante 〈 -AS da vedi, leggi, dormi 〈 -*ES, -IS. Il plurale in -iamo non è ancora generalizzato. La prima persona dell'imperfetto è ancora quella etimologica (cantava).
La tendenza all'unificazione. Esistevano ovviamente dei fattori che si opponevano alla frammentazione, fattori ‒ prima ancora che letterari ‒ politici ed economici, che rendevano frequente la comunicazione tra parlanti di origine diversa. Innanzitutto è vivace la circolazione dei mercanti. I podestà si muovono tra le città del Centro e del Nord con il loro seguito di giudici, notai, famigli, costituendo così un fattore di unificazione linguistica e consegnando alla Toscana un precoce ruolo mediatore. I giullari itineranti devono attirare i pubblici più vari. La capacità di s. Francesco di farsi comprendere in luoghi diversi e da persone di origine diversa sarà dovuta a un miracoloso potere gestuale ("de toto corpore fecerat linguam [aveva fatto lingua di tutto il corpo]") ma anche all'impiego di un linguaggio non troppo marcato diatopicamente.
È naturale che questo insieme di fattori portasse alla formazione di strumenti linguistici sovralocali. Nella sua cronaca Salimbene menziona un certo fra Barnaba che "optime loquebatur Gallice, Tuscice et Lombardice [parlava perfettamente gallo, tosco e lombardo]" (Migliorini, 1960, p. 122), ma ciò indica l'esistenza di due koinè, una settentrionale e una centrale, o solo la coscienza della fondamentale bipartizione geolinguistica della nostra area? All'inizio del Novecento si è ritenuto che la letteratura didattica dell'Italia settentrionale si servisse non dei dialetti locali ma di una koinè padana, ma Contini e Migliorini hanno respinto una tale ipotesi. Secondo Pellegrini (in Pellegrini-Stussi, 1976, p. 429) "una indubbia tendenza alla koinè lombardo-veneta ‒ nella eliminazione di tratti spiccatamente municipali ed in processi di latinizzazione ‒ era certamente in atto nella Cisalpina nei primi secoli della scripta". Secondo Sanga, nel nostro periodo si possono distinguere tre varietà regionali ben delineate, il 'volgare toscano', il 'volgare beneventano' e la 'lingua lombarda', e addirittura una varietà comune a tutta la penisola, il 'volgare italico'. Sembra strano, tuttavia, che il 'volgare italico', presuntivamente dotato di maggior prestigio, non abbia lasciato come traccia che i versicoli di Raimbaut de Vaqueiras. I volgari toscani medievali appaiono ben distinti tra loro. I caratteri comuni ai testi mediani farebbero pensare a una koinè non "passiva, preterintenzionale, ma [...] attivamente promossa da centri di cultura, in primo luogo Montecassino" (Sanga, 1995, p. 89), ma altri hanno mostrato come l'esistenza di tratti peculiari a ciascuna varietà induca a respingere ipotesi di coinizzazione. Lo stesso Sanga ammette che la 'lingua lombarda' sarebbe caratterizzata da "bassa standardizzazione e alto polimorfismo" (ibid., p. 92). La questione rischia dunque di essere nominalistica. Per evitare equivoci è forse bene riservare al termine koinè il senso di varietà standardizzata nata dal conguaglio 'orizzontale' tra varietà locali (cosa che non sembra darsi nel nostro periodo) o dalla pressione 'verticale' esercitata da un centro egemone (che non appare ancora affermato). Per spiegare le situazioni duecentesche si ricorrerà, dunque, piuttosto ad altri concetti (quello di scripta o quello di registro). Anche di una koinè giudeo-italiana non si parlerà, allora, prima dell'irradiazione, successiva al nostro periodo, della comunità romana.
Resta il fatto che dovevano esistere registri più bassi e più connotati localmente e registri più alti caratterizzati dalla tendenza all'eliminazione dei tratti locali. Lo prova, sul piano letterario, la pratica della parodia dialettale e il genere della cantio in improperium, sulla cui fioritura, molto maggiore di quanto testimoniano i resti (Cielo d'Alcamo, Castra fiorentino), getta una luce il De vulgari eloquentia di Dante.
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Marcello Barbato