NOTAI, REGNO D'ITALIA
Poco prima della incoronazione imperiale di Federico nel novembre 1220, Ranieri da Perugia aveva pubblicato in Bologna la sua prima opera teorica di notariato, il Liber formularius. Nata su sollecitazione degli allievi che nello Studio bolognese ne seguivano l'insegnamento di ars notarie, l'opera del maestro perugino rifletteva a un tempo la situazione della pratica notarile in atto e le tendenze del suo sviluppo. Legate all'attualità erano le formule per gli atti di negoziazione privata, adeguate al reale contesto economico e sociale, e altre formule, specifiche per gli atti di giurisdizione. Si manifestava nelle prime la profonda trasformazione avvenuta nelle città del Regno d'Italia con lo sviluppo delle attività commerciali e artigianali, seguito alla pace di Costanza; nelle altre il contestuale e altrettanto rapido incremento delle strutture di autogoverno degli ordinamenti comunali. Ne emergeva il quadro di una diffusa presenza del notaio nei tanti momenti in cui i privati modificavano i propri diritti e in quelli altrettanto numerosi in cui gli organi dei comuni deliberavano, giudicavano, amministravano. La fiducia che privati ed enti pubblici riconoscevano agli atti notarili trovava nell'opera di Ranieri anche l'avallo teorico. Il documento notarile poteva legittimamente definirsi instrumentum publicum, perché redatto dal notaio, publica persona, in quanto nominato da una publica auctoritas. Gli spettava quindi quella stessa fides che la legislazione giustinianea attribuiva all'instrumentum publicum delle curie municipali.
Nella parte conclusiva del Liber formularius Ranieri elencava le auctoritates che potevano nominare i notai ed esemplificava le formule dei privilegi di nomina da parte del papa, dell'imperatore, dei conti palatini e di altre autorità, fino ai rettori delle città. Ma nel proemio del Liber il maestro perugino presentando agli allievi la sua opera, conscio della sua aderenza alle esigenze della pratica notarile, faceva intendere che al notaio per essere tale occorreva, oltre al titolo conferito da una idonea autorità, un insieme di conoscenze specifiche, la notarie scientia, che sola poteva garantire legittimità ed efficacia ai documenti che nell'interesse dei richiedenti il notaio redigeva: "La publica fides riconosciuta al notaio non poteva dipendere unicamente dalla prerogativa conferita da un privilegio, ma doveva essere fondata saldamente su conoscenze e capacità che soltanto una adeguata preparazione culturale e professionale poteva garantire" (Ferrara, 1977, p. 82). Era questa, nel Liber formularius, la parte rivolta al futuro, l'intuizione di una tendenza dettata da quella stessa esigenza che aveva indotto Ranieri a rinnovare profondamente le formule degli atti notarili. La scuola di notariato dello Studio bolognese la fece propria e la diffuse nei suoi trattati di ars notarie. L'applicazione pratica di questa intuizione avvenne tuttavia con estrema gradualità e prudenti adattamenti anche nei centri del Regno d'Italia, che pure erano i più idonei al suo accoglimento. E se le sue prime concrete manifestazioni, prodromi di un'articolata varietà di soluzioni, si ebbero già nell'età di Federico, la scelta definitiva delle procedure e dei referenti in grado di verificare il possesso di conoscenze idonee allo svolgimento della professione segnò tutta la vicenda del notariato nel Regno d'Italia almeno fino alla metà del sec. XIV.
Nell'ambito del Regno agli inizi del sec. XIII il notariato era ormai pervenuto, in linea generale, alla situazione recepita nel Liber formularius e connotata dalla publica fides, di fatto riconosciuta ai documenti notarili. Ovunque simili erano anche le procedure che consentivano di ottenere la nomina a notaio. La potestà di nominare notai ‒ depositari di una facoltà di autenticazione, manifestazione di attività pubblica ‒ era sicuramente una regalia. Titolare ne era dunque il sovrano e le autorità da esso delegate. Tra i notai attivi all'aprirsi dell'età di Federico II vi era una significativa presenza di notai nominati dai precedenti imperatori, incoronati o solo designati, nel corso di una delle loro più o meno frequenti discese in Italia. Qualche notaio aveva ottenuto la nomina da alti dignitari della corte imperiale, come Wolfgerius, patriarca di Aquileia e cancelliere di Ottone IV, al quale tale potestà era stata conferita unitamente all'incarico; o da personalità che ne avevano ricevuto una specifica concessione, come quella elargita da Ottone IV al ferrarese Pietro Aldighieri. Il nucleo di gran lunga più consistente era peraltro quello dei notai nominati dai conti palatini: i vari rami dei conti di Lomello, ma anche i conti di Panico, nell'Appennino toscoemiliano, e gli avvocati di Lucca. La potestà di nominare notai spettava solidalmente a tutti gli appartenenti al gruppo familiare e questo spiega l'ampia diffusione in tutto il Regno delle nomine da parte di detti conti. In aree molto ristrette agivano anche notai nominati, per antica concessione, dai titolari di dignità ecclesiastiche, quali l'arcivescovo di Ravenna e il vescovo di Volterra. A Genova nel 1162 le autorità comunali avevano ottenuto in feudo da Federico I l'esercizio delle potestà imperiali, tra le quali quella di nominare notai. Ai consoli di Pavia Enrico VI nel 1191, sanzionando una prassi affermatasi da qualche decennio, aveva concesso, in sua assenza dalla Lombardia, la potestà di nominare notai, obbligati poi a una conferma imperiale. Entrambi i comuni avevano pienamente esercitato quanto loro concesso.
Genova e Pavia a parte, non risulta che ad altre città fosse stata riconosciuta la potestà di nominare notai né, che si sappia, alcuna città aveva ritenuto che tale concessione fosse compresa tra quelle elargite ai comuni con la pace di Costanza. Tuttavia vari comuni già prima della fine del sec. XII avevano cominciato a nominare notai. Era una delle tante erosioni delle prerogative dell'Impero, anche se soltanto parziale. Infatti, mentre i notai nominati dal sovrano o da autorità da lui delegate potevano redigere atti validi in ogni luogo dell'Impero, i notai nominati dalle autorità comunali, a eccezione di quelle di Genova e Pavia, trovavano nelle singole giurisdizioni il limite della loro capacità di redigere atti validi.
In questa materia i primi interventi di Federico furono del tutto congrui alla situazione in atto. In varie città del Regno d'Italia risultano presenti notai che egli aveva nominato quale rex Romanorum e dunque prima del novembre 1220. Un particolare significato acquista peraltro in questo contesto il diploma con cui da Spira il 19 febbraio 1219 Federico, confermando ai conti palatini di Lomello i privilegi di cui godevano, revocava le concessioni, compresa quella di nominare notai, che in loro pregiudizio erano state elargite da Ottone IV a Galino da Aliate. Ne traspare un indirizzo che informò anche in seguito le scelte operate da Federico: una conferma delle concessioni molto oculata, attenta a non allargarne i titolari al di là della più stretta opportunità. Ne furono chiara espressione i privilegi emessi nel corso del 1220. Il 17 aprile annunciando alle autorità del Regno d'Italia la nomina di Corrado, vescovo di Spira e Metz (v.), a suo legato nel Regno, elencava tra i poteri conferitigli anche quello di nominare notai. Nell'autunno successivo tre suoi privilegi confermavano alla città di Genova, al vescovo di Volterra e agli avvocati di Lucca i poteri loro conferiti dai suoi predecessori, compreso quello di nominare notai. Ma nelle contemporanee conferme dei poteri elargiti dai suoi predecessori ad altre città, parimenti a lui vicine come Parma, Pisa e, al momento, Bologna, o ad altri conti palatini, quali i Guerra di Toscana, Federico non estese tali poteri alla nomina dei notai. Non si ebbero invece al momento interventi di Federico avversi ai notai di nomina cittadina, anche se né l'imperatore né i suoi dignitari potevano ignorare che vari comuni avevano proceduto a tali nomine: forse perché, trattandosi di notai in grado di redigere atti nel solo distretto cittadino, la loro nomina poteva non apparire un'indebita usurpazione delle prerogative imperiali.
D'altra parte, all'aprirsi del terzo decennio del sec. XIII, la nomina di notai a opera delle autorità comunali doveva essere ancora un fenomeno marginale. A Bologna, il cui comune nel 1219 aveva ordinato di riportare in un Liber notariorum il nome di tutti i notai attivi in città e distretto con il relativo titolo di abilitazione, nel quinquennio 1220-1224 vennero registrati una cinquantina di notai che avevano esibito un privilegio di nomina dello stesso Federico, altrettanti un privilegio dei legati imperiali e circa duecento un privilegio emesso dai conti palatini, mentre solo quattro notai avevano dichiarato di essere stati nominati dall'autorità comunale.
La nomina dei notai da parte dell'imperatore, da autorità da lui delegate e dai conti palatini si articolava con la procedura tipica dell'investitura feudale. Alla presenza di testimoni il sovrano, il legato imperiale o il conte palatino, dichiaratisi certi della probitas e della fidelitas del richiedente, con la consegna della penna e del calamaio lo investivano dell'officium notarie e lo abilitavano con ciò a redigere documenti validi in tutto l'Impero. Il notaio, che aveva assicurato di non essere né servo né chierico, prestava il giuramento di fidelitas all'imperatore e, nel caso, all'autorità che lo aveva nominato e giurava quindi di osservare nella sua attività una serie di regole, una sorta di deontologia professionale: non redigere documenti falsi, ma riportare in essi tutte e solo le manifestazioni di volontà delle parti, non utilizzare per i documenti definitivi pergamene abrase o fogli di carta, non rivelare anzitempo il contenuto delle testimonianze e delle sentenze, difendere i diritti di chiese, ospedali, poveri e orfani. Anche le nomine da parte delle autorità comunali ripetevano sul piano formale la procedura di quelle da parte dell'imperatore, dei suoi legati e dei conti palatini.
Il documento che attestava la nomina assumeva veste di privilegio dell'imperatore o del legato, redatto dalla cancelleria e munito del relativo sigillo; ma vi furono anche documenti scritti da un notaio del luogo in cui era avvenuta la nomina, nelle forme dell'instrumentum. Di quest'ultimo tipo erano sempre i documenti attestanti le nomine da parte dei conti palatini e dei rettori dei comuni. Quando incaricati di redigere il documento erano notai locali, questi nella loro sottoscrizione conclusiva (completio) ponevano solitamente in evidenza di averlo redatto non per richiesta dell'interessato, come avveniva per gli atti di negoziazione privata, bensì per un esplicito comando dell'autorità che aveva provveduto alla nomina.
Tutti questi documenti lasciavano tuttavia in ombra i precedenti della nomina, in che modo cioè fosse stata accertata la probitas e la fidelitas del nuovo notaio e, soprattutto, se ne fosse stata valutata anche la preparazione professionale. Circa le prime qualità poteva essere stato ritenuto sufficiente il ricorso a opportune testimonianze, ma per la preparazione professionale resta il dubbio se l'imperatore, il legato o i conti palatini si fossero accontentati di altre testimonianze o se avessero sottoposto i richiedenti a qualche prova. Lo stesso Ranieri, che offre gli esempi della nomina da parte dell'imperatore ‒ attestata sia in un documento di cancelleria sia in un documento notarile ‒ e di quella da parte del conte palatino, non fa riferimento ad alcuna verifica della preparazione professionale posseduta dal nuovo notaio. In modo ancora più esplicito Odofredo, parlando della nomina dei giudici da parte dell'imperatore, sottolineava con sarcasmo che tali nomine dipendevano soltanto dalle insistenti richieste degli interessati e che la relativa qualifica era il risultato non di una loro preparazione specifica ma solo di un documento col sigillo imperiale. Stante la stretta somiglianza delle procedure di nomina dei giudici e dei notai potrebbe dedursene che anche le nomine di questi non prevedessero controlli di sorta. Che tuttavia nella nomina da parte dell'imperatore non mancasse lo svolgimento di una verifica ‒ forse più a livello di assunzione di testimonianze che di vero e proprio esame ‒ lo farebbe intuire la presenza di giurisperiti e di giudici quali testimoni sia all'atto di investitura sia al giuramento del nuovo notaio. Più incerto è invece il caso dei notai nominati dai conti palatini, in particolare per l'alto numero di tali nomine in tutto il territorio del Regno. In verità tra i documenti di nomina da parte di conti palatini alcuni risultano redatti da un maestro d'arte notarile ed è dunque probabile che, almeno in questi casi, qualche garanzia dell'idoneità dei nuovi notai fosse stata offerta.
Dei costi della nomina da parte dell'imperatore informa un privilegio di Federico del giugno 1246 per il figlio Federico d'Antiochia, vicario generale in Toscana. Ogni giudice avrebbe dovuto versare 3 lire di moneta di Lucca e ogni notaio 1 lira: una tassa certo non elevata e che costituisce anche un interessante parametro per valutare il rapporto tra le due categorie di professionisti. Circa la nomina da parte dei conti palatini non si sono reperite testimonianze di pagamenti a loro favore. Dedurre da ciò la gratuità dell'esercizio di tale potestà da parte di tanti conti palatini è forse eccessivo, ma se un compenso ne ricavavano doveva trattarsi di cosa molto modesta.
La situazione così delineata venne progressivamente a modificarsi a partire dal 1226, quando si manifestò in tutta evidenza la grande distanza che separava la concezione politica di Federico da quella delle città del Regno d'Italia. L'11 luglio 1226 l'imperatore dichiarava colpevoli di lesa maestà i comuni aderenti alla Lega lombarda, li poneva al bando dell'Impero e li privava di ogni giurisdizione, potestà e ufficio, compresi quelli di giudici e notai. Al provvedimento, che annullava d'un colpo non solo le nomine dei pochi notai comunali ma qualsiasi forma di autonomia, i vari comuni reagirono con decisione emanando a loro volta norme in aperto sprezzo del bando imperiale. Nel febbraio successivo l'arbitrato di papa Onorio III pose fine allo scontro e le sanzioni imperiali vennero revocate. Ma il contrasto di fondo non era stato risolto e la cosa ebbe riflessi anche nel ristretto ambito del notariato. Negli anni seguenti la nomina di notai da parte dell'imperatore e dei suoi legati e vicari si venne di fatto restringendo a quella di notai di città alleate o comunque non ostili a Federico. È il caso di Cortona, ove dal 1231 al 1248 è attestata la nomina di sedici notai da parte dell'imperatore, di uno da parte di Enzo, re di Sardegna, e di tre da parte di Federico d'Antiochia; mentre nella stessa Parma, a partire dal 1235, si incontrano solo sei notai di nomina imperiale. Tuttavia, coerente all'indirizzo che aveva caratterizzato le sue concessioni o, meglio, le conferme elargite nel 1220, anche in questo periodo Federico limitò a pochissime autorità la potestà di nominare notai. Ne furono investiti i legati imperiali, Alberto, arcivescovo di Magdeburgo, Geboardo di Arnstein, Enzo re di Sardegna, Tommaso di Savoia e, con tutta probabilità, Marcellino Pete, vescovo di Arezzo e legato imperiale nella Marca anconetana. Ma al figlio Federico d'Antiochia, creato vicario generale in Toscana nel febbraio 1245, la potestà di nominare notai, in caso di prolungata assenza dell'imperatore dalla Toscana, fu conferita con un apposito privilegio solo nel giugno 1246.
Nelle città che lo contrastavano i notai di diretta nomina imperiale diminuirono invece sensibilmente. Lo si verifica con chiarezza a Bologna, dove dopo il 1227 i notai muniti di un privilegio di nomina dell'imperatore e dei suoi legati si ridussero dalle annuali decine a qualche unità. Alla necessità di professionisti in grado di dare certezza giuridica alle negoziazioni tra privati e agli atti delle amministrazioni cittadine provvedevano comunque le nomine dei conti palatini e, in non pochi centri, quelle delle singole autorità comunali. Anche comuni tutt'altro che ostili a Federico come Senigallia e Imola non si fecero scrupolo di provvedere direttamente, fin dagli anni Trenta, a nominare notai.
La testimonianza più significativa, in merito alle innovazioni che dai primi scontri con la Lega lombarda si manifestarono nella nomina dei notai, è resa comunque dalla formula suggerita a tal fine da Ranieri da Perugia. È una formula che egli aggiunse all'inizio degli anni Venti al Liber formularius e che poi riprese e inserì nella sua seconda opera teorica, l'Ars notarie, scritta a partire dal 1226. Non si tratta più di un provvedimento simile a un privilegio imperiale con richiamo alla procedura d'investitura e al giuramento di fidelitas; è invece una pura sententia con cui il giudice del podestà dispone l'iscrizione del nome del notaio nel Liber notariorum, autorizzandolo con ciò all'esercizio della professione notarile nella città e nel distretto. La sententia non menziona un preesistente privilegio di notariato, ma fa esclusivo riferimento al giudizio che ha accertato l'effettiva preparazione del nuovo notaio a esercitare la professione. In verità le registrazioni nel Liber notariorum di Bologna rivelano che non pochi giovani notai, all'atto di sostenere l'esame dei giudici del comune, avevano esibito il documento di nomina da parte di un conte palatino. Tuttavia già alla fine degli anni Trenta cessò la menzione nel Liber notariorum di simili privilegi, emessi da un'autorità delegata dall'imperatore o comunque a lui vincolata da un rapporto di vassallaggio. L'iscrizione nel Liber venne così a dipendere unicamente dal superamento dell'esame di fronte ai giudici del comune. Ciò non significa che i notai bolognesi non ricercassero anche ‒ prima o dopo l'esame comunale ‒ il privilegio di nomina di un'autorità che consentisse loro di esercitare in tutte le terre dell'Impero; ma per l'attività in Bologna e nella sua giurisdizione questo privilegio non era più necessario e non pochi furono infatti i notai che nella seconda metà del secolo si astennero dal ricercarlo.
A Bologna questa affermazione di autonomia aveva trovato un incentivo nell'aspro scontro politico e militare che oppose a lungo la città a Federico, ma la vicenda interessò, seppure con diversa intensità, l'intero Regno d'Italia. Ancora più diffuse e pressanti di quelle politiche erano infatti le motivazioni connesse ai bisogni interni delle singole città, grandi e piccole, e che si riassumevano nella necessità di disporre di professionisti in grado di dare risposte idonee e congrue alle esigenze delle negoziazioni tra privati e soprattutto a quelle della organizzazione cittadina. Conseguenza evidente di questa situazione era il forte aumento del numero dei notai. A Lucca da ottanta notai attivi nel 1220 si arrivò nel 1250 a quasi duecento. E non fu certo un caso isolato. Ciò indusse i vari comuni a due ordini di interventi. Il primo consisté nell'adozione di misure volte a dare certezza alle negoziazioni tra privati, ostacolando anzitutto la produzione di documenti falsi. A Como, già nel 1219, a seguito di un processo che aveva portato alla condanna di alcuni notai colpevoli di aver falsificato documenti, il comune stabilì che in ogni documento era necessaria la presenza di tre testimoni e che, in base al valore dell'oggetto, esso doveva essere sottoscritto, oltre che dal notaio redattore, da un altro o da altri due notai. A Ravenna, Bergamo, Parma, Firenze e in altre città, sempre al fine di evitare la produzione di falsi, si assegnò alle autorità del comune la competenza ad autorizzare l'estrazione di documenti definitivi dalle prime annotazioni (imbreviature) di notai defunti o assenti.
Altrettanto pressante era anche la preoccupazione dei vari comuni per la validità della propria documentazione, affidata ovunque a notai, in gran parte a notai della stessa città. Ed era una preoccupazione ben giustificata dal momento che proprio nell'età di Federico si assistette a una crescita esponenziale degli atti delle amministrazioni cittadine, la cui più vistosa manifestazione furono i documenti redatti fin dall'origine su registri. Ciò indusse vari comuni a un secondo ordine di interventi, la cui finalità era quella di verificare l'effettiva preparazione dei notai. Dopo Bologna fu Siena nel 1238 a subordinare l'esercizio della professione notarile al superamento di un esame d'idoneità di fronte a una commissione composta da due giudici e un notaio nominati dal consiglio comunale.
In altre città questi interventi videro il coinvolgimento di collegi o società che raccoglievano e rappresentavano i notai locali. Società tra i notai nelle città del Regno d'Italia si erano già formate nel sec. XII; ma fu soprattutto nei primi due decenni del secolo seguente che esse presero ad agire in modo sempre più incisivo. Accoglievano per lo più sia giudici sia notai, accomunati dalla identità delle procedure di nomina, dal giuramento di fidelitas verso l'imperatore (e, se del caso, verso il conte palatino) e dalla contiguità della professione. Alla forza di questi vincoli, ai quali si aggiungeva per i notai il comune impegno all'osservanza di una minuta deontologia professionale, va attribuita la diffusa presenza di rituali di accettazione del nuovo notaio da parte di quelli già attivi, di pratiche di formazione alla professione, di adesione a impegni di solidarietà e di partecipazione a cerimonie religiose collettive. A una di queste società, quella dei notai di Verona, nel novembre 1220 Federico aveva riconosciuto il diritto di eleggersi rettori, di darsi norme sociali e aveva subordinato l'esercizio dell'attività notarile in città e nel distretto all'appartenenza alla società. La concessione va probabilmente letta nell'ottica di una attenzione tutta particolare di Federico per la posizione strategica di Verona, attenzione che pare aver ispirato anche i privilegi del settembre precedente a favore del capitolo della cattedrale cittadina e del monastero di S. Michele di Campagna e quello, ammesso che sia autentico, con cui il 19 agosto 1220 avrebbe attribuito a Rizzardo di San Bonifacio la potestà di nominare notai. Non risulta infatti che Federico abbia concesso privilegi simili ad altre società di notai.
Tuttavia in alcune città tali società riuscivano già a controllare in qualche misura l'effettivo esercizio della professione. Fu questo tipicamente il caso di Pavia. Qui nel 1218 il consiglio di credenza stabilì che le funzioni di notaio del comune e dei consoli di giustizia potevano essere conferite solo a coloro che, in possesso del privilegio di notariato, si fossero formati professionalmente per almeno due anni sotto la guida di un notaio della societas maior dei notai di Pavia. Questa stessa società assicurava inoltre la legittimità dei documenti estratti da un notaio sulla base delle imbreviature di un altro notaio. Nel luglio 1226 Federico, di fronte al grave contrasto tra nobili e popolari di Pavia, abolì tutte le societates della città e dunque anche quella dei notai, ma nel febbraio successivo fu indotto ad annullare questa decisione limitatamente alla società dei notai. Lo fece su pressione delle autorità comunali, convinte che la mancanza di questa società avrebbe favorito la produzione di documenti falsi. In effetti, ricostituita nel settembre 1229 la società dei notai, negli anni seguenti si ebbero varie condanne per falsificazioni di documenti: evidente manifestazione del forte potere di controllo che la società aveva saputo acquisire nei confronti di tutti i notai attivi in Pavia e nel distretto. Ben presto, inoltre, l'esercizio della professione notarile per i privati e per gli uffici del comune si legò alla qualifica di socio e per conferire tale qualifica la società fece ricorso a una propria valutazione della preparazione professionale del nuovo notaio.
Questo tipo di evoluzione andò progressivamente affermandosi nella maggior parte delle città del Regno d'Italia fin dagli ultimi anni di Federico. A Bologna dal 1246 gli esami degli aspiranti al notariato vennero svolti davanti a una commissione presieduta da un giudice del podestà, affiancato da un altro giudice e da sedici notai nominati dalla loro società. Nella seconda metà del secolo a Bergamo i nuovi notai, in possesso di un privilegio di notariato rilasciato da un conte palatino, per essere autorizzati a esercitare la professione dovevano sostenere un esame di fronte a una commissione nominata dalla locale società dei notai e affrontare quindi una specifica preparazione professionale presso un notaio esperto. A Piacenza, dopo aver superato un esame simile a quello previsto a Bergamo, il nuovo notaio doveva sottoporsi a un apprendistato della durata di cinque anni. Di accertamenti della preparazione professionale dei nuovi notai da parte delle singole società, collegi o corporazioni notarili ‒ accertamenti diversi nelle procedure e nei tempi di adozione, ma non per questo meno significativi ‒ recano tracce le vicende del notariato di Vercelli e di Lucca, di Mantova e di Siena, di Padova, Arezzo, Parma, Treviso e altre ancora. Anche nell'ambito della professione notarile si manifestava in questo modo quella progressiva chiusura a protezione degli interessi costituiti, connotato saliente di tutte le strutture corporative che caratterizzarono la fase popolare del comune avviatasi con la fine dell'età di Federico.
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