SICILIA, REGNO DI
Fu nel Regno di Sicilia che Federico II esplicò più pienamente le sue qualità e le sue vedute di uomo di stato. Nessun paragone è possibile, al riguardo, con l'attività che egli svolse in quanto sovrano dell'Impero in Germania e in Italia o in qualsiasi altro ambito e in qualsiasi altra qualità. Si prescinda pure dal legame particolare che Federico sentì sempre con il Regno, che perciò Kantorowicz definì "la terra promessa dell'imperatore" e per cui il sovrano svevo parlava della Sicilia come pupilla oculorum nostrorum e definiva se stesso come unus ex Apulia (Kantorowicz, 1988, pp. 205-206 e 328). Si prescinda ancora da quella che lo stesso Kantorowicz definiva "la metafisica di stato" (ibid., pp. 211 ss. e 330 ss.), ossia dalla generale impostazione teorica dei poteri del sovrano, del loro fondamento e della loro latitudine rintracciabile nella documentazione siciliana e non siciliana di Federico II. A seguire il filo dell'intensa e ininterrotta attività di governo svolta dall'imperatore in almeno trentacinque anni di diretto impegno personale, la legislazione e la politica del rex Siciliae emergono con un forte rilievo rispetto a ogni altro piano di quella lunga attività, anche perché sembrano delineare un complesso di indirizzi e una continuità di posizioni quali per altri aspetti dell'azione di Federico non è facile riscontrare. Di qui la fondatezza del giudizio, secondo il quale il Regno di Sicilia fu di fatto il principale banco di prova di Federico come statista.
Vero è che in Sicilia egli trovò sia una struttura di governo che una base politico-amministrativa di particolare stabilità nel quadro europeo del tempo. Non che sia da accogliere senza riserve la radicata presunzione storiografica di una Sicilia o, meglio, di un Regno di Sicilia normanno già equivalente a una forte monarchia del tipo di quelle che fiorirono in Europa dalla seconda metà del sec. XV in poi. Il Regno era una monarchia feudale in cui la forza dei particolarismi sociali e territoriali non era minore che in altre monarchie del tempo. In Sicilia, però, il quadro ordinario della monarchia feudale era largamente caratterizzato da istituzioni e da prassi di governo che mettevano il potere regio in grado di atteggiarsi e condursi con un'autorità infrequente nell'Europa feudale del tempo.
Proprio questa autorità si ritrovava, tuttavia, in condizioni di grave crisi allorché Federico assunse personalmente la direzione delle cose del Regno: il che accadde, come è noto, alla fine del 1220 dopo circa nove anni di assenza.
Questo accenno cronologico non va trascurato. Federico tornava ventiseienne in un paese dal quale era partito diciassettenne. Ciò non vuol dire che la sua prima maturazione politica non sia cominciata in Sicilia. Tuttavia, l'idea di un Federico che quindicenne e sedicenne ha già una compiuta visione dei problemi della monarchia, della quale si trovava a capo, e già personalmente dirige le cose del Regno, è un'idea romantica e seducente, ma con ben poche probabilità di essere rispondente alla realtà. Certo è che il suo matrimonio con Costanza d'Aragona appare ideato e disposto da Innocenzo III, sia pure riprendendo un disegno della madre di Federico (ibid., pp. 26-28). Nel contrasto con lo stesso Innocenzo III che si delineò nel medesimo torno di tempo a proposito della nomina del nuovo arcivescovo di Palermo, il papa ne attribuì la responsabilità ai consiglieri di Federico, tra i quali era Gualtiero di Palearia (ibid.); e, anche se in ciò si può vedere un escamotage del pontefice per scagionare il sovrano, non è impossibile, anzi è del tutto verosimile, che le cose stessero proprio come il pontefice diceva. Sappiamo poi che, quando a Federico venne offerta la corona germanica, la moglie Costanza era contraria all'accettazione. Fu allora tale accettazione un pensiero personale del diciassettenne sovrano? È probabile, tanto più che era favorevole, suo malgrado, anche il papa. Riesce tuttavia difficile credere che di una decisione di tanta importanza non si interessassero i consiglieri del re e i circoli di corte; ed è altrettanto difficile pensare che a questi livelli non fosse vista con favore l'eventualità di un forte impegno del sovrano in paesi lontani, nei quali la sicurezza del trono poneva problemi ben maggiori che in Sicilia. Ciò spiegherebbe meglio, con ragioni immediate di politica siciliana, l'atteggiamento contrario della regina. E, comunque, il quadro generale dei primi anni della maggiore età di Federico sembra confermare che il giovane sovrano si muoveva entro una rete di condizionamenti e di influenze tali da non consentire di ritenerlo, già allora, una personalità matura e autonoma.
Un tale giudizio può essere, invece, certamente avanzato per il Federico retour d'Allemagne; ma ciò significa anche che la fase decisiva della sua educazione politica, le sue prime vere esperienze sul campo, la sua piena maturazione come personalità e soggetto autonomo ebbero luogo lontano dalla Sicilia e a contatto coi problemi e la prassi di una realtà politica, sociale, culturale alquanto diversa da quella siciliana. È però anche noto quale problema storico abbia costituito e costituisca, nelle tesi contrapposte che la propongono, l'interpretazione della politica di Federico in Germania durante questi anni.
C'è la tesi estrema, secondo la quale egli non avrebbe fatto altro che cedere alle istanze particolaristiche di grandi feudatari, ecclesiastici e cittadini, compromettendo in maniera definitiva le possibilità di affermazione di un forte potere centrale in Germania e, con esse, la prospettiva di un destino politico diverso e più conforme ai grandi interessi nazionali del popolo tedesco. Una tale condotta di abdicazione ai poteri e alle prospettive imperiali e nazionali avrebbe avuto la sua motivazione essenzialmente nel fatto che Federico avrebbe riservato all'Italia e, in particolare, alla Sicilia il suo principale interesse e avrebbe considerato l'Impero e la Germania come moneta di scambio per godere di tranquillità, di poteri e di qualche risorsa ai fini della sua politica italiana e siciliana.
Non manca, però, neppure la tesi opposta, secondo la quale sarebbe in questi anni "evidente che Federico si riprometteva di far dell'Impero il punto focale della sua politica" e "la sua mente era volta a traguardi imperiali nel senso più ampio", che avrebbero compreso "la leadership della Cristianità contro gli infedeli, l'affermazione dell'autorità dei Cesari in tutto il mondo cristiano, comprese la Lombardia e la Sicilia" e "la definizione di un accettabile modus vivendi con il Papato" (Abulafia, 1990, p. 103). In forma ancor più impegnativa il maggiore biografo dell'imperatore sostiene anch'egli che Federico "sapeva già da allora esattamente quel che voleva" e che aveva "teso sempre, sin dalla prima giovinezza, a un'unica alta meta: far grande e potente l'Impero", sicché "i suoi progetti furono sin dal principio indirizzati tutti a risolvere i problemi dell'Impero nel suo complesso: Impero del quale la Germania era solo una parte, per quanto importante", e "tale punto di vista guidò sempre la politica che Federico svolse in Germania". Più in particolare, Kantorowicz afferma con decisione che "in quegli anni passati in Germania, Federico colse d'istinto quanto poteva servire all'impero, quanto era suscettibile di sviluppi utili a tutto il mondo romano, e non solo alla terra germanica; della quale non gli importavano le piccole questioni interne, ma le forze che potevano rinsaldare l'impero e rinsaldare la Germania con esso". Per lui, anzi, "la giovane Germania che si svegliava agli inizi del XIII secolo trovò nel giovane re, nel 'fanciullo di Puglia', di che nutrire la sua fioritura" (Kantorowicz, 1988, pp. 75-76).
È superfluo ricordare che le due tesi possono vantare buoni argomenti interpretativi e buoni appoggi documentari. Su entrambe sembra, tuttavia, riflettersi negativamente il peso di un presupposto al quale abbiamo già accennato, e cioè che Federico avesse chiaro in mente, "sin dalla prima giovinezza" come dice Kantorowicz, un preciso concetto di ciò che fossero o potessero o dovessero essere, in un caso, il Regno di Sicilia e l'Italia, e, nell'altro caso, l'Impero. A noi sembra, invero, che il giovane Federico che alla fine del 1212 piantò le sue tende a Costanza e a Basilea fosse una personalità altamente plastica, in cui di idee definite e di disegni precisi non era veramente da parlare. Sembra, piuttosto, che queste certezze debbano ridursi a pochissimi elementi, il primo e maggiore dei quali è difficile non vedere nel sentimento dinastico: ossia in ciò che Federico, nell'accettare l'offerta della corona imperiale, definì "il nostro diritto" e, quella a lui offerta, "una corona che ci spettava"; e in ciò per cui Innocenzo III scrisse che in Sicilia "la dignità reale innata e la nobiltà della sua stirpe 'lo fecero incedere saldo su ambo i piedi!'" (ibid., pp. 25 e 48).
I passi immediatamente compiuti per assicurare al piccolo figlio Enrico prima la corona siciliana e poi quella germanica sono una conferma di fatto e molto eloquente della presunzione di questo sentimento dinastico come criterio orientativo dominante nel giovane Federico ben più della presunzione di qualsiasi concreto disegno politico e concezione o ideale di stato, di Impero, di Sicilia che egli avrebbe nutrito. Nel caso della designazione alla corona siciliana Federico si mosse, come è noto, in accordo col papa, il quale esigeva un tale passo come garanzia che, appena possibile, le due corone di Sicilia e dell'Impero, secondo i meditati interessi e desideri della Chiesa, sarebbero state separate e tali sarebbero rimaste. Nel caso della designazione alla corona imperiale Federico, come pure è noto, si mosse in difformità dalla tesi pontificia e gli argomenti da lui addotti per giustificare il suo procedere non furono, invero, molto convincenti. È facile, però, ridurre a unità l'uno e l'altro atteggiamento, se appunto si pone nel dovuto rilievo l'elemento dinastico. Questo elemento è, in effetti, il più spontaneo che si possa supporre nello spirito e nella mente del giovanissimo sovrano, quello che neppure aveva bisogno di una particolare e definita cultura di governo e di un'articolazione in precisi disegni politici per ciascuno degli ambiti istituzionali in cui egli si muoveva. Si trattava, infatti, di un elemento conforme alla prassi e alla tradizione profondamente radicate che accomunavano nell'esperienza concreta della vita politica europea dinastie sovrane e dinastie feudali e che formavano l'evidente pendant di tutti i particolarismi presenti in essa ‒ a cominciare da quelli cittadini ‒ e il pendant, altresì, della ricorrente pretesa ecclesiastica al primato politico e civile. Ed è, inoltre, a partire dallo stesso elemento che può prendere senso la giusta esigenza di vedere in Federico un uomo del suo tempo.
Gli 'anni di vagabondaggio' passati in Germania tra la fine del 1212 e l'estate del 1220 assumono, così, un loro più soddisfacente significato.
Già non si è mancato di notare come "al viaggio in Germania dell'imperatore [sia] da rifarsi [per] alcune suggestioni che saranno trasferite nella cultura formale del Mezzogiorno", tanto più che non sembra nemmeno da escludersi che "a quel viaggio abbia partecipato lo stesso Nicola di Puglia". Queste "suggestioni" avrebbero riguardato diversi motivi vagliati da Federico "in funzione di una propria supremazia politica e culturale" e sembrano essere stati utilizzati nel Regno con una certa gradualità, se non prudenza, poiché non vi "troviamo prima del 1230 opere che possano essere attribuite con certezza alla ideologia imperiale", sicché anche per questo verso si conferma che "il 1231 rappresenta il punto nodale" nell'evoluzione della personalità e delle idee, oltre che dell'azione, di Federico (Studi normanni, 2003, pp. 168-185). Si tratta, inoltre, di motivi e suggestioni importanti specie per il loro orientamento classicheggiante, riconosciuto, nelle sue tendenze "alla simbologia classicistica", anche da chi, non senza ragione, sottolinea il "limite insuperato" di una "sostanziale e conservatrice appartenenza al quadro medievale" della "situazione specifica" del mondo in cui Federico operava (Bologna, 1989, p. 179): una riserva corroborata dall'esame approfondito dei "vari segni del potere di Federico" condotto da Peter Schramm (R. Elze, La simbologia del potere nell'età di Federico II, in Politica e cultura, 1986, pp. 203-212) e da integrare con la considerazione che il riferimento di Federico all'antico è molteplice e spazia in un'ampia gamma dall'arte al diritto (Esch, 1996, pp. 201-226).
Gli "anni di vagabondaggio" della prima andata di Federico in Germania diventano quindi ‒ quali ottimamente li definisce Kantorowicz (1988, pp. 75 e 141), non senza qualche contraddizione con il carattere preciso e definito delle concezioni che egli già a quel tempo attribuisce al suo eroe ‒ gli anni del vero e diretto apprendistato politico del sovrano, il cui "senso non è da ricercare in ciò che Federico fece, bensì in ciò che apprese, come si conveniva alla sua età" (ibid., p. 75). E ciò, aggiunge ancora a ragione Kantorowicz, non in relazione alla sua formazione culturale; ma neppure soltanto ‒ bisogna, però, aggiungere ‒ in relazione alle sue esperienze e alla sua conoscenza dell'arte politica e delle condizioni di fatto in cui egli doveva praticare quest'arte, dando per scontato che avesse in mente disegni e concezioni più definite di quel sentimento dinastico di cui si è detto.
Ciò vale, a nostro avviso, essenzialmente in relazione all'idea del potere che allora verosimilmente Federico ebbe modo di formarsi e che poi ci sembra essere rimasta in lui sempre ferma fino all'ultimo: l'idea del potere per cui, da tutto un altro punto di vista e dando luogo, a sua volta, a una forte accentuazione interpretativa in altro senso, Burckhardt parlava dello "stato come opera d'arte" (arte nel senso, anche artigianale, di abilità e di tecnica, nel senso di genio e mestiere politico) e vedeva in Federico II l'iniziatore esemplare di questo indirizzo, da lui attribuito alla civiltà politica del Rinascimento.
Di che cosa precisamente si tratta? È, in effetti, una concezione imperiale del potere ‒ del potere esercitato in qualsiasi ambito, dell'Impero, del Regno o altro che fosse ‒ quella che si radicò in Federico negli anni del suo apprendistato. L'idea, cioè, del potere come autorità sovrana che si impone con la forza e con le leggi, armis et legibus, come si dice in documenti fridericiani e in testi giuridici e letterari, politici e storici del tempo (ibid., p. 329). Un'idea del potere come potenza e come diritto, che può essere confortata ‒ come accade in Federico ‒ da un puntuale riferimento alla tradizione imperiale romana, ma non dipende essenzialmente da questa; non si riferisce affatto solo o tanto all'Impero come istituzione, quanto alla pienezza formale e materiale che il potere richiede per essere esercitato a un livello di alto profilo; quell'idea per cui, per quanto riguarda proprio la Sicilia, Federico l'avrebbe definita mater tyrannorum e se ne sarebbe intitolato basiléus, anziché rex, e mégalos basiléus, 'gran re' (ibid., pp. 204, 207 e 328-329). Siamo, insomma, anche qui a una grande svolta storica. Federico, per quanto complesso e difficile possa esserne l'inquadramento storico (Kamp, 1996, pp. 1-3), ne è un antesignano e forse il maggiore, ma non è l'unico esponente, poiché, se si guarda, ad esempio, ai grandi sovrani francesi del XIII sec., da Filippo Augusto a Filippo il Bello, la proiezione del potere non è diversa. Né pura e semplice reviviscenza romana, per quanto possano essere vistosi i panni cesarei e augustei di cui si ammanta; e neppure quella specie di modernità machiavelliana ante litteram, che è adombrata da Burckhardt. Piuttosto, una piena consonanza con possibilità materiali e con aspirazioni e aspettative maturate nel quadro di un'Europa che si avvicinava, allora, al culmine di uno sviluppo economico e sociale plurisecolare.
Anche in questo Federico fu uomo del suo tempo e ne interpretò le esigenze con un realismo che non significò affatto un meschino adattamento alla condizione delle cose e fu, invece, un motivo di vigorosa e alta ispirazione della sua condotta. I suoi riferimenti dottrinari possono essere, da questo punto di vista, molto fuorvianti e li si può facilmente ritrovare in contraddizione con questa condotta. Sarà opportuno, perciò, tenere presenti quei riferimenti, perché essi fanno pur sempre parte della sua personalità e della sua azione, ma bisognerà evitare di farsene irretire, giudicando o ricostruendo in base a essi l'azione dell'imperatore. Ossia, in altri termini, il pensiero politico dell'imperatore si espresse molto di più nella sua azione che nelle formulazioni diplomatiche e giuridiche: fu la sua azione stessa, se si vuole. Ed è in questo senso che si può senz'altro convenire che "la linea che Federico II pensava di seguire nel Regno apparve del tutto chiara ai circoli più importanti del Regno fin dall'inizio quasi del 1220" (Stürner, 2000, p. 8): una linea, appunto, un criterio di condotta nell'azione di governo, non uno specifico e definito programma. E nella sua azione, quella che abbiamo definito concezione imperiale del potere, emerge, a partire dal suo primo ritorno dalla Germania, come un filo rosso di imprescindibile evidenza.
Al sovrano il Regno né in Sicilia, né in Italia meridionale porgeva quella materia plastica, suscettibile di trasformazioni più o meno demiurgiche, che fu rappresentata da Kantorowicz (1988, p. 99). Offriva, al contrario, una materia difficile e complessa, che già aveva dimostrato una forte e significativa renitenza allo sforzo dei sovrani normanni per imporre una effettiva e stabile disciplina statale. In realtà, nelle condizioni già del periodo normanno, la disciplina statale coincideva con la disciplina monarchica e, come si è detto, la monarchia normanna era una tipica monarchia feudale di quel tempo, che aveva, tuttavia, un quadro di strutture istituzionali e seguiva una prassi politico-amministrativa per cui, a giusta ragione, appariva allora, ed è apparsa in seguito, una realtà politico-istituzionale di particolare consistenza nel contesto europeo del tempo. Quando Federico tornò nel Regno gl'intrinseci limiti del potere regio in un tale tipo di regime erano stati, comunque, fortemente aggravati da una crisi trentennale, che dalla morte di Guglielmo II nel 1189 non aveva praticamente conosciuto interruzioni. Che il sovrano svevo pensasse subito allora a una riorganizzazione del Regno, non stupisce. Egli stesso avrebbe rilevato che il Regno era stato "hactenus lacessitum" per debolezza dell'autorità regia, per le assenze del re, per le perturbationes in cui era incorso; che le leggi e gli statuti fissati dai suoi predecessori erano inosservati e inoperanti (arrugginiti, dice testualmente); e che occorreva procedere, oltre che a rilanciare i precedenti, a un nuovo ordinamento (Constitutionum, 1773, pp. 6-7). Né stupisce, quindi, che in quest'opera di riorganizzazione l'anno della morte di Guglielmo II, il 1189, sia stato considerato da Federico come il suo Anknüpfungspunkt (Stürner, 2000, p. 15), il punto al quale si riallacciava la sua azione di sovrano del Regno, la tradizione che egli intendeva restaurare, ma anche ‒ come si è accennato ‒ con l'intento di prenderne le mosse per la sua ulteriore azione. Lungi era, infatti, da lui l'idea che i bonos usos et consuetudines del tempo di Guglielmo II dovessero costituire il confine invalicabile della potestà regia. La sua idea 'imperiale' del potere era anche in ciò lucida, anzi del tutto esplicita, tanto da disporre, fin dalle Assise di Capua (v.), che universis privilegiis Regni nostri fosse apposta la clausola salvo mandato et ordinatione nostra: ossia un richiamo alla potestà incondizionata di fare e disfare le sue stesse disposizioni, che il sovrano si riservava appieno (ibid.); e tanto, anche, da prospettare esplicitamente, pur nel rispetto della "dignità dei precedenti sovrani", la sua facoltà di stabilire, "conformemente alla peculiarità dei nuovi tempi, […] nuovi diritti", propinando "nuove medicine" per "nuovi mali", come un vero e proprio rex novus (Kantorowicz, 1988, pp. 225-226 e 342).
Il problema storico del nuovo ordinamento del Regno è anch'esso una fonte frequente di equivoci storiografici, nel senso che si è discusso e si discute molto se il disegno istituzionale a cui esso è legato configuri una continuità organica con quello normanno e si possa parlare, quindi, di uno stato normanno-svevo da Ruggero II a Manfredi, o se configuri una variazione talmente forte della struttura istituzionale normanna da far parlare di uno stato svevo come modello e come realtà diversi da quelli dello stato normanno, nel quale ultimo caso vi sarebbe anche una questione di transizione dallo stato normanno allo stato svevo e di determinazione cronologica di tale transizione.
Tutto ciò avrebbe maggiore senso e corposità storica se, intanto, si potesse parlare dello stato normanno come un'entità storica definita e stabile nel fondamento dei suoi istituti e delle sue prassi: se si potesse parlare, cioè, di una realtà normanna diversa da quella che l'effettivo quadro storico ci presenta. Prima e dopo la proclamazione del Regno nel 1130 i principi normanni furono, infatti, al centro di uno sviluppo continuo dei loro modi e dei loro strumenti di governo. Né avrebbe potuto essere diversamente. I loro domini si fondavano su una serie di sistemazioni e di equilibri in base a cui erano regolati i loro rapporti con il paese e le sue varie articolazioni territoriali, politiche, sociali, religiose. La centralità del loro potere ‒ prima comitale e ducale, poi regio ‒ è fuori discussione, ma era un dato essenzialmente politico e militare, al quale l'investitura pontificia aveva conferito il sigillo della legittimità. Sul piano istituzionale questa centralità fece sì che con Ruggero II la Curia siciliana, con i suoi uffici e le sue competenze, facesse le funzioni di organo, a sua volta, centrale ed eminente del governo e dell'amministrazione. Che questa Curia fosse "incentrata su un rigoroso assolutismo teocratico di stampo bizantino" (Kölzer, 1994, p. 68), è un'affermazione di difficile accettabilità nel suo significato letterale. Anche chi la sostiene mette, comunque, giustamente in rilievo che, formatosi il Regno, vi fu una graduale trasformazione della Curia stessa: prima "differenziata solo sulla base di relazioni gerarchiche del personale con il sovrano", poi distinta (e non si dovrebbe parlare, perciò, di "frantumazione") "in sfere di competenza diverse", e ciò in "conseguenza del consolidarsi dell'amministrazione locale e regionale negli anni dopo il 1140" e con un processo "che assunse contorni più precisi" solo sotto i due Guglielmi (ibid., pp. 68 ss.).
Questa è, appunto, la prospettiva giusta quando si parla di struttura istituzionale del Regno sotto i normanni: la prospettiva di un work in progress, di una storia in divenire, non di un presunto modello di stampo islamico o bizantino, teocratico o assolutistico, che i principi normanni avrebbero rilevato quasi già bell'e formato dai più potenti fra i loro predecessori. Delle istituzioni precedenti (e non solo di quelle di ascendenza islamica e bizantina) essi certamente si servirono e ne trassero elementi essenziali per ciò che finì con l'essere la Curia siciliana. Che fu una salda struttura di governo, come si è detto: più salda, già agli occhi dei contemporanei, di altri organi centrali delle monarchie europee di quel tempo. La formazione dell'amministrazione locale e regionale assume, in questa prospettiva, tutta l'importanza che merita. Fu a questo livello, infatti, che si giocarono le carte decisive per le fortune e lo sviluppo del potere regio e della fisionomia istituzionale complessiva del Regno. Si trattava, da un lato, di affermare il principio della sovranità regia rispetto alla grande varietà di accordi e regimi particolari con cui le varie forze ed entità locali erano state inquadrate nei primi domini normanni e, infine, nella monarchia, sostituendo a questa varietà una certa uniformità di moduli e di prassi, se non proprio di istituti amministrativi. Dall'altro lato, si trattava di conseguire un obiettivo analogo per ciò che riguardava il regime feudale del Regno e un suo inquadramento regolato e funzionale non tanto sotto il profilo istituzionale quanto dal punto di vista della sicurezza, dell'efficacia e delle risorse della monarchia e dei sovrani. Fu questa la grande opera dei principi normanni. Che essa mostrasse di aver raggiunto sotto Gugliemo II un notevole grado di avanzamento non vuol dire che la struttura del Regno siciliano fosse definita secondo un preciso modello istituzionale. La successiva tradizione che idealizzò, e quasi mitizzò, questo livello dello svolgimento politico-istituzionale della monarchia meridionale, non a caso, e con un senso della realtà molto maggiore di quello della massima parte della posteriore storiografia, parla di 'consuetudini del tempo del re Guglielmo': non parla, cioè, di profili e assetti univoci e definiti. A lungo l'intitolazione diplomatica degli atti dei sovrani li qualificava come re di Sicilia, del ducato d'Apulia e del principato di Capua; e sappiamo che per Napoli si parlava di un honor Neapolis (Kehr, 1934, p. 40 n. 1; Fuiano, 1972, pp. 30-31), mentre per le terre abruzzesi non sembrano esservi termini specifici per indicarne la collocazione territoriale e istituzionale tra le grandi circoscrizioni geopolitiche della giovane monarchia (Feller, 1998, pp. 763-782).
Ristrutturazione territoriale, avvio di un'amministrazione periferica tendenzialmente più uniforme, distinzione funzionale dell'attività della Curia regis, rapporto su queste basi tra amministrazione periferica e amministrazione centrale furono, in effetti, i punti sui quali lavorarono fino a Gugliemo II (e, per la verità, anche con Tancredi) i principi normanni. Città, baroni, enti ecclesiastici, etnie varie, ceti particolari erano i loro interlocutori, a non voler considerare la Chiesa di Roma e potenze come le città marinare dell'Italia settentrionale, che nel Regno avevano molte e varie ragioni di presenza e di interferenza. Non fu un cammino facile. Sotto Guglielmo I si ebbe, su questa strada, una crisi molto significativa, il cui reale significato non deve essere offuscato dal riferimento personale a Maione da Bari, intorno al quale essa sembra vistosamente accentrata. Del resto, la contrapposizione tradizionale tra il primo Guglielmo, il Malo, e il secondo, il Buono, parla da sé. È facile, ma non per questo è sbagliato, vedervi il riflesso della contrapposizione tra una linea più oltranzista nell'affermazione del potere centrale e una linea più moderata, sulla quale la monarchia dovette ripiegare e che Tancredi, specie in relazione alle città, continuò e accentuò. Il problema era sempre lo stesso: le istituzioni davano forza al sovrano ed erano gli strumenti del suo potere, ma era poi la potenza effettiva, le forze reali di cui in concreto il sovrano disponeva, a dare alle istituzioni il loro vigore nella prassi della vita politica e amministrativa e il loro prestigio morale e sociale. Ed era proprio per questo che il profilo feudale della monarchia si imponeva in pratica come il suo tratto più determinante, poiché erano i baroni a disporre della maggiore forza materiale, la forza militare, tra quelle che potevano decidere degli equilibri vigenti nel Regno e dei loro sviluppi, così come a suo tempo essa aveva deciso del successo normanno.
Questo tratto non è il solo che debba essere considerato per una valutazione generale della monarchia in quanto quadro istituzionale e in quanto realtà di potere. È, tuttavia, come abbiamo sottolineato, il tratto fondamentale. Ed è qui anche, di conseguenza, la chiave di una lettura autentica dei problemi di continuità e di transizione normanno-sveva, ai quali si è accennato, e la chiave di lettura dei problemi e del senso dell'azione a cui Federico II si accinse al suo ritorno dalla Germania.
Appare, così, facilmente comprensibile che i suoi obiettivi non potevano essere, e non furono, né egli li sentì, diversi da quelli che si erano posti i sovrani normanni. Molte condizioni erano, però, cambiate. Nel trentennio trascorso dalla morte di Guglielmo II il governo del Regno aveva attraversato un periodo di crisi permanente. Non è pacifico che questa crisi riguardasse soltanto l'esercizio e gli ambienti del governo centrale, quasi che le traversie dei vertici istituzionali e politici non toccassero i livelli inferiori e, per così dire, quotidiani della vita politica e amministrativa. Può darsi che le crisi del centro si riflettessero a questi livelli con un certo ritardo: il che di certo non sorprende già solo se si pensa ai tempi di allora nelle comunicazioni, di ogni tipo. Ma che vi si riflettessero è fuori discussione. È, anzi, da presumere che vi si riflettessero tanto più quanto più agiva quel rapporto tra forza e potere effettivo del sovrano, da un lato, e disciplina delle forze particolaristiche, dall'altro lato, che abbiamo ricordato come determinante nella realtà e nell'esperienza politica e amministrativa del tempo. Federico II stesso avrà modo di notare in seguito che post transfretationem nostram, ossia durante la sua assenza per la crociata, e malgrado la forte ripresa dell'autorità del governo da lui avviata nel 1220-1221, le cose del Regno avevano dato luogo a nuovi turbamenti, proximae turbationis tempore. La crisi trentennale del Regno tra il 1189 e il 1220 va, perciò, considerata come uno sconvolgimento reale e profondo dell'ordine istituzionale e degli equilibri politici e sociali quali si erano assestati sotto Guglielmo II, non come semplice enfatizzazione cronachistica delle lotte intorno al trono e delle vicende dei sovrani.
Del resto, la natura e la portata della crisi da questo punto di vista sono attestate eccellentemente dai problemi più importanti sui quali si fermò l'azione restauratrice avviata da Federico II tra il 1220 e il 1225. Il solo elenco delle misure da lui adottate quale è riferito da Riccardo di San Germano è eloquente. Si tratta dell'amministrazione della giustizia e della pubblica sicurezza, della prestazione delle decime ecclesiastiche, della garanzia delle popolazioni contro gli abusi feudali e contro gli eccessi dei castellani delle fortezze regie, dei diritti della Corona sui feudi e dell'integrità del patrimonio demaniale, dell'integrità degli stessi feudi, della soppressione dei tributi imposti dopo la morte dei genitori del sovrano, del divieto di istituire nuove fiere e mercati, della regolazione dei governi comunali, dei matrimoni dei baroni, dello smantellamento di tutte le rocche e castelli eretti senza licenza dopo la morte di Guglielmo II. Si aggiungano la riconsegna dei castelli regi usurpati dai baroni e l'organizzazione di un servizio regio per la loro amministrazione, la riorganizzazione degli organi provinciali preposti alla prestazione del servizio militare, la prescrizione ai baroni di prestare questo servizio secondo le consuetudini normanne, la revoca delle concessioni godute in Sicilia dalle città marinare italiane (Amalfi, Pisa, Genova, Venezia), la costruzione di una flotta da guerra, il controllo delle concessioni e dei privilegi feudali.
Sono, chiaramente, i settori essenziali dell'assetto di una monarchia del tipo di quella normanna, nella quale, come si è detto, un felice matrimonio aveva congiunto l'instaurazione di una diffusa struttura militare e feudale, che era stato lo strumento dell'ordinamento della conquista, con un potere regio sufficientemente forte per controllarla e dirigerla, almeno in tempi ordinari. E il primo a sottolineare questo rapporto sostanziale di continuità è Federico stesso: i bonos usus et consuetudines secondo cui si deve vivere sono quelli del tempo di Guglielmo II, e così le armi che è proibito portare, i mercati e le fiere consentite, i redditi e le esazioni dovute ai baglivi e agli officiali del re nel demanio regio, i canoni e le prestazioni dovute dai vassalli ai baroni, i castelli e le opere fortificate da distruggere o da riconsegnare al re. Neppure in questo caso si tratta, propriamente parlando, di un modello di stato, e tanto meno di un nuovo modello di stato. Ciò che Federico intende fare è di ristabilire il vigore di un potere monarchico indebolito e per qualche verso offuscato, arrugginito, come dice egli stesso, da un trentennio di crisi che ne aveva sconvolto le basi e dei cui effetti non si era affatto risentito soltanto ai vertici della società politica ma, come si è detto, negli aspetti più vistosi e più immediati della vita sociale e della realtà quotidiana.
Pura e semplice restaurazione, dunque? Non vogliamo dire nemmeno questo. Sotto Guglielmo II, ai cui bonos usus et consuetudines Federico si richiamava, l'equilibrio al quale si era giunti rappresentava la risultante di una dialettica di forze politiche e sociali, alle quali la monarchia era riuscita a imporre un grado di disciplina che, a posteriori, sarebbe stato evocato dai regnicoli come un equilibrio felice e soddisfacente per le loro esigenze, fino al punto che, nei patti per l'investitura del Regno tra Urbano IV e Carlo d'Angiò, il papa obbligò il futuro sovrano a rifarsi anch'egli a quei bonos usus et consuetudines come norma del suo governo. Più dubbio che altrettanto felici del regime normanno sotto Guglielmo II fossero allora i suoi sudditi. La stessa crisi di successione che intervenne alla morte del re, specialmente per quanto riguarda gli atteggiamenti e i comportamenti della feudalità, dimostra comunque che l'edificio statale normanno aveva maturato una consistenza morale e politico-istituzionale meno salda di quanto fino ad allora fosse apparso; che era la feudalità a esercitare nel gioco politico del Regno il ruolo primario di fronte alla monarchia; e che le sue frequenti e ripetute ribellioni alla Corona erano qualcosa di più di un fenomeno secondario, ai fini di un giudizio complessivo sull'esperienza di governo della dinastia normanna. Si confermava, cioè, che la saldezza delle istituzioni, la forte immagine dello stato, di cui è rimasta ai normanni la fama anche nel Mezzogiorno d'Italia, erano in rapporto diretto e univoco, senza alternativa, con la forza e l'energia dell'azione monarchica; e si capisce che per Federico sia, perciò, diventata essenziale la già richiamata dottrina del rex novus e del suo diritto-dovere di sopprimere vecchi diritti e di istituirne di nuovi. Al di là di questo punto fondamentale, resta comunque fermo, ai fini del nostro discorso, che gli equilibri e gli assetti del tempo di Guglielmo II erano per la monarchia di allora un punto di arrivo. Per Federico II, nel momento in cui li rievocava come norme della disciplina e dell'ordine che voleva restaurare, erano un punto di partenza.
Federico si volgeva, infatti, ad essi nello spirito di quella concezione imperiale del potere che aveva ormai maturato in sé e si portava dietro, come si è detto, dagli anni trascorsi in Germania, a contatto con la realtà e i problemi, le forze e la prassi di quel paese. La sua azione successiva e quello che finì con l'essere, per così dire, il calco più autentico e duraturo della sua figura storica lo dimostreranno appieno. E il succo di queste osservazioni non è nemmeno rimasto fuori della tradizione storiografica relativa e si è fatto, anzi, sentire in essa più di quanto si possa pensare. Ecco, ad esempio, il ritratto che di lui viene schizzato da un acuto e profondo conoscitore della realtà meridionale anche nelle sue componenti storiche. "Federico [scriveva alla fine del sec. XVIII Giuseppe Maria Galanti] aveva tutti i talenti necessari per fare gran cose: il suo genio e le sue cognizioni lo rendevano superiore al suo secolo. Egli voleva riformare gli abusi introdotti ne' paesi del suo dominio, e comprendeva che il buon ordine della società costituiva il suo primo dovere e che quest'armonia principalmente consisteva in governare gli uomini secondo le leggi della natura. Agli occhi di Federico la sovranità, o sia il governo delle nazioni, era di sua natura indipendente, indivisibile, inalienabile: Federico amava dunque stabilire una monarchia regolare" (Galanti, 1969, I, p. 22).
Si lasci pure stare il luogo comune dell'uomo "superiore al suo secolo", che è un tratto della raffigurazione storica di Federico al quale si cominciò a indulgere proprio nell'epoca dell'Illuminismo, al cui termine Galanti si trovava. Gli altri elementi di questo ritratto meritano, però, attenzione. Così, la natura "indipendente, indivisibile, inalienabile" della sovranità, che è lo stesso di quella concezione imperiale del potere di cui abbiamo parlato. Così il principio del "buon ordine della società" come primo dovere del sovrano, che è il principio di quel ritorno in bono statu, in statu iustitiae, a cui Federico dichiara di ispirare la sua azione restauratrice nel Regno fin dal 1220 ("cuncta sub regimine nostro in statu iusticie reformare": Kantorowicz, 1988, p. 147). Così quell'idea di stabilire "una monarchia regolare" o, come lo stesso Galanti dice altrove, "una monarchia moderata" (Galanti, 1969, I, p. 73), ossia una monarchia in cui il potere del principe fosse pieno e assoluto, ma non dispotico, e avesse perciò leggi e istituzioni che la regolassero: il che va inteso, naturalmente, secondo l'ottica che queste espressioni potevano seguire nel sec. XIII, non nel sec. XVIII, al tempo di Galanti. Si trova, inoltre, in quest'ultimo, quell'accenno al "governare gli uomini secondo le leggi della natura", che solleva un punto di grandissima importanza e di non minore interesse.
Anche in questo caso è necessario, peraltro, fare attenzione alla qualità specifica, oltre che alla portata, della questione in gioco. Come si accorda il "governare gli uomini secondo le leggi della natura" con la concezione comunemente, e certo non a torto, attribuita a Federico della "sacralità del potere sovrano" (Landau, 1994, pp. 31-48)? O, forse, l'idea delle "leggi di natura" applicate al "governo degli uomini" è una di quelle tipiche proiezioni retrospettive, che hanno riversato sulla personalità e sull'azione di Federico idee e valori, come si è detto, che non potevano essere i suoi e del suo tempo? Si tratta di pure e semplici sovrastrutture ideologiche? Le si può considerare totalmente risolte in quel 'primato della ragion pratica', se così si può dire, del quale abbiamo parlato come componente essenziale della figura storica di Federico?
Dovrebbe, intanto, essere chiaro, a questo punto, che il primato della ragion pratica non esclude affatto la presenza di idee e valori anche premurosamente definiti nei documenti e nei testi fridericiani. È solo necessario intenderne bene la particolare natura e il significato concreto in relazione alla realtà effettiva sia della personalità che dell'azione di Federico, come si è detto. Quanto all'idea, per così dire, 'naturalistica' dei criteri e dell'azione di governo, la questione è certamente più complessa, ma ha pur essa un suo fondamento oggettivo.
Si pensi, in particolare, a un passo come quello del Liber Constitutionum, in cui Federico proclama di voler "attendere a questo Regno [il Regno di Sicilia, cioè] con particolare cura, come ad un giardino eletto tra i campi, perché, sradicati del tutto i frutti amari e nocivi e rafforzata in esso la pace e la giustizia, [questo giardino] possa fiorire nell'abbondanza e nel benessere" e diventare "similitudinis speculum, invidia principum et norma regnorum" (cit. in Voltmer, 1989, p. 77). In un passo siffatto è difficile vedere soltanto un riflesso retorico. Viene, piuttosto, alla mente una delle tante acute intuizioni di Kantorowicz, che forse non hanno trovato tutto il loro meritato svolgimento negli studi posteriori: la sua affermazione, cioè, della novità per cui in Federico si poteva notare come "nel dualismo medievale fra legge divina e legge umana si inserisse e operasse una terza grandezza, estranea alle due: la legge di natura". Grazie a ciò, "lo stato s'acquistava uno spazio nel profondo; solo la triade incarnata rendeva possibile la viva circolazione delle forze". Per Kantorowicz una tale veduta preannunciava il Rinascimento, e così egli tornava a un piano di di-scorso molto discutibile e rientrava in una problematica più ardua, a nostro avviso, che promettente. Ma subito riscattava poi la discutibilità e la problematicità della sua illazione, osservando che a questo riguardo "non cambia nulla se si voglia scorgere nello stato [meglio sarebbe dire: nella concezione statale] di Federico II l'applicazione del pensiero giuridico romano, o la corrente araba delle dottrine aristoteliche e neoplatoniche, oppure l'accettazione di elementi cristiano-sacerdotali". L'importante è, infatti, la novità di un nesso che congiunge necessitas, ossia legge di natura, iustitia, ossia legge divina, e providentia, ossia legge dell'uomo, in una unità-trinità che "pulsa all'unisono nello stato" (Kantorowicz, 1988, p. 234).
La metafora del Regno-giardino, che contrassegna la particolare e intensa applicazione delle più generali vedute fridericiane alla Sicilia, acquista così una inflessione diversa.
Rimane fermo che la giustizia, in quanto valore promanante da Dio, è il fondamento religioso della validità morale di qualsiasi ordinamento, e quindi anche il fondamento di una visione cristiana della vita civile: e bisogna porre subito in evidenza che dal piano di una visione cristiana dei valori, non solo della vita civile, Federico, ufficialmente e non ufficialmente, non sembra avere mai inteso allontanarsi. Ai fini della vita civile, e in particolare per quanto riguarda il Regno di Sicilia, ha poi una importanza che si impone spontaneamente la connessione ricorrente tra la giustizia e la pace, che appare anche nel passo citato sul Regno-giardino. "Pax et Iustitia [è detto nello stesso Liber Augustalis] velut due sorores se ad invicem amplexantur" (ibid., pp. 210 e 330). Ciò sembra voler dire senz'altro che la pace è assisa anch'essa su un fondamento cristiano e che è la conseguenza diretta di un'azione di governo ispirata al valore cristiano e divino della giustizia. Bisogna, quindi, usare molta prudenza nel qualificare alcuni aspetti della politica interna siciliana di Federico in questioni come, ad esempio, il trattamento riservato agli eretici o alcuni aspetti della sua condotta in materia di privilegi e immunità ecclesiastiche. In tali questioni rientra indubbiamente il concetto, che si è ricordato, della sovranità secondo Federico: l'eresia è, perciò, una lesione gravissima della maestà e l'ingerenza del sovrano nel governo di chiese ed enti ecclesiastici è legata alla pienezza di latitudine del potere regio. Ma in misura non minore sembra trattarsi della impossibilità di assicurare la giustizia senza la pace, ossia senza il buon ordine e il pacifico stato del vivere politico e civile, così come la pace senza la giustizia, ossia un reggimento non conforme al primo elemento della triade che stiamo esaminando.
Quanto alla necessitas, la questione è forse ancora più complessa. Bisognerebbe innanzitutto guardarsi dalla tentazione di raffigurarla come un punto di generalizzazione teoretica, come ‒ secondo Kantorowicz (ibid., p. 227) ‒ "il nuovo assioma che l'imperatore introdusse nella filosofia dello stato medievale, allo scopo di dare a questo un fondamento in se stesso". L'appello alla legge naturale non implica necessariamente e globalmente una vera e propria filosofia naturalistica, tanto è vero che lo stesso Kantorowicz (ibid., p. 343) nota che "il termine necessitas torna spessissimo anche senza avere, neppure alla lontana, nulla a che vedere con le leggi naturali". La necessitas scaturisce, piuttosto, dalla presa d'atto delle condizioni date, entro le quali l'azione umana si svolge: condizioni della natura, condizioni del momento, condizioni specifiche dell'attività di governo e della politica: ossia necessitas rerum, necessitas casus, necessitas ministerii.
Qui interessa, però, soltanto mettere in rilievo i tratti di realismo e di razionalismo che consapevolmente sono enunciati da Federico II come motivi ispiratori e criteri operativi della sua azione, per giustificare questo o quel provvedimento in particolare o un'intera linea politica. Interessa di meno la possibilità ‒ invero problematica, data la già rilevata persistenza di Federico nell'idea dei fondamenti cristiani e dei relativi valori della vita civile ‒ di ravvisarvi un precoce tentativo di fondazione dello stato su proprie basi di validità concettuale e di elementi strutturali. Nella ricostruzione dell'attività politica dell'imperatore razionalismo e realismo volevano dire uno studio ambizioso di costruzione di un ordine politico il più saldo e il più potente possibile. Ma la necessitas in tutti i suoi aspetti era pure un motivo in più per rivendicare e praticare un potere amplissimo, il più ampio possibile. Era, infatti, il sovrano a tradurre le esigenze della legge naturale in legge positiva; a trasformare, se così si può dire, la natura in storia; a garantire ‒ ed era il punto fondamentale ‒ il diritto e, nello stesso tempo, a innovarlo. Rex novus, dunque, pur nella continuità dinastica e politica; ed era anche di fronte alla ragione intrinseca, oggettiva, naturale, positiva di fondamento del potere regio che nello stato ogni altro potere doveva cedere ad esso.
Nella duplice mediazione sovrana tra iustitia e pax e tra lex naturalis e lex positiva si manifestava la providentia, ossia il sapiente e sagace prevedere e provvedere dell'uomo: escogitando "i rimedi con cui detergere con la lima provisionis nostre la caligine degli antichi statuti" o "nuovi diritti" per "la peculiarità dei nuovi tempi" e "nuove medicine per nuovi mali" (ibid., p. 345). Su questo piano fu generale l'ammirazione per Federico come grande uomo di stato non solo nell'adulazione cortigiana, bensì anche nell'opinione delle parti a lui avverse, come si vede ‒ e basterebbe da solo ‒ in Salimbene de Adam (v.). Da questo punto di vista più che mai il Regno di Sicilia fu il teatro storico e politico in cui Federico diede più ampia e riconosciuta prova di sé.
Poté darla anche in rapporto a problemi che in diritto e in fatto si ponevano allora in tutta l'Europa dei Regna per la formazione in pieno corso di nuovi o rinnovati centri di potere che andavano disegnando quella che si potrebbe definire la geografia politica europea premoderna. Anche di questo sviluppo i contemporanei erano molto più consapevoli di quanto di solito non si creda o non si dica. Era la linea sulla quale la monarchia francese sarebbe giunta a uno scontro con Roma meno rovinoso, ma non meno duro, di quello che ebbe Federico nella seconda metà della sua vita politica; la linea sulla quale la stessa monarchia francese si sarebbe fatta riconoscere la propria autonomia storica e istituzionale dell'Impero; la linea del principio per cui rex est in regno suo imperator e superiorem non recognoscit. Il profilo epocale dell'azione di Federico ha qui più che altrove il suo fondamento nella contrapposizione alle pretese papali. Egli poteva accettare una ierocrazia in cui il sovrano, in immediato rapporto con la fonte suprema di ogni potestà, giocasse una parte non seconda a quella di nessuno come vicario della provvidenza e della legge divina e garantisse che "la comunità adempisse in pieno, e si uniformasse alle idee e alle norme del Cristianesimo" (Stürner, 2000, p. 13). Non poteva accettare una teocrazia che contemplasse il primato del potere ecclesiastico su quello laico. Poté perseguire perciò l'ideale di una respublica christiana fondata sulla solidarietà del corpus saecularium principum (Kantorowicz, 1988, pp. 568 e 606-607); non poteva accettare l'idea di una giurisdizione ecclesiastica spinta al di là dei confini della vita spirituale e sacramentale della comunità cristiana e al di là di quanto in senso stretto ciò poteva comportare nella vita pubblica.
Per il sovrano del Regno di Sicilia la questione aveva una pregnanza particolare, data la dipendenza feudale del Regno da Roma: una dipendenza che, almeno tra il 1220 e il 1250, Federico appare chiaramente non tenere in alcun conto, anche se non la disconosce. La complessità della sua posizione è qui davvero notevole e prende spunto essenzialmente dal fatto che il rigetto costante della pretesa pontificia di completa separazione tra la Corona siciliana e quella imperiale non implica mai neppure l'idea di una inclusione della Sicilia nell'Impero. La Sicilia era stata ereditata da lui per parte di madre e non di padre, e per il diritto della Casa che ne era stata investita dalla Chiesa romana. "Profitemur Imperium nichil prorsus iuris habere in Regno Sicilie, nec nos racione Imperii obtinere aliquid iuris in ipso, cum ad nos non racione patris […], sed ex matris tantum successione pervenerit, que a regum Sicilie stirpe descendit, qui Regnum ipsum ab Ecclesia romana tenebant" (ibid., p. 146): dichiarazione fondamentale che Federico non avrebbe mai disdetto. L'autonomia siciliana resta sempre uno dei punti più fermi del pensiero e dell'azione fridericiana. L'unione dell'Impero è personale e dinastica; non è di principio, e meno che mai è istituzionale. È, insomma, una realtà politica e una questione di potenza. Ed è all'insegna anche di una tale realtà e di una tale questione che si svolse, dopo il ritorno dalla crociata, la seconda e più lunga parte del governo del Regno da parte di Federico.
Momento fondamentale ne furono, come è noto, i provvedimenti adottati dal 1231 in poi (in un decennio che davvero "rappresenta il culmine dell'attività di Federico II"; Cohn, 1932, p. 137) e raccolti in quello che si è soliti designare come Liber Constitutionum (v.). Anche a tale riguardo è necessario, innanzitutto, non lasciarsi irretire nelle questioni dottrinarie e ideologiche e non cedere alla tentazione di considerare il Federico politico come il diligente esecutore del pensiero di un Federico, magari più rilevante, filosofo di una improbabile teologia del potere o, all'opposto, di un non meno improbabile machiavellismo ante litteram. L'ideologia stessa ‒ teologica o filosofica che fosse ‒ era per lui uno strumento di potere, un momento di quella concezione imperiale del potere della quale abbiamo già parlato; e in questa luce va anche letto il quadro che noi stessi abbiamo sinteticamente delineato di alcuni punti dell'ideologia fridericiana. Anche l'ideologia in lui fu, insomma, azione, come si è detto.
Nel Liber Constitutionum, analogamente che nelle disposizioni di dieci anni prima, la continuità normanna ‒ nel senso sopra chiarito ‒ è fuori discussione. Materialmente la continuità è dimostrata dall'alta percentuale di presenza di normative dell'epoca normanna (almeno sessantacinque) fra quelle raccolte nel Liber; si sa che Federico aveva ordinato ai giustizieri di inviargli ognuno quattro esperti di leggi e consuetudini dei tempi normanni. Il contenuto delle disposizioni è altamente significativo. Né si tratta soltanto di continuità normativa, perché anche i 'concetti giuridici' che stanno alla base delle norme appaiono largamente in rapporto d'identità o di continuità con quelli del periodo normanno (Dilcher, 1973), senza che ciò pregiudichi quella "sintesi di tradizione e di innovazione" che ben definisce l'intimo carattere della legislazione fridericiana (Dilcher, 1974, pp. 23-41) e corrisponde al diritto del rex novus di cui si è detto.
Il potere regio viene riaffermato, qui, e ampliato nei riguardi delle città non meno che dei baroni e degli ecclesiastici: particolare molto significativo in rapporto alla politica generale di Federico, poiché è difficile negare sia l'ispirazione su questo fronte, ancor più che su quello baronale, autoritaria e accentratrice del sovrano, sia il rapporto di tale ispirazione con "la moltiplicazione delle tasse" e con l'"esagerata pressione fiscale dell'ultimo decennio" (Martin, 1994, p. 194).
Le disposizioni adottate a Melfi sono particolarmente impegnative. Alle città, in particolare, viene vietata ogni costituzione di governi comunali autonomi, a pena di una "desolazione perpetua"; ai feudatari, oltre alla revoca dei feudi usurpati (v. Edictum de resignandis privilegiis), viene imposta l'inalienabilità dei feudi e l'assenso regio ai loro matrimoni e viene sottratto l'esercizio della giustizia penale; agli ecclesiastici è lasciata solo una modesta giurisdizione sui laici, possono ricorrere a Roma solo per cause di religione, ma non possono né procedere contro gli eretici, né acquistare o ereditare beni fondiari, se non per rivenderli.
La direzione è chiara. Essa è accentuata da una serie d'interventi in materia di strutture e di procedure, la cui direzione è altrettanto chiara nel senso di una tendenza evidente al potenziamento e all'uniformazione dell'amministrazione regia e alla sua conversione in un tipo di burocrazia disciplinata e fedele, vero braccio esecutivo di una volontà politica centrale che intendeva presiedere effettivamente a tutto lo svolgimento della vita civile del Regno. E, considerato ciò, appare indubbia in Federico "una capacità di progettazione e programmazione sempre pronta a misurarsi con la realtà delle cose per correggere, senza contraddirla, l'originaria volontà ispiratrice" (Del Treppo, 1989, p. 20); ma non è detto che ‒ per l'evidente disegno fridericiano di rendere quanto più possibile uniforme l'amministrazione del Regno in funzione dell'esercizio di un suo potere 'assoluto' di dominio politico e della sua grosse Politik italiana e imperiale ‒ si debba vedere nel sovrano "un rullo compressore proteso, in una prospettiva astrattamente o illuministicamente unitaria e accentratrice, a livellare la multiforme realtà del Mezzogiorno, continentale e insulare" (ibid.). Il giusto motivo polemico di questa osservazione vale, però, contro deformazioni posteriori ‒ illuministiche o non ‒ dell'azione di Federico, oltre che della sua personalità; non vale per negare o per fraintendere il disegno e l'azione accentratrice e amalgamante del sovrano (almeno sul piano delle strutture di governo) in direzione di quel rafforzamento decisivo del potere regio che non solo vediamo in atto, come si è detto, nelle altre maggiori monarchie coeve, ma si vede, come diremo, applicato da lui anche nell'Italia imperiale, quando gli sembrò di potervi procedere.
Il registro fridericiano del 1239-1240 (v. Cancelleria, Registro della [1239-1240]), ci permette, come un unicum, di avere un'idea concreta della macchina statale siciliana e del suo funzionamento; ed esso conferma la consistenza e l'attivismo della "fitta ragnatela di secreti, giustizieri, portolani, castellani" (Abulafia, 1990, p. 281; Kamp, 1974, pp. 43-92). Si trattava "non di rado [di] uomini nuovi, cittadini di Amalfi o Salerno che entravano al servizio del re dopo aver studiato a Napoli, avvocati più che ecclesiastici o baroni". Le loro défaillances erano "di peculato piuttosto che di palese slealtà" (Abulafia, 1990, p. 281). Nel complesso è anche possibile dire che "si può ipotizzare un graduale irrigidimento, soprattutto in materia finanziaria, ma nelle linee generali la gestione del governo nel 1239-40 rivela poche differenze rispetto agli altri anni" (ibid., p. 270) in cui Federico si trovò a dover affrontare grandi complicazioni politiche e militari.
Si tratta, comunque, di una fase estremamente interessante anche perché dal 1235 egli aveva concentrato di nuovo presso di sé la direzione effettiva delle cose del Regno, che negli anni precedenti di lontananza dal Mezzogiorno aveva affidato a un collegio di familiari. Ciò portò a una pratica sovrapposizione del governo del Regno e del governo dell'Impero, senza che, tuttavia, venissero mai meno quel principio e quella condotta di separazione tra le due sfere di sovranità di Federico di cui si è detto. I provvedimenti per la Sicilia continuarono sempre a essere presi dal Federico re, non dal Federico imperatore. Si ebbe, semmai, un'operazione inversa: il tentativo, cioè, "di estendere le strutture organizzative del Regnum Siciliae e l'attività dei suoi funzionari a tutta l'Italia", anche se non senza una presenza 'lombarda' nel Regno (Cuozzo, 2003, p. 70).
Su questa base un grande storico del Mezzogiorno, quale fu Michelangelo Schipa, poté vedere in Federico II un antesignano dell'unità italiana realizzata più di sei secoli dopo (Schipa, 1928, pp. 5-113).
Naturalmente, un 'progetto italiano' di Federico II può essere plausibilmente postulato in base, se non altro, al fatto che l'imperatore spese in Italia e nella lotta coi comuni e col papato la massima parte della sua attività, delle sue energie e delle sue risorse fra il 1230 e il 1250 e che qui riportò quella vittoria di Cortenuova e quella sconfitta di Parma in cui si sono giustamente riconosciuti due snodi fondamentali della sua vicenda. Da questo a ipotizzare anche una politica italiana del sovrano svevo nel senso di un'anticipazione o di un precorrimento della posteriore unità nazionale il passo è davvero molto, ma molto più lungo di quello che ci è consentito dal contesto storico, morale e materiale in cui Federico si mosse.
Tutto quello che la ricostruzione delle sue vicende e la documentazione ci autorizzano a individuare è la ferma volontà dell'imperatore di dare la massima consistenza possibile ‒ una consistenza 'imperiale', come l'abbiamo definita ‒ al suo potere nelle varie specie in cui si esercitava la sua sovranità, ossia nel Regno e nell'Impero; ed è l'evidente priorità e prevalenza che nell'ambito dell'Impero egli dà alla sfera italiana. Si è portati a ritenere che, se la sua volontà avesse potuto riportare un vero successo, egli si sarebbe ritrovato con un potere regio fortemente potenziato e ampliato nel Regno siciliano e con un potere imperiale portato a livelli di una consistenza senza precedenti dai tempi di Carlomagno in poi in Italia e di una consistenza alquanto minore, ma non evanescente, nello spazio germanico. Di più è difficile dire, anche perché la morte interruppe la sua attività in modo brusco e inatteso, quando egli "non era approdato alla vittoria, ma neppure era stato sopraffatto" (Abulafia, 1990, p. 339) nella lotta mortale in cui era impegnato ormai innanzitutto e soprattutto con il papato.
In pratica, se non vi fu, in effetti, sotto Federico II un vero e proprio abbozzo di governo dell'Italia a partire dal Regno di Sicilia, il personale di cui l'imperatore si avvalse per i vicariati e per altre cariche in Italia fu in gran parte tratto dal Regno. "La penetrazione pugliese in Italia", ha notato ancora Kantorowicz, "fu anche dovuta al fatto che i vicari si portavano dietro tutti i dipendenti. Gl'inizi del fenomeno si avvertono molto presto" e "molto presto tutta la piccola burocrazia fu costituita essenzialmente da pugliesi. Le cariche più elevate andavano di preferenza a pugliesi cresciuti nell'ambiente imperiale. È Federico stesso a rilevarlo: 'necessarium videmus et utile, dignas consilio nostro et circa principalis aule fastigium nutritas et tam fide quam opere nobis expertas ordinare personas'", e ciò a proposito della nomina di Pandolfo di Fasanella. Inoltre, "tra i valletti imperiali entrati nell'amministrazione italica troviamo [gente del Regno come] Bertoldo e Diepold di Hohenburg, Riccardo da Caserta, Tommaso (II) d'Aquino, Riccardo (II) Filangieri e Landolfo Caracciolo", nonché Ruggero Morra. Salimbene da Parma tracciava a sua volta "un quadro dell'amministrazione apula in Italia, designando inoltre i vicari come principes" (Kantorowicz, 1988, pp. 521-522; Voltmer, 1986, pp. 71-93). Si tratta di quattordici persone, quasi tutti baroni e funzionari del Regno di Sicilia fra i più noti, oltre i quali, aggiunge il cronista, Federico "habuit et multos alios per civitates Italie, quos ponebat ad defendendum imperium et ad confundendum ecclesiasticos viros" (Salimbene de Adam, 1966, p. 635).
Bisogna considerare, in effetti, a questo riguardo, che la sollecitazione a utilizzare le forze del Regno per domare e controllare l'Italia comunale si incontrava con l'evidente constatazione che l'espansione economica di varie città dell'Italia comunale (Genova, Pisa, Venezia, Firenze, Siena, per ricordare le più interessate) nel Mezzogiorno (per alcune di esse si trattava anche di espansione politica) aveva prodotto una condizione di complementarità e di interdipendenza, per cui molti centri del 'sistema' meridionale si trovavano precisamente nell'Italia dei comuni, e il loro controllo assumeva, quindi, un'importanza di somma rilevanza per il sovrano del Regno, e ciò tanto più in quanto si delineava un ruolo crescente delle forze e delle risorse bancarie e finanziarie di taluni comuni (come quelli toscani, Siena e Firenze in primo luogo) negli svolgimenti della grande politica di potenza e nelle finanze statali non solo dell'Italia comunale, bensì anche dell'Europa occidentale. Superfluo è poi insistere sull'importanza degli appoggi, dei mezzi, delle milizie, delle alleanze che l'Italia comunale poteva offrire alla politica imperiale, e in particolare alla lotta con il papato, quando si fosse riusciti a mobilitare, in nome se non nell'interesse, dell'Impero il campo ghibellino o i dissidenti guelfi a proprio favore.
Italia voleva dire, peraltro, Mediterraneo, e tanto più dal momento che le città italiane avevano di molto allargato la loro espansione mercantile e coloniale in quel mare. Da questo punto di vista non è neppure troppo affermare che, anzi, la politica italiana di Federico si definisce come politica mediterranea proprio a partire dai suoi rapporti con Genova, Pisa e Venezia. E su questo terreno può anche dirsi che le difficoltà incontrate da Federico in Italia cominciavano da quelle che incontrò in tali rapporti. Costantemente fedeli, malgrado la delusione per alcuni aspetti della politica commerciale e della legislazione fridericiana nel Regno di Sicilia, rimasero sempre i pisani, "inossidabili alleati dell'Impero. In parte" come è stato ben detto "il loro sostegno nasceva da una considerazione negativa [...] sul fronte opposto; ma sarebbe riduttivo non tener presente che l'Imperatore aveva dato loro accesso sul mercato tedesco e si era adoperato per salvaguardarne gli interessi in Terra Santa"; senza contare il permesso ad essi e ad altri mercanti toscani "di esportare, sia pure con limitazioni rigorose, grosse partite di cereali" dal Mezzogiorno (Abulafia, 1990, p. 184). Con Venezia l'intesa era più difficile non solo per contingenti eventuali ragioni politiche ed economiche, ma per una ben più profonda ragione di principio, e cioè che essa non sarebbe mai potuta rientrare in alcuno schema di governo imperiale dell'Italia: la linea veneziana era quella di una totale ripulsa di qualsiasi subordinazione della propria a ogni altra sovranità. Nel corso degli anni Trenta i rapporti con Venezia si guastarono, comunque, dopo alterne e transitorie vicende, definitivamente. La città lagunare rinunciò addirittura a godere dei fondi concessi dall'imperatore e si strinse in alleanza con Milano e perfino con la città che sempre più si delineava come la sua maggiore e più pericolosa rivale, ossia Genova. Questa aveva patito più delle sue consorelle per la graduale definizione del governo di Federico nel Mezzogiorno, che si ebbe intorno al 1220. Aveva, infatti, perduto pressoché completamente i grandissimi vantaggi acquistati nel Mezzogiorno negli anni tra la morte di Enrico VI e la maggiore età di Federico. Non aveva, con ciò, desistito dall'investire in grande nel commercio siciliano, né dall'essere presente nel Mezzogiorno; e non mancarono fasi di accordo con l'imperatore. Ma l'ostilità fu decisamente prevalente e si definì ulteriormente, come quella veneziana, nel corso degli anni Trenta.
Peraltro, soprattutto dall'esame dei rapporti tra Genova e Federico emerge un elemento di solito assai scarsamente considerato, ma essenziale: e cioè che le chiavi delle relazioni tra l'imperatore e le città marinare italiane stavano solo in parte nel Mezzogiorno d'Italia, per quanto fortissimi fossero i loro interessi in queste regioni; e che in altra e non minore parte esse stavano nel complesso dei rapporti e degli equilibri che si intrecciavano nel Mediterraneo. Che l'azione di Federico gravitasse sull'Italia non voleva dire, rispetto al mondo mediterraneo e continentale, che essa fosse chiusa nella penisola. Si trattava di una centralità, non di un esclusivismo dell'Italia quale teatro e fine della politica imperiale.
Per quanto riguarda Genova, è stato messo giustamente in rilievo l'interesse genovese a escludere dal commercio con l'Italia del Sud i mercanti di Marsiglia e della Francia meridionale. Di questi mercanti non poteva, però, disinteressarsi Federico in quanto sovrano del cosiddetto Regno di Arles o Borgogna (v. Arles, Regno di); e perciò anche ai suoi sudditi provenzali egli non esitò a concedere privilegi commerciali in Sicilia e nell'Italia meridionale, col fine evidente di non farli staccare da lui e conservarne l'appoggio che, per quanto debole, poteva riuscire prezioso in momenti difficili. Le rivendicazioni imperiali sulla Sardegna (v.) e il conflitto col papa aprivano, poi, un altro terreno di forte attrito tra imperatore e genovesi, tanto più che l'isola era materia di fiera rivalità tra questi ultimi e i pisani. Più da lontano si può anche intravedere una preoccupazione genovese per una potenziale concorrenza dei mercanti catalani, fin dai tempi della conquista normanna della Sicilia.
Anche per questo verso Federico si inquadra, dunque, in maniera piena e coerente nella cornice del suo tempo, mentre la sua azione come re di Sicilia si conferma come un profilo eminente della sua figura storica (Kamp, 1996, pp. 19-22). Nell'ambito del Regno il suo successo poteva apparire completo. Sulla base normanna egli aveva sviluppato una serie di revisioni e di innovazioni di grande momento, che avevano portato l'edificio della monarchia a un grado alquanto più avanzato di coesione e di efficienza di quello dal quale si era mosso nel 1220. Novità fin troppo note erano state già da quei primi anni l'istituzione dello Studio di Napoli (v.) e la liquidazione delle forti posizioni musulmane in Sicilia (v. Saraceni di Sicilia), con la conseguente istituzione della colonia di Lucera (v.). Né minori furono le novità, meno famose ma non meno importanti, nel campo delle procedure giudiziarie e dei diritti personali e reali. Nel campo istituzionale le innovazioni furono molte e delinearono una ristrutturazione più uniforme e molto più controllata dal centro.
Nel complesso il Regnum Siciliae alla morte di Federico nel 1250 era certamente un organismo politico-amministrativo con una forte identità rispetto alla sua fisionomia alla morte di Guglielmo II nel 1189, ma non più di quanto il Regnum Siciliae nello stesso 1189 differisse da quello che Ruggero II aveva costituito e aveva cominciato a ordinare mezzo secolo prima. A questa stregua può dirsi che Federico II aveva operato e realizzato in un ventennio, tra il 1230 e il 1250, una trasformazione politica ancor più consistente di quella dei sovrani normanni in mezzo secolo, tra il 1140 e il 1190. E aveva operato questa trasformazione nello stesso senso che ‒ strumenti e percorsi a parte ‒ era, e ancor più sarebbe stato in seguito, quello dello sviluppo delle grandi monarchie europee, con un vigore di intenti politici e in uno spirito di spregiudicatezza operativa che furono le ragioni di un prestigio e di una suggestione forti già nel suo tempo (Reichert, 1991) e mai venuti meno nei secoli seguenti.
L'avvenire non gli arrise, tuttavia, come certamente egli mirava che accadesse. Dalle ceneri della sua azione politica il particolarismo germanico e quello italiano uscirono consacrati e consolidati, e l'avvenire fu di vecchi e nuovi signori, di vecchie e nuove oligarchie, che si radicarono nei due paesi assai più di quanto già non fosse accaduto allorché egli intraprese personalmente la sua opera. L'avvenire sarebbe stato anche di quel papato, contro il quale egli dovette sostenere una lotta logorante e che, come 'potere universale' dell'Europa imperialis e del suo corpus christianum, avrebbe conosciuto una parabola discendente analoga a quella più rapida e completa del Sacrum Imperium. Né l'opera di Federico fu più fortunata nel Regnum Siciliae, dove la sua dinastia non riuscì a durare che sedici anni dalla sua morte, mentre dopo altri sedici anni la Sicilia si sarebbe divisa dalla parte continentale, riducendo assai spesso la forza dei sovrani meridionali a non molto di più di quella dei sovrani dell'Impero nella Germania del tempo di Federico.
Ne veniva testimoniata così la provvisorietà dello sforzo accentratore sostenuto dal sovrano svevo. In questo sforzo sono state distinte varie fasi in cui il suo impegno riformatore si articolò (1220-1221 contro l'anarchia feudale, 1231-1232 per l'assetto dell'amministrazione, 1239-1240 con una proiezione delle strutture del Regno verso l'Italia del Centro e del Nord, e 1246-1247 per una maggiore rispondenza della legi-slazione alla realtà del paese; Kamp, 1982). Indubbio è, comunque, che, pur con accentuazioni dovute alle singole congiunture, la direzione delle successive riforme fridericiane rimase costante. Era volta, infatti, ad affermare e riaffermare in ogni occasione quella linea autoritaria e accentratrice che abbiamo visto alla base delle idee e dell'azione del sovrano. Autoritarismo e centralismo debbono essere letti, ovviamente, alla luce di quel che con tali termini può essere riferito alle condizioni e alle idee del tempo di Federico, e non con ciò a cui essi fanno pensare per altre epoche storiche: una preoccupazione che troppo spesso si vede trascurata dagli studiosi di Federico, ma che è ancor più essenziale nel caso di un sovrano per il quale il ruolo di grande precursore di epoche e ispirazioni posteriori sembra costantemente destinato a prevalere sulla sua reale fisionomia storica. L'indispensabile attenzione al riguardo potrà, peraltro, dare ancora maggiore evidenza al fatto che le tendenze autoritarie e centralistiche della politica fridericiana ne connotarono realmente tutto lo svolgimento, per cui esse non vanno considerate una pura e semplice invenzione storiografica o ideologica. Vanno, anzi, considerate come un precedente importante, se non determinante, delle condizioni per cui le successive dinastie si sono trovate ciascuna a dover iniziare pressoché daccapo l'opera di costruzione di una forte monarchia nel Mezzogiorno d'Italia.
Bilancio, dunque, tutt'altro che lusinghiero di un lungo regno, con esiti di una importanza storica fondamentale ma di direzione nettamente opposta a quelle che erano state le ambizioni e le mete del sovrano siculo-germanico. Bilancio, anche, che non può non far riflettere sulla portata effettiva che, nella realtà concreta della vita del Regno, fu propria dell'azione fridericiana. Il suo potere fu effettivamente così solido come appare finché fu in vita? Fino a qual punto il Regno di Sicilia fu plasmato nel senso in cui lo indirizzavano un così forte esercizio del potere e una volontà politica davvero e riconosciutamente sovrana come quella di Federico?
Nel rispondere a tali interrogativi si debbono necessariamente seguire vari piani, che non sono investiti soltanto dall'azione di Federico all'interno del Regno, e quindi specificamente dalla sua azione in quanto Rex Siciliae, bensì anche dalla sua più generale azione in quanto sovrano del Sacrum Imperium.
Sul piano interno bisogna intanto precisare che non ci fu mai da parte di Federico una politica antifeudale al di là di quanto richiedevano, da un lato, la riaffermazione istituzionale del potere monarchico e, dall'altro, il controllo materiale della struttura feudale, in particolare con la repressione di azioni o atteggiamenti avversi al sovrano. Il feudo come istituto fu considerato anche da Federico come un fondamento indiscutibile della struttura dello stato, e in particolare ai fini della prestazione del servizio militare. Già Kantorowicz aveva notato come al riguardo non si possa dire che "Federico avesse scoperto nuove leggi", poiché egli "solo rimetteva in vigore certe disposizioni dei re normanni, ampliandole secondo una determinata tendenza" (Kantorowicz, 1988, p. 106): la tendenza, cioè, della sua concezione del potere, della quale abbiamo già parlato. Non ha alcun conforto documentario ‒ a quanto ci risulta ‒ l'invenzione attribuita a Federico dallo stesso Kantorowicz di "incamerare quanti più feudi potesse e, possibilmente, non cederli più" (ibid.). Non è nemmeno del tutto esatto che, a partire dalle disposizioni fridericiane in materia feudale (inalienabilità dei feudi, inalterabilità della loro costituzione, rivendicazione dei diritti usurpati, ecc.), "non più la terra e il feudo legavano la nobiltà all'imperatore, bensì soltanto il servizio personale cui era tenuta" (ibid., p. 107). La terra e il feudo continuarono a contare come realtà fondanti ed essenziali sia per il radicamento sociale e territoriale della feudalità, sia per il rapporto tra feudalità e monarchia.
Ciò è tanto più vero in quanto continuò con Federico la tendenza a commutare il servizio in una contribuzione in denaro; anzi, non a torto è sembrata particolarmente connessa a questo sviluppo la riorganizzazione delle strutture militari, che fu un punto eminente dell'azione di governo fridericiana nel Regnum (Martin, 1985, pp. 71-121; Cardini, 1994, pp. 120-122; Amatuccio, 2003). Si sa bene che la commutazione del servizio militare in tributo fu un passo fondamentale sulla via della patrimonializzazione del feudo. Che la commutazione stessa fosse una innovazione di Federico, e per di più precisamente databile al 1236, è opinione da non potersi accettare senza, come suol dirsi, il beneficio d'inventario. A nostro avviso, infatti, la tendenza è già di epoca normanna e si lega, probabilmente, nella sua prima origine, alla difficoltà di organizzare il reclutamento quando il reddito del feudo non bastava a dar luogo al servizio di almeno un cavaliere oppure dava luogo alla prestazione di più frazioni di unità combattenti. In tali casi erano previsti vari modi di far sì che le frazioni di unità fossero cumulate fra loro in modo da dar luogo alla costituzione di unità intere. Comunque sia, non c'è dubbio che Federico abbia dato a un tale sviluppo un impulso che dovrebbe essere giudicato decisivo.
Di questo sviluppo si è data, inoltre, una lettura della quale non può essere negato il fondamento. "È un avvio energico [è stato affermato] alla demilitarizzazione dei regnicoli a vantaggio di un concentramento del potere militare nelle mani del sovrano, secondo una tendenza 'moderna' e 'antifeudale'", precisando, inoltre, che "tali due aggettivi andranno naturalmente intesi nella loro pura accezione indicativa", in modo da "evitare anacronismi" (Cardini, 1994, p. 113). È giusto, e siamo sempre ‒ con ciò ‒ nell'am-bito di quel modo di intendere e di esercitare il potere sovrano, del quale abbiamo parlato. Non per questo ne può, tuttavia, sfuggire l'altra implicazione, egualmente già ricordata, di un avvio alla patrimonializzazione del feudo. Il feudatario pagava qualcosa ‒ fosse pure molto ‒ per non adempiere al primo e principale dei suoi obblighi, ossia quello militare. "I feudi", notava con perfetta pertinenza Galanti cinque secoli e mezzo più tardi, quando l'"adoa feudale" da tempo ormai immemorabile rappresentava il tributo sostitutivo del servizio militare baronale e la demilitarizzazione della feudalità e della condizione feudale era diventata completa e scontata, "in origine sono il patrimonio pubblico consagrato al servizio militare" e "i feudi non erano che militi" (Galanti, 1969, I, p. 333). Perciò, adempiuto al pagamento del tributo equivalente, il barone poteva legittimamente considerare più pieno e fondato il suo diritto sulle terre del feudo, con le relative facoltà e giurisdizioni su uomini, cose e attività che vi avevano la loro sede e col vantaggio di non doversene allontanare e di non mettere a rischio, per militare in altri luoghi, eventualmente lontani, la sua vita e i suoi interessi.
Per di più, il fatto di non militare nell'esercito regio non comportava affatto, in quella fase e in quel contesto storico, una parallela e simultanea perdita della propria fisionomia militare. Si aveva, semmai, un rafforzamento del nesso tra il profilo del barone-miles e il profilo del barone-dominus che esercita in loco quella parte delegata di sovranità che gli è riconosciuta dall'ordinamento e dal sovrano. Una parte ‒ è opportuno sottolineare ‒ che Federico si sforzò con successo di inquadrare nel contesto dell'esercizio della sua sovranità, ma che non mise mai in discussione su un piano di principio. È vero, anzi, che egli la rinvigorì, cercando di proteggere i sudditi contro gli abusi dei baroni e sottoponendo questi ultimi ai rigori della legge e della sua giurisdizione e a una piena osservanza di un completo lealismo nei suoi confronti, a pena di severe e durissime repressioni, ma anche curando che gli obblighi dei vassalli verso i loro signori non fossero elusi e salvaguardando con impegno il privilegium fori del baronaggio.
L'apparenza immediata poteva occultare, e occultò infatti, la contraddizione, che, però, nella realtà delle cose esisteva e favoriva sviluppi del tutto inauspicabili nell'ottica di potere fridericiana. L'aspetto che la feudalità meridionale finì con l'assumere, sotto la sollecitazione di eventi e sviluppi ulteriori e posteriori, a cominciare dal Vespro siciliano, nel corso del sec. XIV ha, quindi, in questa contraddizione una sua radice profonda. Il dominus loci si radicava nel territorio, conservava nel raggio più immediato del suo dominio la propria fisionomia militare, continuava a legare a sé coi vincoli dell'interesse e della forza le popolazioni interessate e costituiva una stratificazione intermedia tra il sovrano in capite e la base sociale. Nella gran parte del paese rientrante nelle maglie della rete feudale, il sovrano era lontano dal potersi illudere di di-sporre di questa base a suo piacimento. Fin dall'inizio, e in tutta Europa, era stata questa l'insidia micidiale che il sistema feudale aveva teso ai poteri sovrani, dando luogo a una contrapposizione risolta in vario modo e in varia misura solo nel corso di alcuni secoli. Nel Mezzogiorno d'Italia i normanni avevano teso a conservare al servizio militare feudale tutta la sua obbligatoria pregnanza, anche se, come si è detto, certo non fu Federico a iniziare la tendenza alla demilitarizzazione, di cui parliamo. Ma, quanto al sovrano svevo, in quale sua logica poteva rientrare l'impulso decisivo che egli impresse su questo piano alle cose del Regno?
Nelle disposizioni del 1236 è detto chiaramente che il re non intende seguire la condotta dei suoi predecessori che avevano portato i loro sudditi a combattere in paesi lontani, come l'Africa musulmana, privando il Regno della loro presenza. Egli non ha, del resto, molto bisogno di guerrieri, poiché gliene fornisce abbastanza la Germania. Si può, dunque, passare a un sistema diverso, che è quello, appunto, della corresponsione di un tributo in sostituzione del servizio militare. Il punto di riferimento di Federico è, dunque, sempre quello normanno, ma qui si ha un elemento di grande interesse. Se, infatti, Federico si riferisce agli usi normanni, in generale, con un apprezzamento attestato dalla sua dichiarata volontà di ristabilirli e proseguirli, specie nella sistemazione del tempo di Guglielmo II, non sembra eccessivo cogliere un'altrettanto evidente volontà di distinguersene, modificandoli su un punto estremamente rilevante. Sembra, anzi, che egli accenni a un motivo di sottile critica, quasi avesse l'aria di dire: anch'io conduco guerre lontano dal Regno, ma con forze di altri paesi e non sacrificando quelle regnicole. E ciò induce anche a qualche perplessità circa una presunta visione fridericiana, per cui das Militär rappresenti un integraler Bestandteil della vita politica, sociale ed economica del Regno (Göbbels, 1996, p. 500).
Tralasciamo qui le altre numerose e importanti implicazioni della politica militare di Federico nel Mezzogiorno in rapporto al fine della sua azione in campo amministrativo e sociale, per fissarci sul punto, che emerge nelle decisioni del 1236, del ruolo del Regno nella conduzione della grande politica fridericiana. Da quelle disposizioni sembrano doversi dedurre alcune considerazioni: la prima è che l'azione del sovrano nell'Italia settentrionale non riguarda direttamente la realtà politica del Regno e i suoi interessi; la seconda è che, ciononostante, Federico si aspetta e impone di essere sovvenuto dal Regno nella sua azione fuori dal Mezzogiorno; la terza è che il Regno deve riservare le sue forze militari e mobilitarsi su questo piano solo quando si tratti di azioni e imprese che lo impegnino direttamente e non in terre lontane.
Queste considerazioni riportano alla possibilità di vedere in un 'progetto italiano' il centro di gravitazione della grande politica fridericiana: nei termini, naturalmente, della cultura e della coscienza del tempo, non in quelli della posteriore cultura e coscienza nazionale italiana, come si è detto. Come il Barbarossa, anche Federico appare alla ricerca di una posizione di preminenza nell'Italia centrosettentrionale come elemento risolutivo di una posizione egemonica nell'ambito imperiale e rispetto al papato. A differenza del nonno, egli risaliva dal Sud verso il Nord. Non si tratta di rilevare un dettaglio che, al limite, potrebbe risultare soltanto pittoresco. Era una differenza di prospettiva. La ricerca di una chiave egemonica nell'Italia centrosettentrionale appare più strumentale nel Barbarossa, più finalistica in Federico. Se l'egemonia fosse stata in tal modo conseguita, il nonno ne avrebbe tratto le basi per giocare quella parte di imperatore romano, restauratore e prosecutore della potenza e del potere dell'Impero, che era nei suoi disegni; il nipote avrebbe trovato in Italia quello spazio di potenza, del quale abbiamo accennato, come fine della costituzione non di uno stato italiano, bensì di un'Italia ghibellina, fridericiana, grande realtà politica, senza possibilità di confronto nell'Europa imperiale e nel mondo cristiano. Il nonno era partito dall'Impero e aveva finito per approdare alla Sicilia. Il nipote partì dalla Sicilia e tese ad approdare a un'Italia che costituisse già in sé e per sé un obiettivo politico autonomo e autosufficiente: nessuna rinuncia all'Impero e alla funzione imperiale, mai, come si è detto, ma sullo sfondo di questa prospettiva italiana.
Rispetto alla Sicilia, ciò voleva dire un'inversione radicale della prospettiva essenzialmente mediterranea dei re normanni. La liquidazione ‒ sapiente, non rinunciataria ‒ dell'impresa crociata è, da questo punto di vista, estremamente significativa. Federico volgeva così le spalle al Mediterraneo. Non che il grande mare, sul quale continuava a gravitare tanta parte della vita europea, fosse da lui dimenticato o trascurato: ve lo riportavano, se non altro, le città italiane che vi avevano i loro maggiori interessi e contro le quali egli combatté. Ma il suo fronte effettivo, decisivo di impegno e di prospettiva, era un fronte europeo a gravitazione italiana. I papi, quando facevano del mancato o insoddisfacente assolvimento dei suoi doveri di crociato uno dei capi principali di imputazione nella loro feroce polemica contro Federico, non perseguivano soltanto una finalità connessa al loro compito istituzionale di grandi patroni della crociata e alla possibilità così intravista di una loro parte politica di primo piano nei confronti dei sovrani cattolici. I papi avevano tutta l'esperienza e tutte le sollecitazioni e le informazioni necessarie per capire che la diversione italiana della politica del Regnum Siciliae dava luogo a una concentrazione di potenza e di mezzi che avrebbe potuto essere risolutiva nella lotta che essi conducevano contro la Casa di Svevia e, ora, contro il suo terzo e maggiore esponente, con tutte le conseguenze che in Italia, nell'Impero e in tutta Europa ne potevano derivare. Il richiamo alla crociata era, cioè, fortemente complementare alla logica dell'auspicata divisione tra Corona imperiale e Corona siciliana. È un fatto che ‒ orientandosi Federico all'azione in Italia con i suoi vicari, "tutti esponenti della nobiltà feudale siciliana" o suoi parenti, che, "per meglio coordinarne l'attività", sembra "riunisse nell'agosto 1242 a San Germano" (Cuozzo, 2003, p. 77) ‒ "la signoria imperiale" nella penisola venisse definita "giogo apulo" (Kantorowicz, 1988, pp. 487 e 521), anche se ‒ bisogna aggiungere ‒ corrispose a ciò una presenza 'lombarda' nel Regno che non sfuggì ai cronisti del tempo come Salimbene e come Saba Malaspina (Voltmer, 1996, pp. 461-462), ma va pure notato che essa appare riferita in questi testi piuttosto ai tempi di Manfredi ed è rappresentata come voluta sub consanguinitatis et affinitatis imagine.
Il Regno poteva, però, sostenere un tale peso? Agli occhi di Federico esso si era, in certo qual modo, trasformato in una base essenzialmente politico-finanziaria, più che militare, della sua azione, anche se la flotta regnicola, in particolare, continuò sempre a essere un suo punto di forza. Le sue forze militari (a parte la flotta, che pone un problema a sé) facevano ora capo soprattutto alla Germania, com'egli diceva, e si deve aggiungere, al ghibellinismo italiano: un elemento della politica italiana di Federico non sempre apprezzato al giusto punto per l'effettiva portata e incidenza che ebbe nella sua azione e nel suo panorama politico (Fasoli, 1986, pp. 53-70; Federico II e le città italiane, 1994; Cammarosano, 1996; Maire Vigueur, 1996; Vasina, 1996), e ancora meno considerato nei riflessi sull'azione di Federico nel Regnum, che furono anch'essi notevoli (Voltmer, 1996) e sembrano quasi simboleggiati dal figlio Manfredi, nato da madre lombarda. I quadri politici e amministrativi, le risorse finanziarie e vari altri elementi continuavano, invece, ad essere attinti al Regno. E la risposta all'interrogativo che ci siamo posti circa la sopportabilità del peso imposto da Federico per il Mezzogiorno non può, perciò, prescindere dal ricordare quella generale agitazione che sconvolse il Mezzogiorno alla morte dell'imperatore. Fu allora che apparve più chiaro come la storica azione di Federico nel Regno si fosse risolta nella costruzione di una forte struttura di potere intorno al sovrano, alla sua Curia, al suo apparato politico-amministrativo, ma non avesse posto le basi di un equilibrio politico-sociale dotato di effettiva e sufficiente vitalità per sopravvivergli come elemento egemonico, se non dominante, della vita e della società meridionale. La politica verso feudatari e nobili, verso il clero, verso 'borghesi' e mercanti, perfino verso intellettuali e giuristi (Kamp, 1974, pp. 43-92 e 1985; Cuozzo, 1995) non solo non procurò in prospettiva uno sviluppo storicamente positivo di tali classi, ceti e gruppi, ma per alcuni versi lo pregiudicò.
In tutto ciò sono implicati altri aspetti di politica economico-sociale nel Regno sotto Federico, che appaiono degni di un'attenzione speciale: il suo fiscalismo e i rapporti con le potenze mercantili e finanziarie dell'Italia centrosettentrionale.
Indubbio sembra, per il primo punto, che la pressione fiscale nel Mezzogiorno sia cresciuta durante il suo regno. Si può certamente parlare di una sua politica economica vigorosa, ricca di iniziative, interventista nel senso di un mercantilismo sui generis, ma assai attivo, al quale arrise molto successo, mentre l'economia del Mezzogiorno ne trasse motivo di sviluppi e potenziamenti notevoli sia sul piano produttivo e commerciale che su quello finanziario. Che si possa, però, ritenere il Regno del 1250 un organismo economico e finanziario più autonomo che nel 1200, più in grado di giocare un suo ruolo d'iniziative e di attività proprie nel quadro mediterraneo e italiano (per non dire europeo) che nel frattempo andavano consolidando e ampliando le grandi città italiane, è più che dubbio. E, in ogni caso, gli esiti dell'azione fridericiana sembrano aver giocato molto più in senso difforme che in senso conforme a un rafforzamento della condizione del Mezzogiorno da questo punto di vista, dati gli effetti della penetrazione mercantile e finanziaria e conseguente predominio delle grandi potenze economiche del tempo, ossia, in pratica, delle grandi città italiane, nel Regno, che Federico, per sostenere la sua grosse Politik italiana ed europea, favorì molto al di là di quanto fosse mai accaduto in precedenza, al di là di una soglia che si dimostrò ben presto irreversibile per l'economia meridionale.
Nelle sue imprese il sovrano bruciò in tal modo molte delle risorse del Regno e non poté impedire che all'epoca della sua morte la storica condizione di dipendenza dell'economia meridionale da grandi centri esterni di potenza economica fosse cresciuta anziché diminuita. È stato giustamente osservato che questa condizione implicava una sicura complementarità tra l'economia meridionale e i suoi poli esterni di gravitazione. Ma una tale ineccepibile considerazione non esclude affatto la dipendenza: si salda, semmai, ad essa e ne è l'altra faccia, al punto da potersi attendibilmente sostenere che la dipendenza è tanto maggiore quanto più è intrinseca la complementarità, come l'esperienza storica di ogni tempo, non solo quella del mondo moderno, largamente comprova. Bisogna solo evitare di ritenere che tutto ciò abbia significato assenza di crescita e di sviluppi e pura e semplice marginalizzazione della stessa economia meridionale. Al contrario, anche per la via della dipendenza complementare, o complementarità dipendente, l'economia meridionale si inserì appieno in quella mediterranea ed europea e trovò impulsi e promozioni di grande rilievo, dando luogo a un panorama via via e di gran lunga più differenziato e cospicuo di attività e di capacità produttive e mercantili. Ma la dinamica, il motore di questi sviluppi e delle conseguenti promozioni era nell'attività e nella forza di altre economie, era nella logica del grande mercato in cui complementarità e dipendenza si realizzavano.
Si tratta ‒ come si vede ‒ di processi a molto lungo termine e di grande quadro storico perché se ne possano vedere i riflessi nella storia del Mezzogiorno d'Italia solo in una ricorrente responsabilizzazione del sovrano svevo (Powell, 1962, pp. 420-524; Tramontana, 1983) o, alternativamente, in una sua 'difesa' attraverso una, peraltro in sé e per sé giustificata, polemica contro "un certo meridionalismo un po' piagnone" (Del Treppo, 1996, p. 316, ma anche Maschke, 19822). Il governo di Federico si svolse, tra l'altro, in un periodo di ancora generale e intenso sviluppo dell'economia mediterranea ed europea. Ciò voleva dire molto dal punto di vista sia dei vantaggi che una certa politica economica e finanziaria poteva trarne, sia dei costi che a breve o a lungo termine se ne sarebbero dovuti sopportare. Quel che, comunque, appare chiaro in una considerazione equilibrata e distaccata del problema è che, certamente, in Federico, come negli altri monarchi del tempo, non si vede, né ci si può e si deve aspettare, 'un programma' definito di politica economica (Del Treppo, 1996, p. 336); e si deve, anzi, riconoscere in lui "un imprenditore come non lo furono i suoi predecessori normanni" e saranno, invece, i suoi successori angioini e aragonesi (ibid., pp. 334-335: ma si deve dire che lo fu solo per le aziende regie). Altrettanto indubbio dovrebbe, tuttavia, essere che, data l'ampiezza delle imprese tentate dal sovrano, si aprì con lui, rompendo l'equilibrio che per questo verso vi era stato sotto i sovrani normanni, l'epoca in cui il fiscalismo dello stato cominciò a essere rapportato in maniera oltremodo squilibrata alle dimensioni dell'azione politica voluta dai sovrani anziché a quelle delle forze effettive e degli interessi più immediati del Regno, con una sfasatura che in alcune fasi storiche, come sotto gli Asburgo spagnoli, avrebbe toccato quasi il parossismo (e ciò, sia detto per inciso, concorre a mostrare come non sia del tutto ben fondata l'ironia di Maschke, 19822, pp. 349 ss., contro il "meridionalismo storiografico", che considera Federico responsabile ‒ come, del resto, altri governi del Mezzogiorno, e quello spagnolo soprattutto ‒ del sottosviluppo meridionale, mentre, nota Maschke, i settecento anni successivi sarebbero dovuti bastare a riparare gli eventuali disastri di un governo di trent'anni: il "meridionalismo storiografico" avrebbe potuto rispondere che i 'Federico' furono nella storia del Mezzogiorno parecchi e si successero con grande effetto cumulativo). Si aprì, quindi, con Federico l'epoca in cui in funzione di quella sfasatura vennero favoriti la penetrazione e il predominio delle più forti potenze economiche e finanziarie italiane e mediterranee fin nei gangli più importanti degli interni equilibri economici e sociali della realtà meridionale. Nella tradizione meridionale l'eco di questo aspetto fiscale del governo di Federico II rimase anch'essa viva. "Federico II imperatore [ricordava, ad esempio, Tanucci] stava per lo più fuor del Regno di Napoli", ma "volle pel suo fisco il privilegio dei lontani e delle repubbliche". A questa pretesa del sovrano Tanucci riportava la "legge Beneficium", ossia l'additio di Federico al titulus XLIII del Liber Constitutionum (Constitutionum, 1773, pp. 276-277), con la quale si privilegiava la parte regia nei procedimenti de restitutione reipublicae. Tanucci la qualificava come "legge particolarissima non conforme alla mansuetudine e grandezza degl'imperatori romani, ma pure in qualche maniera giustificata dall'obbligo di star lontano e dalla barbarie dei tempi, nei quali era difficile trovar persone accorte e sapienti che amministrassero il fisco e assistessero all'imperatore" (Tanucci, 1980, I, p. 443).
Sotto i primi sovrani angioini ‒ veri eredi e prosecutori della logica propria della politica economica di Federico ‒ tutto ciò sarebbe venuto in ben più chiara luce, rendendo meno evidente quanto avesse contribuito la vicenda complessiva del governo fridericiano a porne le basi e a provocarne sviluppi decisivi. Nel quadro di quel governo le stesse componenti della 'grande politica' fridericiana nel suo impegno in Italia e fuori d'Italia conferirono, peraltro, al Mezzogiorno nell'originaria unità del Regnum Siciliae altri elementi decisivi della sua storia ulteriore.
Fu con Federico, infatti, che il legame non solo politico, ma culturale e morale tra Mezzogiorno e Italia cominciò a stringersi e ad essere sentito con più forte pregnanza. L'esame che Dante fa delle parlate meridionali e la valutazione che egli dà delle origini "siciliane" della poesia italiana sono il più significativo riscontro, forse, ma non il solo di tali sviluppi. È vero che, dopo Federico, e dopo il Vespro, questo più largo confluire del Mezzogiorno nella genesi della italianità e della civiltà culturale, artistica, letteraria d'Italia sembrerà riguardare ben più la parte continentale che quella insulare del Regnum, e sembrerà rimanere a lungo più legato alla corte e a ciò che intorno a essa gravitava che non al paese. Il fatto resta, però, come un dato eminente della vicenda meridionale e italiana. E allo stesso modo resta l'idea di un potere a cui debba essere connaturata una dimensione non secondaria di interessi e di impegni culturali perché possa essere ritenuto adeguato alla dignità di un grande regime politico e civile. Resta l'idea di un governo che non possa sostenersi soltanto armis et legibus, e abbia bisogno di essere e apparire compenetrato di un alto spirito etico-politico, di un alto ideale civile, come appare nei prooemia di tanti atti e diplomi fridericiani, per cui la tradizione giurisdizionalistica e regalistica, così come l'idea del buon governo e della promozione della floridezza e civiltà materiale del Mezzogiorno, vedranno sempre in Federico uno dei primi e maggiori punti di riferimento. Resta l'idea di una cultura, che ‒ per quanto cultura di corte con scarse "ricadute degne di nota" al di fuori di essa (Varvaro, 1989, p. 88) ‒ consacra un modello culturale intimamente legato e stretto a una presenza e funzione civile attraverso il servizio regio, matrice eminente della posteriore coscienza statale, e attraverso quell'ideale di una "filosofia in soccorso de' governi" che troverà anch'essa una consistente prosecuzione nella storia morale e civile del Mezzogiorno, per cui Federico dichiarava di voler chiamare al suo "servizio uomini colti, per affidare ad essi, formati allo zelo dello studio di diritto e giustizia, senza preoccupazioni, l'amministrazione dello stato" (Kantorowicz, 1988, p. 266).
Nella storia del Mezzogiorno ebbe, quindi, molte ragioni di attecchire e di consolidarsi, più di quanto si sarebbe mai potuto pensare, e nelle più varie e perfino contrapposte parti della tradizione meridionale, l'idea e l'immagine di Federico come "signor che fu d'onor sì degno".
Fu, tuttavia, anche con Federico che si posero le premesse di quella divisione della monarchia meridionale in due entità statali autonome che sopravvenne a breve distanza di tempo dalla sua scomparsa.
Come si è già detto, la Valle del Po aveva rappresentato il punto di gravitazione geopolitica e anche il vero e proprio Schwerpunkt politico-diplomatico-militare dell'azione del sovrano, pur nel suo mai sminuito interesse per le questioni mediterranee, germaniche e, generalmente, europee, con un'autentica inversione di rotta, dunque, rispetto alla tradizione, accentuatamente mediterranea, dei sovrani normanni. In tal modo ‒ e per quante cautele debbano essere usate, come si è visto, nella definizione di un tale indirizzo della politica fridericiana e nell'indicazione dei modi della sua realizzazione per quanto riguarda il Regno ‒ dalla presenza diplomatica nell'Italia superiore, già potenziata sotto Guglielmo II, il Mezzogiorno passava a una presenza di tipo addirittura giurisdizionale sulla base del titolo imperiale del suo sovrano e a uno sforzo estremamente impegnativo di imporre la sua alta sovranità e di acquisire il governo diretto dell'Italia centrosettentrionale imperiale anche attraverso quadri e istituzioni nuove come quella dei vicariati imperiali e mediante un personale largamente attinto al Regno stesso, così come le risorse impiegate per conseguire questi fini. E con ciò la Sicilia vedeva radicalmente mutata la sua posizione politica e strategica nel contesto della monarchia. Fino ad allora la sua parte continentale, e soprattutto le regioni del confine settentrionale, ne erano state l'antemurale contro ogni insidia o pericolo da parte papale o imperiale e in vista di una proiezione che comunque concerneva lo spazio politico costituito dal Mediterraneo. Ora l'isola passava alla condizione di retrovia di un'azione protesa verso uno spazio politico, quello settentrionale, diverso, e sentito come tale.
La linea così seguita da Federico fu, peraltro, ben lontana dal riguardare soltanto la questione e il piano della politica estera. "Durante gli ultimi decenni di regno [ha notato meglio, forse, e più di altri Kantorowicz] Federico si recò una sola volta in Sicilia, a reprimervi la rivolta di Messina" nel 1232, mentre "Palermo solo di nome era la capitale del Regno": indizi che "dov'era la forza centrale dello stato siciliano, [ossia] nelle province settentrionali, Federico ne spostò anche il centro di gravità" (ibid., p. 289), sancendo così il mutamento che nella consistenza delle forze rispettive dell'isola e delle province continentali si era determinato dall'epoca di Ruggero II a quella di Federico. Ne può essere un indizio il fatto che Palermo (v.) era stata sotto i normanni il forziere della monarchia, ma la colletta generale che papa Onorio IV stabilì per il Regno nel 1285, ad appena un ventennio dalla caduta degli Svevi, ammontava a 50.000 once, e di essa 35.000 erano fissate per la parte continentale e solo 15.000 per la Sicilia (il che, nella misura in cui è riferibile alla popolazione del Regno, valutabile allora a un paio di milioni di abitanti, ne assegnerebbe due terzi al continente e un terzo all'isola).
Fino a quando l'unità era recente, la maggiore consistenza della massa continentale non poteva far sentire tutto il suo peso, mentre il maggiore amalgama delle forze siciliane, prima sotto il governo comitale e poi nei primi tempi del governo regio, si doveva risentire sul tutto in misura relativamente assai più forte. La profonda sicilianità della Historia del presunto Falcando coglie questa condizione di cose nel momento della sua maggiore esplicazione, ma anche di una iniziale inversione per gli effetti che mezzo secolo di unità monarchica cominciava a produrre, per una corrispondente forza di amalgama, anche sul continente. E forse una spia sui generis del progresso di questa integrazione si può vedere nella rapida semplificazione della formula con cui sotto Federico II si indicava il complesso dei domini regi. In epoca normanna la formula si era fissata nella triplice distinzione di Regnum Siciliae, Ducatus Apuliae, Principatus Capuae. A parere di Monti questa tripartizione significava una permanenza di quelli che egli definisce "stati mediatizzati", ossia delle precedenti formazioni politiche via via congiunte, con una serie di unioni personali, nei sovrani regnanti e nei loro successori (Monti, 1985). Ma la prassi amministrativa e politica del Regno appare fin dall'inizio tale da non potergli dare ragione, e veramente quelle distinzioni sembrano di carattere più che altro diplomatistico: si trattava pur sempre di investiture papali che per Capua, ad esempio, erano state guadagnate soltanto sotto Ruggero II ed erano, quindi, recentissime. Né può far ombra a questa considerazione l'uso dei titoli relativi per i principi del sangue.
Fatto sta, comunque, che la formula, a lungo mantenutasi integra anche nell'uso corrente, con Federico II si semplifica e si parla ormai soltanto di Regnum Siciliae et Apuliae. Anzi, la semplificazione ha inizio già prima, benché in maniera più saltuaria e occasionale. Proprio nell'annuncio della nascita di Federico il padre dice, tra l'altro, di possedere in pace totum Regnum Sicilie et Apulie. È anche su questa base che si può capire meglio come si sia andata progressivamente delineando negli studi normanni "la fisionomia di un Regno di Sicilia diviso già alla metà del XII secolo in due parti, nelle quali erano operanti due sistemi amministrativi, e nelle quali erano anche presenti due tradizioni culturali profondamente diverse": araba, bizantina, mediterranea in Sicilia e nella Calabria fino al Sinni; romano-longobarda e normanna, "orientata piuttosto verso Roma e l'Europa continentale che verso il mondo musulmano e mediterraneo", nel resto del Regno (Martin-Cuozzo, 1995, pp. 11-12, e già Galasso, 1976), fino al punto da far parlare di "un Regno bipolare" (Martin-Cuozzo, 1995, p. 10) con un certo qual eccesso di irrigidimento di una realtà che, comunque, permaneva, come si è detto, in progress.
Del resto, puer Apulie, das Kind von Apulien, Federico è chiamato fin dal principio in Germania. Di Regno di Sicilia e di Puglia congiuntamente e separatamente parla anche l'anonimo fautore della parte guelfa, quello che al concilio di Lione presenta due memoriali contro Federico: indizio di quanto la semplificazione (e la denominazione pugliese per la parte continentale) fossero ormai entrate nell'uso. Anche Federico, in una delle sue lettere sul pericolo tartaro nel 1241, parla della inquieta Apulia distintamente dalla Sicilia, e in senso non politico-istituzionale, ma non per questo meno significativo. Infine, nella stessa investitura di papa Clemente IV a Carlo d'Angiò nel 1265 la semplificazione trova un'ulteriore e ancor più pregnante espressione, questa volta proprio in un contesto diplomatico e politico-istituzionale di particolare importanza, e si parla distintamente di totum regnum Siciliae et totam terram quae est citra Pharum usque ad confinia terrarum Romanae Ecclesiae. Le vecchie e più analitiche espressioni troveranno ancora qualche applicazione; ma ormai anche la Curia romana, la più interessata, per le pretese che essa avanzava di alta sovranità sul Regno, al loro significato e a una loro perpetuazione, prendeva ‒ evidentemente ‒ atto del complessivo, organico articolarsi del Regno in due sole grandi realtà, chiaramente distinte e distinguibili fra loro.
Alla direzione continentale della politica di Federico furono legati, con la preferenza residenziale accordata a quella che era ormai la parte più cospicua del Regno, atti estremamente qualificanti della sua politica interna. La fondazione dello Studium generale a Napoli fu uno di questi atti, con tutto ciò che essa voleva dire come orientamento e localizzazione dell'azione del re di Sicilia e con tutto ciò che preannunciava circa il futuro della città campana. Allo stesso modo e per motivi di fondo non molto diversi, ossia per volersi trovare vicino il più possibile al teatro strategico per lui fondamentale, costituito dall'Italia comunale, egli prese a prediligere la Capitanata, la cui importanza nel Regno non era stata fino ad allora davvero notevole. E si sa che alla predilezione di Federico furono dovute, come quelle di Napoli, anche le più modeste fortune di Foggia (v.).
In questo quadro "l'interesse vivo dell'imperatore" per le opere di fortificazione del Regno dà un senso ulteriore al fatto che esse fossero "certamente coordinate a un programma militare e politico ben chiaro" (v. Castelli, Regno di Sicilia, sistema dei). È così che "il programma militare in corrispondenza ai disegni politici grandiosi" di Federico "si sviluppa nella concezione di un sistema fortificato esteso in continuità e fortemente munito lungo tutta la zona orientale dell'Italia centro-meridionale e della Sicilia […] con una localizzata serie di fortilizi e castelli […], il cui maggior caposaldo fu concentrato in Puglia, divenuta roccaforte imperiale con il suo cuore a Foggia" (Samonà, 1952, p. 507). Una concezione caratterizzata da un evidente privilegiamento della dorsale adriatico-ionica del Regno, che non sembra permettere di isolare e definire una specifica "originalità della Basilicata e, soprattutto, della Capitanata rispetto alle altre regioni del Regno", la prima "complessivamente una fortezza", la seconda "residenza dell'imperatore circondata da castelli" (Martin-Cuozzo, 1995, p. 76), ma indubbiamente tale da dare un senso pregnante alla politica fridericiana relativa a castelli e fortezze, molto spesso fraintesa e fatta oggetto di retorica, e di confermare che a base di quella politica c'era l'idea di dar luogo a un vero e proprio organismo per la difesa del Regno. Che poi questa fosse l'idea di una "difesa passiva", volta a logorare e stroncare un'eventuale invasione del Regno dal Nord (ibid., p. 70), può, forse, accettarsi meglio per Tancredi nel suo breve regno, mentre vederne una ripresa perfezionata da Federico "attraverso un capillare controllo sui castelli" (ibid.) può essere meno persuasivo, sia perché la direttrice campana di una invasione del Regno non era meno possibile di quella per la via degli Abruzzi (come prova anche il non trascurabile apparato di castelli della Terra di Lavoro; ibid., p. 76), sia perché la "difesa passiva" non sembra poter riassumere il criterio di un sovrano proiettato fortemente al di là dei confini del Regno proprio per la linea di quella dorsale adriatico-ionica a cui si è accennato. Più persuasivo sembra, perciò, che un fine ancora più determinante della strategia e della politica dei castelli fosse quello di proteggere le linee di comunicazione e tutta la logistica dell'azione sovrana fuori dei confini del Regno ancor più da insidie e pericoli interni che da eventuali minacce esterne, dalle rivolte e agitazioni nel Regno di cui Federico fece così spesso esperienza, dal rischio di un venir meno del suo controllo del territorio meridionale ‒ specie lungo il privilegiato asse adriatico-ionico ‒ contro cui ci si premuniva con il controllo dei territori attraverso il sistema dei castelli, concepiti, quindi, a scala di Regno, nella stessa ottica che alcuni secoli dopo avrebbe portato i sovrani moderni a costruire potenti fortezze nelle loro più importanti città.
Resta solo da sottolineare che l'incremento, a sua volta di fondo, del personale politico, dei quadri diplomatici, militari, amministrativi coi quali opera l'imperatore conferma puntualmente questa serie di osservazioni. La prevalenza dei continentali sui siciliani è, infatti, nettissima. Ne fa fede, fra gli altri, Salimbene che, nell'elencare i principes del seguito di Federico, compila appunto una sequela di nomi del Mezzogiorno continentale; ma ancor più lo indica il gruppo più propriamente burocratico che gli faceva corona con Pier della Vigna, Goffredo da Benevento, Taddeo da Sessa, Riccardo da Traetto, ecc. Né lo indica meno significativamente il gruppo dei domicelli imperiali, che, nella misura in cui è ricostruibile, è anch'esso a fortissima prevalenza continentale. Il "giogo apulo", come si è visto indicato il potere di Federico in Italia, doveva questa denominazione alla larga provenienza dei vicari e degli agenti imperiali, e specialmente della piccola burocrazia che li seguiva, dal Regnum Apuliae, ossia, appunto, dalla parte continentale della monarchia siciliana.
La centralità assunta dal corpo continentale della monarchia ‒ come già era stato, a suo tempo, in Sicilia, per il più stretto legame che si era formato fra l'isola e la Corona ‒ voleva dire, d'altra parte, una più forte pressione del potere regio in loco. L'impressionante successione delle rivolte meridionali sotto il regno di Federico ‒ nel 1220, nel '22, nel '23, nel '27, nel '28, nel '30, nel '34 ‒, ne è una dimostrazione evidente. Al confronto l'irrequietezza siciliana è minima: c'è la rivolta di Messina nel 1232, e qualche altro episodio, ma non certo lo stillicidio continentale. I problemi maggiori dalla Sicilia Federico li ebbe, tutto sommato, dai saraceni dell'isola, da quella "Marca dei Saraceni" che si era costituita in alcune zone interne della parte centroccidentale, a seguito anche delle vicende complesse che, dopo Guglielmo II, vennero sempre più riducendo il peso dell'elemento musulmano, nonché delle vicende provocate dalla crisi di successione apertasi nel 1189. La soluzione che Federico diede in ultimo al problema, dopo le repressioni del 1225 e del 1243, con il trasferimento di migliaia di musulmani sul continente e con l'istituzione della loro colonia di Lucera, è, da questo punto di vista, duplicemente significativa. Da un lato, si concorreva, infatti, ad alterare ulteriormente e definitivamente l'equilibrio etnico e la costituzione sociale che avevano caratterizzato l'isola nel Regno fino ad allora e non erano stati l'ultimo elemento della sua importanza, del suo peso specifico nella monarchia. Dall'altro lato, la sistemazione data ai musulmani di Sicilia nel cuore di quello che era allora il centro di azione del re, e che in particolare costituiva la base della sua azione militare, confermava e consolidava il senso generale del rovesciamento registratosi nel rapporto di forza e di influenza tra le due parti del Regno.
La molto maggiore irrequietezza continentale (aveva le sue ragioni, Federico, di parlare egli stesso, nel 1241, di inquieta Apulia) culminò alla fine, nel 1246, nella cosiddetta congiura di Capaccio (v.): una congiura particolarmente notevole perché in essa non fu coinvolta soltanto, come di solito, la feudalità, protagonista dominante delle precedenti rivolte, bensì anche una parte notevole dei "maggiori collaboratori della sua opera politica" e, in particolare, degli "alti funzionari", fino al "maggiore e più grande di tutti", ossia a Pier della Vigna (Morghen, 1936, pp. 91-92; Sthamer, 1933, pp. 57-70), che erano stati uno strumento tanto essenziale della sua azione politica nel Regno e fuori del Regno. E proprio per ciò la rivolta del 1246 va vista innanzitutto come la spia rivelatrice della durezza e della pressione che erano scaturite, nel progressivo amalgamarsi del paese intorno al trono e nel più stretto rapporto con la Corona, dal nuovo indirizzo politico di quest'ultima. Solo così diventa comprensibile che la sezione più torbida del Regno appaia, per l'imperatore, il continente e che, in ultimo, si trovino, come si è detto, congiurati contro di lui alcuni degli esponenti di maggior peso e rilievo di quel personale politico del paese diventato nei decenni precedenti il nerbo dell'azione imperiale.
Le grandi svolte e i mutati rapporti del periodo fridericiano proiettano così sul periodo posteriore le grandi ombre da cui nasceranno sia la defezione del baronaggio continentale nella lotta con Carlo d'Angiò, sia il Vespro e la rottura dell'unità della monarchia. La storia, che ha sempre molta capacità di fantasia e di improvvisazione, fece poi in modo che il paese più favorito dagli Svevi diventasse quello per essi veramente fatale, mentre nel paese da essi oggettivamente meno favorito, ossia la Sicilia, il secessionismo che trionfò alla fine del sec. XIII assunse, fra gli altri, il colore di una restaurazione legittimistica sveva. Ma la fantasia e l'improvvisazione della storia non alterano la sostanza e il senso del processo che si svolse sotto Federico. A porlo in maggiore evidenza dopo la morte dell'imperatore è quello stesso tentativo di costituirsi una signoria calabro-sicula operato da Pietro Ruffo, che da Pontieri, al quale si debbono l'individuazione e la ricostruzione del fatto, non senza ragione è visto come "un precursore del secessionismo siciliano" (Pontieri, 1958, pp. 7 ss.). Il tentativo di Pietro Ruffo fece perno, peraltro, su Messina e scaturiva dall'interno del più caratteristico mondo feudale del Sud. Il Vespro, pur concludendosi con una grande affermazione baronale, prese, invece, le mosse da una rivolta largamente cittadina ed ebbe il suo centro nella vecchia capitale normanna, in quella Palermo che dei nuovi indirizzi di Federico aveva più risentito.
Per Palermo, come è stato ben detto, il regno del puer Apuliae veramente segnò la fine di un'epoca. I lavoratori della seta, i gioiellieri delle fabbriche di palazzo sembra fossero trasferiti in Puglia insieme con gli altri musulmani espulsi e, probabilmente, con la maggior parte del corpo amministrativo. La fabbrica del mosaico a Palermo fu poco usata dopo il 1225, tranne che per le riparazioni, perché in assenza del re non c'era nulla da fare. La città non ebbe, nel XIII sec., nuovi edifici che potessero reggere il confronto con quelli del XII secolo. Palermo rimase una città morta, benché si trattasse molto più di un'apparenza che di una realtà, tanto che anch'essa col Vespro avrebbe mostrato un nuovo volto (Fodale, 1994, pp. 212-221). Ma l'elemento più sintomatico del Vespro, al di là di quelli che più immediatamente ne furono gli epicentri territoriali e sociali, stette nelle generalità e nella subi-tanea diffusione del movimento. La dinamica del Vespro sembra, cioè, dimostrare appieno che le ripercussioni del passaggio dell'isola in secondo piano nella vita della monarchia meridionale durante il periodo svevo e le reazioni che se ne ebbero, data la loro generalità e la loro diffusione, consentono di parlare generalmente della Sicilia come soggetto del processo che allora si svolse: una delle non molte volte che un tale termine, geografico e politico-istituzionale, può non essere un'astrazione semplificatrice ed elusiva e può designare fondatamente la realtà complessiva di un processo, che al suo interno non mancò, certamente, né di articolazioni né di contrasti.
Così il continente e l'isola avevano imboccato, alquanto prima che il fenomeno si manifestasse apertamente, la strada che doveva provocarne la secolare separazione. L'iniziativa e la politica di grandi sovrani accentratori come Federico e come Carlo I d'Angiò venivano, perciò, a fungere da sollecitazioni inconsapevoli di processi che in entrambe le parti della monarchia avrebbero avuto un esito fortemente diverso dalla linea accentratrice praticata da quei sovrani. Il risultato, infatti, sarebbe stato, con la divisione della monarchia, il rafforzamento della feudalità ai danni del potere regio nella società. Anche a ciò fu forse dovuto il fatto che, pur nella divisione, le due parti del Mezzogiorno avrebbero continuato a lungo a costituire nell'opinione comune un'unica area di civiltà. All'epoca di Salimbene e di Dante questo era già un risultato acquisito. In Sicilia e in Apulia, dice Salimbene, si parla col tu anche all'imperatore e al papa, mentre in Lombardia ‒ ossia nel resto d'Italia ‒ si parla col voi anche a una gallina o a una cosa inanimata. Dante, a sua volta, distingue tra apuli e siciliani, e preferisce i secondi ai primi, ma dopo Federico vede l'intero Mezzogiorno in una unitaria condizione di decadenza. Sono solo due esempi, ma confermano, con due nomi significativi, che la divisione politica non valeva ad annullare gli effetti più generalmente unificanti che l'azione dei primi sovrani del Mezzogiorno aveva fortemente contribuito a determinare e a sviluppare.
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