Regolamenti dell’Unione europea e giurisdizione
Oggetto di questo contributo è l’illustrazione della giurisprudenza della Corte di giustizia sulla interpretazione di regolamenti dell’Unione relativi alla materia del diritto processuale civile internazionale e ciò in riferimento alle questioni di competenza internazionale: si dà conto di pronunzie intervenute tra il 2010 ed il 2012 e vengono prese in considerazione le decisioni che riguardano, nell’ordine, i regolamenti n. 1346/2000/CE, relativo alle procedure di insolvenza; n. 44/2001/CE, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; n. 2201/2003/CE, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.
Nel caso deciso dalla Corte di giustizia con la sentenza 20.10.2011, C-396/2009, Soc. Interedil, in sede di procedimento per la dichiarazione di fallimento la Cassazione era stata investita con regolamento preventivo della questione di competenza internazionale.
Dichiarato tuttavia dal tribunale il fallimento e propostasi opposizione, la Cassazione aveva confermato la giurisdizione del giudice italiano, ma il tribunale aveva poi dubitato della conformità al regolamento n. 1346/2000 ed al suo art. 3, n. 1, dell’applicazione che di questa norma era stata fatta dalla Cassazione in sede di decisione sul regolamento preventivo.
Alla Corte di giustizia il tribunale aveva perciò e tra l’altro chiesto di sapere se il diritto dell’Unione osti a che da una norma di procedura nazionale, nel caso l’art. 382 c.p.c., il giudice possa essere vincolato ad attenersi alle valutazioni svolte nel medesimo processo da un giudice di grado superiore, quante volte non le ritenga conformi al diritto dell’Unione, come interpretato dalla Corte.
La Corte di giustizia ha risposto che un tale vincolo non può operare, se dovesse condurre ad una decisione contraria al diritto dell’Unione ed ha dato accesso agli altri quesiti posti a riguardo delle condizioni di applicazione della norma del regolamento attributiva di competenza.
Richiamandosi alla precedente decisione 5.10.2010, C-173/09, Elchinoz, in cui era a sua volta risalita alla propria giurisprudenza formatasi a partire dalla sentenza 16.1.1974, C-166/73, Soc. Rheinmueler, la Corte ha ritenuto di sottolineare che, secondo una giurisprudenza costante, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme del diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contrastante, ossia, nel caso di specie, la norma di procedura di cui si trattava nella causa principale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Nel caso Elchinoz, la Corte di giustizia aveva avuto appunto occasione di riaffermare che «il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale, al quale spetti decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede di impugnazione, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’istanza superiore qualora esso ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione».
Diversamente dal caso Soc. Interedil, nel caso Elchinoz era stata peraltro messa in discussione la conformità al diritto dell’Unione della norma di diritto nazionale sostanziale, così come interpretata dal giudice nazionale di grado superiore, ed in base alla quale, riformatane la decisione, quel giudice aveva reinvestito della decisione il giudice di primo grado perché decidesse la controversia alla stregua di quella norma ed in base all’accertamento circa i fatti pertinenti.
Ne risulta che, quando la decisione da parte del giudice nazionale sul fondo della domanda resta da dare, per esserne stato egli investito da parte del giudice superiore in base alla decisione resa da parte di questi su questioni di diritto, processuale o sostanziale, la preclusione al riesame di tale questione, che secondo il diritto processuale nazionale discende dal vincolo determinato dalla precedente decisione del giudice superiore, cede di fronte al contrasto che ne deriverebbe col diritto dell’Unione per effetto della decisione di merito sulla domanda, se tale decisione dovesse essere assunta sulla base di un’interpretazione del diritto applicabile, contrastante con la pertinente norma del diritto dell’Unione1.
La Corte di giustizia, con la sentenza 19.4.2012, C-213/10, F-Tex SIA, ha affrontato una questione relativa ai rapporti tra i due regolamenti, con ricadute sulla competenza internazionale.
Le circostanze di fatto sono state le seguenti.
La società NPLC, con sede statutaria in Germania, mentre era in stato di insolvenza, versa una somma ad una società, la Jadeclod-Vilma, la cui sede statutaria si trovava in Lituania.
Successivamente il giudice tedesco ha aperto una procedura d’insolvenza contro la NPLC.
Unico creditore era la F-Tex, con sede statutaria in Lettonia.
Il curatore fallimentare cede alla F-Tex tutti i diritti di credito della NPLC, compreso il diritto a rivendicare dalla società lituana la restituzione delle somme cedute dalla NPLC mentre si trovava in stato di insolvenza.
La cessione veniva effettuata senza alcuna garanzia da parte del curatore circa il contenuto del diritto di credito, il suo ammontare, la possibilità di ottenerne la esecuzione. La F-Tex, dalla cessione, non era obbligata a procedere al recupero del credito, ma qualora lo avesse fatto, era concordato che avrebbe dovuto versare al curatore fallimentare una percentuale del ricavo ottenuto.
La F-Tex ha proposto domanda davanti al giudice lituano, il giudice della sede della società convenuta, in presupposta applicazione degli artt. 2, § 1, e 60 del regolamento n. 44/2001, ma il giudice lituano si è dichiarato privo di competenza, avendo ritenuto che la competenza spettasse al giudice tedesco, giudice che aveva aperto la procedura d’insolvenza e ciò in presupposta applicazione dell’art. 3, n. 1, del regolamento n. 1346/2000, considerando l’azione come direttamente derivante da tale procedura e perciò rientrante nell’ambito di operatività del limite all’applicabilità del regolamento n. 44/2001 posto per i fallimenti dal suo art. 1, § 2, lett. b).
Mentre il giudice tedesco si dichiarava a sua volta privo di competenza, quello lituano di appello rinviava l’esame della domanda al giudice di primo grado, che ha sottoposto alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali.
La Corte ha considerato che l’azione intentata dalla F-Tex non poteva essere considerata strettamente connessa alla procedura di insolvenza ed era perciò sottratta alla competenza del giudice tedesco che ne aveva a suo tempo pronunziato l’apertura, in applicazione dell’art. 3, § 1, del regolamento n. 1346/2000, ricadendo così sotto l’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001 e non della limitazione posta dal suo art. 1, § 2, lett. b), quanto ai fallimenti, concordati e procedure affini.
A questa conclusione è pervenuta a seguito del confronto tra le due normative.
La Corte ha osservato che, secondo il settimo ‘considerando’ del regolamento n. 44/2001, solo alcuni settori ben definiti sono esclusi dal suo ambito di applicazione, che vi include invece la parte essenziale della materia civile e commerciale; per converso, il sesto ‘considerando’ premesso al regolamento n. 1346/2000 utilizza esattamente il criterio risultante dalla sentenza 22.2.1979, C-133/78, Gourdain, resa a proposito della analoga disposizione contenuta nell’art. 1, § 2, lett. b), della Convenzione di Bruxelles, al fine di esprimere che per essere escluse da quell’ambito di applicazione e restare attratte alla disciplina propria delle procedure concorsuali i procedimenti diversi dai fallimenti e dalle analoghe procedure debbono scaturirne direttamente ed esservi strettamente connessi.
Tale connessione col procedimento di apertura di una procedura di insolvenza, indubbia nel caso di azione revocatoria esercitata dal curatore per il recupero di risorse all’attivo del fallimento è stato dalla Corte escluso nel caso in cui, senza peraltro esservi obbligato dall’atto di cessione, l’azione veniva esercitata dal cessionario nel proprio interesse ed a suo beneficio personale né l’intervenuta chiusura del fallimento, secondo il diritto applicabile alla procedura, nella specie quello tedesco, impediva l’esercizio dell’azione.
Con la sentenza 20.10.2011, C-369/09 – di cui si è appena dato conto – la Corte di giustizia ha affrontato tre ordini di questioni.
La prima. Si è trattato per la Corte di pronunziarsi in merito all’interpretazione dell’art. 3, n. 1, seconda frase, del regolamento.
L’art. 3, n. 1, dispone che «Sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore». La sua seconda frase recita: «Per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede statutaria».
La Cassazione, pronunciandosi in sede di regolamento preventivo, aveva affermato che la presunzione fissata dalla seconda frase dell’art. 3, n. 1, del regolamento si prestava ad essere superata, nel caso, in forza di un complesso di circostanze: la presenza in Italia di beni immobili appartenenti alla società dichiarata fallita; l’esistenza di un contratto di affitto relativo a due complessi alberghieri; un contratto stipulato con un istituto bancario; l’omessa comunicazione, all’ufficio del registro delle imprese della sede statutaria, del trasferimento di questa all’estero.
Si è trattato quindi di stabilire a quali condizioni la presunzione stabilita dall’art. 3, n. 1, seconda frase, opera ed a quali diverse condizioni si presta ad essere superata.
A questo proposito la Corte di giustizia ha enunciato i seguenti principi:
a) la nozione di «centro degli interessi principali del debitore» deve essere determinata in base al diritto dell’Unione. A tale riguardo, la Corte ha ricordato che di norma, i termini d’una disposizione del diritto dell’Unione, che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del suo senso e della sua portata, debbono essere oggetto di un’interpretazione autonoma ed uniforme nell’intera Unione, interpretazione da effettuarsi tenuto conto del contesto e delle finalità perseguite dalla normativa in questione: ciò secondo una giurisprudenza costante ed in conseguenza della necessità di garantire tanto l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, quanto il principio di eguaglianza2. Ha aggiunto che già con la sentenza 2.5.2006, C-341/04, Eurofood IFSC, a proposito della nozione di «centro degli interessi principali» la Corte aveva stabilito che si tratta di una nozione propria al regolamento, la quale pertanto presenta un significato autonomo e deve quindi essere interpretata in maniera uniforme e indipendente dalle legislazioni nazionali3;
b) il «centro degli interessi principali» di una società debitrice deve essere individuato privilegiando il luogo dell’amministrazione principale di tale società, come determinabile in base ad elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi. Sebbene il regolamento non fornisca alcuna definizione della nozione di centro degli interessi principali del debitore, la portata di tale nozione, come rilevato al punto 32 della sentenza Eurofood IFSC, è chiarita dal tredicesimo ‘considerando’ del regolamento, ai sensi del quale «per ‘centro degli interessi principali’ si dovrebbe intendere il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale, e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei suoi interessi»;
c) se i suoi organi direttivi e di controllo si trovano presso la sede statutaria della società e le decisioni di gestione sono assunte, in modo riconoscibile dai terzi, in tale luogo, la presunzione introdotta dall’art. 3, n. 1, seconda frase, non è superabile;
d) se il luogo dell’amministrazione principale non si trova presso la sede statutaria della società, la presenza di attivi sociali nonché l’esistenza di contratti relativi alla loro gestione finanziaria in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria possono essere considerati elementi sufficienti a superare la presunzione: ciò, però, solo a condizione che una valutazione globale di tutti gli elementi rilevanti consenta di stabilire che, in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della società, nonché la gestione dei suoi interessi sono situati in un altro Stato membro.
La seconda questione affrontata – sempre inerente all’applicazione dell’art. 3, n. 1, seconda frase – richiedeva di prendere posizione riguardo all’ipotesi del rilievo da attribuirsi, ai fini della competenza all’apertura di una procedura d’insolvenza, al trasferimento del centro degli interessi principali in altro Stato.
La Corte di giustizia, dopo aver rilevato che il regolamento non contiene disposizioni esplicite riguardo a tale peculiare ipotesi, ha affermato che se il trasferimento interviene prima della proposizione della domanda di apertura di una procedura d’insolvenza, si presume che il centro degli interessi principali di tale società si trovi presso la sua nuova sede statutaria.
La Corte ha considerato:
a) che, dati i termini generali in cui è redatto, l’art. 3, n. 1, si deve interpretare nel senso che sia l’ultimo luogo in cui si trovi il centro degli interessi principali della società a dover essere considerato rilevante per determinare il giudice competente ad aprire una procedura d’insolvenza. A tale riguardo la Corte ha osservato che tale soluzione doveva essere considerata implicita in quella accolta nella precedente sentenza 17.1.2006, C-1/04, Staubitz-Schreiber4, dove si era ritenuta irrilevante ai fini della determinazione della competenza all’apertura di una procedura d’insolvenza il trasferimento del centro degli interessi principali sopravvenuto dopo che la domanda relativa era stata proposta, sebbene prima che la procedura fosse stata aperta; per converso, in seguito al trasferimento della sede statutaria prima della proposizione della domanda, in base alla presunzione di coincidenza di questa con il centro degli interessi principali del debitore, si deve pervenire alla conclusione che tale trasferimento rilevi ai fini della determinazione della competenza, a meno che la presunzione non sia superata dalla prova che il centro degli interessi principali non abbia seguito il trasferimento della sede statutaria;
b) ha proseguito e concluso sulla questione osservando, ai punti 57 e 58 – in riferimento al giudizio principale – che «57. Le stesse regole devono trovare applicazione nell’eventualità in cui, alla data della proposizione della domanda di avvio della procedura di insolvenza, la società debitrice sia stata cancellata dal registro delle imprese e, come sostiene l’Interedil nelle sue osservazioni, abbia cessato ogni attività. 58. Infatti, come emerge dai punti 47-51, di questa sentenza, la nozione di centro degli interessi principali riflette l’intento di stabilire un collegamento con il luogo con il quale la società presenta i più stretti rapporti, in termini obiettivi e in maniera visibile dai terzi. È quindi logico privilegiare, in una tale ipotesi, il luogo dell’ultimo centro degli interessi principali al momento della cancellazione della società debitrice e della cessazione di ogni attività da parte della stessa».
Considerazione, quest’ultima, tale da giustificare sia l’illazione per cui la cessazione di ogni attività, se intesa in senso assoluto e non localizzato, è circostanza idonea a far cadere la presunzione di coincidenza della nuova sede statutaria con il centro degli interessi principali della società, sia, se non intesa in senso assoluto, la soluzione opposta.
La terza ed ultima questione affrontata dalla Corte di giustizia è quella relativa all’interpretazione del termine «dipendenza», impiegato nell’art. 3, n. 2, del regolamento, per identificare il criterio di collegamento ai fini della competenza ad aprire una procedura di insolvenza secondaria: dispone l’art. 3, n. 2, che «Se il centro degli interessi principali del debitore è situato nel territorio di uno Stato membro, i giudici di un altro Stato membro sono competenti ad aprire una procedura di insolvenza nei confronti del debitore solo se questi possiede una dipendenza nel territorio di tale altro Stato membro. Gli effetti di tale procedura sono limitati ai beni del debitore che si trovano in tale territorio».
Il termine dipendenza, dall’art. 2, lett. h), del regolamento è definito come quel «qualsiasi luogo di operazioni in cui il debitore esercita in maniera non transitoria un’attività economica con mezzi umani e con beni».
La Corte ha considerato:
a) che per garantire la certezza del diritto e la prevedibilità quanto all’individuazione dei giudici competenti, l’esistenza di una dipendenza deve essere valutata, al pari della localizzazione del centro degli interessi principali, sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi;
b) che la definizione del termine dipendenza collega l’esercizio di un’attività economica alla presenza di risorse umane e ciò dimostra che sono necessarie un minimo di organizzazione e una certa stabilità. Perciò, la mera presenza di singoli beni o di conti bancari non soddisfa, in linea di principio, i requisiti necessari ai fini di tale qualificazione.
3.1 La sentenza Rastelli
I principi espressi nella sentenza Eurofood IFSC e poi nella sentenza Interedil sono stati ripresi nella sentenza 15.12.2011, C-191/10, Soc. Rastelli.
Nel caso5, il Tribunale di commercio di Marsiglia aveva messo in stato di liquidazione giudiziaria una società la cui sede statutaria era in Francia e il liquidatore aveva convenuto davanti allo stesso tribunale la società Rastelli, con sede statutaria in Italia, per chiedere che la procedura di liquidazione le fosse estesa.
Ciò non sul presupposto che la Rastelli avesse in Francia una dipendenza e dunque sulla base dell’art. 3, n. 2, del regolamento n. 1346/2000, ma della disposizione contenuta nell’art. 621-2 del codice di commercio francese che, per quanto interessa, stabiliva: «La procedura avviata può essere estesa a una o a diverse persone in caso di confusione del loro patrimonio con quello del debitore … e, a tal fine, rimane competente il tribunale che ha aperto la procedura».
Che l’applicazione di tale disposizione fosse compatibile col regolamento aveva dubitato la Corte di cassazione francese, che aveva chiesto di conoscere per un verso se il regolamento dovesse essere interpretato nel senso d’essere d’ostacolo a tale applicazione e per altro verso se, ove la dichiarazione di insolvenza del secondo soggetto fosse stata considerata alla stregua di un’apertura di una nuova procedura d’insolvenza, la localizzazione in Francia della sede degli interessi principali della seconda società potesse considerarsi dimostrata in base al semplice accertamento della confusione dei patrimoni.
La Corte di giustizia si è pronunciata in modo negativo su ambedue i quesiti.
Ha considerato che il regolamento va interpretato nel senso che il giudice nazionale che ha avviato una procedura principale di insolvenza nei confronti di una società, considerando che il centro degli interessi principali della stessa sia situato sul territorio di tale Stato, può estendere, in applicazione del suo diritto nazionale, tale procedura ad una seconda società, la cui sede statutaria sia situata in un altro Stato membro, soltanto a condizione che sia dimostrato che il centro principale degli interessi di quest’ultima si trova nel primo Stato membro.
Ha affermato, in secondo luogo, che la mera confusione dei patrimoni non è sufficiente a dimostrare che il centro degli interessi principali della seconda società, contro cui è diretta l’azione volta all’estensione ad essa della dichiarazione d’insolvenza, si trovi nel territorio nazionale del giudice che ha avviato la procedura nei confronti della prima società. Per confutare la presunzione secondo cui detto centro coincide con la sede statutaria è necessario che una valutazione globale dell’insieme degli elementi pertinenti permetta di accertare che, in un modo riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e controllo della società contro cui è diretta l’azione finalizzata all’estensione si trova nello Stato membro in cui è stata avviata la procedura d’insolvenza iniziale.
Decisiva nella costruzione della decisione appare essere stata la considerazione – sviluppata ai punti dal 22 al 26 della sentenza, riprendendo un’affermazione contenuta nel punto 30 della sentenza Eurofood IFSC – che l’estensione di una procedura d’insolvenza da uno ad altro soggetto giuridico non va valutata sotto l’aspetto meramente procedimentale, ma dal punto di vista sostanziale per cui agli effetti della dichiarazione di insolvenza si tende ad assoggettare un diverso soggetto giuridico, diversità che non è messa in questione dalla circostanza della gestione unitaria dei patrimoni. Orbene, ogni decisione che produce rispetto ad un’entità giuridica gli stessi effetti della decisione di avvio di una procedura principale d’insolvenza può essere adottata solo dai giudici dello Stato membro che sarebbero competenti ad avviarla.
3.2 Il regolamento n. 44/2001/CE
La Corte di giustizia, con la sentenza 15.3.2012, C-292/10, G, si è pronunziata in merito all’interpretazione dell’art. 4, § 1, del regolamento, là dove dispone che la competenza è disciplinata in ciascuno Stato membro dalla legge di tale Stato, se il convenuto non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro.
Nella circostanza, in cui non era stato possibile notificare al convenuto l’atto introduttivo del giudizio, il giudice adito, pur precisando che numerosi elementi indicavano che il convenuto si trovasse nel territorio dell’Unione, in mancanza di elementi che lo rendessero al riguardo certo, s’era interrogato, circa la possibilità di decidere della sua competenza in base all’applicazione delle norme di competenza dettate dal regolamento ed in particolare del suo art. 5, § 3.
La risposta della Corte – che, al riguardo ha richiamato la precedente sentenza 17.11.2011, C-327/10, Hypotecni Banka, punto 42 – è stata la seguente.
La locuzione «non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro» deve essere intesa nel senso che l’applicazione delle norme nazionali anziché delle norme uniformi sulla competenza è possibile solo se il giudice adito dispone di indizi probatori che gli consentano di ritenere che il convenuto, cittadino dell’Unione non domiciliato nello Stato membro di detto giudice, sia effettivamente domiciliato al di fuori del territorio dell’Unione.
In assenza di tali indizi probatori, la competenza internazionale di un giudice di uno Stato membro è accertata quando sono soddisfatte le condizioni per l’applicazione di una delle norme sulla competenza previste dal regolamento.
La sentenza 19.7.2012, C-154/11, Mahamadia, in una controversia che opponeva all’ambasciata della Repubblica algerina a Berlino un suo impiegato, ha risolto due questioni in tema di competenza in materia di contratti individuali di lavoro.
Si trattava di stabilire, in relazione all’art. 18, § 2, del regolamento, se a decidere della controversia sorta dal rapporto di lavoro tra il suo dipendente e la Repubblica algerina, destinato a svolgersi presso l’ambasciata di Berlino, fosse competente a conoscere il giudice tedesco: ciò sul presupposto per cui, pur non potendo la Repubblica algerina essere considerata avere domicilio in Germania, andasse considerata avervi, con l’ambasciata, «una succursale, un’agenzia o un’altra sede di attività».
Si trattava ancora di stabilire, in relazione all’art. 21 del regolamento, se alla convenzione stipulata all’atto della conclusione del contratto di lavoro, che indicava come unico giudice competente a risolvere le controversie che fossero insorte dall’esecuzione del contratto il giudice della Repubblica algerina, potesse essere riconosciuta l’efficacia di derogare alla disciplina della competenza stabilita dalla quinta sezione del regolamento.
La Corte di giustizia ha dato risposta positiva al primo quesito e negativa al secondo.
Ha affermato che l’art. 18, § 2, deve essere interpretato nel senso che un’ambasciata di uno Stato estero costituisce «una sede di attività» ai sensi di tale disposizione in una controversia relativa ad un contratto di lavoro concluso con quest’ultima in nome dello Stato accreditante, qualora le funzioni svolte dal lavoratore non rientrino nell’esercizio dei pubblici poteri, spettando al giudice nazionale adito stabilire la natura esatta delle funzioni svolte dal lavoratore.
Ha ancora affermato che l’articolo 21, punto 2, del regolamento deve essere interpretato nel senso che un accordo attributivo di competenza pattuito anteriormente al sorgere di una controversia rientra in tale disposizione nei limiti in cui esso offre la possibilità al lavoratore di adire, oltre ai giudici normalmente competenti in applicazione delle norme speciali degli artt. 18 e 19 del regolamento, altri giudici, ivi compresi, se del caso, giudici situati al di fuori dell’Unione6.
3.3 Il regolamento n. 2201/2003/CE
Le questioni di interpretazione affrontate dalla Corte di giustizia nella sentenza 1.7.2010, C-211/10, P. c. A.7, hanno avuto origine da un caso di sottrazione di minore ed hanno investito la disciplina delle condizioni di esercizio della competenza in tema di ritorno.
Oggetto di interpretazione è stata, in primo luogo, la disposizione dettata dall’art. 10 del regolamento, che, in caso di trasferimento illecito del minore, indica nell’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento o del mancato rientro il giudice competente a disporre circa il suo ritorno, ma considera esaurita tale competenza per effetto della circostanza che il minore abbia assunto la residenza abituale in altro Stato membro o, in base alla lett. b), punto iv), per il fatto che tale autorità abbia emanato una decisione di affidamento che non preveda il ritorno.
La Corte di giustizia ne ha predicato la necessità di un’interpretazione restrittiva, in ragione della impostazione complessiva della disciplina dettata dal regolamento, volta a dissuadere dal commettere sottrazioni di minori e, in caso di sottrazione, ad ottenere che il ritorno del minore sia effettuato al più presto.
Di conseguenza ha affermato che la decisione di affidamento che non prevede il ritorno non può essere una decisione provvisoria.
Ha costituito altro oggetto di interpretazione la disposizione dettata dall’art. 47, sul procedimento di esecuzione.
La Corte ha rilevato che il complesso delle norme in tema di esecuzione delle decisioni in tema di ritorno del minore poggia su una netta distinzione di competenze tra Stato membro di origine e Stato membro di esecuzione e che dall’art. 42 del regolamento risulta che ogni questione attinente alla fondatezza della decisione assunta dal giudice dello Stato membro di origine deve essere sollevata davanti a quello, ivi compresa quella della sua possibile sospensione, mentre davanti al giudice dello Stato richiesto possono porsi solo questioni attinenti alle norme che davanti a lui regolano il relativo procedimento.
Nel caso si erano susseguiti a riguardo del minore più provvedimenti giudiziari.
Ad un primo provvedimento d’un tribunale per i minorenni italiano, che, sollecitato dal padre, aveva disposto a carico della madre il divieto di espatriare con la figlia, ne era seguito altro che lo aveva revocato e consentito che fino ad una decisione definitiva la figlia potesse temporaneamente convivere con la madre all’estero, dove intanto, in Austria, era stata portata con sé dalla madre.
Seguiva da parte del padre l’instaurazione davanti al medesimo tribunale di un procedimento inteso a che fosse disposto il ritorno del minore in Italia. Il tribunale per i minorenni adottava un decreto con cui, da un lato, confermava la sua competenza, dall’altra disponeva il ritorno immediato della minore in Italia e dichiarava esecutiva la sua decisione.
E però tale esecuzione veniva rifiutata. Da un lato l’autorità giudiziaria austriaca emetteva un provvedimento con il quale la minore era provvisoriamente affidata alla madre, dall’altra respingeva la domanda rivoltale dal padre, che chiedeva fosse disposta l’esecuzione del provvedimento di rientro. Considerava che l’esecuzione del decreto del giudice italiano presentava un grave rischio di danno psichico per la minore.
Nel procedimento di impugnazione che ne è seguito, la Corte di cassazione austriaca ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte di giustizia, insieme ad altre, rimaste assorbire dalla risposta data alle prime due, le seguenti questioni pregiudiziali, così ridefinite dalla Corte di giustizia:
a) se, in una fattispecie di trasferimento illecito di minore, l’art. 10, lett. b), punto iv), del regolamento debba essere interpretato nel senso che un provvedimento provvisorio va qualificato come «decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore», ai sensi della stessa disposizione;
b) se l’art. 11, n. 8, del regolamento debba essere interpretato nel senso che la decisione del giudice competente che disponga il ritorno del minore rientra nell’ambito di applicazione di detta norma solo qualora si fondi su una decisione definitiva del medesimo giudice in merito al diritto di affidamento del minore;
c) se l’art. 47, n. 2, § 2, del regolamento debba essere interpretato nel senso che una decisione che attribuisca un diritto di affidamento provvisorio, emessa in un momento successivo da un giudice dello Stato membro di esecuzione e considerata esecutiva ai sensi della legge di tale Stato osti all’esecuzione di una decisione certificata, decreto emesso anteriormente, con la quale era stato disposto il rientro del minore, in quanto incompatibile con quest’ultima decisione;
d) se l’esecuzione di una decisione certificata possa essere negata nello Stato membro di esecuzione adducendo un mutamento delle circostanze, sopravvenuto dopo la sua emanazione, tale per cui l’esecuzione potrebbe ledere gravemente il superiore interesse del minore, o se invece tale mutamento debba essere dedotto dinanzi ai giudici dello Stato membro di origine, il che implicherebbe la sospensione dell’esecuzione della decisione nello Stato membro richiesto, nelle more del procedimento nello Stato membro di origine.
La Corte di giustizia ha dichiarato, rispettivamente:
a) l’art. 10, lett. b), punto iv), del regolamento deve essere interpretato nel senso che un provvedimento provvisorio non configura una «decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore» ai sensi della stessa disposizione e non può costituire il fondamento di un trasferimento di competenza ai giudici dello Stato membro verso il quale il minore è stato illecitamente trasferito;
b) l’art. 11, n.8, del regolamento deve essere inteso nel senso che la decisione del giudice competente che disponga il ritorno del minore rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione anche qualora non sia preceduta da una decisione definitiva adottata dal medesimo giudice sul diritto di affidamento del minore;
c) l’art. 47, n. 2, § 2, del regolamento deve essere interpretato nel senso che una decisione emessa successivamente da un giudice dello Stato membro di esecuzione, che attribuisca un diritto di affidamento provvisorio e sia considerata esecutiva ai sensi della legge di tale Stato non è opponibile all’esecuzione di una decisione certificata, emessa anteriormente dal giudice competente dello Stato membro di origine e con la quale è stato disposto il ritorno del minore;
d) l’esecuzione di una decisione certificata non può essere negata dallo Stato membro di esecuzione adducendo un mutamento delle circostanze, sopravvenute dopo la sua emanazione, tale per cui l’esecuzione potrebbe ledere gravemente il superiore interesse del minore. Un mutamento del genere deve essere dedotto dinanzi al giudice competente dello Stato membro di origine, al quale dovrebbe essere anche presentata l’eventuale domanda di sospensione della sua esecuzione.
1 La sentenza C. giust., 20.10.2011, C-396/09, è pubblicata in Foro it., 2011, IV, 537 con nota di D’Alessandro, E., L’ordinanza conclusiva del regolamento di giurisdizione capitola dinanzi alla “primauté” del diritto dell’Unione europea; la sentenza C. giust., 5.10.2010, C-173/09, è pubblicata in Riv. dir. int. priv. proc., 2011, 540; la sentenza C. giust., 16.1.1974, C-166/73, in Foro it., 1974, IV, 126.
2 La Corte fa riferimento a tale riguardo alla sentenza 29.10.2009, C-174/2009, NCC Construction Danmark, ed alla precedente giurisprudenza richiamata al punto 24 della stessa sentenza.
3 La massima della sentenza Eurofood della Corte di giustizia è pubblicata in Int’Lis 2006, 123 con nota di L. Baccaglini.
4 In RDS, 2007, 64, con nota di F.M. Mucciarelli.
5 C. giust., 15.12.2011, C-191/10, Soc. Rastelli, in Foro it., 2012, IV, 61.
6 Un copioso contenzioso ha contrapposto allo Stato italiano impiegati di istituti di cultura italiana all’estero e la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha risolto nel medesimo senso le questioni affrontate nella sentenza riportata: così, Cass., S.U., 28.12.2011, n. 29093 e Cass., S.U., 13.4.2012, n. 5872.
7 In Foro it., 2010, IV, 493. In argomento, Cass., S.U., 2.8.2011, n. 16864, in Fam. dir., 2012, 29 con nota di Liuzzi, A., Sulla giurisdizione ad emettere provvedimenti de potestate in caso di trasferimento di minori.