Abstract
Premesso che la parola “regolamento” indica un insieme di regole (generali e astratte), e che quindi da un lato possono esservi atti normativi che sono concettualmente regolamenti anche se ricevono ufficialmente un nome diverso e dall’altro che giuridicamente possono essere previsti, quale che sia il nome ufficiale che portano, diversi tipi di regolamento diversamente disciplinati dal diritto positivo, lo scritto si concentra sui regolamenti subordinati alla legge, statali, regionali, provinciali e comunali, descrivendo sinteticamente i principi costituzionali e legislativi vigenti entro l’ordinamento italiano nella materia.
Regolamento, fuori da un contesto, è una parola generica che si limita a designare un insieme di regole: è uso comune parlare del regolamento di un condominio, del regolamento di una biblioteca, del regolamento di una casa di riposo, e così via. Talvolta la parola regolamento è anche il nome ufficiale di un documento (ad es. il “Regolamento della Camera dei deputati”), altre volte indica il contenuto di un atto che porta però un diverso nome ufficiale (ad es. porta il nome di decreto oppure ordinanza), altre volte, quale che sia il nome ufficiale dell’atto, segnala il suo specifico valore giuridico (quando ad es. esso viene distinto dalla legge formale perché ha valore regolamentare, e cioè un valore da un lato costitutivo del diritto oggettivo come le leggi ma dall’altro subordinato alle leggi ed agli atti aventi forza di legge).
Però un elemento costante c’è, elemento peraltro che non è sufficiente per determinare il valore giuridico e la collocazione dell’atto designato come regolamento: qualunque regolamento contiene regole generali e astratte. In altre parole il regolamento, qualunque sia il suo nome ufficiale e il suo trattamento giuridico, è un atto concettualmente normativo.
Per mettere ordine in questa congerie alla quale rinvia la mera parola regolamento conviene anzitutto sottolineare che in questa sede ci interessa l’aspetto giuridico e dunque le distinzioni e le classificazioni verranno condotte in base a criteri di ordine giuridico.
Seguendo questo metodo, la prima semplificazione della materia si basa sul fatto che i regolamenti che in questa voce ci interessano sono atti normativi secondo diritto, e cioè atti unilaterali di diritto pubblico che impongono ai destinatari regole di comportamento generali e astratte e tutte quelle altre regole strumentali necessarie per la attuazione, interpretazione, applicazione delle regole di comportamento generali e astratte. Quindi tutti gli atti che contengono regole generali e astratte ma si basano su accordi tra privati (ad es. un regolamento condominiale) non sono atti normativi nel senso qui seguito (senso peraltro che corrisponde ad una precisa scelta dell’ordinamento).
Va ricordato poi che gli atti normativi di diritto pubblico non soltanto sono atti unilaterali di una autorità verso i sottoposti ma sono anche atti che, se considerati ufficialmente normativi, danno luogo ad una serie significativa di conseguenze, quali il ricorso per cassazione (perché anch’essi costituiscono diritto), l’applicazione del principio jura novit curia, l’applicazione del principio per cui ignorantia legis non excusat, l’applicazione di regole specifiche per quanto riguarda la attività di interpretazione.
Qui si colloca la seconda semplificazione, che esclude dalla indagine un numero anch’esso enorme di atti contenenti regole generali e astratte che però non possono essere trattati come atti normativi: nel nostro ordinamento (come del resto in altri ordinamenti) si applica il criterio della pubblicazione legale, per cui un atto non può in nessun caso essere trattato come normativo (con le conseguenze prima elencate) se non è stato pubblicato legalmente (e quindi nell’Unione europea se non è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, in Italia se non è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale per gli atti statali, sui Bollettini ufficiali se atti regionali, sugli albi pretori se atti provinciali e comunali). Il criterio serve per escludere, non per includere; in altre parole non può essere trattato come normativo un atto che non è stato pubblicato legalmente, ma la pubblicazione legale da sola non è sufficiente per attribuire la natura di atto normativo (costitutivo di diritto oggettivo) ad un atto pubblicato in Gazzetta ufficiale anche quando esso contiene regole generali e astratte.
Possiamo così concentrare l’attenzione su quegli atti che congiuntamene presentano queste cinque caratteristiche: 1) contengono regole di comportamento generali e astratte (e regole non di comportamento serventi rispetto alle prime); 2) sono stati emanati da autorità pubbliche nell’esercizio unilaterale del loro potere; 3) sono stati pubblicati legalmente; 4) non sono leggi formali o atti statali con forza di legge; 5) vengono trattati come atti normativi (questo vuol dire che possono esservi regolamenti in base ai primi quattro criteri che però il sistema non tratta come atti costitutivi del diritto oggettivo: ad es. regolamenti trattati come interni alla struttura che li ha emanati, o atti definiti espressamente dalla legge “non regolamentari”; poiché non esiste un criterio semplice e costante per operare questa distinzione qui ci si limita a sottolineare che i regolamenti di cui parleremo sono sicuramente atti normativi in base al trattamento che ricevono).
Vengono qui nominati per memoria soltanto perché portano ancora oggi il nome di regolamenti (in italiano; in altre lingue il nome è diverso ovviamente ma corrisponde sempre all’italiano “regolamento”, e cioè un atto normativo che non viene chiamato legge). Però i regolamenti dell’Unione europea non sono atti normativi della Repubblica italiana (anche se entrano in vigore anche nell’ordinamento italiano), ed in ogni caso il loro regime giuridico non ha nulla a che fare col regime giuridico dei regolamenti di cui parleremo. Per queste ragioni qui non verrà detto altro.
Prima di parlare dei regolamenti pari ordinati alle leggi (ma senza forza di legge in senso proprio) va ricordato che in base al testo della Costituzione italiana una legge ordinaria non può prevedere per sua decisione autonoma atti normativi con forza di legge: tali atti sono soltanto quelli esplicitamente o implicitamente previsti dalla Costituzione o da leggi costituzionali.
Nella Costituzione però sono previsti (esplicitamente o implicitamente) atti che, essendo immediatamente subordinati soltanto alla Costituzione ed alle leggi costituzionali, sono per questo aspetto pari ordinati alle leggi formali del Parlamento, anche se a rigore non hanno forza di legge. Per capire questa distinzione bisogna ricordare che per disciplinare i rapporti tra atti normativi non esistono solo il criterio cronologico (tra atti di pari forza) e quello gerarchico (tra atti posti su livelli gerarchici diversi) ma anche quello della competenza, e più in particolare quello della riserva di competenza, per cui una determinata materia o un determinato oggetto può essere disciplinato solo da uno specifico tipo di atto indicato in Costituzione e da nessun altro. È il caso dei regolamenti di Camera e Senato, esplicitamente previsti in Costituzione, come atti ai quali spetta in modo esclusivo la disciplina della organizzazione e del funzionamento rispettivamente di Camera e Senato, salve ovviamente quelle norme in materia già contenute in Costituzione o in leggi costituzionali. La pari ordinazione tra tali regolamenti e le leggi ordinarie si manifesta appunto nel fatto che tutti questi atti si collocano sul medesimo gradino nella gerarchia delle fonti, quello immediatamente subordinato alla Costituzione ed alle leggi costituzionali; nello stesso tempo tra tali regolamenti e le leggi ordinarie (o atti con forza di legge) non deve mai applicarsi il criterio cronologico, perché né la legge (o atto avente forza di legge) può disciplinare oggetti riservati al regolamento parlamentare, né il regolamento parlamentare può disciplinare oggetti che non rientrano nella organizzazione e nel funzionamento della camera di riferimento, cosicché in principio è escluso che leggi (o atti aventi forza di legge) e regolamenti parlamentari disciplinino il medesimo oggetto.
Rispetto ai regolamenti parlamentari la Corte costituzionale, con decisioni mai smentite finora nonostante le molte critiche che continuano ad essere mosse da molti giuristi, ha stabilito che essi non possono costituire né oggetto né parametro di giudizio nelle controversie sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge. Si ritiene invece che i regolamenti parlamentari possano costituire oggetto di giudizio della Corte in un conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato.
Non la Costituzione o una legge costituzionale ma una legge ordinaria (legge 11.3.1953, n. 87, art. 14, comma 1 e art. 22, comma 2) prevede i regolamenti della Corte costituzionale (uno di questi regolamenti però ha ricevuto il nome ufficiale di Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte). Poiché però il fondamento di tali regolamenti sta in realtà nella collocazione di organo costituzionale della Corte, si applica a questi regolamenti un trattamento speciale analogo a quello a cui sono sottoposti i regolamenti delle Camere.
Anche i regolamenti del Presidente della Repubblica relativi alla organizzazione che sta al suo servizio (e cioè il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica) sono previsti da una legge ordinaria (per la verità l’art. 3 della legge 9.8.1948, n. 1077 prevede un solo “regolamento interno”), ma anche in questo caso deve ritenersi che il fondamento di tali regolamenti stia direttamente nella collocazione di organo costituzionale del Presidente della Repubblica, cosicché anche ad essi si applica un regime particolare analogo a quello proprio dei regolamenti delle Camere e della Corte costituzionale.
È da ritenere invece che sono normali regolamenti subordinati alle leggi anche quelli mediante i quali il Governo disciplina la sua organizzazione interna e le modalità del suo funzionamento in quanto organo Governo: la cosa si ricava dall’art. 95 secondo cui è una legge che disciplina l’organizzazione e il funzionamento della presidenza del Consiglio e dei ministeri e dunque, ammettendo (come si ammette pacificamente) che si tratti di una riserva relativa, il regolamento governativo intanto può intervenire in quanto abbia fondamento in una legge e non sia contrario a legge.
Del pari non c’è dubbio che il regolamento del Consiglio superiore della magistratura è un regolamento subordinato alla legge.
Trattiamo ora dei regolamenti subordinati alla legge. Come sempre bisogna anzitutto esaminare quello che sul punto prescrive la Costituzione; poi vanno esaminate le norme di legge ordinaria in materia, con l’avvertenza che esse (in particolare quelle contenute nella legge 23.8.1988, n. 400), se anteriori alla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, vanno corrette in modo da renderle conformi al nuovo testo costituzionale in materia.
La prima innovazione importante introdotta dalla legge costituzionale citata consiste nell’aver elencato in modo tassativo le competenze legislative dello Stato, attribuendo alle Regioni la competenza residuale, cosicché coerentemente, come del resto prescrive espressamente il comma 6 dell’art. 117 della Costituzione, lo Stato ha competenza regolamentare (subordinata alle leggi) soltanto nelle materie statali e la Regione ha competenza regolamentare in tutte le altre materie (fatta salva la competenza regolamentare di Comuni e Province). Però lo Stato, se vuole, può delegare con legge ordinaria una competenza regolamentare alle Regioni in materia statale, ovviamente subordinata alla legge statale che la prevede (e comunque senza forza di legge nei confronti di qualunque altra legge o atto con forza di legge statale).
La seconda innovazione introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001 consiste nella attribuzione garantita costituzionalmente di una potestà regolamentare a Province, Comuni e Città metropolitane (che non verranno più ricordate perché allo stato non costituite) per quanto attiene «alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Questa disposizione va letta insieme alla lettera p del comma 2 dell’art. 117 Cost., al comma 2 dell’art. 118 Cost., al principio di sussidiarietà. In base alla lettera p spetta allo Stato disciplinare con legge la «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»: quindi i regolamenti di Comuni e Province, se ammissibili in tali materie sulla base della legge statale, sono comunque subordinati a tali leggi (senza che sia qui possibile discutere il significato della espressione «funzioni fondamentali»). In base al comma 2 dell’art. 118 i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di «funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Poiché l’art. 23 della Costituzione stabilisce che prestazioni personali e patrimoniali possono esser imposte solo nei casi previsti dalla legge, anzitutto le funzioni proprie di Comuni e Province non possono mai consistere nel potere di imporre prestazioni personali e patrimoniali, perché per esse è sempre necessaria una previa legge; funzioni del genere possono essere conferite dalla legge statale in materia statale e dalla legge regionale in materia regionale, ma trattandosi di una riserva relativa, spetta soltanto alla legge la determinazione dei principi fondamentali nella materia conferita; più in generale, poiché è impossibile conferire una funzione amministrativa dicendo solo il nome che la designa, quando una legge statale in materie statali, o una legge regionale in materie regionali, conferisce una funzione amministrativa ai Comuni o alle Province, questi enti nello svolgimento della funzione conferita sono subordinati alle disposizioni della legge statale o regionale, cosicché spetta al regolamento comunale o provinciale integrare e completare la disciplina, ma in subordine alla legge; quello che la legge non può fare è disciplinare lo svolgimento di funzioni in modo così completo ed esaustivo che resti del tutto impedito al Comune o alla Provincia introdurre sue disposizioni; il criterio poi in base al quale decidere se la legge statale o regionale ha ecceduto nel suo potere comprimendo illegittimamente la competenza regolamentare di Comuni e Province va ricercato nel principio di sussidiarietà, per cui diventa illegittima la legge statale o regionale che disciplina lo svolgimento di una funzione amministrativa di Comuni o Province senza che questa disciplina sia richiesta dalla necessità di garantire risultati che solo una disciplina statale o regionale permette di garantire: in altre parole lo Stato o la Regione debbono avere e dimostrare buone ragioni per assorbire in sussidiarietà una competenza normativa che invece spetterebbe direttamente ai Comuni e alle Province.
Se però Comuni e Province esercitano in materie non coperte da riserva di legge funzioni proprie, e cioè funzioni non conferite da legge statale o regionale, allora la potestà regolamentare di Province e Comuni diventa piena (avremo quelli che sono stati chiamati regolamenti indipendenti). Inoltre la subordinazione dei regolamenti provinciali e comunali alla legge nei casi e con i limiti prima descritti si applica allo svolgimento delle funzioni, ma non alla organizzazione, rispetto alla quale o è competente lo Stato nel caso degli organi di governo o sono competenti i Comuni e le Province in tutti gli altri casi. Questo vuol dire che leggi statali e leggi regionali, quando attribuiscono una funzione ai Comuni o alle Province non possono indicare le strutture amministrative interne competenti, ma debbono conferire tali funzioni all’ente in quanto tale: spetta poi all’ente in base allo statuto ed ai suoi regolamenti di individuare ed organizzare le strutture competenti.
Se la legge statale o regionale può in nome del principio di sussidiarietà comprimere l’autonomia regolamentare di Comuni e Province, non sembra ammissibile che possa farlo un regolamento o statale o regionale: in altre parole i regolamenti comunali e provinciali sono, con le garanzie (molto labili) prima esposte, subordinati alle leggi statali o regionali, ma non ai regolamenti statali o regionali per quanto attiene alla organizzazione e allo svolgimento delle funzioni.
Sui regolamenti regionali ci si limita in questa sede a ricordare che essi sono in tutto disciplinati dagli statuti regionali (a parte l’obbligo di pubblicazione legale previsto dell’art. 123, comma 1, che deve essere il medesimo delle leggi regionali).
Concentriamo ora l’attenzione sui regolamenti statali. In materia la Costituzione dice quasi nulla. Prevede, come già detto, che i regolamenti statali sono ammissibili solo in materie statali; prevede che il Presidente della Repubblica emani i regolamenti, con formula che fin dall’inizio e costantemente è stata intesa come attributiva del potere di emanazione dei soli regolamenti cd. governativi e cioè deliberati dal Consiglio dei ministri (la cosa viene codificata dall’art. 17 della legge n. 400/1988, ma in tanto questa disposizione di legge ordinaria può essere considerata legittima in quanto già contenuta in Costituzione). La maggior parte delle regole oggi vigenti in materia si trova anzitutto nella legge n. 400/1988 che disciplina in generale i regolamenti statali e poi in svariate leggi che disciplinano in modo particolare uno specifico tipo di regolamento da esse costruito.
Poiché le leggi ordinarie sono in principio tutte eguali (e tra esse vige in principio il criterio cronologico per cui la legge successiva può abrogare la legge anteriore) nessuna legge ordinaria può impedire che una successiva legge disciplini come ritiene più opportuno la potestà regolamentare (salva la Costituzione). La legge n. 400/1988 è una legge generale sui regolamenti statali che si applica a tutti i regolamenti statali se leggi successive si limitano a prevedere una potestà regolamentare senza nulla aggiungere, ma può essere derogata da qualsiasi legge successiva per uno specifico tipo di regolamento da questa previsto e disciplinato. Si spiega così perché esistono (magari con nomi ufficiali diversi) regolamenti della Banca d’Italia, di alcune autorità indipendenti, di specifici organi diversi dal Governo.
Tutto ciò premesso, vediamo ora come la legge n. 400/1988 cerca di disciplinare in generale i regolamenti statali. Essa compie tre operazioni: 1) individua i soggetti che hanno potestà regolamentare; 2) disciplina il procedimento di formazione dei regolamenti statali e la loro forma; 3) offre una classificazione dei regolamenti sulla base del loro contenuto tipizzato.
In base al primo criterio distingue tra regolamenti governativi, e cioè secondo l’uso secolare regolamenti deliberati dal Consiglio dei ministri ed emanati dal Presidente della Repubblica, regolamenti ministeriali, e cioè come dice il nome regolamenti deliberati ed emanati dal singolo ministro, e regolamenti interministeriali, e cioè regolamenti deliberati di concerto da più ministri ed emanati da un solo ministro (quest’ultima regola la legge non la dice ma si ricava dalla prassi). Come si vede la legge n. 400/1988 si dimentica dei regolamenti del Presidente del Consiglio dei ministri, già ampiamente conosciuti e comunque ampiamente previsti da leggi successive, ed ignora del tutto i regolamenti di altre autorità, ed in particolare delle autorità amministrative indipendenti che del resto erano di là da venire.
Per quanto riguarda i regolamenti ministeriali (e per conseguenza interministeriali) la legge in realtà non attribuisce realmente una competenza ai singoli ministri, ma prevede che future leggi potranno attribuire tale competenza, purché però tale conferimento riguardi materia od oggetto rientrante nella competenza del ministro: questa prescrizione rende chiaro in primo luogo che solo una specifica legge può attribuire al ministro una specifica potestà regolamentare; in secondo luogo la norma legislativa ribadisce che il ministro non può ricevere una potestà regolamentare se la materia o l’oggetto sta fuori della sua competenza di ministro: questa regola però non è che la esplicitazione di un principio che si trae direttamente dalla Costituzione, cosicché per questo aspetto tutte le leggi posteriori restano vincolate a questo principio che la legge n. 400/1988 si limita a ripetere; infine la legge n. 400/1988 ribadisce quanto già stabilito nell’art. 4 delle disposizioni preliminari del codice civile (che però si riferisce il principio a tutti i regolamenti di altre autorità diverse dal Consiglio dei ministri), e cioè che il regolamento ministeriale è subordinato al regolamento governativo; in altre parole, in tema di regolamenti statali la legge (in attuazione di un principio che si trae dalla stessa Costituzione che chiaramente colloca l’organo collegiale Consiglio dei ministri al di sopra dei singoli ministri) ha stabilito una gerarchia tra regolamenti statali, sovraordinando quello governativo a quello ministeriale o interministeriale.
In base al secondo criterio seguito dalla legge n. 400/1988, i regolamenti statali vanno approvati in principio secondo il procedimento stabilito nella stessa legge: il progetto di regolamento deve ricevere il parere del Consiglio di Stato (che a questo fine ha istituito una sezione specializzata), dopo la sua deliberazione ed emanazione da parte dell’organo competente deve essere sottoposto al controllo di legittimità della Corte dei conti, e solo in caso positivo (fatta salva la registrazione con riserva) può essere infine pubblicato ed entrare in vigore. Una regola procedurale particolare viene stabilita per i regolamenti ministeriali e interministeriali: essi vanno comunicati al Presidente del Consiglio prima della emanazione (permettendo quindi o allo stesso Presidente o se necessario al Consiglio dei ministri di costringere il ministro a modificare il progetto o addirittura a ritirarlo). Si tratta della parte della legge n. 400/1988 sui regolamenti che i ministri e le pubbliche amministrazioni meno gradiscono per evidenti motivi, per cui sono innumerevoli le leggi che prevedono un procedimento molto più snello che evita sia il parere del Consiglio di Stato sia il controllo della Corte dei conti, oppure addirittura dispongono che l’atto del ministro o della autorità competente ha natura “non regolamentare” (anche quando concettualmente è evidente che l’atto introduce regole generali e astratte imperative nei confronti di soggetti esterni, e dunque non può essere considerato un regolamento puramente interno). L’espressione “non regolamentare” vuol dire appunto che l’atto non è ufficialmente un regolamento e quindi non è sottoposto alla disciplina prevista dalla legge n. 400/1988 per i regolamenti statali, anche se pubblicato in Gazzetta ufficiale. Si rinvia alla bibliografia la questione se i giudici hanno il potere-dovere di disapplicare o annullare (secondo le loro competenze) un atto che pretende di essere un regolamento e non lo è, o viceversa un atto che pretende di non essere un regolamento ed invece lo è.
La legge n. 400/1988 poi si pone il problema di come riconoscere i regolamenti rispetto a qualunque altro atto che non è regolamento: però anziché prescrivere che in Gazzetta ufficiale figuri col nome proprio di regolamento (come nomi propri del tipo di atto sono le parole legge, decreto-legge, decreto legislativo), la legge n. 400/1988 conferma che l’atto che introduce un regolamento statale si chiama decreto (nome generico che designa la quasi totalità degli atti del potere esecutivo statale, qualunque sia il loro contenuto), ed esige soltanto che nel testo di tale decreto figuri in modo significativo e riconoscibile la parola “regolamento” (in genere questa parola si trova nel preambolo subito dopo la indicazione della autorità che emana “il seguente regolamento”, e/o nella intitolazione del decreto). Siccome però leggi successive specifiche possono usare parole diverse, in pratica esistono atti sostanzialmente regolamentari che portano un nome proprio diverso.
In base al terzo criterio la legge n. 400/1988 distingue (entro la categoria dei soli regolamenti governativi, chiarisce la legge: la limitazione si giustifica perché per i regolamenti ministeriali o interministeriali è necessaria una specifica legge per ogni specifico regolamento) tra regolamenti esecutivi, regolamenti di attuazione e di integrazione, regolamenti indipendenti, regolamenti di organizzazione, regolamenti delegificanti.
Va premesso anzitutto che non si tratta propriamente di una distinzione tra atti, ma tra tipi di norme regolamentari, con la conseguenza che lo stesso atto può contenere sia norme regolamentari esecutive, sia norme di attuazione, sia norme organizzative, sia eventualmente anche norme regolamentari delegificanti.
In secondo luogo i confini tra i diversi tipi di norme regolamentari sono incerti e sfumati, ed in pratica permettono alle autorità dotate di potestà regolamentare di estendere o restringere il loro potere, con scarsa capacità e volontà dei giudici di controllare questa estensione.
Se però vogliamo conservare un significato ragionevole alle distinzioni, allora la norma regolamentare esecutiva (prevista dalla lettera a del comma 1 dell’art. 17 della legge n. 400/1988) è quella che non aggiunge nulla alla disciplina di legge per quanto attiene all’oggetto disciplinato dalla legge, ma si dirige al contesto che ne consente o ne migliora l’esecuzione, cosicché l’oggetto del regolamento esecutivo è diverso e strumentale rispetto all’oggetto disciplinato dalla legge. Se ad es. la legge attribuisce un diritto nei confronti della pubblica amministrazione, il regolamento esecutivo legittimo prescrive alla autorità competente le modalità mediante le quali la pubblica amministrazione soddisfa il diritto. Se invece la legge vieta il commercio e/o il consumo di sostanze stupefacenti, ma rinvia poi al regolamento la individuazione delle sostanze stupefacenti, questo non è più un regolamento esecutivo, ma un regolamento di attuazione, che integra la legge (e quindi se c’è riserva assoluta di legge diventa un regolamento illegittimo: il fatto che questa non sia stata e non sia la decisione dei giudici dimostra appunto come è facile in questa materia eludere le distinzioni e violare la stessa riserva assoluta di legge). Se il regolamento è veramente esecutivo, e cioè disciplina modalità e forme che non integrano il contenuto della legge di cui sono esecuzione, si spiega perché secondo l’opinione dominante il mero regolamento esecutivo è ammissibile anche in materia coperta da riserva assoluta di legge. Si spiega anche perché questa potestà regolamentare venga ritenuta di ordine generale, conferita una volta per tutte al Consiglio dei ministri, senza bisogno che venga conferita volta per volta da una specifica legge (come invece si esige per quanto riguarda il singolo ministro, come già detto). Però se la legge subordina la sua efficacia alla emanazione di un regolamento da essa definito esecutivo, da un lato la prescrizione deve essere obbedita, dall’altro però viene il sospetto che questa attesa sia determinata dal fatto che il testo della legge da solo non è in grado di essere operativo, e va integrato dal regolamento, che dunque non è più meramente esecutivo. Il mero regolamento esecutivo dovrebbe essere un di più la cui assenza non impedirebbe alla legge di essere puntualmente obbedita, secondo modalità che comunque la pubblica amministrazione dovrebbe costruire: in questo caso la previsione di una condizione sospensiva della legge fino alla entrata in vigore del regolamento esecutivo si giustifica se la legge vuole che le modalità di esecuzione non siano decise discrezionalmente dalla pubblica amministrazione competente ma avvengano sulla base di un regolamento appunto esecutivo del Consiglio dei ministri.
I regolamenti statali di attuazione ed integrazione delle leggi e dei decreti legislativi (previsti dalla lettera b del comma 1 dell’art. 17 della legge n. 400/1988), proprio perché di attuazione ed integrazione presuppongono che la legge o il decreto legislativo siano non operativi e cioè siano lacunosi rispetto all’oggetto disciplinato fino al punto da dover essere integrati; se è così, è ovvio che sia la stessa legge a prescrivere che essa sarà efficace solo quando il regolamento di attuazione e integrazione sarà emanato; si spiega così perché essi sono legittimi se e solo se la legge o il decreto legislativo reca norme di principio rispetto alle quali il regolamento costituirà attuazione ed integrazione; si spiega anche perchè è opinione unanime che tali regolamenti sono ammissibili solo se esiste riserva di legge relativa e non sono ammissibili in caso di riserva assoluta.
La lettera c del comma 1 dell’art. 17 della legge n. 400/1988 prescrive che possono essere emanati dal Presidente della Repubblica su deliberazione del Consiglio dei ministri, seguendo il procedimento stabilito, i regolamenti per disciplinare «le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge». Questi regolamenti hanno ricevuto in generale il nome di “regolamenti indipendenti” e molti giuristi hanno sostenuto che essi sono incostituzionali, perché pretendono di attribuire al Governo una potestà normativa svincolata totalmente da un previa legge, sia pure con il limite che tale materia non sia riservata alla legge.
È necessario anzitutto, prima di esaminare se i regolamenti indipendenti sono o non sono ammissibili secondo la vigente Costituzione, che cosa essi sarebbero comunque, a differenza di quelli esecutivi e di attuazione. Non sono regolamenti spontanei, e cioè adottati dal Governo per esclusiva sua volontà. Presuppongono pur sempre una attribuzione di potere mediante legge, come infatti comunque avviene con la lettera c prima citata. Essi sono però indipendenti perché si ipotizza che la legge, come fa la lettera c sia pure in termini generali e generici senza indicare alcun oggetto, si limiti ad attribuire la potestà regolamentare, senza prescrivere niente altro, cosicché anzitutto sarebbe (se la regola venisse considerata legittima) il Governo a scegliere l’oggetto da disciplinare con regolamento ed in secondo luogo il Governo nel disciplinare l’oggetto prescelto non deve attenersi ad alcuna disposizione di legge relativa a quello stesso oggetto (abbiamo già visto che presentano questa caratteristica i regolamenti di Comuni e Province che disciplinano lo svolgimento di funzioni amministrative proprie).
Per sostenere la ammissibilità o viceversa la non ammissibilità dei regolamenti indipendenti bisogna esaminare un presupposto e cioè il principio di legalità: se si sostiene che tale principio è di ordine costituzionale (e quindi vincola le leggi) e che esso ha natura sostanziale e non formale, per cui qualunque atto, e quindi anche qualunque regolamento, non solo deve essere previsto dalla legge ma deve essere già sostanzialmente disciplinato dalla legge (laddove invece la legalità formale si accontenta della mera attribuzione di potere), allora scompare ogni distinzione tra principio di legalità sostanziale e riserva di legge relativa: in ogni materia c’è come minimo riserva di legge relativa. Se si sostiene invece che tra riserva di legge relativa e principio di legalità esiste differenza, come sembra più ragionevole concludere visto che la Costituzione enuncia espressamente anche le riserve di legge considerate unanimemente relative, allora il primo ostacolo viene superato: se non c’è riserva neppure relativa, per legittimare un regolamento è sufficiente una legge che attribuisca il relativo potere. Se poi c’è o non c’è riserva di legge diventa una questione di fatto: niente esclude che in pratica non venga individuata neppure una materia o oggetto non coperto da riserva di legge neppure relativa, ma niente del pari può escludere che una materia oppure oggetto del genere venga individuato.
La tesi che mi pare preferibile è che materie del genere possano esistere, che vi sia differenza tra principio di legalità e riserva di legge, che dunque in principio regolamenti indipendenti in materie non coperte da riserva di legge relativa e non disciplinate nel merito in alcun modo da legge possano esservi, ma che il Governo non può scegliere da solo l’oggetto del regolamento indipendente: è necessaria pur sempre una legge che nell’attribuire la potestà regolamentare dica appunto qual è l’oggetto attribuito alla potestà regolamentare. In altre parole la lettera c non può essere intesa come attribuzione generale di potestà regolamentare, come invece è la potestà regolamentare esecutiva, ma deve essere intesa come previsione di specifiche leggi che attribuiscono potestà regolamentare su specifici oggetti, come è la potestà regolamentare del singolo ministro oppure interministeriale.
L’art. 17 oggi vigente (dopo le modificazioni e integrazioni portate dopo il 1988) prevede i regolamenti di organizzazione due volte: la prima volta con la lettera d (che è in realtà una specificazione inutile della lettera b, e cioè dei regolamenti di attuazione), per quanto riguarda «l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge» (dando per scontato che tutte le riserve di legge in materia di organizzazione e funzionamento delle pubbliche amministrazioni sono riserve relative); la seconda volta con l’art. 4 bis, che detta disposizioni molto dettagliate in tema di regolamenti relativi alla organizzazione dei ministeri e conclude nella lettera e con la previsione di «decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell’ambito degli uffici dirigenziali generali».
Il comma 2 dell’art. 17 infine prevede quelli che possono essere chiamati regolamenti delegificanti, e cioè regolamenti che, in materie non coperte da riserva assoluta di legge, sulla base di una legge che determina «le norme generali regolatrici della materia», sono abilitati a produrre con la loro entrata in vigore l’effetto abrogativo delle norme vigenti, comprese quelle di legge. Il senso e la portata nascosta nelle parole di questa disposizione si capiscono meglio se si ricorda che la delegificazione in materie non coperte da riserva assoluta di legge è sempre stata possibile sulla base dei principi generali che reggono il sistema normativo. Una legge nuova decide che, in una materia non coperta da riserva assoluta di legge, salvi i principi fondamentali che essa deve enunciare, una parte secondaria delle precedenti leggi nella materia individuata vada delegificata, e cioè disciplinata non più con legge ma con regolamento; conseguentemente stabilisce che con l’entrata in vigore del regolamento autorizzato vengano abrogate le disposizioni di legge sostituite, che (qui sta il punto cruciale) la legge delegificante individua espressamente. In questa ipotesi è del tutto pacifico che chi abroga non è il regolamento, ma la legge delegificante: il regolamento viene autorizzato a riempire il vuoto legislativo così creato, e lo può fare perché la riserva di legge è relativa e la legge delegificante ha già disciplinato gli aspetti essenziali della materia. Il comma 2 dell’art. 17, con la sua formulazione ambigua, autorizza in realtà una diversa vicenda: la legge delegificante non individua in alcun modo le disposizioni di legge che saranno abrogate; per sapere quali disposizioni di legge verranno abrogate bisogna leggere il regolamento che prende il posto di precedenti leggi o disposizioni di legge, e cioè diventa evidente che ad abrogare non è la legge delegificante ma invece proprio il regolamento, contro quanto prescrive l’art. 76 della Costituzione. A questo poi si aggiunge che quasi sempre la legge delegificante ha enunciato principi vaghi e generici, cosicché viene aperto al regolamento un spazio enorme in sostanza pari a quello delle leggi del Parlamento. Si tratta di una frode alla Costituzione, che purtroppo ha preso piede e non è stata adeguatamente combattuta dai giudici, ed anzitutto dalla Corte costituzionale.
Il rapporto tra legge e regolamento, o meglio, per comprendere la portata politica e costituzionale della vicenda, tra potere normativo del legislatore e potere normativo dell’esecutivo percorre tutta la storia costituzionale degli ultimi due secoli e ne costituisce uno dei momenti più significativi e incisivi.
In Gran Bretagna esistono ancora i royal prerogative powers, e cioè poteri amministrativi e normativi della Corona (e quindi del Governo) senza previa legge, in materie non disciplinate dalla legge (se la legge interviene questa ovviamente prevale). Egualmente nella Germana dell’ottocento il principio che organizzava il potere normativo era quello secondo cui, se non c’era riserva di legge e se la legge non era intervenuta, in quel caso l’esecutivo manteneva un autonomo potere normativo, ma se la legge interveniva, essa prevaleva sul regolamento. Questo schema di rapporto andava e viene ancora oggi chiamato “preferenza di legge” (da distinguere dunque nettamente dalla riserva di legge).
Vale la pena di notare che questo schema di rapporto non entra in contraddizione con lo Stato di diritto, nel quale ciò che conta è che il potere pubblico sia limitato dal diritto e il suo esercizio giustiziabile sulla base del diritto, ma non è necessario che queste norme siano sempre nome di legge (e cioè del Parlamento).
Se invece nel sistema domina il principio di legalità, e cioè il principio secondo cui ogni potere pubblico deve essere fondato su una previa legge (delle assemblee rappresentative), il potere regolamentare è ammissibile se e solo se a suo fondamento c’è una legge del Parlamento (oltre ovviamente la Costituzione), legge che oggi, nello Stato costituzionale, deve essere a sua volta conforme a Costituzione.
Il potere esecutivo, seguito in questo da tutte le pubbliche amministrazioni, anche dopo l’avvento del principio di legalità cerca sempre di riconquistare il terreno perduto. La enorme dilatazione del potere regolamentare, oggi molto al di là di quanto sarebbe consentito dalla Costituzione, non è che l’ultima manifestazione di questa contesa tra legislativo ed esecutivo. Ciò che stupisce è che questa riconquista di potere normativo da parte del potere esecutivo, attraverso i diversi strumenti del decreto-legge, del decreto legislativo, del regolamento, avviene con il consenso e la complicità dello stesso Parlamento, cosicché diventa comprensibile, anche se non giustificabile alla luce della Costituzione, che a questo andazzo si pieghino di fatto il Presidente della Repubblica (che almeno rispetto ai regolamenti che emana potrebbe essere molto più attento e rigoroso), i giudici (che possono annullare o disapplicare i regolamenti illegittimi) e la Corte costituzionale (che può dichiarare incostituzionali quelle leggi che attribuiscono un potere regolamentare illegittimo secondo Costituzione).
Art. 64, comma 1; art. 72, commi 1, 2 e 3; art. 87, comma 5; art. 117, comma 6; art. 123, comma 1, Cost; art. 1, n.2; art. 3; art. 4; art. 10, comma 1, disp. prel.; art. 17 legge 23.8.1988, n. 400; art. 3 legge 9.8.1948, n. 1077; art. 14, comma 1 e art. 22, comma 2, legge 11.3.1953, n. 87; art. 20, n. 7, legge 24.3.1958, n. 195.
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