Abstract
Viene esaminato l’istituto giuridico del Regolamento parlamentare, analizzato in questa sede nella sua evoluzione storica, a partire dall’esperienza giuridica inglese e transalpina. L’analisi si sofferma poi a considerare i caratteri dell’istituto così come sono stati definiti all’interno del nostro ordinamento costituzionale, sin dall’epoca statutaria. In questa prospettiva, si è cercato di far emergere i profili di continuità (e di discontinuità) che hanno caratterizzato l’inquadramento del Regolamento parlamentare da parte della dottrina statutaria prima e repubblicana successivamente, all’interno del sistema delle fonti. L’ultima parte dell’analisi, invece, è dedicata alla lettura che la Corte costituzionale italiana ha dato di questo istituto, anche alla luce delle influenze provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale che, di recente, hanno indotto il Giudice delle leggi ad aprire un “varco” giurisdizionale proprio alla sindacabilità del Regolamento parlamentare.
Il riconoscimento di un’autonomia legislativa, oltre che politica, degli organi parlamentari è un dato di fatto che risulta assolutamente pacifico nel presente, alla luce anche della positivizzazione, all’interno delle Costituzioni liberal-democratiche del secondo dopoguerra, di specifiche disposizioni costituzionali che statuiscono tale autonomia. La vicenda storica che ha condotto a questo riconoscimento, tuttavia, si caratterizza per un percorso non del tutto lineare ed uniforme nel panorama costituzionalistico europeo, basti soltanto pensare alla configurazione che l’autonomia delle assemblee parlamentari ha assunto nell’esperienza giuridica inglese.
Come è noto, l’art. I, 9 del Bill of Rights può essere considerato come il primo esempio di riconoscimento formale dell’autonomia legislativa di un organo parlamentare: in particolare, la disposizione prevedeva un divieto assoluto, imposto a chiunque – ma evidentemente rivolto innanzitutto al Re e ai giudici – di contestare e/o sindacare le decisioni dell’Assemblea parlamentare per quanto concerneva le proprie funzioni. Come è stato opportunamente evidenziato (cfr. Floridia, G.G., Il regolamento parlamentare nel sistema delle fonti, Milano, 1986, 15), si può ritenere che la disposizione citata abbia assunto storicamente il valore di prima norma sulla produzione del “diritto parlamentare”, intendendo questa locuzione in maniera generale e in una accezione chiaramente non tecnica, soprattutto se considerata alla luce degli ordinamenti costituzionali contemporanei, così diversi e lontani nel tempo rispetto a quello in cui vigeva il Bill of Rights.
Ovviamente questa esperienza giuridica si è caratterizzata (e tutt’ora si caratterizza) per il fatto che le prerogative autonomiche dell’assemblea elettiva risultavano fondate su di una consuetudo parlamenti, stratificatasi nel corso dei secoli, in ragione di una formazione, per l’appunto, consuetudinario-giurisprudenziale delle regole procedurali dell’assemblea, la cui natura dichiarativa (e la cui inappellabilità delle decisioni parlamentari sulla loro interpretazione, applicazione e vigenza) rendeva tale consuetudo evidentemente estranea al sistema delle fonti. La particolarità dell’ “ordinamento” costituzionale inglese, del resto, non consente di ragionare in una prospettiva sistemica, per quanto concerne tali regole consuetudinarie, in ragione anche dell’irriducibile alterità di quell’ordinamento alle categorizzazioni dogmatiche proprie dei modelli di civil law.
Ciò del resto è confermato dal diverso riconoscimento che l’autonomia parlamentare ha avuto sin dall’esperienza rivoluzionaria francese, quanto meno a partire dalla Costituzione del 1791 la quale, pur non prevedendo una specifica disposizione che riconoscesse il potere regolamentare dell’unica Camera costituita, nel delimitare finalmente l’assolutismo monarchico prevedeva però, per la prima volta, la possibilità per l’Assemblea sovrana di emanare un proprio Regolamento interno. Quale fosse poi il valore di questi “actes du Corps législatif”, previsti all’art. 7, cap. III, sez. III della Costituzione francese del 1791, è questione ancora oggetto di vivaci confronti in dottrina, a seconda che si intenda questi atti come “eseguiti al pari della legge” – e, quindi, non contestabili né dall’esecutivo, né dal giudiziario (così Manetti, M., Regolamenti parlamentari, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 643) –, ovvero come mera esplicazione di un potere omogeneo alle autonome prerogative dell’Assemblea (in questo senso, invece, Floridia, G.G., Il regolamento parlamentare, cit., 44 ss.).
Tuttavia, ci sembra di poter affermare che la sistemazione concettuale dei regolamenti parlamentari, all’interno della dogmatica moderna e contemporanea, trovi il suo approdo teorico nella legge costituzionale del 16.7.1875, durante la cd. III Repubblica francese. Se, infatti, da un lato, l’art. 5 della succitata normativa rinviava al Regolamento di Assemblea – ivi semplicemente menzionato – per quanto concerneva la disciplina della seduta segreta dell’Assemblea stessa, dall’altro, invece, tale legge non prevedeva norme costituzionali di diritto parlamentare: in questo modo, il Regolamento di Assemblea andava a potenziare al massimo grado il suo ruolo di fonte integrativa del procedimento legislativo ordinario.
È proprio in questo passaggio storico, quindi, che si afferma uno dei capisaldi della ricostruzione dogmatica successiva – e che ancora caratterizza, con tutti i distinguo del caso, le ricostruzioni presenti –, ossia che il potere regolamentare rappresenta «... un’implicazione necessaria della disciplina costituzionale ed in particolare di una costituzione che realizza una forma di governo incentrata sul parlamento», nel senso che «... la natura collegiale dell’organo imporrebbe, in vista della sua funzionalità, di ritenervi inerente una capacità di auto-organizzazione» positivamente riconosciuta (così Floridia, G.G., Il regolamento parlamentare, cit., 84-85).
Volendo ricorrere ad uno schematismo concettuale, che tuttavia risulta utile considerare in questa sede, traendo le fila del ragionamento sin qui svolto, possiamo dire che, da un lato, ci troviamo di fronte ad un modello, quello di Westminster, completamente imperniato sul ruolo della convenzione e della consuetudine dell’autonomia parlamentare, a fronte di un modello – quello che caratterizza l’esperienza costituzionale francese –, in cui invece la fonte prevalente del diritto parlamentare e della sua autonomia assume la tradizionale “forma di legge” (così Ibrido, R., L’interpretazione del diritto parlamentare, Milano, 2015, 70-71, che riconduce al modello transalpino Ottocentesco anche la II repubblica austriaca). L’esperienza costituzionale italiana, sin dai tempi della vigenza dello Statuto Albertino, tuttavia, si è caratterizzata per una configurazione intermedia rispetto ai succitati modelli antitetici, in quanto lo Statuto (ma, come vedremo, ragionamento analogo va fatto per la Costituzione Repubblicana) prevedeva l’approvazione preventiva, oltre che in forma scritta, di un testo regolamentare da parte delle Assemblee.
In particolare, l’art. 61 dello Statuto prevedeva che tanto il Senato quanto la Camera avrebbero dovuto stabilire le modalità con cui esercitare le proprie attribuzioni per mezzo di un regolamento interno. Anche il riferimento letterale all’aggettivo “interno”, aveva indotto la dottrina maggioritaria del periodo statutario a riconoscere l’indispensabile prerogativa da parte di entrambe le Assemblee, «... non pure di farsi e modificarsi come credono il proprio regolamento interno, ma di operare sotto di esso, cioè di applicarlo ed interpretarlo nei casi singoli, senza tema o preoccupazione di alcun sindacato estraneo» (così Racioppi, F., Il sindacato giudiziario sulla costituzionalità delle leggi, in La legge, 1905, 721). A ciò si aggiunga poi il fatto, se si vuole di carattere sistemico, che l’idea di un’Assemblea politica «... investita delle più alte funzioni pubbliche [...] senza un complesso di norme, destinate a regolare preventivamente [...] l’esercizio dei diritti e dei doveri dei suoi componenti e il modo di esercitare ed esplicare le potestà ed attribuzioni affidatele» appariva una contraddizione in termini agli occhi della dottrina del tempo (così Racioppi, F.-Brunelli, I.,Commento allo Statuto del Regno, III, 1, Torino, 1909, 218).
La teoria dei cd. “interna corporis” è così già tutta formalizzata nell’interpretazione degli autorevoli giuristi appena citati, una teoria questa in cui gli “interna” sarebbero riconducibili alla garanzia dell’osservanza delle norme regolamentari, ma in cui ancora è dubbia la rilevanza “esterna” per l’ordinamento generale di tali norme, in quanto esse comunque – pur in un sistema di Costituzione flessibile – soggiacciono al rispetto delle norme costituzionali. In questa sede ci sembra di poter condividere la posizione di quanti ritengono che il concetto di norma interna altro non sarebbe che una derivazione del concetto di “organo interno” e che, pertanto, l’Assemblea politica, in quanto organo statale, produce un diritto che ha un’efficacia interna, per l’appunto, all’Assemblea stessa, che non può entrare a far parte dell’ordinamento generale e, quindi, neppure del sistema delle fonti (in questo senso, Manetti, M., Regolamenti, cit., 646).
La teoria delle norme interne, infatti, presuppone l’esistenza di strutture organizzative istituzionali dotate di una propria forza e, storicamente, trae origine dalla necessità di trovare una giustificazione al “diritto speciale” della pubblica amministrazione, un diritto creato a fronte della mancanza di una specifica attribuzione normativa, fatto valere in ragione di un proprio peculiare apparato sanzionatorio, non suscettibile di controllo giurisdizionale (cfr. sul punto Nigro, M., Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966, 17 ss.).
Come che sia, bisogna prendere atto che la vicenda storica dell’autonomia delle Assemblee italiane, nel corso del XIX secolo, si è dipanata lungo le coordinate del modello continentale e lungo il crinale della dottrina degli “interna corporis”. Rimangono, quindi, come mere testimonianze dottrinali, seppur di raffinata ed elegante fattura, le tesi di quanti, come il Miceli, ancora nel 1910 avrebbero preferito al modello dei “codici parlamentari”, il diverso modello tratto dall’esperienza inglese, fondato sulla consuetudine, “la parte più viva ed attiva” del diritto parlamentare, che avrebbe avuto il pregio «... di essere meglio obbedita, sia perché in genere è più in armonia con i bisogni, che l’hanno fatta nascere, sia perché possiede quel non so d’ignoto e di misterioso che ne nasconde l’origine» (così Miceli, V., Principi di diritto parlamentare, in Enciclopedia Giuridica italiana, IV ed., Milano, 1910, 432 ss.). Questo autore, che nell’anno accademico 1896-1897 tenne presso l’Università degli Studi di Perugia il primo corso di diritto parlamentare positivo, contrapponeva negativamente all’esperienza inglese, quella dei regolamenti parlamentari continentali, «... complessi di norme rigide e imperfette, che non permettono all’assemblea una piena e spontanea libertà d’azione; meccanismo anzi che un organismo» (Miceli, V., op. cit., 14).
Questo non vuol dire, tuttavia, che l’allora prevalente teoria degli “interna corporis” non comportasse complicazioni dal punto di vista dogmatico e venisse completamente accettata, in maniera acritica, da parte della dottrina di quegli anni. Al riguardo, non si può non considerare l’evoluzione del pensiero di un autorevole studioso come il Santi Romano, la cui parabola teorica sulla effettiva giuridicità delle norme regolamentari, come è stato opportunamente evidenziato (si veda ancora Ibrido, R., L’interpretazione del diritto, cit., 158), coincide in qualche modo con la traiettoria della pressoché totale dottrina statutaria.
All’inizio del secolo, infatti, il Romano giunse alla tesi della non giuridicità delle norme regolamentari sulla base di tre ordini di motivi, in quanto tali norme: a) non erano in grado di innovare, né di integrare l’ordinamento positivo; b) assumevano una natura meramente interna al funzionamento delle Assemblee legislative; ed infine, in quanto c) il loro fondamento giuridico non era il “diritto della sovranità statuale”, bensì della particolare posizione di “supremazia speciale” in cui si trovavano entrambe le Camere del Regno, all’interno del sistema costituzionale statutario (cfr. Romano, S., Sulla natura dei regolamenti delle Camere parlamentari, in Id., Scritti minori, Milano, 1950, 302 ss.).
Sarà soltanto successivamente, al momento della stesura della sua opera forse più importante, che il Romano, nel riconoscere la giuridicità delle regole parlamentari, coerentemente con la propria matura concezione dell’istituzionalismo, continuerà comunque a riconoscere a questa particolare tipologia di norme un’efficacia meramente interna all’ordinamento delle assemblee elettive (si veda, per approfondimenti, Romano, S., L’ordinamento giuridico, rist., Firenze, 1977, 217 ss.; ma sulla teoria in base alla quale i regolamenti parlamentari non troverebbero il proprio fondamento giuridico sulla “generale sovranità”, in quanto privi delle formalità necessarie, ossia la sanzione regia e l’emanazione da parte del monarca, si veda anche Zanobini, G., Le norme interne di diritto pubblico, in Riv. dir. pubbl., 1915, 321 ss.).
L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, con le sue disposizioni specificamente dedicate ai Regolamenti parlamentari (art. 64, primo comma e art. 72, commi primo, secondo e terzo), ha consentito alla dottrina una sistematizzazione del rango di queste fonti, sulla base dei criteri di gerarchia e competenza. La norma del primo comma dell’art. 64 è stata allora intesa come norma di riconoscimento (così Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, II. L’ordinamento costituzionale italiano, Milano, 1984, 440) e di collegamento con l’ordinamento generale delle fonti di diritto oggettivo. Nel loro combinato disposto, inoltre, gli artt. 64 e 72 Cost. individuerebbero un complesso di materie comunque sottratte alla competenza della legge ed attribuite esclusivamente al Regolamento: in questa prospettiva, pertanto, ogni antinomia che si dovesse verificare tra norma regolamentare e norma di legge sarebbe mero sintomo di un vizio di incompetenza o dell’una o dell’altra fonte (cfr. Crisafulli, V., Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 203).
Ne consegue, infine, che le disposizioni costituzionali – ed in particolar modo il primo comma dell’art. 64 – non hanno un valore costitutivo della potestà regolamentare parlamentare, ma soltanto un valore meramente ricognitivo, in quanto «... particolare espressione dell’autonomia politico-costituzionale degli organi della sovranità popolare» (così Manzella, A., Articolo 64, in Branca, G., a cura di, Commentario alla Costituzione. Le Camere (Art. 64-69), II, Bologna-Roma, 1986, 5). Restano in ogni caso ferme le quattro proposizioni prescrittive, comunque desumibili dal dettato costituzionale, ossia: a) la prescrizione garantista del principio di maggioranza assoluta nell’adottare il Regolamento da parte di ciascuna Camera; b) l’obbligatorietà dell’esercizio della potestà regolamentare; c) la necessaria natura di fonte-atto del Regolamento, in quanto codificazione di norme anche consuetudinarie, finalizzate alla garanzia ed al regolare svolgimento dei lavori parlamentari; d) il divieto di approvazione collettiva, da parte cioè di entrambe le Camere, dei singoli Regolamenti (si veda ancora Manzella, A., Articolo 64, cit., 5-6).
La dottrina costituzionalistica, nel corso dei decenni successivi, si è sostanzialmente attestata su queste posizioni e gli specifici distinguo che ciascuno studioso ha necessariamente introdotto nel dibattito, non hanno nei fatti determinato particolari incrinature o sconvolgimenti concettuali all’interno di questo paradigma teorico. L’approccio normativo alla questione della natura e del rango del Regolamento parlamentare all’interno del sistema delle fonti, tuttavia, ha pagato, forse in questo ambito di studi più che in altri, un debito significativo al formalismo giuridico e ciò non deve meravigliare. Se però si volesse, come si è fatto (cfr. per tutti, Manetti, M., La legittimazione del diritto parlamentare, Milano, 1990), partire da un diverso punto di vista – ossia che il diritto parlamentare trova la propria radice unitaria nelle convenzioni tra forze politiche pari ordinate, in continuo disaccordo sulla disciplina procedimentale da adottare all’interno delle Assemblee elettive, e che tale diritto assume una propria giuridicità solo se sostenuto dall’uso costante e dall’opinio iuris delle stesse forze politiche (così Hatschek, J., Konventionalregeln oder über die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung im öffentlichem Recht, in J. ö. R., 1909, 1 ss.) –, sarebbe possibile interpretare in maniera diversa anche le norme costituzionali in materia di Regolamento parlamentare.
In questa prospettiva, infatti, il disegno costituzionale, che realizza l’unificazione in forma normativa – secondo una logica di garanzia oggettiva – dei lavori dell’Assemblea, non può essere disgiunto dal ruolo degli interessi delle forze parlamentari, tutte improntate alla realizzazione di una mediazione politica delle loro specifiche istanze concrete, interessi questi che, in circostanze date, possono richiedere un irrigidimento della disciplina regolamentare secondo modelli normativi, ma il cui fondamento, se non addirittura la fonte di legittimazione, poggia sempre e soltanto sull’autonomia delle forze politiche medesime (così Manetti, M., La legittimazione, cit., 137).
Ne consegue che l’attribuzione del potere regolamentare all’Assemblea ha come unico scopo quello di favorire lo scambio continuo tra Regolamento e prassi, scambio che favorisce poi la formazione di regole dotate della necessaria legittimazione politica, mentre il rapporto che il Regolamento viene ad instaurare con le altre “fonti” del diritto parlamentare ad esso “sotto-ordinate” (si pensi ai c.d. regolamenti parlamentari minori) risulterà sempre mutevole, in ragione delle circostanze e della “forza” che i membri dell’Assemblea riconoscono alle specifiche disposizioni regolamentari (così ancora, Manetti, M., La legittimazione, cit., 138).
Ci sembra chiaro che questa posizione dottrinaria ha come proprio specifico obiettivo quello di depotenziare la lettura normativa che la dottrina maggioritaria ha voluto conferire al Regolamento parlamentare (e più in generale al diritto parlamentare nel suo complesso), in quanto atto normativo a competenza riservata e dotato di rango primario, per riprendere la sintetica ed efficacissima formula crisafulliana. Tutto sommato, messa in disparte la questione squisitamente teorica della natura dichiarativa ovvero costitutiva delle disposizioni costituzionali che prevedono il Regolamento parlamentare (sul punto, si rinvia a Modugno, F., In tema di regolamenti parlamentari e di controllo sugli «interna corporis acta» delle Camere, in Riv. it. sc. giur., 1969, 197 ss.), l’inquadramento normativistico del problema, per quanto consolidatosi nella dottrina maggioritaria in maniera pressoché omogenea, non riesce effettivamente a fare attrito con il reale, nel senso cioè che la ricostruzione dogmatica di questo istituto non ha trovato una sua effettiva e piena legittimazione da parte della giurisprudenza della Corte costituzionale.
A ciò si aggiunga poi il fatto che la “politicità” intrinseca della natura del Regolamento parlamentare attraversa inevitabilmente la ricostruzione normativistica che si è voluta dare di esso, come se fosse un fiume carsico. Una “politicità” questa che, se volutamente neutralizzata dalla dottrina maggioritaria, non sembra però sfuggire al Giudice delle leggi: da qui, come vedremo, l’insoddisfazione – se non addirittura l’insofferenza – costante dei costituzionalisti nei confronti delle prese di posizione della Consulta sul punto.
Come è stato icasticamente osservato in dottrina, «... il grado di permeabilità della giurisprudenza costituzionale alle ricostruzioni dogmatiche che, sia pure con motivazioni talora differenti, hanno qualificato il regolamento parlamentare come atto avente forza di legge sindacabile nel giudizio di legittimità costituzionale è stato pressoché inesistente» (così Cassetti, L., I Regolamenti parlamentari nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Azzariti, G., a cura di, Le camere nei conflitti, Torino, 2002, 147).
Sin dalle sue prime sentenze, infatti, la Corte costituzionale si è espressa a favore del superamento della teoria dell’insindacabilità degli “interna corporis”, facendo così crollare – per utilizzare una celebre formula coniata alla fine degli anni Cinquanta –, un “antico feticcio” che risaliva al periodo statutario (cfr. Barile, P., Il crollo di un antico feticcio (gli «interna corporis») in una storica (ma insoddisfacente) sentenza, in Giur. cost., 1959, 240 ss.). Con la sentenza n. 9/1959, infatti, – i cui esiti erano già stati in parte anticipati dalla precedente decisione n. 3/1957 sulla sindacabilità della violazione delle norme strumentali del processo formativo delle leggi –, la Corte costituzionale (redattore Perassi) ha stabilito la propria competenza a valutare la conformità del procedimento legislativo rispetto alle norme con le quali la Costituzione regola direttamente tale procedura.
Tuttavia, a fronte del superamento della dottrina dell’insindacabilità degli “interna corporis”, in verità la Consulta, nella medesima sentenza, ha però escluso che le norme dei Regolamenti parlamentari potessero essere sindacabili in sede di giudizio in via incidentale. Tale principio, rimasto un punto fermo isolato ma granitico nella giurisprudenza della Corte, verrà ulteriormente sviluppato quasi vent’anni dopo, allorché con la sentenza n. 231/1975 (redattore Crisafulli) la Corte costituzionale preciserà la portata della riserva di Regolamento, così come desumibile dall’art. 64, primo comma, Cost., in quanto essenziale al riconoscimento della «… posizione di “assoluta indipendenza” del Parlamento, come di altri organi “ai vertici dello Stato”».
Tuttavia, la decisione con cui la Corte ha affrontato esplicitamente la questione della sindacabilità dei Regolamenti parlamentari nel giudizio in via incidentale resta la n. 154/1985: la questione, come è noto, nasceva da un’ordinanza di rimessione delle S.U. della Cassazione, avente ad oggetto le pretese di un dipendente del Senato della Repubblica, connesse al proprio rapporto di lavoro alle dipendenze della medesima Amministrazione. Sollevata d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del Regolamento del Senato, si chiedeva da parte delle S.U. di valutare la legittimità costituzionale della succitata norma, attributiva del potere di autodichia al Senato nei confronti del proprio personale dipendente, con riferimento agli artt. 24, 113, 101, comma secondo, e 108, comma secondo, Cost.
La Corte, come è noto, dichiarava inammissibile la questione, argomentando in maniera formalistica sulla base di una rigida interpretazione letterale dell’art. 134 Cost. («Formulando tale articolo, il costituente ha segnato rigorosamente i precisi ed invalicabili confini della competenza del giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d'interpretazione potrebbe ritenersi che questi vi siano ugualmente compresi»), un’interpretazione letterale che restringeva ulteriormente il campo di valutazione della Corte, in quanto saldata ad una prospettiva sistemica del Parlamento all’interno dell’ordinamento costituzionale («La Costituzione repubblicana ha instaurato una democrazia parlamentare, [...] ha collocato il Parlamento al centro del sistema [... ed è] nella logica di tale sistema che alle Camere spetti [...] una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.»).
Il Parlamento, in sintesi, in quanto espressione immediata della sovranità popolare, partecipa direttamente a tale sovranità: ne consegue, nel ragionamento della Corte, che i suoi Regolamenti, svolgimento diretto dell’art. 64, primo comma, Cost., abbiano una “peculiarità e dimensione” che ne impedisce la sindacabilità, a meno che – osserva il Giudice delle leggi – non si voglia negare che «la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientr[i] fra le guarentigie disposte dalla Costituzione per assicurare l’indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere» (per un’attenta analisi di questa importante sentenza, si rinvia, per tutti, a Cicconetti, S. M., La insindacabilità dei regolamenti parlamentari, in Giur. cost., 1985, 1419 ss.).
Questa decisione, come è stato evidenziato, risulta scarsamente motivata, oltre che pericolosa per i valori di politica costituzionale che vorrebbe corroborare: sottrarre il sindacato di tutte le norme regolamentari al giudizio in via incidentale della Corte, infatti, significa concretamente «ricreare un’area di interna corporis acta, incompatibile e, dunque alla fine dannosa, rispetto ad una equilibrata collocazione, nel sistema, di un parlamento moderno» (così Manzella, A., Articolo 64, cit., 34, ma si veda anche Cassetti, L., I Regolamenti parlamentari, cit., 182). Non si può tuttavia escludere, alla luce delle motivazioni della sentenza n. 154/1985, che le norme regolamentari possano comunque essere utilizzate in quanto “norme interposte” nel giudizio in via incidentale (cfr. Modugno, F., In tema di regolamenti parlamentari, cit., 202 ss.; più in generale sull’argomento, si veda Siclari, M., Le norme interposte nel giudizio di costituzionalità, Padova, 1992, passim), sebbene il loro ingresso nel parametro di costituzionalità si darebbe nella misura in cui la fonte richiamata costituisca regola dell’attribuzione, o comunque norma-limite, della funzione legislativa.
Intermedia, invece, risulta la posizione di quella dottrina che, considerando l’attribuzione del potere regolamentare ai sensi degli artt. 64 e 72 Cost. come non strettamente connesso alle singole disposizioni regolamentari, non riconosce queste ultime come un prolungamento della Costituzione stessa (così Cervati, A.A., Articolo 72, in Branca, G., a cura di, Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, Bologna-Roma, 1985, I, 116 ss.). Ben diversa, infine, la tesi di chi, ponendo sul terreno della mediazione politica la formalizzazione normativa delle regole procedimentali assembleari, vede nell’intervento del giudice costituzionale in questo ambito un mutamento del ruolo puramente garantistico della legalità costituzionale da parte della Corte (così Manetti, M., La legittimazione del diritto, cit., 155, dove osserva come «... l’intervento del giudice sulla regola “politica” non la trasforma in regola giuridica, ma trasforma semmai il giudice in soggetto politico»).
A distanza di quasi trent’anni dalla sentenza n. 154/1985, tuttavia, la Corte costituzionale è stata nuovamente chiamata ad affrontare la questione della sindacabilità dei Regolamenti parlamentari in sede di giudizio in via incidentale e ciò in ragione di una importante pronuncia della C. eur. dir. uomo. Con la decisione del 28.4.2009, Savino e altri c. Italia (ricc. n. 17214/05, 20329/05, 42113/04), infatti, la C. eur. dir. uomo ha valutato alla luce dell’art. 6 CEDU, gli organi di autodichia della Camera dei Deputati, in particolar modo quelli di giurisdizione interna, in due cause differenti, l’una concernente alcune questioni lavorative dei dipendenti della Camera, l’altra sul ricorso di alcuni candidati ad un concorso bandito dalla Camera stessa, candidati che non erano stati poi ammessi a sostenere la prova orale da parte della commissione interna di valutazione.
In questa circostanza, sebbene i giudici sovranazionali non abbiano negato il fatto che i Regolamenti parlamentari siano espressione dell’autonomia interna delle Camere – autonomia costituzionalmente garantita, ai sensi dell’art. 64, co. 1, Cost. –, tuttavia, rilevavano una violazione dell’art. 6 CEDU, limitatamente al principio di imparzialità in senso oggettivo degli organi giurisdizionali interni, in ragione della loro specifica composizione. Da un lato, infatti, i membri della Sezione giurisdizionale risultavano scelti tra i Deputati facenti parte dell’Ufficio di Presidenza, dall’altro, lo stesso Ufficio di Presidenza della Camera risultava, ai sensi del Regolamento interno delle questioni amministrative – tra le quali rientrano anche quelle relative all’organizzazione dei concorsi per il reclutamento del personale –, composto da funzionari e deputati che avevano precedentemente adottato gli atti concorsuali oggetto del giudizio.
In sintesi, il cortocircuito giuridico dell’intera vicenda consisteva nel fatto che il giudizio interno della Camera era stato affidato «… a quegli stessi deputati che avevano partecipato all’adozione degli atti impugnati» (così Pesole, L., A proposito della sentenza CEDU sull’autodichia: le decisioni più radicali sono lasciate all’ordinamento nazionale, in www.federalismi.it, 2010, n. 8, 7). Si è così determinata, ad avviso della C. eur. dir. uomo, una violazione dell’art. 6 CEDU, sebbene gli stessi giudici sovranazionali si siano poi premuniti di affermare che non fosse loro compito indicare quali soluzioni adottare, al fine di rendere la composizione della Sezione giurisdizionale della Camera dei Deputati conforme ai principi della CEDU.
In ragione della sentenza Savino, pertanto, già nel corso del successivo mese di luglio del 2009, la Camera ha proceduto a modificare gli artt. 12, 153-ter e 154 del proprio Regolamento, relativi alla tutela giurisdizionale interna e, in particolare, alla propria composizione, adeguandosi in questo modo a quanto deciso dalla C. eur. dir. uomo (per approfondimenti, si veda Fasone, C., L’autodichia delle Camere dopo il caso Savino. Una condanna (lieve) da parte della Corte di Strasburgo, in DPCE, 2009, 1074 ss.). Questo importante precedente di Strasburgo ha una grande rilevanza, perché ci consente di leggere in un’ottica diversa le conclusioni a cui la Corte costituzionale è giunta in una sua recentissima decisone, ossia la sentenza n. 120/2014 (redattore Amato), con cui – come detto – è tornata sulla questione della sindacabilità dei Regolamenti parlamentari, in ragione dell’ordinanza di rimessione delle S.U., avente ad oggetto – ancora una volta – l’art. 12 del Regolamento del Senato della Repubblica (cfr., per approfondimenti, Ibrido, R., «In direzione ostinata e contraria». La risposta della Corte costituzionale alla dottrina della sindacabilità dei Regolamenti parlamentari, in Rivista AIC, 2014, n. 3, 1 ss.).
Come riconosciuto dalla stessa Corte, infatti, è proprio l’art. 12 del Regolamento, «per antica tradizione interpretativa», il fondamento normativo della propria autodichia: il sollevamento di una questione di legittimità costituzionale in via incidentale su questa norma da parte delle S.U., pertanto, aveva evidentemente come obiettivo quello di riproporre, in un momento storico diverso, la possibilità di un sindacato del Regolamento parlamentare, facendo leva questa volta sul precedente della C. eur. dir. uomo. La Consulta, quindi, è dovuta nuovamente ritornare sulla questione, da un lato, confermando quanto aveva già avuto modo di stabilire con la sentenza n. 154 del 1985 – e, quindi, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale –, ma dall’altro lato, ha aperto una nuova strada a favore della sindacabilità del Regolamento.
Ad avviso della Corte costituzionale, infatti, anche norme non sindacabili «… potrebbero essere fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili […]. L’indipendenza delle Camere non può infatti compromettere diritti fondamentali, né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili»: pertanto, la sede in cui il sindacato del Regolamento può essere dichiarato ammissibile, diventa quella del conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, poiché soltanto in quella sede la Corte «... può ristabilire il confine – ove questo sia violato − tra i poteri legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza e quelli che competono ad altri, così assicurando il rispetto dei limiti delle prerogative e del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto».
Una simile apertura, a dire il vero, non deve essere considerata come un elemento di radicale discontinuità rispetto alla giurisprudenza precedente della Corte costituzionale, in quanto già con la sentenza n. 1150/1988, la Consulta si era riservata la possibilità di un controllo penetrante sull’impiego dei poteri parlamentari, sia con riferimento all’applicazione delle garanzie previste dall’art. 68 Cost., sia con riferimento ai profili costituzionali rilevanti nel procedimento di decisione parlamentare. Del resto, che la sede per una sindacabilità del Regolamento parlamentare potesse essere il giudizio per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, era stato pronosticato già da quella parte della dottrina più attenta e sensibile alla necessità che un simile sindacato potesse finalmente concretizzarsi, all’interno del nostro sistema di giustizia costituzionale (cfr., per tutti, Manetti, M., La legittimazione del diritto, cit., 162 ss. e Cassetti, L., I Regolamenti parlamentari, cit., 194 ss.).
In questa prospettiva, infatti, posta l’improbabilità di un conflitto promosso dal Governo nei confronti delle Camere, l’ipotesi più realistica restava, per l’appunto, quella del sollevamento di un conflitto di attribuzioni da parte degli organi giurisdizionali, organi che non sono in grado di incidere sulla mediazione politica parlamentare ma che, tuttavia, in ragione degli effetti normativi derivanti dall’insindacabilità dei Regolamenti, vedrebbero lese comunque le attribuzioni ad essi riconosciute direttamente dalla Costituzione (cfr. ancora Manetti, M., La legittimazione del diritto, cit., 163; Cassetti, L., I Regolamenti parlamentari nei conflitti, cit., 196).
Si rinvia alle fonti citate nel testo.
Barile, P., Il crollo di un antico feticcio (gli «interna corporis») in una storica (ma insoddisfacente) sentenza, in Giur. cost., 1959, 240 ss.; Cassetti, L., I Regolamenti parlamentari nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Azzariti, G., a cura di, Le camere nei conflitti, Torino, 2002, 139 ss.; Cervati, A.A., Articolo 72, in Branca, G., a cura di, Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, I, Bologna-Roma, 1985, 108 ss.; Cicconetti, S.M., La insindacabilità dei regolamenti parlamentari, in Giur. cost., 1985, 1411 ss.; Crisafulli, V., Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 775 ss.; Id., Lezioni di diritto costituzionale, II. L’ordinamento costituzionale italiano, Milano, 1984; Fasone, C., L’autodichia delle Camere dopo il caso Savino. Una condanna (lieve) da parte della Corte di Strasburgo, in DPCE, 2009, 1074 ss.; Floridia, G.G., Il regolamento parlamentare nel sistema delle fonti, Milano, 1986; Gigliotti, A., Autodichia e sindacabilità dei Regolamenti parlamentari nella più recente giurisprudenza costituzionale, in Rass. parl., 2015, 245 ss.; Hatschek, J., Konventionalregeln oder über die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung im öffentlichem Recht, in J. ö. R., 1909, 1 ss.; Ibrido, R., «In direzione ostinata e contraria». La risposta della Corte costituzionale alla dottrina della sindacabilità dei Regolamenti parlamentari, in Rivista AIC, 2014, n. 3, 1 ss.; Id., L’interpretazione del diritto parlamentare. Politica e diritto nel “processo” di risoluzione dei casi regolamentari, Milano, 2015; Lupo, N., Regolamenti parlamentari, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica de il Sole 24 ore, Milano, 2007, XIII, 214 ss.; Lupo, N., La difficile «tenuta» del diritto parlamentare, tra Corte costituzionale, Presidente di Assemblea e Presidente della Repubblica, in Manzella, A., a cura di, I regolamenti parlamentari a quarant’anni dal 1971, Bologna, 2012, 199 ss.; Manetti, M., Regolamenti parlamentari, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 638 ss.; Ead., La legittimazione del diritto parlamentare, Milano, 1990; Manzella, A., Articolo 64, in Branca, G., a cura di, Commentario alla Costituzione. Le Camere (Art. 64-69), II, Bologna-Roma, 1986, 1 ss.; Martines, T., Sulla natura giuridica dei regolamenti parlamentari, in Id., Opere, II, Milano, 2000, 85 ss.; Miceli, V., Principi di diritto parlamentare, in Enciclopedia giuridica italiana, IV ed., Milano, 1910, 8 ss.; Modugno, F., In tema di regolamenti parlamentari e di controllo sugli «interna corporis acta» delle Camere, in Riv. it. sc. giur., 1969, 197 ss.; Nigro, M., Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966; Pesole, L., A proposito della sentenza CEDU sull’autodichia: le decisioni più radicali sono lasciate all’ordinamento nazionale, in www.federalismi.it, 2010, n. 8, 1 ss.; Racioppi, F., Il sindacato giudiziario sulla costituzionalità delle leggi, in La legge, 1905, 705 ss.; Racioppi, F.,-Brunelli, I., Commento allo Statuto del Regno, III, 1, Torino, 1909; Romano, S., Sulla natura dei regolamenti delle Camere parlamentari, in Id., Scritti minori, Milano, 1950, 213 ss.; Id., L’ordinamento giuridico, rist., Firenze, 1977; Siclari, M., Le norme interposte nel giudizio di costituzionalità, Padova, 1992; Tesauro, A., Sulla natura giuridica dei regolamenti parlamentari, in Rass. dir. pub., 1959, 196 ss.; Zanobini, G., Le norme interne di diritto pubblico, in Riv. dir. pubbl., 1915, 321 ss.