Reinos de Taifas: gli Stati musulmani nella penisola iberica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La quarantina di staterelli musulmani sorti in al-Andalus dopo il crollo del califfato omayyade, esposti alla crescente capacità militare della Reconquista cristiana, non hanno altra scelta se non quella di affidarsi alla gravosa tutela degli Almoravidi, degli Almohadi e, infine, dei Merinidi. Ciò prolunga l’esistenza di un mondo che, se non altro, contribuisce non poco a far affluire nel Rinascimento europeo il vasto patrimonio conoscitivo, da tempo perduto, dell’ellenismo e quello pressoché sconosciuto delle culture persiana e indiana.
È indicativo che le entità statali islamiche nella penisola iberica fra l’XI e il XV secolo siano chiamate Reinos de Taifas e l’adozione del vocabolo arabo tàifa, per indicare un “piccolo Stato”, meglio di altre considerazioni può spiegare il profondo debito contratto nei confronti della cultura araba (nello specifico la lingua del Corano) da parte della cultura cristiana iberica (in questo caso il volgare castigliano da cui deriva il 20 percento circa dell’intero patrimonio lessicale dello spagnolo).
Siviglia, diventata dopo il crollo omayyade la città egemone di al-Andalus, è nel 1091 occupata dai berberi almoravidi venuti dal Nord Africa che la dotano d’una cinta muraria con sette porte (una delle quali sormontata da una statua della Madonna, a dimostrazione d’una concreta tolleranza religiosa), edificata per difendersi dalla formidabile progressione militare di Alfonso VI di León e Castiglia: tangibile dimostrazione d’una inversione di forze inconcepibile appena un secolo prima, per agevolare la quale la Chiesa esenta i cristiani iberici dal partecipare alle crociate, avendo costoro da condurre in casa il loro impegno anti-islamico.
Cordova sarà presa da Ferdinando III di Castiglia solo il 29 giugno 1236, dopo la vittoria del 1212 sugli Almohadi a Las Navas de Tolosa. Mentre il Qasr califfale resta il “Palazzo” del potere, l’Alcazar de los Reyes Cristianos, venendo rimodellato solo nel 1327 da re Alfonso XI di Castiglia e León, le mura cittadine sono riattate e la splendida moschea (seconda per grandezza solo a quella della momentanea capitale abbaside di Samarra) è trasformata in cattedrale, scampando quanto meno alla furiosa damnatio della Chiesa e della nobiltà cristiana. Le sue lampade – già campane razziate due secoli prima da Almanzor dalla cattedrale di Santiago a Compostela – tornano quindi alla loro originaria funzione e a risuonare per i fedeli del santuario del Matamoros.
Non si sa se all’epoca Cordova – con le annesse residenze califfali di Madinat az-Zahrà e di al-Madinat az-Zàhira, in cui avevano preferito vivere ’Abd al-Rahman III e Almanzór – può ancora vantare sui suoi 5 mila ettari di superficie il mezzo milione di abitanti dell’età omayyade (dimoranti in oltre 270 mila abitazioni), né sappiamo se vi fossero ancora le oltre 80 mila botteghe dell’epoca d’oro del califfato. Non sappiamo se nella metropoli si fossero conservati una parte del patrimonio librario delle sue biblioteche, i suoi centri di studio, i suoi 600 hammàm e le sue circa 1600 moschee. Tutto ignoriamo circa gli ospedali, pur essendo presente sulla riva sinistra del Guadalquivir un lazzaretto ma, essendo i nosocomi presenti in ogni grande città del mondo islamico – uno a Granada fu edificato ad esempio nel 1365-1367 dal sultano nasride Muhammad b. Yusuf b. Nasr –, dobbiamo dedurre che Cordova non costituisse un’eccezione, tanto più che il massimo medico dell’Europa dell’epoca, l’israelita Hasdày ibn Shaprùt, vive a Cordova ed esercita nella corte omayyade.
La sorte conosciuta dai sivigliani se è migliore, lo è solo per l’essere stati rudemente governati dai loro correligionari almoravidi, se diamo retta al principe-poeta abbadide al-Mu‘tamid, che preferisce un destino da cammelliere in Ifriqiya anziché da porcaio in Castiglia. Viene parzialmente accontentato, nel senso che finisce i suoi giorni in Nord Africa, ma nel carcere di Aghmàt, presso Marrakesh.
I nuovi padroni di al-Andalus ne disprezzano gli abitanti, ritenuti (con un moralismo che ciclicamente tende a riaffacciarsi nel pensiero islamico) del tutto imbelli a causa d’una debosciata inclinazione ai piaceri e alle mollezze. Rendono Siviglia loro capitale in al-Andalus, facendole conoscere un periodo di avvilente oscurantismo, sottolineato dall’ostilità degli Almoravidi verso la mistica e dall’imposizione del velo alle donne, da sempre disavvezze in al-Andalus a indossare simili paramenti, anche se non si potrà parlare d’una misura sessista, visto che i maschi almoravidi hanno l’abitudine di girare essi stessi del tutto velati. Viene rigorosamente sanzionato il bere vino (il cui divieto nell’islam è ampiamente evaso, non diversamente da quanto in ambito cristiano avviene circa la castità prematrimoniale), il far musica e la danza muliebre. Motivi che, assieme ad altri, ai musulmani andalusi paiono più che sufficienti per detestare i loro salvatori. È tale il contrasto fra musulmani spagnoli e africani che la sicurezza delle contrade andaluse ne risente pesantemente, mentre la corruzione raggiunge livelli mai registrati e la cultura langue per l’insopportabile pietismo almoravide. Esponenti andalusi tornano quindi in Nord Africa per sollecitare l’intervento degli Almohadi, implacabili nemici degli Almoravidi, da essi giudicati eretici. Il loro capo, Ibn Tùmart, accetta la richiesta, dando modo agli Andalusi di conoscere, a partire dal 1145, la nuova brace dopo essersi bruciati con la vecchia padella.
Ibn Tùmart è un musulmano che si ritiene ortodosso (salvo proclamarsi Mahdi, cioè il “Ben Guidato” che i musulmani pensano debba comparire alla fine dei tempi per restaurare la giustizia e la purezza del primo islam) e, come gli Almoravidi, poco incline a giudicare con indulgenza le dolcezze di vita cui gli Andalusi si sono invece da secoli abituati.
Il giogo almohade è ben esemplificato dal destino di Averroè (Ibn Rushd), che di Siviglia è qadi, come suo nonno lo era stato di Cordova. La sua dottrina “razionalizzante” è infatti giudicata eretica e se diventerà buona semente per l’Occidente latino, in cui l’aristotelismo e l’averroismo saranno volano di progresso intellettuale, le sue opere sono condannate in patria al rogo ed egli stesso conosce l’esilio a Lucena. Sorte ancor peggiore coinvolge il suo concittadino Maimonide che nel 1166, come altri suoi correligionari israeliti, è costretto a rifugiarsi in Palestina e nel più tollerante Egitto dei discendenti di Saladino per sfuggire ai massacri almohadi (100 mila vittime a Fez e 120 mila a Marrakesh) che annichiliscono anche le residue comunità cristiane del Nordafrica. Politica tanto ferocemente oppressiva da non guadagnarsi neppure il sostegno dei Berberi andalusi, a dispetto della comune origine etnico-culturale con gli Almohadi.
Numerosi sono inoltre i matrimoni misti, talora conclusi per motivi politici, sia nell’ambito delle famiglie regnanti cristiane sia in quello degli emiri e dei califfi omayyadi e dei signori delle Taifa che fanno proprio il precedente del figlio del conquistatore Musa ibn Nusair, ‘Abd al-‘Aziz, che aveva sposato Egilona (Ailo per i musulmani), vedova dello sconfitto re visigoto Rodrigo. Basterà a tal fine ricordare Zayda, figliastra di al-Mu‘tamid ibn Abbàs, amante di Alfonso VI di Castiglia e León, che il re sposa dopo che viene battezzata col nome di Isabella, avendo da lei il figlio Sancho, morto appena quindicenne tra le fila castigliane nella battaglia di Uclés (maggio 1108). Esempio non unico, peraltro, giacché, per converso, le figlie di Vermudo II di León – Teresa Vermúdez – e di Sancho Abarca di Pamplona – convertitasi all’islam e assunto il nome di Abda – vanno spose al potente reggente califfale Almanzor per sanzionare le intese politico-militari volute dai padri.
I rapporti fra al-Andalus e regni cristiani non sono quindi sempre caratterizzati dal contrasto ideologico-religioso e non sono rare le alleanze fra i due contendenti, quando a ciò spingono la necessità o il marcato vantaggio personale. La regina navarrese Toda (876-958), ad esempio, chiede e ottiene nel 958 che Hasdày ibn Shaprùt giunga a Pamplona da Cordova per curare la grave obesità del nipote Sancho I el Gordo (il Grasso), deposto dal trono di León da Fernán Gonzáles che l’aveva rimpiazzato col genero Ordoño IV el Malo (il Malvagio). Hasdày non impone solo una dieta assai efficace ma che la nonna e il nipote si rechino nella sede califfale di Madìnat az-Zahrà per trattare col califfo ‘Abd al-Rahman III l’accordo militare cui Toda in realtà mirava e che consentirà a Sancho I di recuperare il regno.
Sancho e la nonna sono bollati per questo accordo dai cristiani di “politeismo” ma ciò non impedisce allo stesso Ordoño IV di León di cercar rifugio più tardi in al-Andalus e di pietire l’aiuto del nuovo califfo al-Hakam II quando a sua volta si troverà a malpartito coi suoi correligionari. Lo stesso eroe della cristianissima Spagna, il Cid Campeadór, as-Sàyyid al-Mubàriz, il “Signore Campione”, cioè Rodrigo Díaz de Vivar, combatte a lungo agli ordini del signore hudide di Saragozza, al-Mùqtadir (tributario musulmano del regno di Castiglia), irritato dall’ingiusto esilio comminatogli dal suo precedente signore, il re cristiano Alfonso VI di Castiglia, a dimostrazione che i diversi orientamenti religiosi cedono facilmente il passo alle ambizioni politiche.
Tutto ciò è abbondantemente dimostrato dai non pochi mercenari che si fanno assoldare da sovrani di fede opposta alla loro. Il Cid Campeador non è l’unico esempio, giacché fanti cristiani combattono per Almanzor e altri musulmani operano per i re cattolici nel loro ultimo assalto a Granada, i cui sultani d’altronde avevano cercato di allearsi nel XIV secolo con Sancho IV di Castiglia contro i loro “soccorritori” Merinidi.
Le commistioni fra i due mondi sono tali e tante da creare l’aljamiada (dall’arabo giamaa, “unire”): una lingua ibrida, romanza per struttura grammaticale ma lessicalmente araba. Le innumerevoli traduzioni approntate in Spagna, specialmente nella Scuola di Toledo (fondata dall’arcivescovo Raimondo e attiva tra il 1130 e il 1187) sono fondamentali al mondo latino europeo per potersi riaccostare alle innumerevoli opere della sapienza greca e per conoscere quella persiana e indiana rivisitate dalla cultura araba. L’autore del Novellino, Dante, Cristoforo Colombo e lo stesso Tommaso d’Aquino sono in qualche misura condizionati anche da quanto realizzato in Spagna da colti poliglotti musulmani, ebrei e cristiani, inconsapevoli attori dell’epilogo di un’era troppo ingenerosamente definita buia e dell’avvio d’una nuova ed esaltante fase.