Relativismo e nuovi paradigmi filosofici
Premessa
Il relativismo si è originato nella cultura del continente europeo, ma oggi, all’inizio del 21° sec., esso costituisce uno dei temi prevalentemente discussi e approfonditi nella cultura anglofona, laddove risulta più marginale nella letteratura filosofica continentale. Inoltre, spesso il relativismo costituisce un argomento di discussione indotto direttamente dai grandi mutamenti sociali e culturali prodotti dalla globalizzazione e dalle correnti migratorie delle etnie, senza però ricevere un’adeguata trattazione sul piano concettuale. Queste circostanze pongono in luce il fatto paradossale che sovente nel dibattito culturale europeo il relativismo è una tesi o una tendenza senza un soggetto, ossia senza un autore o fautore che lo asserisca, che lo argomenti, risultando invece un termine di riferimento passivo, descritto, agito e parlato dagli altri, da tutti fuorché da sé stesso, senza per così dire un’agenzia autonoma e indipendente. Di conseguenza il relativismo frequentemente risulta essere ciò che gli altri lo fanno essere, anziché costituire la descrizione di sé stesso, della propria identità.
Relativismo: principio di relazionalità e razionalità scettica
Questa situazione anomala e quantomeno peculiare è responsabile della circostanza che si mettano sotto un medesimo cappello cose assai differenti. Cose assai differenti sono infatti, da un lato, il relativismo quale concezione che riferisce l’assetto di una costellazione di saperi e di valori a una struttura concettuale e teorica di riferimento o a una forma antropologica di vita (Lebensform, form of life) e, dall’altro lato, il relativismo quale concezione che livella ed eguaglia tutte le culture e tutti i valori considerandoli altrettanto validi e buoni. Secondo quest’ultimo criterio, il relativismo scivola verso forme di scetticismo dalle quali il primo aspetto risulta immune. Infatti, come è stato osservato da Hilary Putnam, se diciamo che ogni cultura è altrettanto buona di un’altra, non stiamo definendo il valore buono, ma lo stiamo semplicemente distruggendo (Putnam 2002; trad. it. 2004).
Di ben altra forza è fornito il primo criterio. Anzitutto esso affonda le proprie radici e la propria giustificazione nella cultura scientifica, fisico-matematica, più avanzata che ci ha resi consapevoli della circostanza che qualsiasi enunciato scientifico non legge la Natura o non corrisponde in isolamento alla Natura in termini di diretta trasparenza, bensì soltanto nel contesto relativo a una struttura teorica e sperimentale. Per fare solo un esempio, la nozione di simultaneità per sé stessa è priva di senso se non viene relativizzata a un sistema di riferimento teorico, quale può essere la concezione dello spazio e del tempo assoluti di Isaac Newton oppure la teoria della relatività ristretta di Albert Einstein.
Relativismo in questa accezione indica un fattore di relazionalità, e non un fenomeno di scetticismo oppure di nichilismo teorico. Esso ha una vasta gamma di applicazioni se consideriamo che il principio di composizionalità nella teoria semantica introdotta da Gottlob Frege nelle Grundlagen der Mathematik (1884) stabilisce che una parola ha significato soltanto nel contesto della proposizione, ossia relativamente a un contesto organizzato e coerente di espressioni. Questa relativizzazione risulta ulteriormente corroborata dalla consapevolezza che non esistono e non si danno dati osservativi neutrali posseduti alinguisticamente, come hanno messo in luce Ludwig Wittgenstein, Wilfrid Sellars, Norwood R. Hanson, e come, attraverso nuovi e ulteriori sviluppi teorici della filosofia postanalitica, hanno mostrato Richard Rorty (1998; trad. it. 2003), Thomas Kuhn (2000a, 2000b), Robert Brandom (2000; trad. it. 2002), Putnam (2002; trad. it. 2004), ribadendo lo slogan che i dati osservativi sono carichi di teoria (theory laden). La relativizzazione proposta in questa forma positiva e costruttiva trova un’ampia, decisiva estensione in alcuni recenti testi di fisica teorica nei quali la relatività in termini di relazione a un contesto costituisce la base di identificazione delle entità fisiche (Greene 1999; trad. it. 2000).
Concetti come massa o forza trovano la propria identità non in isolamento ma soltanto nel contesto di relazioni quali: forza=massa×accelerazione. Ancora: neutrini ed elettroni non sarebbero identificabili e pertanto risulterebbero indistinguibili se considerati al di fuori del contesto fisico di relazioni in cui sono implicati con le particelle di Hicks. Questa enfasi sul principio della relazione e del contesto è all’origine del primato che la triade Leibniz-Mach-Einstein riporta oggi fra i fisici rispetto all’assolutismo del binomio Newton-Kant.
Il relativismo antropologico
La relativizzazione dei concetti e delle teorie a un sistema di riferimento antropologico e socioculturale coinvolge un nuovo e differente statuto che risulta assegnato alle nozioni di verità e di certezza. Infatti, ricondotte a un contesto antropologico, a una forma di vita, a una comunità sociolinguistica, le regole dei vari saperi non sono più norme formali e strutturali, astoriche e atemporali, ma manifestazioni dei modi di vita degli uomini. Regole dunque che non hanno un fondamento epistemologico, logico o semantico, ma che sono radicate nelle loro circostanze storiche, nelle istituzioni politiche, sociali, giuridiche, economiche e religiose che definiscono un modulo d’esistenza, come commentano Arnold Davidson e Frédéric Gros (Michel Foucault. Philosophie, 2004, p. 14) a questo riguardo: «perché un sapere, prima di essere vero o falso, esiste, ossia esso distribuisce, secondo modalità storiche (suscettibili di trasformazione) atteggiamenti soggettivi, regimi d’oggetto, configurazioni concettuali e informa condotte d’azione». In questa specifica accezione il relativismo si riferisce a uno sfondo d’esistenza che precede e che condiziona le regole dei molteplici e differenti saperi – un regime d’esistenza che non è a sua volta vero o falso, ma che stabilisce le condizioni di possibilità del vero e del falso, ossia dischiudendo il gioco linguistico del vero e del falso. Questa matrice storico-antropologica ha mostrato un potere crescente di penetrazione nelle scienze umane. Nella sfera della filosofia del linguaggio ha assunto in questi anni un ruolo decisivo il riferimento agli abiti e alle pratiche dei membri delle comunità sociolinguistiche (Glock 2003).
La verità degli enunciati, dichiara ora Putnam, è delegata a una comunità di ricercatori e di interlocutori. Il passaggio che qui Putnam compie è quello da una soggettività privata e incorreggibile all’intersoggettività. Lungo una tradizione metafisica risalente a René Descartes, si era formata la convinzione che la conoscenza e la verità fossero insediate nei processi privati e incorreggibili del singolo soggetto. Secondo Putnam, l’idea di un enunciato la cui asseribilità finale è completamente a disposizione dello stesso interlocutore prescindendo dal contesto, senza dare importanza a quello che accade, oppure di un interlocutore che non ha bisogno né può trarre sostegno dalle osservazioni e dai dati degli altri, è precisamente la tradizionale nozione di conoscenza di origine cartesiana che risulterebbe privata e incorreggibile. La relativizzazione di intere classi di espressioni, di interi linguaggi, a determinati scenari socioantropologici costituisce un limite insuperabile nei confronti delle teorie sistematiche e formalizzate del linguaggio che pretendevano di definire un universo totale di traducibilità. Come ha osservato Scott Soames, «che ne è dell’idea che potrebbe esservi un linguaggio il quale contiene enunciati veri che non sono traducibili in inglese? Questa è semplicemente l’idea che potrebbe esserci un linguaggio che esprime proposizioni vere che non sono espresse da alcun enunciato di lingua inglese. Questa tesi non è più inconsistente della tesi che vi siano proposizioni vere che non abbiamo mai incontrato» (2003, 2° vol., p. 330). La nozione di verità logica (nel senso di Alfred Tarski e di Donald Davidson) cessa così di essere l’origine e la matrice del significato delle espressioni. Al suo posto subentra il riferimento, che relativizza la stessa verità all’apprendimento e alla pratica del linguaggio in cui veniamo addestrati e collocati entro la nostra forma di vita. Il riferimento socioantropologico risulta così coniugato con la concezione relativistica del linguaggio e delle categorie semantiche quali senso, significato, referente, verità, denotazione. «Quindi la nostra nozione ordinaria di verità non è l’insieme delle anguste nozioni di verità alla Tarski. Qual è il contenuto della nostra nozione ordinaria di verità e come facciamo ad acquisirla? Il quadro è semplice. Impariamo un pezzo di linguaggio. Avendo imparato qualche linguaggio veniamo introdotti alla nozione di verità usando il linguaggio che abbiamo imparato. Qualcuno ci dice che se uno dice o crede che la mamma sta lavorando, e la mamma sta lavorando, allora ciò che quel tale dice o crede è vero» (Soames 2003, 2° vol., p. 329).
Il relativismo e il ritorno al mondo ordinario
A differenza di coloro che in passato hanno reagito contro il relativismo e lo scetticismo in termini di argomentazioni e di inferenze logiche, come, per fare qualche esempio, Davidson, Putnam e Crispin Wright, e, da un differente approccio, John Searle, Michael Devitt, Thomas L. Haskell, Hartry Field, Gareth Evans, Philip Kitcher, si è manifestata in questi anni una interessante tendenza ad abbandonare la via della controargomentazione rivolta a scettici e relativisti seguendo un percorso completamente diverso nella consapevolezza che le controargomentazioni, quelle dirette per es. a mostrare che il relativismo si autorefuta, non riescono a debellarne le tesi. Anzi, vi è chi, come Michael Williams (2001), ha cercato di mostrare che il relativismo e quello che talvolta è il suo naturale sbocco, ossia lo scetticismo, non sono all’origine del dubbio e dell’incertezza, bensì sono, proprio all’opposto, una conseguenza del tentativo fondazionalista di fornire una dimostrazione all’epistemologia e all’etica, alla realtà del mondo esterno e alla sfera dei valori etici. Il relativismo sarebbe pertanto non l’origine, ma al contrario la conseguenza del tentativo di dare un fondamento apodittico e inconcusso alle certezze del senso comune. Ma Williams rileva come nella sfera della vita quotidiana l’uomo non sia minimamente assalito dai dubbi e dalle perplessità alle quali risulta invece esposto quando fa filosofia e argomenta contro il relativismo. Il relativismo non sarebbe dunque altro che la conseguenza generata da un modo proprio della filosofia di generare i suoi stessi problemi. Per questo, riecheggiando il titolo di una sua precedente opera (Unnatural doubts. Epistemological realism and the basis of scepticism, 1996), Williams definisce i dubbi del relativista e dello scettico «dubbi innaturali».
Nel corso della sua ampia e articolata analisi del relativismo e dello scetticismo, Stanley Cavell (2002) è pervenuto a una riformulazione complessiva della natura del lavoro filosofico. Se la certezza è la condizione spontanea e naturale della vita quotidiana, il relativismo e i suoi esiti scettici sono il risultato delle strategie fondazionali della filosofia. Siamo così consegnati a due visioni della realtà che non sono suscettibili di essere riconciliate, come avevano già osservato tra gli altri Thomas Nagel, Barry Stroud e Peter F. Strawson. Nel dibattito su realismo da un lato e relativismo e scetticismo dall’altro, tra strategie fondazionali e antifondazionali, assume oggi una particolare rilevanza la concezione che Cavell ha esposto nel suo Cities of words (2004). Anche se si ammette che il moderno relativismo possa sostenere la tesi secondo cui lo sviluppo scientifico e culturale contemporaneo avrebbe messo in crisi la legittimità di stabilire un contatto del soggetto umano con la realtà oggettiva del mondo esterno, si commette, però, un errore quando si cerca di inferire dal fatto che il mondo non è oggetto di una conoscenza dimostrabile, fondata e oggettiva, che esso non sia reale. La realtà del mondo non è qualcosa da conoscere, bensì da riconoscere (recognize) e da accettare (accept) da parte di un essere umano concepito (in analogia con Martin Heidegger) come uomo nel mondo, soggetto dell’esserci (Dasein). Con qualche affinità con Rorty e Williams, Cavell ritiene che lo scetticismo sia una faccenda di esclusiva pertinenza filosofica generata dall’epistemologia fondazionalista a partire da René Descartes.
Ma l’istanza filosofica del fondazionalismo epistemologico ha la propria matrice originaria nel 17° sec., quando relativismo e scetticismo filosofico fioriscono contemporaneamente, e non casualmente, in concomitanza con lo sviluppo delle teorie di Francesco Bacone, Galileo Galilei, Descartes e Thomas Hobbes, ossia nel contesto di un’autonomia acquisita dalle scienze fisico-matematiche e di una secolarizzazione della cultura che infrange l’unità, la coesione del cosmo medievale con il suo ordine universale di verità e giustizia. William Shakespeare è secondo Cavell il protagonista fondamentale di questa svolta relativistica e scettica (Cavell 2003; trad. it. 2004); noi comprendiamo così bene Shakespeare perché Shakespeare ha fatto noi, ossia ha definito l’uomo moderno. Il filosofo americano osserva che i personaggi shakespeariani non parlano più in nome di criteri universali e oggettivi, ma origliano sé stessi, dando voce ai loro impulsi personali di brama, di potere e di riconoscimento. Shakespeare appartiene alla generazione precedente a quella di Descartes, ma se Descartes non si fosse appeso a un gancio pendente dal cielo (fuor di metafora, se non si fosse appeso alla prova ontologica dell’esistenza di Dio) sarebbe stato anche lui un relativista e uno scettico. Il relativismo e la sua estrema conseguenza, ossia lo scetticismo, secondo Cavell, sono la smentita di quella ricerca di certezza secondo la quale possiamo salvare la nostra vita conoscendola, sostituendo cioè la conoscenza alla nostra presenza alla realtà. Ma la presenza umana alla realtà, il contatto degli uomini con il mondo che li circonda, risultano allora consegnati non già ad argomentazioni logiche ed epistemologiche, bensì a un ritrovato rapporto con il mondo della vita comune, con il quotidiano, radicato nei dintorni del nostro agire e vivere giorno per giorno, in un’esistenza che Cavell definisce uneventful, senza eventi eccezionali o clamorosi. Conseguentemente Cavell ravvisa nella filosofia del linguaggio ordinario del secondo Wittgenstein e nell’opera di John L. Austin – esenti da impalcature teoriche sistematiche – l’ultimo bastione valido contro il relativismo. Ma si tratta di una strategia intellettuale che porta a una riqualificazione dello stesso lavoro filosofico che, mentre esalta il significato degli elementi ordinari dell’esistenza umana quotidiana, incontra il mondo della poesia, della letteratura e la sfera emozionale della vita quali tramiti autentici della relazione con il mondo. Ne sono figure esemplari, per Cavell, Ralph W. Emerson, Samuel T. Coleridge e Henry D. Thoreau. Risulta in tal modo riqualificato e ridefinito ab imis fundamentis il lavoro filosofico: richiamandosi alla priorità del linguaggio ordinario, Cavell rinuncia al fondazionalismo in vista di una filosofia che non avanza nemmeno più tesi, che non avanza impianti teorici, che non è esposta al dilemma tra verità ed errore, che indaga il proprio essere, ossia il testo filosofico, che definisce la propria autointerrogazione, scoprendo contenuti di pensiero diversi, alternativi o inesistenti e comunque differenti da quei contenuti che il soggetto filosofico dell’epistemologia classica tradizionale riteneva di dover pensare.
La trasformazione del dibattito sul relativismo
Il dibattito sul relativismo nei primi anni del 21° sec. mostra di rimanere sospeso fra: a) l’esercizio di argomentazioni e controargomentazioni raffinate e sofisticate, al limite della sottigliezza sofistica, contro il relativismo e talora lo scetticismo in cui riafforano le problematiche in tal senso introdotte tradizionalmente da un lato da Descartes e dall’altro da Hume, che hanno permesso di scrivere la storia della filosofia moderna; b) l’immissione di argomentazioni meno esigenti e conclusive quali le dottrine contestualiste; c) argomentazioni per default (ossia, in mancanza di meglio, di argomenti più forti di quelli avanzati); d) il fallibilismo; e) il naturalismo nella varietà delle sue tonalità e dei suoi vincoli; f) il riferimento storico-antropologico, più o meno naturalizzato alla forma di vita (Lebensform, form of life), e all’assetto di una morfologia sociale e di una comunità linguistica; g) l’inferenzialismo pragmatico radicato nelle pratiche sociolinguistiche quale fonte di giustificazione delle credenze e matrice di asseribilità garantita.
Di fronte allo scenario culturale delineatosi dal 2000 in avanti, sembra legittimo rilevare l’assenza della pretesa di confutare le tesi relativistiche e le loro conseguenze talora più o meno scettiche con argomentazioni risolutive e decisive. Questa evidentemente è una conseguenza dell’attenuarsi della propensione a proporre registri teorici forti che induce a controbattere il relativismo con argomentazioni meno cogenti e risolutive di quelle alle quali si ambiva nei decenni precedenti. In sostanza due elementi o fattori appaiono di importanza determinante. Uno dipende da una decisiva trasformazione dello scenario filosofico e culturale a partire dal sopravvento dell’orizzonte storico-culturale, del linguistic turn (la filosofia analitica), ossia della svolta linguistica, della ‘schiusura linguistica’ (la filosofia ermeneutica e Heidegger), rispetto all’epistemologia che da Descartes e John Locke giunge sino a Immanuel Kant, alla filosofia neokantiana e alla fenomenologia husserliana. Lo sfondo linguistico e storico-sociale che si anticipa rispetto al soggetto cartesiano o kantiano in prima persona detronizza e ridimensiona la figura del soggetto conoscente, del soggetto epistemico, punto archimedeo nella teoria tradizionale della conoscenza. Il mondo, la realtà esterna non sono più variabili dipendenti della funzione impersonata dal soggetto umano conoscente con le sue facoltà, con le sue batterie di concetti, intuizioni, notazioni canoniche e procedure metodiche. Si tratta anche del tramonto di una certa forma di umanismo. La vivacità del dibattito sul relativismo in questi anni non si spiegherebbe senza il riferimento a quella svolta storico-culturale e linguistica. Ne è un aspetto assai rilevante quel nuovo tipo di storiografia filosofica che si sottrae al dibattito sul relativismo e sulle sue conseguenze scettiche impostato nei termini tradizionali, mettendo in discussione la stessa posizione del problema relativistico e respingendo la tesi del carattere inevitabile dei problemi epistemici e del relativismo conseguente sulla base di una nuova visione che ravvisa nella tradizione filosofica l’origine stessa del problema del relativismo. Relativismo e scetticismo sarebbero la conseguenza del modo stesso in cui i filosofi hanno approntato e hanno costruito i loro stessi problemi. Tali sono, come si è visto in precedenza, i «dubbi innaturali» di cui parla Williams; tale, ancora, è l’esito della pretesa filosofica di dimostrare la realtà del mondo esterno, anziché, come ribadisce Cavell, di realizzare il riconoscimento e la presenza dell’uomo nel mondo al di fuori di argomentazioni epistemologiche e speculative.
Ma un argomento affine, sebbene indipendente, è quello dei neopragmatisti americani, quali Rorty, Richard J. Bernstein, John Rajchman, Cornel West, i quali ora ravvisano nei problemi del relativismo una conseguenza lineare di una impostazione di problemi che non è affatto necessaria. L’idea è che solo se si legge Descartes e si accetta l’idea che la mente può garantire soltanto sé stessa e i propri contenuti interiori, si può cominciare a dubitare che esistano alberi, rocce, stelle, altri uomini, altre cose. È soltanto la frattura epistemologica cartesiana fra sostanze estese e sostanze pensanti che ha generato la possibilità dello scetticismo moderno. La filosofia, secondo questa visione, non ha scoperto problemi oggettivi né ha commesso errori, dal momento che gli oggetti di cui si è occupata – per es., il rapporto fra universali e particolari in Aristotele, o il foro interiore di Descartes e Locke, o l’intenzionalità di Edmund Husserl, le costruzioni logiche di dati di senso di Bertrand Russell, la mente di Gilbert Ryle – sono oggetti inventati e non oggetti o entità fraintese e misconosciute. In questi primi anni del 21° sec. il revival del pragmatismo negli Stati Uniti testimonia di una svolta che sostituisce il dibattito sul relativismo con il richiamo e il riferimento a una prassi linguistico-concettuale che non deve riflettere le cose come esse sono in sé stesse, out there, problema all’origine dello spauracchio del relativismo, ma che deve elaborare modelli più avanzati dell’esistenza umana, ossia dell’essere uomo, sul piano etico ed estetico ai fini di una vita buona da vivere. In questo senso è un fraintendimento l’accusa mossa ai neopragmatisti di essere filosofi relativisti. I neopragmatisti sostituiscono infatti al dibattito sul relativismo e al regime di equivocità che esso sembra suscitare l’univocità e la coerenza di scelte e decisioni pragmatiche ordinate e finalizzate rispetto a valori, secondo il principio teleologistico che risale a William James.
La presenza continua al mondo
Il tratto più innovativo e anche più distintivo e peculiare del recente dibattito sul relativismo appare quello che si appella all’istanza di ritrovare la presenza dell’uomo nel mondo ordinario, nei dintorni del suo agire, nelle circostanze quotidiane della vita e dell’esistenza, rinunciando al progetto tradizionale di confutare il relativismo con gli strumenti dell’argomentazione cogente; rinunciando al tentativo di produrre prove contro il relativismo che inevitabilmente presuppongono ciò che andrebbe dimostrato, ossia che esiste un mondo là fuori, che percepiamo la realtà e non stiamo sognando quando consideriamo, pensiamo o percepiamo mattoni o numeri.
Ma il tema della presenza, il tema della continuous presentness dell’uomo al mondo implica un approccio sensibile alla varietà delle possibilità secondo le quali la realtà può declinarsi, laddove l’approccio epistemologico persegue nel suo ostinato tentativo logicizzante di irrigidire il flusso dell’esperienza nelle maglie di un super-ordine apriorico, astorico e atemporale di concetti. Per una sorta di trasformazione alchemica dei nostri contenuti mentali, l’epistemologo antirelativista assume che la conferma di una sua previsione o la sua falsificazione dipendano dai suoi poteri intellettuali. L’espressione «lo sapevo!» risuona alternativamente come complimento o come autocritica rispetto al nostro approccio basato sul principio epistemico della certezza. ‘Presenza al mondo’ in questa svolta nel dibattito sul relativismo significa al contrario capacità di ascolto, ossia capacità di, o attitudine a, riferire i contenuti della nostra vita mentale, intellettuale e percettiva a una trama che non sia preventivamente definita dal regime di un’epistemologia prefissata e privilegiata, ma inserita nella (e integrata dalla) sfera degli apprendimenti, delle pratiche, degli abiti, dei costumi, dell’informazione a cui sono esposti i membri delle comunità storico-sociali. È soltanto la perdita di una presenza umana al mondo che ha l’effetto di svuotare ed eliminare la costellazione di questi fattori – che costituiscono il radicamento degli uomini nelle loro forme di vita – e di isolare il tema epistemologico della certezza come relazione fondamentale rispetto alla quale gli uomini deciderebbero sulla realtà o irrealtà del mondo che li circonda. Il relativismo (con le sue derive scettiche) risulta paradossalmente, da un lato, un’operazione di semplificazione e di astrazione rispetto alla complessità e alla varietà delle situazioni entro cui l’uomo si interroga sul mondo e sulla sicurezza del suo riferimento, dall’altro lato, e proprio per le medesime ragioni, un sintomo del dubbio e dell’inquietudine propri dell’uomo che, di fronte a un mondo che ritiene di aver perso, cerca di recuperarlo con argomentazioni centrate esclusivamente sulla certezza epistemica. Ma appunto le risorse epistemiche, le procedure dell’argomentazione, storicamente non sono riuscite a debellare lo spauracchio, l’inquietudine suscitati dal relativismo. Le argomentazioni di tipo logicizzante o il ricorso a esperienze percettive dirette non solo non sono risultate conclusive – in quanto hanno riprodotto in un circolo vizioso la tesi relativistica che andava refutata – ma hanno denunciato l’assenza di un mondo che era stato sul piano della vita quotidiana dell’uomo ordinario pienamente assorbito e che ora nell’isolamento e nel vuoto dello spazio epistemico risulta irriconoscibile, irrecuperabile e perso per sempre.
Questa tensione e questo squilibrio ripropongono una riflessione nuova e originale sui compiti della filosofia e sulla sua stessa destinazione, ma risultano anche essere alla base del conflitto che si riapre oggi tra filosofi di impostazione tradizionale (metafisica, ontologica, ermeneutica) e analitica (nel senso di ricerca teorica sistematica e formalizzata) da un lato e filosofi del linguaggio ordinario dall’altro. Tali considerazioni inducono a prendere atto che, a partire dai preludi culturali di questo secolo, seppure in assenza di nuove teorie sistematiche forti, si stia profilando un diverso orizzonte intellettuale che abbandona lo sforzo secolare di rincorrere, adeguare ed eguagliare il rigore e la certezza delle scienze fisico-matematiche per ritrovare il mondo ordinario che era andato perduto – perduto unicamente perché non era salvabile o riscattabile o riconoscibile con gli strumenti della certezza epistemologica, dato l’assunto di partenza segnato da Descartes e da Locke e istituzionalizzato da Kant, secondo il quale nulla è più vicino alla mente che la mente stessa e perciò la certezza del mondo non può che essere scritta in una cifra epistemologica. Procedure argomentative, dimostrazioni e dati sensoriali non potranno mai compensare la profondità, l’importanza dell’esperienza vissuta del mondo quale è filtrata ed esperita nelle circostanze e nell’agire degli uomini nel corso dell’esistenza ordinaria.
In sostanza, in luogo di una prova o di una dimostrazione, il relativista potrebbe ottenere una risposta ai propri dubbi e alle proprie angosce attraverso una ritrovata presenza nel suo mondo, nel mondo esperito prima dell’esercizio epistemologico, nella sfera dell’esperienza vissuta preanaliticamente da parte di un soggetto detrascendentalizzato, non più regista della costruzione epistemologica del mondo. Il soggetto umano che appare predelineato nel dibattito culturale sul relativismo alla svolta del 21° sec. non è un interlocutore dotato di strumenti logici ed epistemologici più potenti (come hanno riconosciuto recentemente studiosi non scettici e non relativisti come Nagel, Stroud e Strawson), ma un soggetto che cerca di ritrovare la sua presenza al mondo, in un mondo che non deve decidere o costruire, ma ascoltare per riconoscerlo e per accettarlo. L’ascolto, infatti, è il luogo critico esposto a seconda dei casi al misconoscimento e al fraintendimento. Ciò che accade, ciò che si rivela volta a volta nel corso dell’esperienza del mondo può essere contingentemente una conferma o una falsificazione di una nostra congettura o di una nostra aspettazione. È tuttavia il nostro modo di ascoltare che decide sia il senso sia la verità di tale evento. E questo pregiudica il sentimento o la convinzione della nostra presenza al mondo.
Ossia, in altri termini, ciò che è accaduto non potrà mai più accadere qui e ora, ciò che accadrà non è qui e ora, ma potrebbe essere determinato da ciò che sta accadendo qui e ora nel corso dell’evoluzione del tempo. La continua presenza del presente (Cavell 2004) è questo puntuale ascolto di ciò che è passato e di ciò che sta per accadere senza confonderli, senza assimilarli per effetto di un nostro schema epistemologico di qualche tipo che ci induce erroneamente a stabilire che il passato ha determinato il presente o che il presente determinerà il futuro. Sia nell’uno sia nell’altro caso, la tipica espressione «lo sapevo!» è rivelatrice di una manipolazione epistemica che operiamo sui dati dell’esperienza e sulle loro relazioni, nella misura in cui li ordiniamo sulla base di un preventivo schema epistemologico che ci attribuisce straordinari poteri di previsione e di spiegazione (sapevamo quale piega avrebbero preso gli eventi). Se le difficoltà avanzate dal relativismo in passato erano implicate nel destino di teorie della verità, di certezze epistemologiche, di assunti semantici e di argomentazioni cogenti, emerge ora un nuovo, specifico aspetto del relativismo quale atteggiamento critico che non attende una prova argomentativa cogente e risolutiva per arretrare e dissolversi, bensì dischiude il riconoscimento di un nuovo modo di pensare e di vivere che restituisca agli uomini un rapporto profondo con la realtà del mondo che li circonda. Una presenza, appunto, continua nel mondo, un mondo da riconoscere, da accettare, e non da dimostrare attraverso la conoscenza e le procedure logico-epistemologiche.
Stili di pensiero
Al processo di riavvicinamento alle forme della vita ordinaria promosso dalle scienze umane e dalla cultura filosofica sopra considerato, corrisponde un itinerario per certi aspetti analogo nel campo specifico del dibattito sull’epistemologia relativistica. Contro i principi dell’impostazione tradizionale dell’epistemologia classica del neorazionalismo e del neopositivismo, basati sul monismo metodologico, sull’avalutatività della scienza, sulla distinzione radicale tra fatto e valore, sull’adozione di metodi statistico-induttivi e nomologico-deduttivi, l’epistemologia relativistica ha espresso quale suo assunto fondamentale il pluralismo metodologico, ossia la varietà dei modi di praticare le teorie scientifiche, le componenti valoriali della scienza, infine il ruolo e il contesto degli assetti storico-culturali.
Contrassegni distintivi dell’epistemologia relativistica sono: a) l’olismo semantico ed epistemologico; b) l’indeterminatezza della traduzione; c) l’incommensurabilità delle teorie scientifiche; d) la dottrina degli schemi concettuali. Il punto a) stabilisce che una teoria scientifica viene confrontata nel suo complesso e nel suo insieme – e non dunque proposizione per proposizione – con l’esperienza. Il punto b) asserisce che ogni teoria è sottodeterminata rispetto all’esperienza, per cui l’enunciato di una certa lingua risulta traducibile in modi differenti e alternativi nei contesti di linguaggi diversi, e pertanto le traduzioni risultano inconfrontabili. Il punto c) sostiene che non vi sono né procedure logiche né procedure empiriche per stabilire la priorità, la superiorità o la preferenza di una teoria rispetto a un’altra (tesi dell’egualitarismo epistemologico), dal momento che ogni teoria è una costellazione di problemi, assunti, paradigmi, concetti, valori, vocabolari e procedure di controllo indipendenti da quelli di ogni altra, e per conseguenza il passaggio da una teoria a un’altra è una sorta di conversione e non già una transizione giustificata razionalmente. Il punto d), che si origina nella Kritik der reinen Vernunft (1781) di Kant, assume che il soggetto umano conoscente filtra l’esperienza attraverso uno schema concettuale che organizza il flusso dell’esperienza che lo circonda. Questi sono i nodi problematici fondamentali che hanno generato l’epistemologia e la filosofia della scienza di ispirazione relativistica e che il 20° sec. ha trasmesso in eredità alla svolta del terzo millennio.
Le tendenze che affiorano all’inizio del 21° sec. sembrano inaugurare una nuova prospettiva destinata a superare la dicotomia e l’opposizione tra razionalismo oggettivo e relativismo epistemologico. Tale superamento scaturisce dalla tesi che ravvisa nell’uno come nell’altro una forma di dogmatismo, per cui il relativismo culturale ed epistemologico sarebbe generato da una forma di assolutismo che è anche all’origine del razionalismo epistemologico oggettivo, nel senso che mentre per il secondo esiste una razionalità scientifica univoca e universale, per il primo esiste invece una molteplicità di teorie nessuna delle quali è quella vera o più vera delle altre. Si potrebbe dunque dire che alla svolta del nuovo secolo le controversie sul relativismo epistemologico si stiano placando. In The road since structure (2000) Thomas Kuhn ha riformulato la tesi dell’incommensurabilità in termini decisamente più distensivi: le teorie scientifiche non sono intrinsecamente incommensurabili e la possibilità del loro confronto dipende dall’apprendimento di nuove lingue, di nuovi vocabolari e delle loro modalità assertive (per passare, per es., dalla fisica aristotelica a quella galileiana, oppure dalla nozione di massa in Newton a quella di Ernst Mach e Einstein). Dunque ‘le guerre kuhniane’ sui paradigmi scientifici si stanno avviando a una conclusione e soprattutto i dibattiti sul relativismo stanno assumendo una direzione che indica una nuova consapevolezza della storicità delle teorie scientifiche. Se in precedenti versioni storicistiche e, in particolar modo, nelle dottrine sociologiche esternaliste il riferimento agli sfondi culturali delle teorie scientifiche costituiva un argomento a favore del relativismo e congiuntamente a sfavore della razionalità scientifica oggettiva, nei più recenti dibattiti sul relativismo si sta manifestando un diverso atteggiamento analitico che tenta di coniugare insieme storicità e razionalità del sapere scientifico.
Questa mediazione è resa possibile dal passaggio da uno scenario epistemologico centrato sulla nozione totalizzante di verità a quello caratterizzato dalla coppia o dicotomia vero-falso. In sostanza, gli schemi concettuali da Kant ai neopositivisti fino a Willard Van Orman Quine, Kuhn, Hanson e Paul K. Feyerabend erano modelli locali del sapere scientifico, condizioni e fattori responsabili della costruzione delle teorie scientifiche relative a determinate concezioni della verità scientifica (Aristotele, Galileo, Descartes, Newton, James Clerk Maxwell, Einstein, Niels Bohr). In questi termini, avere un paradigma scientifico o uno schema concettuale significava organizzare una versione scientifica del mondo fisico sulla base di una certa, definita nozione di verità. Ciascuno schema o paradigma adottato costituiva e definiva la verità di un orizzonte scientifico. Applicare nel dibattito sul relativismo la nozione di verità non in una posizione privilegiata e assoluta, bensì nei termini della relazione bipolare vero-falso induce una nuova prospettiva interpretativa del sapere scientifico. Una cosa è infatti applicare uno schema concettuale, una versione del mondo, un modello, un paradigma che fissa preliminarmente, sulla base dei propri assunti, la verità di una teoria scientifica; un’altra cosa è praticare uno stile di ragionamento che si articola e ruota intorno all’alternativa vero-falso. Uno stile di pensiero o di ragionamento è un contesto di argomentazioni e di inferenze soggetto alle alternative del vero e del falso, non già alla definizione apriorica di quello che viene descritto e prescritto come il mondo vero. Pertanto uno stile di pensiero o di ragionamento è un processo di pensiero-linguaggio che costituisce l’unica fonte dei significati delle asserzioni che proferiamo. Non sussiste, in altri termini, per alcuna teoria scientifica una giustificazione precedente o comunque esterna a quello che Ian Hacking e Alistar Cameron Crombie hanno definito uno «stile di ragionamento». Lo stile di ragionamento è una costruzione storica, che affonda in un contesto di ragioni culturali, che appartiene a una certa e ben definita tradizione di valori, criteri e di vocabolari decisivi (Hacking 2002). Gli stili di ragionamento sono molteplici e differenti e sono naturalmente consegnati alle loro vicissitudini e al loro destino storici. Essi si distinguono dalle versioni del mondo (Nelson Goodman), dagli schemi concettuali (Quine), dai paradigmi (Kuhn), dai modelli della scoperta scientifica (Hanson), dagli schemi di accettabilità razionale (Putnam) – ossia dall’eredità delle più influenti teorie epistemologiche trasmesse dal 20° sec. – in quanto, anziché descrivere la Natura nei termini di una certa concezione della verità, attivano un processo riflessivo su ciò che è vero e ciò che è falso che risulta convalidato dallo stile di ragionamento nel quale esso viene costruito e formulato. Gli stili di ragionamento sono intrascendibili in quanto costituiscono il contesto storico globale entro il quale il processo riflessivo viene costruito. Gli enunciati non hanno pertanto un’esistenza indipendente dalle modalità contingenti e storicamente variabili degli stili di pensiero adottati. La prospettiva aperta dalla dottrina degli stili di ragionamento si fa carico dello sviluppo di nuove possibilità alternative generate all’interno di un certo stile di ragionamento (Hacking 20062). Se non esiste una metaragione oggettiva e universale dal momento che ogni stile di ragionamento non può che riferirsi circolarmente ai propri interni criteri e vincoli, uno stile di pensiero può nondimeno raccomandarsi e storicamente assumere il sopravvento su altri stili per la sua capacità di ampliare la sfera delle proprie possibilità e delle proprie applicazioni, estendendo l’induzione scientifica. In tal senso, per fare un esempio, la meccanica statistica di Ludwig Boltzmann estende la meccanica classica newtoniana inserendovi la sua teoria termodinamica. Se non possiamo trascendere lo stile di ragionamento nel quale siamo necessariamente impegnati e dal quale esclusivamente generiamo i nostri enunciati, è anche vero che sono proprio queste condizioni e questi requisiti che in qualche misura ci mettono al riparo dalle minacce del relativismo estremo e radicale così come dalle sue derive scettiche. Se, infatti, da una parte il razionalismo oggettivo e dogmatico teorizza una verità univoca e universale, dall’altra il relativismo radicale – ossia quello secondo il quale una teoria o una cultura è buona quanto un’altra – pecca di egual dogmatismo assolutizzando l’incertezza e l’ambiguità dei nostri saperi. Il processo inferenziale e argomentativo di uno stile di ragionamento non predica una certa verità come più giustificata o fondata rispetto ad altre, ma articola le proprie ragioni sulle possibilità delle nostre proposizioni di essere vere o false. Il relativismo allora, anziché sanzionare il fallimento delle nostre imprese cognitive, mantiene il suo lato positivo nel custodire il sospetto del fallibilismo, l’allarme di fronte alla incauta e dogmatica certezza apodittica e la consapevolezza della rivedibilità di ogni sistema teorico.
Va notato che questa prospettiva deve la sua fecondità e anche il suo potere di moderazione a una nozione di verità intesa come giustificazione, come spazio logico delle ragioni e argomentazioni storicamente definite, anziché come rispecchiamento o corrispondenza con la realtà come essa sarebbe in sé stessa. Ma non sono soltanto le tradizionali teorie della verità come corrispondenza a essere in difficoltà; anche le teorie pragmatiste o strumentaliste non sono in grado di giustificare le teorie scientifiche quando si limitano ad appellarsi al loro successo. Infatti il successo non è la soluzione del problema della valutazione delle teorie scientifiche, ma è una parte del suo problema: qualunque dato sperimentale come tale non sanziona una teoria come vera o valida o confermata se non in un rapporto complesso a una costruzione teorica, peraltro storica e contingente, ossia a una rete di inferenze e a una batteria di concetti entro una notazione canonica, che rappresentano i fattori costitutivi di un determinato stile di ragionamento.
Razionalismo e relativismo in una nuova prospettiva storica
Il presente periodo storico testimonia un nuovo corso, un nuovo indirizzo culturale nel quale razionalismo e relativismo non costituiscono più due poli teorici avversi e irriducibili, che si alimentano l’uno dell’assolutismo e del dogmatismo dell’altro con un segno rovesciato. Piuttosto si preannuncia un nuovo spazio culturale nel quale problemi, inquietudini, istanze dell’uno di questi due poli si compenetrano con la consapevolezza e il riconoscimento dei problemi, delle inquietudini e delle istanze avanzate dall’altro polo. Sono proprio l’introiezione e l’assimilazione, da parte di ciascuno di questi due poli, delle istanze avanzate dall’altro a spiegare il clima più pacato e disteso che si sta diffondendo nel dibattito sul relativismo, un clima inimmaginabile negli ultimi decenni del 20° sec., attraversato da irriducibili opposizioni e dalle accese ‘guerre kuhniane’ nell’epistemologia, nella filosofia della scienza e nella cultura filosofica in generale. Ma attraverso questo processo, entro il quale il razionalismo oggettivo e il relativismo si ricalibrano a vicenda ammettendo l’uno anche le ragioni dell’altro, risulta profondamente cambiata la natura dello stesso lavoro filosofico, risulta mutata la consapevolezza che l’esercizio filosofico può o deve assumere nei confronti dei propri compiti e della natura del proprio discorso.
La disputa fra razionalismo e relativismo è stata fino al 20° sec. anche una contesa sulla questione se vi sia una verità oppure ve ne siano molte, se vi sia un solo metodo oppure più metodi filosofici e scientifici, anche se vi sia una sola teoria filosofica in posizione privilegiata sanzionata come la più vera o se invece occorra riconoscere l’esistenza di più teorie filosofiche su un piano di parità. Ora, è proprio dal mutuo riconoscimento delle ragioni che motivano il razionalismo e il relativismo che scaturisce un nuovo modo di considerare il lavoro filosofico. Alla luce della revisione degli assunti del razionalismo e del relativismo che ne facevano in passato due avversari irriducibili, la filosofia oggi può rinunciare alla produzione e all’esibizione di argomentazioni cogenti proprie di quella che Robert Nozick (2001; trad. it. 2003) ha definito una «razionalità costrittiva», evitando la ricerca di «prove irresistibili» e perfino la ricerca di prove irresistibili che nelle prove irresistibili c’è qualcosa di sbagliato. La conclusione è che non può essere la coazione, sia pure esercitata mediante argomentazioni razionali, a generare la convinzione, così come non si può costringere qualcuno a essere libero. È provincialismo filosofico consegnare le proprie convinzioni e le proprie credenze a una sola ed esclusiva dottrina filosofica, e questa malattia può essere curata mediante la conoscenza di alternative, di possibilità differenti secondo le quali si può guardare al mondo, alla Natura e alle stesse questioni filosofiche e scientifiche. L’opzione nuova, all’origine di una svolta nel dibattito su relativismo e filosofia negli anni in corso, è allora in una visione complessiva che consiste nel «paniere delle visioni filosofiche, e in questo paniere ci stanno tutte le visioni ammissibili» (Nozick 2001; trad. it. 2003, pp. 36-7). Ma questo paniere non è il segnale di una ricaduta in una forma di relativismo o addirittura di scetticismo; infatti le varie concezioni filosofiche verranno valutate in modo distinto e differenziale e al tempo stesso nessuna di loro assurgerà a una posizione esclusiva e privilegiata.
Un tale processo di articolazione e di contestualizzazione relazionale delle dottrine filosofiche dispensa conseguentemente dall’ascrivere al lavoro filosofico il compito di essere una disciplina fondazionale che inferisce conclusioni apodittiche da proposizioni o principi che sarebbero evidenti di per sé stessi. Dispensa egualmente dal miraggio a lungo inseguito dalla filosofia tradizionale, quello di eguagliare il rigore delle dimostrazioni contenute nelle teorie fisico-matematiche. Infatti, possiamo domandarci: che ne è del destino o del valore di questo miraggio oggi, quando siamo abbastanza esperti da sapere che le teorie scientifiche sono accompagnate indistintamente da anomalie, che non escludono ipotesi alternative, che difettano di una corroborazione o verificazione o conferma sperimentali complete ed esaustive, che sono dunque valide soltanto «fino a nuovo ordine» (come solevano dire perfino Einstein e Max Planck)? Questa concezione temperata e moderata che calibra le istanze del razionalismo e della ricerca in qualche modo della verità, da un lato, e le istanze del relativismo e del contingentismo storico, dall’altro, trova conferma nella seguente tesi (corroborata da una procedura tecnica e formalizzata): se invece di essere gli esseri umani che ci sembra di essere, fossimo privi di corpo e fossimo cervelli in una vasca, immersi in una soluzione nutritiva connessa al software di un computer che emette impulsi elettro-chimici che ci fanno credere di essere gli uomini normali che abbiamo sempre creduto di essere, noi non saremmo in grado di distinguere o discernere tra la percezione di un cervello in una vasca e la percezione di un essere umano normale. È qui all’opera il concetto e l’esemplificazione di «paniere delle visioni filosofiche» nel senso che la indiscernibilità fra quello che è il nostro stato percettivo e la nostra realtà è una condizione epistemica che legittima sia una componente razionalistica veridica (non tutto è falso, non è vero che non sappiamo nulla e simili, molte credenze sono veridiche e numerose conoscenze sono autentiche), sia il dubbio relativistico e perfino il sospetto scettico sull’oggettività delle nostre conoscenze. Come ha osservato Joseph Margolis (20072), realismo e relativismo non sono incompatibili.
L’etica e il relativismo
Se nell’ambito scientifico e filosofico tesi relativistiche avevano messo in discussione il monismo metodologico e l’avalutatività della scienza che risalivano all’empirismo logico di Rudolf Carnap e al razionalismo critico di Karl R. Popper, la svolta del 21° sec. vede l’affacciarsi di uno scenario nuovo nell’ambito dell’etica in cui emerge il rifiuto di un’impostazione centrata sull’analisi puramente formale, oggettiva e razionale del linguaggio della morale, dunque su una metodologia metaetica chiaramente ispirata dai criteri e dalle regole di rigore scientifico propri della filosofia analitica, anziché sulle sue componenti sostantive connesse all’azione morale, alle disposizioni e agli abiti della razionalità pratica nei confronti dell’agire individuale e delle istituzioni storico-sociali. A tale impostazione si erano opposte sullo scorcio del secondo millennio quelle concezioni (come per es. quella di J.L. Mackie) che, richiamandosi a meccanismi sociali diffusi con i loro effetti di pressione sugli individui e che storicamente si trasformano in valori etico-sociali oggettivi, avevano denunciato l’illusorietà di questo presunto rigore oggettivo del discorso morale, considerando i giudizi di valore enunciati falsi e introducendo conseguentemente una visione relativistica dell’etica. Alla svolta del millennio si delinea una prospettiva che cerca di oltrepassare la dicotomia o il contrasto fra una componente puramente fattuale, descrittiva e cognitiva del discorso morale da un lato e un’ascrizione di valore, una motivazione e un criterio direttivo dell’agire morale dall’altro. Sono David Wiggins e John McDowell che hanno introdotto questa prospettiva nel discorso morale inteso come una costellazione di valori, sentimenti, affetti che non possono essere considerati dall’esterno, al di fuori cioè dei soggetti umani, secondo un presunto punto di vista neutrale e oggettivo, estraneo agli interessi di tali soggetti. Le motivazioni morali, in tale prospettiva, assumono non una qualità naturale, oggettiva, né una qualità non naturale, di tipo platonizzante, ma – sfuggendo alle insidie e alle obiezioni del relativismo – costituiscono una sfera concettuale in cui risultano radicati gli interessi, le motivazioni, le aspirazioni, le propensioni affettive degli uomini nel loro agire pratico. Lungo questa prospettiva l’elemento più significativo e innovativo è costituito dal progetto di filosofia etica delineato da Cora Diamond (2006), che, sulla base di queste premesse, avanza ed elabora un’integrazione dei fattori sostantivi che contribuiscono al discorso e alla condotta morale. Un’integrazione che connette i momenti della riflessione, l’articolazione concettuale in cui hanno parte l’emozione, la sfera degli interessi e delle finalità umani, le scale valoriali delle motivazioni, le memorie. Esemplare, in questo senso, è per la Diamond la storia di Scrooge (il personaggio di Charles Dickens) che da uomo avaro, insensibile e miserabile si trasforma in uomo generoso e amabile dopo una notte di sogni e di incubi nel corso della quale recupera la memoria della sua infanzia, che gli restituisce un positivo rapporto con i bambini che aveva umiliato e scacciato. Il relativismo risulta essere messo in discussione da un’attitudine etica che tematizza il soggetto umano come un essere umano che si riappropria di sentimenti, di memorie, di immaginazioni, di propensioni valoriali dei quali era stato deprivato. Il segno distintivo del discorso etico coincide con questa restituzione dell’uomo intero; si tratta infatti di restituire all’essere umano quei concetti che egli aveva smarrito.
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