relativismo
s. m. – Termine con il quale si indicano, genericamente, teorie o concezioni filosofiche, scientifiche e morali fondate, secondo diverse prospettive, sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non assoluto, della conoscenza della realtà o dei giudizi morali. Durante il 20° sec. il dibattito sul r. si è sviluppato principalmente intorno ai temi dell’epistemologia, in merito alla conoscenza scientifica, al linguaggio, ai problemi della cognizione, e intorno ai temi morali, con particolare riguardo alla diversità e pluralità dei contesti storici, sociali, politici, religiosi, relativamente all’emergere di costumi, sistemi di valori, ordinamenti politici, pratiche sociali, pluralismo delle culture. All’inizio del 21° sec., il confronto fra sostenitori e oppositori di concezioni a diverso titolo identificabili come relativistiche, appare più mitigato rispetto alle forti contrapposizioni che, principalmente sul versante epistemologico, hanno marcato gli ultimi decenni del secolo scorso (sono significative, in tal senso, le polemiche sorte intorno alle tesi di filosofi della scienza quali T. Kuhn, P. Fayerabend, K. Popper). Temi affini a quelli del r. sono emersi inoltre dalla riflessione sulla concezione della ‘società aperta’, come anche, da diverse prospettive, nei dibattiti sul neopragmatismo, sul ‘pensiero debole’, su taluni aspetti del contestualismo. La concezione di un r. inteso non come sbrigativo livellamento di diverse culture e sistemi di valori, considerati tutti equivalenti, ma come apertura alla considerazione dei diversi fattori storico-culturali che incidono nelle diverse culture e mentalità costituisce un’acquisizione largamente, seppure secondo diverse accezioni, condivisa da molteplici prospettive teoriche. In tal senso è opportuno distinguere una concezione radicale e assoluta del r. – che di solito non trova espliciti assertori, ma viene tratteggiata da oppositori che riducono il r. a esiti scettici e nichilistici, altrettanto dogmatici e ‘assoluti’ che le teorie contestate –, da concezioni più aperte, in base alle quali si riferisce l’assetto di costellazioni di saperi e di valori a strutture concettuali e teoriche di riferimento o a forme antropologiche di vita. Relativamente alla possibilità della conoscenza scientifica s'intende per r. la consapevolezza di una relazionalità che riconduce gli enunciati scientifici non entro l’indagine delle leggi ‘assolute’ della natura, ma entro contesti relativi a strutture teoriche e sperimentali. Tale riflessione è esplicitamente avviata dalla rivoluzione scientifica del 16° e 17° sec. e giunge fino alle acquisizioni teoriche del 20° sec. nei campi della fisica. Tale r. risulta ulteriormente corroborato dalla consapevolezza che non esistono e non si danno dati osservativi neutrali posseduti alinguisticamente, come hanno messo in luce le filosofie del linguaggio e gli sviluppi teorici della filosofia postanalitica, ribadendo che i dati osservativi sono sempre «carichi di teoria» (theory laden). Nelle riflessioni più recenti sull’epistemologia, sulla filosofia della scienza e del linguaggio si tende a ridimensionare e compartimentare le pretese del modello scientifico-matematico della certezza, per superare l’antagonismo fra r. e razionalismo e ricalibrare le reciproche aspettative di tali prospettive alla luce sia della nuova attenzione al linguaggio ordinario, sia della positiva assunzione del pluralismo metodologico, della varietà dei modi di praticare le teorie scientifiche, anche tenendo conto delle componenti valoriali della scienza, del ruolo e del contesto degli assetti storico-culturali. Tendenzialmente, alle pretese di teorie intese come ‘rispecchiamento’ di verità naturali si sostituiscono approcci consapevoli dell'intrinseca storicità del sapere scientifico e della razionalità stessa. Il vasto dibattito originato, nel corso del 20° sec., dal r. antropologico si è riverberato nell’analisi del linguaggio con l’emergere di teorie del riferimento, con la relativizzazione della nozione di verità logica (come era intesa, per es. nelle teorie di calcolo logico) in favore di teorie incentrate sull’apprendimento e sulla pratica del linguaggio entro una determinata forma di vita (S. Soames, Philosophical analysis in the twentieth century, 2 voll., 2003). Alla luce delle esigenze di una razionalità pratica da spendere in un mondo ‘ordinario’ e all’interno della quale possono coesistere diverse istanze, sono emerse significative critiche ai problemi classici del r. e dello scetticismo, considerati come originati da un atteggiamento filosofico e metafisico ‘innaturale’ (M. Williams, Unnatural doubts. Epistemological realism and the basis of scepticism, 1996; Problems of knowledge. A critical introduction to epistemology, 2001). Le aspettative e i problemi affrontati dalle concezioni razionalistiche e relativistiche classiche derivano dalla ricerca ricerca metafisica di verità prime e inconcusse e producono argomentazioni e serrate controargomentazioni che hanno poco a spartire con l’esperienza e l’uso ordinario della razionalità. Assai diffuso, a partire dagli ultimi decenni del 20° sec., è il dibattito circa il r. etico, nel quale convergono temi etici, bioetici e religiosi. Nei sistemi di valori etici e sociali, considerati nell’intrinseca storicità e relatività dei contesti in cui sorgono e si affermano norme e comportamenti, si ravvisano, a seconda che si sia favorevoli o meno al pluralismo e al r. delle etiche, proficui arricchimenti o, viceversa, pericolose criticità. Il dibattito sull’etica si è intrecciato con quello sullo statuto linguistico dei giudizi morali e delle teorie della verità morale che vi sottostanno, accentuando gli aspetti che rendono problematico o impossibile ravvisare fondamenti e principi morali universalistici, ossia validi per un soggetto umano ‘trascendente’, e naturali, ossia fondati sulla natura dell’uomo. Da parte religiosa, e principalmente nel dibattito interno alla cristianità su cui sono intervenuti i pontefici romani in diverse encicliche (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 1998; Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 1993; Benedetto XVI, Spe salvi, 2007), si è particolarmente insistito sulla considerazione del r. etico come risultato dei relativismi epistemologici, scientifici, antropologici e culturali diffusisi in Europa a cominciare dalla prima modernità. Si è polemicamente identificato come negativo e inevitabile l’esito nichilistico e scettico di tali atteggiamenti, incitando a distaccarsi dal r. per recuperare una morale fondata sull’autentica ‘natura’ dell’uomo – intesa nella sua accezione religiosa – da contrapporre ai pericoli di morali relativistiche.