RELATIVITÀ
Relatività di Christian Møller
sommario: 1. Introduzione e panorama storico: a) il principio di relatività speciale. Sistemi inerziali; b) relatività spaziale; c) le leggi della meccanica newtoniana; d) trasformazioni galileiane; e) teoria di Maxwell dell'elettromagnetismo. L'etere; f) tentativi di individuare il sistema assoluto di quiete dell'etere. 2. La teoria della relatività speciale: a) analisi dei concetti di spazio e di tempo. Simultaneità; b) coordinate di Lorentz; c) trasformazioni di Lorentz. Relatività della simultaneità; d) la contrazione di Lorentz; e) ritardo degli orologi standard in moto uniforme; f) legge di trasformazione delle velocità. Formula di Fresnel; g) la velocità massima di un segnale; h) orologi standard in moto arbitrario. Effetto Doppler. Prove sperimentali; i) effetto dei gemelli e relativo paradosso; j) meccanica relativistica del punto; k) la trasformazione della quantità di moto e dell'energia; l) equivalenza tra energia e massa; m) relatività spaziale in coordinate cartesiane; n) lo spazio quadridimensionale di Minkowski; o) formulazione matematica del principio di relatività; p) le leggi fisiche in forma di equazioni vettoriali e tensoriali a quattro dimensioni; q) relatività spaziale in coordinate curvilinee; r) spazio curvo riemanniano a tre dimensioni. 3. Relatività generale: a) il principio di relatività generale; b) campi gravitazionali non permanenti; c) l'uguaglianza tra massa gravitazionale e massa inerziale; d) il principio di equivalenza di Einstein; e) l'influenza dei campi gravitazionali sulle misure di spazio e di tempo; f) formulazione delle leggi fisiche in presenza di campi gravitazionali non permanenti; g) campi gravitazionali permanenti; h) l'approssimazione newtoniana; i) campi gravitazionali intensi e alte velocità; j) le equazioni del campo gravitazionale; k) verifiche sperimentali dei tre classici effetti di Einstein. 4. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione e panorama storico
La teoria della relatività e la teoria dei quanti, entrambe sviluppate nei primi venticinque anni del XX secolo, sono considerate tra i traguardi intellettuali più elevati della fisica di tutti i tempi. Queste teorie hanno comportato una revisione, o meglio una generalizzazione, di tutti i concetti fisici e hanno determinato un cambiamento radicale del nostro modo di pensare, cambiamento che non ha avuto l'eguale dall'inizio della fisica moderna all'epoca di Galilei. La teoria della relatività, argomento del presente articolo, viene solitamente divisa in due parti, la teoria speciale e la teoria generale della relatività.
a) Il principio di relatività speciale. Sistemi inerziali
La teoria della relatività speciale fu formulata da Einstein nel 1905. Essa si basa sull'assioma secondo il quale ‟tutti i fenomeni fisici, a parità di condizioni, si evolvono allo stesso modo in ogni sistema inerziale". Questo assioma è noto con il nome di ‛principio di relatività speciale'. Già da alcuni secoli questo principio era stato riconosciuto valido per tutti i fenomeni meccanici e sarà quindi opportuno, per illustrarne il contenuto, considerare dapprima processi puramente meccanici.
In primo luogo dobbiamo precisare che cosa si intende con le espressioni ‛sistema inerziale' e ‛a parità di condizioni'. Secondo la definizione classica, si chiama sistema inerziale un sistema di riferimento rigido che si muove con velocità costante rispetto alle lontane ‛stelle fisse' o, più precisamente, rispetto alla distribuzione media della materia cosmica. Un sistema di riferimento rigido è un'idealizzazione o un'estensione del concetto di corpo rigido ed è costituito da ‛punti di riferimento' con mutue distanze invariabili. Ad esempio la Terra definisce in tutto lo spazio un riferimento rigido, costituito dai punti che sono in quiete rispetto alla Terra stessa. Naturalmente il moto di un corpo in genere cambia notevolmente a seconda del sistema di riferimento da cui è osservato. In realtà questo moto ha un significato preciso soltanto rispetto a un assegnato sistema di riferimento.
Siano I e I′ due diversi sistemi inerziali e si consideri il sistema meccanico più semplice, consistente in una singola particella P dotata inizialmente, rispetto a I, di una certa velocità in una data direzione. Sotto l'influenza di forze assegnate in I, la particella descriverà una ben determinata traiettoria rispetto a I. Si consideri ora una nuova situazione fisica in cui una particella P′ identica a P è dotata inizialmente, rispetto a I′, della stessa velocità che P aveva rispetto a I. Ammettiamo inoltre che le forze agenti su P′ abbiano, rispetto a I′, la stessa intensità e direzione delle forze agenti su P in I. Abbiamo così realizzato ‛uguali condizioni' in I e I′ e il principio di relatività speciale afferma che il moto di P′ rispetto a I′ sarà identico al moto di P rispetto a I.
b) Relatività spaziale
Il caso più semplice di relatività è quello della ‛relatività spaziale', che sussiste quando il sistema I′ è ottenuto da I attraverso una rotazione, oppure una traslazione, oppure attraverso entrambe le trasformazioni. Dalla relatività spaziale discende che lo spazio fisico, che è l'ambiente in cui si svolgono i fenomeni fisici, è isotropo e omogeneo. Il più semplice spazio matematico di questo tipo è lo spazio euclideo e per oltre duemila anni si è ritenuto come cosa certa che lo spazio euclideo rispecchiasse esattamente tutte le proprietà geometriche dello spazio fisico. È questo un fatto che, in linea di principio, può e deve essere stabilito sperimentalmente all'interno di ogni sistema inerziale I, misurando distanze e angoli mediante regoli rigidi standard in quiete rispetto a I. Misure del genere, anche le più accurate, eseguite sulla Terra, non hanno mai rilevato alcuna deviazione dai teoremi della geometria euclidea.
In uno spazio euclideo si può introdurre un sistema di coordinate cartesiane S: (x, y, Z) in molti modi diversi, scegliendo tre piani mutuamente ortogonali e misurando le distanze x, y, z di ciascun punto dello spazio da questi piani. La relatività spaziale si può allora esprimere in forma matematica dicendo che le leggi della meccanica hanno forma invariante rispetto al gruppo delle trasformazioni ortogonali non omogenee delle coordinate (x, y, Z). Ciò implica che le leggi della meccanica possono essere espresse in forma di relazioni vettoriali e tensoriali.
Non sempre la relatività spaziale è apparsa così evidente come appare oggi. Nella Grecia antica Aristotele sosteneva che lo spazio fisico agisce sui fenomeni meccanici come uno spazio anisotropo, nonostante la sua isotropia geometrica. Infatti la nostra esperienza quotidiana ci dice che un corpo non soggetto ad alcuna azione da parte nostra si muove verso il basso o verso l'alto. Perciò, indicando con S un sistema cartesiano con l'asse z verticale e con S′ un altro sistema con l'asse z′ capovolto rispetto al precedente, due particelle libere identiche aventi la medesima velocità iniziale rispetto a S e a S′, rispettivamente, non avranno moti identici rispetto a S e a S′, in apparente contraddizione con la relatività spaziale. Tuttavia la scoperta di Newton secondo la quale la caduta libera è dovuta all'azione di una forza, la forza di gravità causata dalla presenza della Terra, ha mostrato che l'apparente violazione della relatività spaziale può essere attribuita al fatto che nei sistemi S e S′ non si hanno uguali condizioni. In realtà, per realizzare condizioni uguali nei sistemi S e S, ccorrerebbe capovolgere la Terra assieme a S′ e questo naturalmente è impossibile. Benché sulla Terra uguali condizioni nei due sistemi S e S′ non siano di fatto realizzabili, la relatività spaziale fu presto riconosciuta come un carattere essenziale di tutte le leggi della natura.
c) Le leggi della meccanica newtoniana
La scoperta dovuta a Galileo del principio d'inerzia (o primo principio di Newton) fu un ulteriore passo necessario verso il riconoscimento dell'equivalenza di tutti i sistemi inerziali agli effetti della descrizione dei fenomeni meccanici. Secondo il primo principio di Newton, le particelle libere si muovono con velocità costante attraverso lo spazio ‛assoluto', spazio che Newton identificava con il sistema inerziale nel quale il baricentro del sistema solare è in quiete. Contemporaneamente esse si muovono con velocità costante rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, cosicché il principio d'inerzia vale per tutti questi sistemi, in accordo col principio di relatività speciale. Nella fisica pregalileiana invece non c'era posto per un tale principio. Secondo la filosofia aristotelica, in un sistema di riferimento solidale con la Terra, un corpo abbandonato a se stesso mentre si trova in moto dovrebbe rallentare e infine fermarsi. Tale sistema avrebbe perciò un ruolo privilegiato rispetto a tutti gli altri riferimenti.
Nella meccanica newtoniana il moto di una particella sotto l'azione di una forza F è descritto dal secondo principio, secondo il quale l'accelerazione a impressa alla particella è proporzionale alla forza. Quindi
ma=F (1)
dove il fattore di proporzionalità m, massa inerziale, è una misura dell'inerzia opposta dalla particella a variazioni di moto. Insieme allo spazio assoluto, Newton introdusse la nozione di ‛tempo assoluto', che rappresenta un ordinamento temporale universale degli eventi fisici, indipendente dallo stato di moto del sistema di riferimento. Nella (1) la quantità a indica la rapidità di variazione della velocità, misurata nel sistema inerziale assoluto. Tuttavia, come vedremo tra poco, secondo la cinematica galileiana, a è anche uguale all'accelerazione rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale.
d) Trasformazioni galileiane
Siano S: (x, y, z) e S′: (x′, y′, z′) due sistemi di coordinate cartesiane solidali con due diversi sistemi inerziali I e I′. Con opportune rotazioni e traslazioni degli assi coordinati possiamo far sì che S′ si muova rispetto a S nella direzione dell'asse x con una velocità v e che gli assi di S e di S′ coincidano a un certo istante, per esempio t=0. Un qualsiasi evento (come la collisione tra due particelle o l'accensione di una lampadina) ha ‛coordinate spazio-temporali' (x, y, z, t) rispetto a S e (x′, y′, z′, t′) rispetto a S′. Il ‛senso comune' ci suggerisce che la relazione tra questi due insiemi di coordinate dello stesso evento sia data dalla ‛trasformazione di Galileo'
x=x′+vt′, y=y′, z=z′, t=t′. (2)
L'ultima equazione esprime l'universalità del tempo newtoniano; le rimanenti equazioni si ottengono subito se si fa la ragionevole ipotesi che i regoli in quiete in S′ che misurano le distanze x′, y′, z′ abbiano la stessa lunghezza dei regoli in quiete in S che determinano i numeri x, y, z.
La velocità di una particella, definita come ‛cambiamento di posizione' nell'unità di tempo, è rappresentata in un riferimento S da un vettore u di componenti ux, uy, uz, pari alle derivate temporali delle coordinate x, y, z. Perciò, derivando le equazioni (2), si ottiene l'ordinario teorema di composizione delle velocità
ux=ux′+v, uy=uy′, uz=uz′ (3)
Un'ulteriore derivazione fornisce, per le componenti del vettore accelerazione, le relazioni
le quali mostrano che l'accelerazione rimane invariata per effetto di trasformazioni galileiane. Poiché nella (1) anche m e F sono quantità universali, resta dimostrato che le leggi della meccanica newtoniana sono valide in qualsiasi sistema inerziale, in accordo col principio di relatività speciale.
Ciò equivale a dire, in linguaggio matematico, che le equazioni newtoniane della meccanica hanno forma invariante sia per le trasformazioni galileiane (2) sia per le trasformazioni ortogonali non omogenee delle coordinate cartesiane. Dal punto di vista fisico la validità del principio di relatività speciale per tutti i fenomeni meccanici implica l'impossibilità di stabilire, con esperimenti puramente meccanici, quale tra i sistemi inerziali sia quello assoluto. Un giocatore di tennis che si trovi a bordo di una nave in moto con velocità costante su un lago tranquillo non deve cambiare la propria tecnica: infatti la palla si comporta esattamente come se la nave non si muovesse. Al fine di individuare lo spazio assoluto è naturalmente necessario studiare dei fenomeni fisici per i quali il principio di relatività speciale non sia valido. Si credette a lungo che i fenomeni elettromagnetici fossero adatti a questo scopo.
e) Teoria di Maxwell dell'elettromagnetismo. L'etere
Verso il 1870 Maxwell sviluppò una teoria che rendeva conto di tutti i fenomeni elettromagnetici conosciuti. Le equazioni di Maxwell contengono una costante,
c=3×1010 cm/s, (5)
che è stata determinata con misure puramente elettromagnetiche. La teoria di Maxwell inoltre predice l'esistenza di onde elettromagnetiche che si propagano nel vuoto proprio con questa velocità, indipendentemente dalla velocità della sorgente che le genera. La costante c risulta sorprendentemente vicina alla velocità media di un segnale luminoso lungo un percorso chiuso, quale è stata determinata da A. H. L. Fizeau (1849), J. B. L. Foucault (1865) e successivamente da molti altri sperimentatori. Questo fatto indusse Maxwell a ritenere che le onde luminose fossero particolari onde elettromagnetiche di lunghezza d'onda molto piccola e che, quindi, tutti i fenomeni ottici potessero essere descritti dalle equazioni di Maxwell.
L'ipotesi di Maxwell fu ampiamente verificata, negli anni successivi, da numerosi esperimenti ottici. La fusione di due campi della fisica fino allora completamente separati, l'ottica e l'elettromagnetismo, è uno degli aspetti più affascinanti e convincenti della teoria di Maxwell. Come vedremo, la teoria della relatività ha più volte condotto ad analoghe fusioni di rami della fisica separati e ha in tal modo contribuito in maniera essenziale all'unità della fisica.
Il successo della teoria maxwelliana della luce determinò un ritorno alla vecchia idea dell'‛etere luminifero', inteso come veicolo di tutti i fenomeni elettromagnetici e si suppose generalmente che il sistema di quiete dell'etere, nel quale si riteneva che le equazioni di Maxwell fossero valide esattamente, coincidesse col sistema di riferimento assoluto di Newton.
f) Tentativi di individuare il sistema assoluto di quiete dell'etere
Misurando diverse caratteristiche di un'onda luminosa, come la velocità e la direzione di propagazione o la frequenza della luce, sarebbe possibile, in teoria, individuare il sistema di quiete dell'etere. In questo riferimento la velocità della luce nel vuoto è c in tutte le direzioni, ma in un sistema inerziale in moto con velocità assoluta v, il teorema di composizione delle velocità (3) fornisce per la velocità della luce un valore diverso che dipende da v e dalla direzione di propagazione del segnale luminoso. Misure della velocità della luce eseguite sulla superficie terrestre con i metodi di Fizeau e Foucault avrebbero dovuto, pertanto, in linea di principio, permettere di determinare la velocità assoluta v della Terra e la ‛corrente d'etere' o ‛vento d'etere', − v. Tuttavia, un'analisi più accurata mostra che la velocità media della luce lungo un percorso chiuso sulla Terra dipende soltanto da termini che sono dello stesso ordine di (v/c)2: la precisione degli esperimenti in questione non consentiva di misurare quantità di questo ordine di grandezza (v. Møller, 19722, p. 14).
Il primo esperimento sufficientemente preciso inteso a mettere in evidenza la corrente d'etere fu ideato e realizzato da A. A. Michelson negli anni ottanta del secolo scorso. L'idea consisteva nel far incidere e riflettere su uno specchio due raggi di luce, 1 e 2, lungo percorsi diversi e nel misurare, mediante delicati sistemi interferometrici, la differenza dei tempi impiegati dai due raggi. Se il raggio 1 viaggia lungo la supposta direzione del vento d'etere e il raggio 2 percorre una distanza uguale a quella di 1, ma in direzione perpendicolare, la formula (3) dà per la differenza dei tempi (v. Møller, 19722, p. 25)
Pertanto una misura abbastanza accurata di Δt permette di ottenere dalla (6) la corrente d'etere v. Questa equazione è in accordo con l'osservazione secondo cui un nuotatore impiega meno tempo ad attraversare un fiume e a tornare indietro che a percorrere la stessa distanza nel verso della corrente e ritorno.
Gli esperimenti di Michelson e dei suoi collaboratori non diedero i risultati aspettati. Essi mostrarono in modo evidente che la velocità dell'etere deve essere molto più piccola della velocità della Terra nella sua orbita attorno al Sole. Ciò fu confermato da esperienze successive più accurate, in particolare da quella di G. Joss (1930) che diede come limite superiore per il vento d'etere la velocità di 1,5 km/s. Un esperimento eseguito da Essen (1965) con un apparato sperimentale analogo, basato però sull'uso di microonde anziché di luce visibile, diede lo stesso risultato con una precisione anche maggiore di quella ottenuta negli esperimenti ottici.
Come accennato sopra, un altro metodo per individuare il sistema di quiete dell'etere consiste nel misurare la frequenza della luce emessa da una sorgente in movimento. Secondo la teoria dell'etere assoluto questa frequenza dovrebbe dipendere sia dalla velocità assoluta v della Terra, sia dalla velocità relativa della sorgente rispetto all'osservatore. Pertanto, come conseguenza di ciò, due maser (o sorgenti di radiazione elettromagnetica) identici, con raggi incidenti propagantisi in verso opposto, dovrebbero avere frequenze caratteristiche leggermente diverse dipendenti da v. La differenza di frequenza può essere misurata contando i battimenti interferenziali tra le frequenze dei due maser, ottenendo cosi un modo per determinare la velocità dell'etere. Esperimenti di questo tipo eseguiti da Townes e altri (1958) non rivelarono traccia di vento d'etere e in base alla precisione dell'apparato impiegato gli autori conclusero che la velocità dell'etere doveva essere minore di 1/30 km/s, ossia 45 volte più piccola del limite superiore ottenuto dalle misure ottiche e circa 1.000 volte minore della velocità della Terra rispetto al Sole (v. Møller, 19722, pp. 491-492).
La scoperta dell'effetto Mössbauer, avvenuta nel 1958, ha fornito un nuovo mezzo molto preciso per misurare piccolissime differenze di frequenza e ha dato luogo a esperimenti con i quali il limite superiore della velocità dell'etere è stato ulteriormente ridotto. Un esperimento eseguito da Champaney e altri nel 1965 ha ridotto la velocità dell'etere all'intervallo v=1,6±2,8 m/s, che equivale in pratica al valore zero. Naturalmente, è impossibile dimostrare sperimentalmente che una quantità vale esattamente zero. Tuttavia, visto che il limite superiore della velocità dell'etere è andato progressivamente diminuendo col crescere della precisione degli apparati sperimentali e che ora è pari ad appena 1/20.000 del valore presunto originariamente, non sembra esservi dubbio che il concetto di etere, così proficuo al tempo di Faraday e di Maxwell, debba essere definitivamente abbandonato.
2. La teoria della relatività speciale
a) Analisi dei concetti di spazio e di tempo. Simultaneità
I risultati degli esperimenti cui si è accennato nel par. f del cap. 1 sono in accordo con l'ipotesi che in tutti i sistemi inerziali, a parità di condizioni, sia i fenomeni elettromagnetici sia i fenomeni meccanici abbiano la medesima evoluzione, ossia con l'ipotesi che il principio di relatività speciale sia valido per tutti questi fenomeni. Indipendentemente dai risultati sperimentali, altri argomenti di natura più propriamente filosofica si possono addurre in favore del principio di relatività speciale; il risultato dell'esperienza di Michelson invero ha avuto soltanto una parte secondaria nelle considerazioni di Einstein. In primo luogo il principio di relatività speciale implica un'enorme semplificazione nel nostro modo di descrivere la natura. Se è vero, come afferma il principio di relatività speciale, che le leggi della natura hanno la stessa forma in tutti i sistemi inerziali, allora non è più necessario effettuare la scomoda trasformazione da un sistema di riferimento solidale con la Terra a un sistema ‛assoluto'. In secondo luogo, il principio di relatività speciale contribuisce notevolmente all'unità della fisica. La suddivisione della fisica in diverse discipline, e cioè in meccanica, elettrodinamica, fisica dei mesoni ecc., è soltanto una convenzione didattica che non trova riscontro in natura. Infatti nessun esperimento elettromagnetico può essere effettuato senza il concorso di parti meccaniche e nessun esperimento meccanico è indipendente dalla struttura elettromagnetica e mesonica della materia. Pertanto la rigorosa validità, generalmente ammessa, del principio di relatività speciale per i fenomeni meccanici implica che le forze elettromagnetiche e nucleari, responsabili della costituzione della materia, siano anch'esse relativistiche. Ebbene, è difficile immaginare come si possa soddisfare questa condizione senza ammettere che il principio di relatività speciale sia rigorosamente valido anche per tutti i fenomeni elettromagnetici, mesonici, ecc.
Nel lavoro fondamentale di Einstein (v., 1905), il principio di relatività speciale veniva assunto come ipotesi fondamentale su cui basare la descrizione della natura e si mostrava come ciò implicasse un completo cambiamento delle nostre nozioni di spazio e di tempo. Supponiamo che due gruppi di fisici sperimentali abbiano installato i rispettivi laboratori in due diversi sistemi inerziali I e I′ e che, indipendentemente l'uno dall'altro, effettuino esperimenti allo scopo di stabilire le leggi fondamentali dell'elettrodinamica nel vuoto; se sono abbastanza abili, è chiaro che alla fine entrambi i gruppi giungeranno a stabilire le equazioni di Maxwell, poiché secondo il principio di relatività speciale i risultati di misure effettuate in I e I′ con identiche apparecchiature sperimentali devono essere uguali. Pertanto le equazioni di Maxwell sono valide in tutti i sistemi inerziali e di conseguenza la velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche deve essere pari a c in tutti i sistemi inerziali. Questo è in stridente contrasto con i concetti cinematici tratti dall'esperienza quotidiana, che sono espressi dal teorema di composizione (3) conseguenza delle trasformazioni di Galileo (2).
Perciò la nuova certezza, acquisita mediante esperimenti estremamente accurati tutti in accordo con il principio di relatività speciale, rende necessaria una revisione di quei concetti cinematici che, per abitudine, avevano assunto una validità a priori. Ora Einstein poté mostrare che un'analisi più approfondita del concetto di velocità, o meglio una discussione dei metodi con cui si può effettuare in concreto una misura di velocità, rende possibile una descrizione non ambigua dei fenomeni fisici, in accordo con il principio di relatività speciale.
Quando in un sistema inerziale un segnale luminoso viene inviato da un punto A lungo un cammino chiuso, come negli esperimenti di Fizeau e di Foucault, si definisce la velocità media della luce come il rapporto tra la lunghezza l del percorso totale e il tempo Δt trascorso tra la partenza e il ritorno del segnale in A. La lunghezza l può essere misurata mediante regoli standard in quiete in I e il tempo Δt può essere letto su un orologio standard in quiete nel punto A. Pertanto la velocità media può essere determinata sperimentalmente in qualsiasi sistema I e il principio di relatività speciale afferma che in tutti i sistemi inerziali si otterrà come risultato lo stesso valore c. Tuttavia, se un segnale luminoso viaggia in linea retta in I da un punto di riferimento A a un altro punto B, non è facile determinare con metodi oggettivi la differenza dei tempi Δt=t2−t1. Per misurare gli istanti t1 e t2, di partenza e di arrivo, occorre avere un orologio in A e un altro orologio (identico) in B e occorre anche essere sicuri che essi siano correttamente sincronizzati, cioè che le lancette dei due orologi si trovino nella stessa posizione allo stesso istante.
Nella vita quotidiana generalmente si sincronizzano orologi posti in luoghi diversi mediante il segnale orario di una stazione radio. Se il segnale viene inviato nell'istante in cui l'orologio della stazione segna zero, tutti gli orologi della città vengono regolati a zero all'arrivo del segnale orario. Questo procedimento è sufficientemente corretto per la descrizione di fenomeni che si svolgono entro una regione di spazio limitata, poiché le velocità osservate nella vita di ogni giorno, anche quelle degli aerei supersonici, sono trascurabili rispetto alla velocità di propagazione del segnale orario e questa può perciò essere considerata infinita. Tuttavia, per sincronizzare esattamente gli orologi in regioni più estese, è necessario conoscere la velocità di propagazione del segnale orario. D'altra parte, una misura di velocità presuppone, come si è accennato sopra, la sincronizzazione di due orologi in posizioni diverse e questo era proprio il problema che volevamo risolvere con l'aiuto del segnale orario.
Qualsiasi altro metodo per sincronizzare gli orologi in A e in B, come per esempio il trasporto di un terzo orologio da A a B, urta contro la stessa difficoltà di fondo. Ovviamente il concetto di simultaneità di due eventi che si svolgono in posti diversi non ha un significato oggettivo esatto al di fuori del campo dell'esperienza quotidiana. In questa situazione dobbiamo dare una definizione precisa di ciò che intendiamo per contemporaneità di eventi all'interno di un sistema inerziale; allora anche la nozione di velocità acquista un significato preciso. Ora, come fu mostrato da Einstein, è possibile dare una definizione coerente di simultaneità all'interno di ogni sistema inerziale in modo che la velocità della luce sia costante e pari a c in tutti questi riferimenti.
b) Coordinate di Lorentz
Immaginiamo di trovarci in un arbitrario sistema inerziale I e di avere a disposizione un gran numero di orologi standard identici. Questi orologi verranno situati in tutti i punti di I in cui vogliamo effettuare misure di tempo. Allo scopo di sincronizzare gli orologi useremo un segnale luminoso che parte da un punto O quando l'orologio in O segna un istante t0 prestabilito. Quindi l'orologio situato in un altro punto P a distanza l da O viene regolato sul tempo t0+l/c, quando il segnale arriva in P. In questo modo abbiamo stabilito una ben precisa descrizione temporale in I e anche le nozioni di velocità, accelerazione ecc. acquistano in I un esatto significato fisico.
Basandosi sul risultato sperimentale secondo cui la velocità media della luce lungo un percorso chiuso è c (Fizeau, Foucault, Michelson), si vede facilmente che la regolazione degli orologi effettuata con questo procedimento è indipendente sia dalla scelta del centro di regolazione O sia dall'istante t0 di partenza del segnale (v. Møller, 19722, pp. 32-33). Ciò implica che la velocità della luce sia costantemente pari a c in tutte le direzioni e questa è una premessa essenziale per la validità delle equazioni di Maxwell in un sistema inerziale arbitrario I.
Le distanze spaziali in I sono misurate mediante regoli standard in quiete in I e, come accennato nel cap. 1, È b, tali misure permettono di determinare la geometria dello spazio in I. Possiamo mantenere un buon accordo con tutte le esperienze se postuliamo che la geometria ottenuta in questo modo sia quella cuclidea. Ciò equivale a dire che possiamo introdurre in I un sistema di coordinate cartesiane (x, y, z). Cosi abbiamo fissato in I un ‛sistema di Lorentz' S di coordinate spazio-temporali mediante le quali ogni evento fisico è caratterizzato da quattro numeri (x, y, z, t). Le coordinate spaziali (x, y, z) sono le coordinate cartesiane del punto del riferimento in cui l'evento si svolge e la coordinata temporale t dell'evento viene letta sull'orologio che si trova, in quiete, nello stesso punto di riferimento.
In quanto precede, il sistema inerziale I è totalmente arbitrario. Sia S′: (x′, y′, z′, t′) un sistema di Lorentz introdotto in un altro sistema inerziale I' mediante lo stesso procedimento, ossia effettuando le misure con regoli e orologi dello stesso tipo di quelli adottati in I, con l'unica differenza che questi strumenti di misura sono ora in quiete in I′. È chiaro allora che la velocità della luce in S′ è ancora pari a c. Un problema importante è ora quello di cèrcare il legame tra le coordinate (x, y, z, t) e (x′, y′, z′, t′) di uno stesso evento nei due sistemi di Lorentz S e S′, legame che nella fisica prerelativistica era costituito dalla trasformazione di Galileo.
c) Trasformazioni di Lorentz. Relatività della simultaneità
La legge di trasformazione relativistica corrispondente alla trasformazione di Galileo consegue unicamente dal principio di relatività speciale e dal fatto che la velocità della luce ha il medesimo valore c sia in S sia in S′, una volta che si adotti la descrizione dei tempi sopra definita. In particolare è facile vedere che la (2) deve essere sostituita dalla trasformazione (speciale) di Lorentz
x=γ(x′+vt′), y=y′, z=z′,
t=γ(t′+vx′/c2), (7)
con γ=1/√-1-−-v-2-/-c-2.
Si osserva immediatamente che la quantità
s2=x2+y2+z2−c2t2 (8)
è invariante rispetto a queste trasformazioni. La stessa proprietà sussiste anche rispetto alle trasformazioni generali omogenee di Lorentz, ottenute combinando le (7) con rotazioni spaziali degli assi in S e in S′.
Le più generali trasformazioni non omogenee di Lorentz si ottengono aggiungendo un arbitrario spostamento delle origini delle coordinate spaziali e temporali. Siano (Δx, Δy, Δz, Δt) le differenze tra le coordinate spazio-temporali di due eventi arbitrari. È chiaro che queste differenze di coordinate si trasformeranno secondo una trasformazione di Lorentz omogenea. Pertanto la più generale trasformazione di Lorentz è una trasformazione lineare che lascia invariata la quantità
Δs2=Δx2+Δy2+Δz2−c2 Δt2 (8a)
Nel caso particolare delle trasformazioni (7) si ha
Δx=γ(Δx′+v Δt′), Δy=Δy′, Δz=Δz′, (9)
Δt=γ(Δt′+vΔx′/c2). (10)
Risolvendo rispetto alle variabili con apice otteniamo le relazioni inverse
Δx′=γ(Δx−vΔt), Δy′=Δy, Δz′=Δz, (11)
Δt′=γ(Δt−vΔx/c2). (12)
Nel caso Δt′=0, la (10) dà Δt=γv Δx′/c2≠0, a meno che non sia Δx′=0: due eventi simultanei in S′ non sono generalmente tali in S. Pertanto la nozione di simultaneità ha perduto il suo significato assoluto e conserva un significato ben definito soltanto rispetto a un assegnato sistema inerziale.
Se nella (7) si fa tendere c a infinito si ottiene la trasformazione di Galileo (2); o, più realisticamente, se v/c è cosi piccqlo da permetterci di trascurare v2/c2 e v Δx′/c2 nella (10), si ottiene Δt=Δt′. Ciò significa che la nozione di simultaneità è approssimativamente ‛assoluta' per regioni di spazio Δx′ limitate e per una classe limitata di sistemi inerziali.
d) La contrazione di Lorentz
Consideriamo un regolo in quiete sull'asse x′ del sistema S′. n base alla definizione di coordinate cartesiane la sua ‛lunghezza di quiete' l0 è pari a
l0=x2′−x1′=Δx′, (13)
dove x1′ e x2′ sono le coordinate x′, costanti, dei due estremi del regolo. Se definiamo la lunghezza del regolo mobile in S come la distanza tra le posizioni simultanee dei due estremi, otteniamo dalla prima equazione (11), ponendo Δt=0,
l0=γΔx, l=Δx=l0 √-1-−-v-2-/-c-2. (14)
Analogamente, dalle ultime due equazioni (11) segue che un regolo, posto in S′ perpendicolarmente all'asse x′, ha la stessa lunghezza in S e in S′. Pertanto un corpo rigido in moto con velocità v rispetto a un sistema inerziale si contrae nella direzione longitudinale di una quantità pari al ‛fattore di Lorentz' √-1-−-v-2-/-c-2. È bene sottolineare che questo risultato vale in qualsiasi sistema inerziale e che la nozione di lunghezza di un regolo, proprio come la nozione di simultaneità, ha un significato definito soltanto rispetto a un assegnato sistema inerziale.
Si potrebbe ritenere che il fenomeno della contrazione ora descritto sia solo un effetto illusorio, dovuto alla nostra definizione di simultaneità che interviene a sua volta nella definizione di lunghezza di un regolo mobile data sopra. Tuttavia, se si considerano due regoli M1 ed M2 con la stessa lunghezza di quiete l0, in moto lungo l'asse x in S con velocità rispettive v e −v, questi avranno la stessa lunghezza l rispetto a S. In base alla definizione di i data sopra, ciò significa che la sovrapposizione degli estremi di sinistra di M1 e M2 deve essere contemporanea alla sovrapposizione dei loro estremi di destra. Indichiamo con A e B i punti di S in cui avvengono queste sovrapposizioni. Una successiva misura della distanza AB deve fornire allora la lunghezza contratta l. Il fenomeno della contrazione è perciò un effetto fisico reale che in linea di principio può essere verificato sperimentalmente.
e) Ritardo degli orologi standard in moto uniforme
Consideriamo un orologio standard in quiete in S′ in modo tale che risulti Δx′=0 per due eventi contrassegnati da due posizioni successive delle lancette. Allora l'incremento di tempo Δt misurato dall'orologio è uguale a Δt′ e in virtù della (10) si ottiene la seguente relazione che lega il ‛tempo proprio' Δτ con il tempo Δt misurato dagli orologi in S:
Δt=γ Δτ, Δτ=Δτ √-1-−-v-2-/-c-2. (15)
Perciò un orologio standard che si muove rispetto a un sistema inerziale S ritarda rispetto agli orologi standard che sono in quiete in S. Anche in questo caso si potrebbe ritenere che si tratti di un effetto illusorio, per il fatto che il tempo Δt nella (15) dipende dal metodo di sincronizzazione degli orologi di S, descritto nel È b. Tuttavia, come già si è detto a proposito del fenomeno della contrazione, anche questo effetto di ritardo può in linea di principio essere misurato nel modo seguente. Supponiamo che un orologio standard C1, in moto con velocità v nella direzione dell'asse x, passi per l'origine O nell'istante in cui l'orologio posto in O segna il tempo zero. Nel medesimo istante anche l'orologio mobile viene regolato a zero. Dopo un tempo Δt1, quando l'orologio ha raggiunto un punto P sull'asse x, esso segna un tempo proprio Δτ1=Δt1 √-1-v-2-/-c-2, secondo la (15). In questo istante C1 incontra un altro orologio standard, C2, che si muove con velocità −v e che al momento dell'incontro segna lo stesso tempo Δτ1. L'orologio C2 raggiunge l'origine O all'istante Δt=2 Δt1, ossia quando l'orologio che si trova fisso in O segna il tempo Δt. L'orologio C2, invece, al momento del suo arrivo in O, segna il tempo
Δτ=2 Δτ1=2 Δt1 √-1-−-v-2-/-c-2 =Δt √-1-−-v-2-/-c-2. (16)
Il confronto tra i tempi segnati dai due orologi in corrispondenza del loro incontro permette, in linea di principio, di verificare sperimentalmente la formula (16).
Naturalmente in pratica un esperimento del genere è difficile da effettuarsi con orologi macroscopici. Poichè tuttavia qualsiasi sistema fisico che abbia una scala temporale intrinseca, come per esempio una sostanza radioattiva, può essere usato come orologio, la vita media λ di una sostanza radioattiva in moto con velocità v deve essere più lunga della vita media λ0 della stessa sostanza in quiete. Di fatto si ottiene
λ=λ0γ=λ0/√-1-−-v-2-/-c-2. (17)
Questa formula ha trovato ampia conferma in numerosi esperimenti con mesoni o altre particelle instabili in moto veloce.
f) Legge di trasformazione delle velocità. Formula di Fresnel
Nel caso di due eventi separati da una quantità ds infinitesima, le differenze tra le coordinate nelle (9)-(12) sono sostituite da differenziali; dividendo tra loro le equazioni (9) e (10) si ottiene la seguente formula di trasformazione per la velocità di una particella, o di un segnale, o di qualsiasi altro fenomeno che si propaghi nello spazio:
Se il moto si svolge lungo l'asse x′, ossia per u′=(u′, 0, 0), si ottiene u=(u, 0, 0), con
Le formule (18) e (19) sono le generalizzazioni relativistiche del teorema classico di composizione delle velocità (3).
Facendo tendere c all'infinito nelle equazioni relativistiche (7), (9) - (19), si ottengono tutte le relazioni della fisica prerelativistica. Così, se ci si limita a considerare i fenomeni della vita quotidiana che si svolgono in zone di spazio limitate e per i quali tutte le velocità in gioco sono piccole rispetto a c, si possono trascurare le quantità v2/c2, vx′/c2, vu′/c2 ecc. e le leggi della fisica classica costituiscono una buona approssimazione delle leggi relativistiche ‛esatte'. Con questa approssimazione la simultaneità di due eventi, la lunghezza di un regolo e il tempo segnato da un orologio in moto possono essere considerati come grandezze assolute e le velocità soddisfano il teorema di composizione classico. Tuttavia, quando la velocità dei segnali è prossima a c, questo teorema è totalmente inadeguato e si deve allora far ricorso alle equazioni (18) e (19). Se nella (19) la velocità u′ è pari alla velocità della luce c, allora anche u risulta uguale a c, in accordo col principio di relatività speciale.
La formula (19) è in accordo con i risultati di un esperimento effettuato da Fizeau già nel 1851. Mediante un procedimento interferenziale Fizeau riuscì a misurare la velocità della luce in una corrente d'acqua. In una massa d'acqua in quiete la velocità della luce è pari a c/n, dove n è l'indice di rifrazione. Se la luce viene inviata attraverso l'acqua in moto nel verso della corrente, i risultati dell'esperienza di Fizeau indicano che la velocità della luce u è data da
u=c/n+v(1−1/n2), (20)
essendo v la velocità dell'acqua.
Questa formula è una semplice conseguenza della (19). Se si sceglie come riferimento S il laboratorio e come S′ il riferimento di quiete dell'acqua, si ha evidentemente u′=c/n e, trascurando v2/c2 rispetto a 1, dalla (19) segue immediatamente la formula (20). È pur vero che la formula (20) era già stata ricavata da Fresnel (1818) sulla base della teoria dell'etere elastico e da Lorentz mediante la teoria degli elettroni (1906); tuttavia la deduzione relativistica, dovuta a M. von Laue (1907), mostra che la (20) non è che un caso particolare del ‛teorema relativistico di composizione', valido per segnali di natura qualsiasi. Sfortunatamente, però, c'è poca speranza di riuscire a misurare i termini del secondo ordine, trascurati nella (20), mediante un esperimento analogo a quello di Fizeau o con l'equivalente, ma più preciso, esperimento di P. Zeeman (1915) (v. Møller, 19722, p. 61).
g) La velocità massima di un segnale
Accenniamo ora a un'altra conseguenza generale, di grande portata, delle trasformazioni di Lorentz. Dalla (7) si deduce che la velocità relativa v di due sistemi inerziali non può mai superare la velocità della luce, poiché γ e il fattore di Lorentz nella (14) e nella (15) diventano immaginari per v>c. Inoltre si può mostrare che il principio di relatività speciale non è compatibile con l'esistenza di un qualsiasi segnale che si propaghi con velocità superiore a quella della luce. Per ‛segnale' intendiamo un fenomeno fisico mediante il quale un'informazione può essere scambiata tra due punti a distanza finita. Ciò significa che ci deve essere una connessione causale tra l'evento di emissione e quello di ricezione del segnale.
Supponiamo per un momento che sia possibile inviare un segnale con velocità C>c rispetto a un assegnato sistema inerziale S. Allora, secondo il principio di relatività speciale, deve essere anche possibile inviare un segnale che si propaghi con la stessa velocità C rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale S′ legato a S dalla (7). All'istante t=t′=0, in cui i due sistemi coincidono, possiamo mandare un segnale dall'origine O di S a un punto P posto sull'asse x negativo e, in base all'ipotesi fatta, potremmo assegnare a questo segnale la velocità u′x=−C rispetto a S′. Subito dopo essere giunto in P il segnale può essere rinviato verso O con velocità C rispetto a S. Come conseguenza delle trasformazioni di Lorentz (7), si ricava allora che la velocità relativa v dei sistemi S e S′ può essere scelta in modo tale che il segnale arrivi all'origine O di S quando l'orologio posto in O segna il tempo t〈0. In altre parole, l'informazione trasportata da un segnale ci permetterebbe di prevedere, come degli indovini, eventi futuri in O. Come scienziati non possiamo ammettere questa possibilità. È ben vero che la scienza permette, entro certi limiti, di far previsioni su eventi futuri (per es. eclissi di Sole, ecc.), ma ciò è possibile soltanto sulla base di informazioni ottenute preventivamente. Le leggi fondamentali della natura, che sono espresse in forma di equazioni differenziali, richiedono la conoscenza delle condizioni iniziali per poter fare previsioni sul futuro.
Si può quindi concludere che nessun segnale può essere trasmesso con velocità superiore a quella della luce. Questo non significa che un fenomeno fisico non possa viaggiare con velocità maggiore di c. L'immagine di un riflettore su uno strato orizzontale di nubi si può facilmente far viaggiare con velocità arbitrariamente elevata pur di ruotare il riflettore abbastanza velocemente. Un fenomeno del genere non può però essere impiegato come segnale, poiché l'apparire dell'immagine in un punto della nuvola non è causato dall'apparire dell'immagine in un altro posto a un istante precedente. Analogamente, se un pacchetto piano di onde luminose incide su una superficie piana fissa in condizioni di incidenza quasi normale, la parte illuminata della superficie si allarga con velocità c/sen α, dove α è l'angolo di inclinazione. Scegliendo α sufficientemente piccolo questa velocità può essere resa arbitrariamente grande, ma anche in questo caso non vi è ovviamente alcuna connessione causale tra l'apparire della luce in punti diversi della superficie.
h) Orologi standard in moto arbitrario. Effetto Doppler. Prove sperimentali
Secondo la (15), un orologio standard, che si muova con velocità costante u rispetto a un sistema S, segna in ogni istante un incremento dτ del tempo proprio, legato al corrispondente incremento dt del tempo in S dalla relazione
dτ=dt √-1-u-2-/-c-2. (21)
Per un ‛buon' orologio standard si può assumere che questa relazione valga anche se esso si muove di moto qualsiasi, con velocità istantanea u. Ciò significa che l'accelerazione dell'orologio rispetto a S non influenza il funzionamento dell'orologio stesso, ma in ogni istante l'incremento del suo tempo proprio è uguale a quello degli orologi appartenenti a un sistema inerziale, S0, nel quale l'orologio sia istantaneamente in quiete. Non tutti gli orologi sono buoni orologi nel senso anzi detto. Il funzionamento di un orologio che non sia insensibile agli urti non potrà non essere influenzato dall'accelerazione impressa all'orologio quando esso viene lasciato cadere a terra.
Il meccanismo più importante di un orologio è il ‛bilanciere', che è costituito da un corpo oscillante. Si può mostrare (v. Møller, 19722, p. 48) che una condizione essenziale affinché un orologio sia un buon orologio standard è che l'accelerazione del moto oscillatorio del bilanciere sia grande rispetto alle accelerazioni cui l'orologio nel suo insieme viene sottoposto. Negli ‛orologi atomici' il bilanciere è costituito da sistemi atomici oscillanti e, date le accelerazioni estremamente elevate di queste oscillazioni, orologi di questo tipo sono orologi standard particolarmente buoni.
Consideriamo un insieme di atomi che emettano radiazione di frequenza propria ν0. Il numero di onde emesse per unità di tempo nel sistema di quiete S0 degli atomi è allora uguale a ν0. In qualsiasi altro sistema S, nel quale gli atomi si muovano con velocità u, il numero di onde emesso nell'unità di tempo è ν0 √-1-−-u-2-/-c-2, dato che, secondo la (21), un intervallo di tempo unitario in S corrisponde all'intervallo √-1-−-u-2-/-c--2 in S0. Se gli atomi si muovono di moto circolare uniforme attorno all'origine O di S, questo numero sarà anche uguale al numero di onde che arrivano in O nell'unità di tempo. Pertanto
ν=ν0 √-1-−-u-2-/-c-2 (22)
sarà la frequenza della radiazione misurata da un osservatore in O.
Questa formula, conseguenza diretta del ritardo degli orologi in movimento, descritto dalla (21), è stata verificata sperimentalmente da Cranshaw e collaboratori nel 1962 (v. Møller, 19722, p. 488). Ponendo l'emettitore e l'assorbitore di un'apparecchiatura Mössbauer a diversa distanza dal centro di un disco rapidamente rotante, è stato possibile verificare, con la precisione di pochi millesimi, l'effetto del primo ordine di uno sviluppo della (22) in termini di u2/c2 Pertanto il ritardo relativistico di orologi in movimento può essere oggi considerato come un fatto sperimentale ben verificato.
L'effetto espresso dalla relazione (22), secondo cui la frequenza della luce emessa da un oggetto in movimento appare alterata anche in assenza di velocità radiale della sorgente rispetto all'osservatore, viene spesso chiamato anche ‛effetto Doppler trasversale'. Se la velocità u della sorgente non è perpendicolare alla direzione di emissione individuata dal vettore unitario e, il secondo membro della (22) deve esser moltiplicato per il consueto fattore Doppler (1−u•e/c2)-1. Si ottiene in tal modo la formula completa dell'effetto Doppler relativistico:
che si ricava molto semplicemente osservando che la fase di un'onda piana deve essere invariante per trasformazioni di Lorentz (v. Møller, 19722, pp. 55-60). Anche questa formula è stata verificata con notevole precisione osservando la frequenza della luce emessa da ioni in moto veloce (Ives e Stillwell, 1938; Mandelberg e Witten, 1962).
i) Effetto dei gemelli e relativo paradosso
Si considerino due orologi identici, C1 e C2, in quiete in un punto P di un sistema inerziale S. A un dato istante t1, in S, all'orologio C2 viene fatto compiere un ‛viaggio di andata e ritorno' lungo un cammino chiuso, mentre C1 rimane fermo in P. Se l'istante di ritorno di C2, misurato in S, è t2, allora l'orologio C1 registra, per la durata del viaggio, un tempo Δt=t2−t1. L'orologio C2, invece, secondo la formula (21), attribuirà a tale durata il valore
Questo effetto, semplice e indubitabile, noto come ‛paradosso dei gemelli', ha dato luogo, ancora in tempi recenti, a una valanga di articoli polemici. In primo luogo bisognerebbe osservare che l'applicazione della formula (24) al ciclo vitale di organismi viventi appartiene al regno della fantascienza, poiché appare dubbio che si possano considerare tali organismi come buoni orologi standard cui si adatti la (24). In secondo luogo l'effetto dei gemelli, espresso dalla (24), non è di per sé un paradosso. È una semplice conseguenza della relatività speciale valida nel sistema inerziale S ed esprime soltanto una proprietà di orologi standard in movimento, proprietà oggi assodata sperimentalmente.
Tuttavia, come osservò lo stesso Einstein fin dal suo primo articolo, un paradosso può sorgere se si considera questo effetto dal punto di vista di un osservatore in un sistema di riferimento rigido S* solidale con l'orologio C2 durante il suo viaggio. In particolare, se C2 si muove con velocità costante v in S per un intervallo di tempo lungo, prima di far ritorno con velocità uguale e opposta, il tempo, misurato in S, durante il quale C2 è decelerato da v a −v può essere reso arbitrariamente piccolo rispetto al tempo in cui il moto è uniforme. In questo caso la relazione tra i tempi segnati da C2 e da C1 coincide approssimativamente con la (16). Nei due periodi di moto uniforme di C2 il sistema S* è anch'esso un sistema inerziale e la velocità di C1 rispetto a S* è rispettivamente −v e v. Pertanto si potrebbe concludere che C1 dovrebbe ora segnare un tempo più piccolo di C2, in contraddizione con il risultato (corretto) trovato sopra.
Questo paradosso si dissolve osservando che S* non è un sistema inerziale nei brevi periodi di decelerazione di C2. Perciò in tali periodi in S* non sono valide le consuete leggi della relatività speciale. Nel cap. 3, quando tratteremo della teoria della relatività generale, vedremo che in un sistema di riferimento non inerziale è presente generalmente un campo gravitazionale e che un campo gravitazionale influenza il funzionamento degli orologi. Nei periodi di decelerazione i campi gravitazionali presenti in S* influenzano gli orologi C1 e C2 in modo tale che la formula approssimata (16) si mantiene valida anche se il processo viene trattato rigorosamente dal punto di vista di S* (v. Møller, 19722, pp. 292-296). Il problema può essere anche affrontato da un altro punto di vista. La teoria della relatività generale, che si propone di trattare i fenomeni fisici in sistemi di riferimento comunque mobili, deve essere formulata in modo tale che l'effetto dei gemelli, come ogni altro fatto sperimentale, si ottenga in qualunque sistema di riferimento.
j) Meccanica relativistica del punto
Secondo il principio di relatività speciale, tutti i sistemi inerziali sono equivalenti rispetto alla descrizione della natura. Così tutte le leggi fisiche e anche tutte le relazioni tra grandezze fisiche devono avere la stessa forma in questi sistemi. In altre parole, le leggi fisiche devono avere forma invariante rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Tale condizione di invarianza lorentziana ci offre uno strumento potente per formulare nuove leggi fisiche. D'altra parte, ci si deve accertare che questa condizione sia soddisfatta anche dalle vecchie leggi. Come si è constatato, le leggi dell'elettromagnetismo, nella stessa formulazione di Maxwell, sono già invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Invece le equazioni della meccanica newtoniana, che sono invarianti per trasformazioni galileiane, non soddisfano in modo esatto questa condizione e perciò possono considerarsi valide soltanto nel limite in cui i due tipi di trasformazione coincidono, ossia quando le velocità di tutte le particelle interessate sono piccole rispetto a c. Per velocità elevate le leggi di Newton devono essere cambiate in modo da soddisfare la condizione di invarianza lorentziana.
Mentre la legge di inerzia conserva esattamente la sua validità anche nella relatività speciale, il secondo principio di Newton (1) deve essere invece generalizzato. La (1) può essere anche scritta nella forma
dove
p=mu (26)
è la quantità di moto della particella. Nella teoria di Newton la massa inerziale m viene postulata costante. Di conseguenza una particella soggetta a una forza costante potrà raggiungere, in virtù delle (25) e (26), velocità comunque elevate. Questo fatto dà un'indicazione di come le equazioni di Newton debbano essere modificate, poiché infatti, secondo le considerazioni del È g, il principio di relatività speciale non è compatibile con l'esistenza di segnali con velocità maggiori di c. Concludiamo pertanto dicendo che l'inerzia di una particella aumenta al crescere della velocità, ossia
m=f(u) (27)
dove f è una funzione universale crescente con u.
Il principio di relatività speciale richiede che le equazioni (25)-(27) valgano in tutti i sistemi di Lorentz e questa condizione conduce a un'espressione univoca della funzione f(u). Ciò si vede facilmente considerando un urto elastico tra due particelle puntiformi identiche, nel quale la somma delle quantità di moto delle particelle si conserva. Facendo uso della legge di trasformazione delle velocità (18), si può mostrare (v. Møller, 19722, pp. 65-67) che la legge di conservazione della quantità di moto totale può essere valida in ogni sistema di Lorentz solo se la funzione f(u) della (27) ha la forma
La costante m0, ‛massa di riposo' o ‛massa propria', coincide con la massa newtoniana. Per u→c la massa inerziale tende all'infinito. Ciò significa che la velocità di una particella nel moto regolato dalle (25)-(28) non può raggiungere c, anche se la particella è soggetta a una forza costante.
Come al solito, l'energia cinetica T di una particella dotata di velocità u si definisce come il lavoro effettuato per accelerare la particella dalla quiete alla velocità u. La potenza istantanea durante l'accelerazione è pari a F•u. Si ottiene così, mediante le (25)-(28),
dove si è posto
La quantità E differisce dall'energia cinetica T per la costante m0c2, detta energia di riposo (v. § l). Per piccoli valori di u2/c2 l'espressione (29) di T si riduce all'espressione newtoniana T=½m0u2, ma per u→c l'energia cinetica relativistica tende all'infinito come la massa relativistica m. Derivando la (29) si ottiene l'equazione di conservazione dell'energia nella forma
k) La trasformazione della quantità di moto e dell'energia
In ogni sistema inerziale la quantità di moto e l'energia sono rappresentate dalle stesse funzioni della velocità definite dalle (26), (28) e (30). Pertanto le equazioni di trasformazione della quantità di moto e dell'energia derivano dalle equazioni di trasformazione delle velocità. Nel caso delle trasformazioni speciali di Lorentz (7) si ottengono, mediante le (18), le seguenti equazioni:
px=γ(px′+vE′/c2), py=py′, pz=pz′, E=γ(E′+vpx′). (32)
Confrontando le (32) con le (7), si vede che le quattro grandezze
(px, py, pz E/c2) (33)
si trasformano come le coordinate di Lorentz (x, y, z, t).
Di conseguenza la quantità
p2−E2/c2=p′2−E′2/c2=−m20c2 (34)
è un invariante, come la quantità s2 definita nella (8).
Si consideri ora un sistema Σf di n particelle libere e siano p(r), T(r), m0(r) rispettivamente la quantità di moto, l'energia cinetica e la massa propria della r-ma particella. Allora la corrispondente energia E(r), definita dalla (29), è E(r)=T(r)+m0(r)c2 e la quantità di moto totale e l'energia totale del sistema Σf sono
essendo
Le equazioni di trasformazione (32) valgono per ogni particella separatamente e, poiché sono lineari, è ovvio che le equazioni (32) valgono anche per la quantità di moto totale e l'energia totale del sistema Σf. Di conseguenza un'equazione analoga alla (34) sussiste anche per la quantità di moto totale e l'energia totale di Σf. Pertanto
p2−E2/c2=p′2−E′2/c2=−M²0c2. (36)
Ma la quantità M0 definita dalle (36) non è semplicemente pari alla somma m0 delle masse proprie delle particelle. Poiché l'invariante (36) è negativo, è possibile, mediante una trasformazione di Lorentz, passare a un sistema di Lorentz S′ nel quale la quantità di moto totale p′ sia nulla. Un tale sistema S0 si chiama naturalmente il sistema di quiete di Σf. Se S′ nella (36) coincide con il sistema di quiete S0, si vede che
M0=E0/c2=m0+T0/c2, (37)
dove T0 è l'energia cinetica totale delle particelle nel sistema di quiete.
Inoltre, ponendo p′=0 nelle (32), si ottengono, per la quantità di moto totale p e l'energia totale E, in un sistema S rispetto al quale il sistema di quiete si muova con velocità u, le espressioni seguenti:
Un confronto tra le (38) e le (26), (28), (30) mostra che il sistema Σf ha la stessa quantità di moto e la stessa energia di una particella singola dotata di velocità u e di massa propria M0, data dalla (37). Perciò l'energia cinetica T0 della particella nel sistema di quiete contribuisce alla massa inerziale M0 del sistema complessivo per il valore T0/c2.
l) Equivalenza tra energia e massa
Il risultato appena ottenuto riguardo all'inerzia dell'energia cinetica interna delle particelle costituenti il sistema Σf può ora essere esteso a qualsiasi tipo di energia (v. Møller, 19722, pp. 77-80). Questa importante generalizzazione si basa sulle ipotesi che quantità di moto ed energia si conservino in ogni collisione tra il sistema Σf e un arbitrario sistema fisico Σ e che, in accordo col principio di relatività speciale, le leggi di conservazione siano valide in tutti i sistemi inerziali. In particolare, se queste ipotesi vengono fatte per un processo nel quale avviene l'annichilazione del sistema Σ, così che tutta la quantità di moto e l'energia di Σ vengono trasmesse al sistema Σf, allora ne consegue immediatamente che le equazioni di trasformazione (32) sono valide per la quantità di moto totale p e per l'energia E di qualsiasi sistema chiuso Σ. Pertanto, per qualsiasi sistema chiuso, p ed E hanno la forma (38), E0 essendo l'energia del sistema in quiete, nel quale è p0=0.
Fra le (38) compare la famosa equazione di Einstein
E=Mc2. (39)
la quale collega, in forma del tutto generale, l'energia con la massa inerziale. Questo teorema di equivalenza tra energia e massa ha conseguenze di grande portata, non solo dal punto di vista teorico, perché determina la fusione di due leggi in precedenza completamente separate, la conservazione della massa e la conservazione dell'energia, ma anche dal punto di vista sperimentale e persino da quello tecnico. Quando l'energia di un corpo viene aumentata riscaldandolo, la sua inerzia aumenta di una quantità data dalla (39). Un sistema di particelle in uno stato legato con energia potenziale negativa, come, per es., un nucleo stabile, ha una massa di riposo più piccola della somma delle masse proprie delle particelle che lo costituiscono. Questo ‛difetto di massa', corrispondente all'energia irraggiata durante la formazione del nucleo, può essere misurato direttamente con uno spettrografo di massa e la formula di Einstein (39) è stata ormai verificata sperimentalmente in numerose reazioni nucleari. Infine, in un processo in cui avvenga l'annichilazione di una coppia positone-elettrone in quiete, l'energia liberata è, secondo la (39), pari a 2m0c2. Misure di questa energia, che appare sotto forma di radiazione elettromagnetica, hanno fornito un'ulteriore verifica della (39) (e anche una giustificazione del nome di energia di quiete di una particella, dato a m0c2).
Mentre il difetto di massa corrispondente al calore sviluppato durante un ordinario processo chimico è tanto piccolo da non poter essere misurato, la quantità di calore sviluppata in un reattore nucleare è così grande che la massa corrispondente può raggiungere parecchi grammi. Nella fissione di un nucleo di uranio la quantità di energia liberata ΔΕ corrisponde a una massa Δm pari a un millesimo della massa del nucleo. Nella fissione completa dei nuclei di una tonnellata di uranio la massa corrispondente al calore sviluppato sarebbe allora dell'ordine di un kg. Su scala cosmica questo effetto è ancor più spettacolare. Per esempio, l'energia che il Sole irradia nello spazio determina una perdita di massa solare superiore a quattro milioni di tonnellate al secondo.
m) Relatività spaziale in coordinate cartesiane
In uno spazio euclideo tridimensionale, come lo spazio fisico in un sistema inerziale, ciascun punto è caratterizzato, in un assegnato sistema di coordinate cartesiane, da tre numeri
xι=(x, y, z), (40)
corrispondenti a ι=1, 2, 3 e ottenuti nel modo illustrato nel cap. 1, È b (si tenga presente che in questo articolo gli indici greci, come ι, κ, vanno da 1 a 3, mentre gli indici latini i, k possono assumere i quattro valori 1, 2, 3, 4). In un altro sistema cartesiano S′, ottenuto da S mediante rotazione degli assi e spostamento dell'origine, lo stesso punto è caratterizzato da tre numeri diversi x′ι=(x′, y′, z′) legati agli (xι) da una trasformazione ortogonale non omogenea
nella quale αι e αικ sono costanti che caratterizzano rispettivamente lo spostamento e la rotazione. Le αικ soddisfano le ‛relazioni di ortogonalità' che assicurano che la distanza dσ tra due punti vicini ha forma invariante rispetto alla trasformazione (41). Il vettore infinitesimo che unisce i due punti ha componenti (dxι) e (dx′ι) in S e in S′, rispettivamente. Differenziando le (41) si ottiene, tra queste componenti, la relazione seguente:
Per le ricordate proprietà delle αικ, il quadrato della distanza tra i due punti ha, in entrambi i sistemi, la forma
L'elemento di linea che ha per componenti (dxι) e (dx′ι) è il prototipo di vettore. Ogni vettore a ha tre componenti (aι) in S e tre componenti (a′ι) in S′ legate tra loro come i differenziali delle coordinate, ossia:
Tipici esempi di vettori sono la velocità u, la quantità di moto p e la forza F.
La relatività spaziale richiede che le leggi della natura abbiano la stessa forma in tutti i sistemi di coordinate cartesiane; questa condizione è soddisfatta quando le equazioni sono espresse in forma vettoriale. Si consideri ad esempio l'equazione del moto (25) che, quando è espressa in termini delle componenti pι e Fι dei vettori p e F, è rappresentata dalle tre equazioni
Poiché il tempo è invariante rispetto alle trasformazioni spaziali (41), ambo i membri di questa equazione sono componenti di vettori. Essi pertanto si trasformano secondo le stesse equazioni (44) e la validità della (45) in S implica la sua validità in ogni altro sistema cartesiano S′, in accordo con la relatività spaziale.
È noto dalla teoria dell'elasticità che per la descrizione della natura è necessario introdurre, oltre ai vettori, anche i tensori. Un vettore a che in ogni riferimento cartesiano S ha tre componenti (aι) contrassegnate da un indice ι, si dice anche tensore di rango 1. Un tensore di rango più elevato è un'estensione di questo concetto. Un tensore di rango 2, per esempio, è una grandezza che in ogni sistema S ha nove componenti aικ, contrassegnate da due indici indipendenti ι e κ, che si trasformano separatamente come indici vettoriali, per effetto delle trasformazioni (41). Perciò, in analogia con le (44),
Un esempio di siffatto tensore è il tensore degli sforzi elastici tικ. In analogia con l'equazione vettoriale (45), tutte le leggi fondamentali della fisica macroscopica possono ora essere espresse, in qualsiasi sistema cartesiano, come relazioni lineari tra le componenti di tensori di un certo rango.
L'uso del calcolo vettoriale e tensoriale in fisica non è soltanto un modo abbreviato di esprimere le leggi fisiche (si confronti l'unica equazione vettoriale (25) con l'equivalente sistema di equazioni (45) in tutti i possibili sistemi cartesiani S). Il vantaggio principale di questo formalismo è che esso focalizza l'attenzione sulle proprietà essenziali delle grandezze fisiche. Per quanto le componenti del vettore che unisce due punti vicini siano diverse in diversi sistemi cartesiani, esse costituiscono tuttavia una rappresentazione di un'unica ben determinata grandezza geometrica nello spazio euclideo, la quale si può pertanto considerare come un'entità assoluta rispetto alle trasformazioni spaziali (41).
n) Lo spazio quadridimensionale di Minkowski
Come si è visto nel È d, la situazione è diversa da quella illustrata nel È m, se si considera una trasformazione generale di Lorentz tra i sistemi lorentziani S e S′ in moto relativo l'uno rispetto all'altro. In questo caso la distanza spaziale dσ tra due punti di riferimento non è invariante e occorre associare un diverso spazio euclideo tridimensionale a ogni sistema inerziale. Se tuttavia si fissa l'attenzione sugli ‛eventi' dello spazio fisico, che sono descritti in ogni sistema di Lorentz da quattro coordinate spazio-temporali, allora ciascun evento può essere rappresentato come un punto (un ‛punto-evento') in uno spazio matematico a quattro dimensioni, il cosiddetto spazio-tempo o ‛cronotopo' di Minkowski, e questo spazio ha le proprietà di uno spazio assoluto per trasformazioni di Lorentz arbitrarie.
Lo spazio di Minkowski è detto quadridimensionale semplicemente perché ciascun punto-evento è caratterizzato da quattro numeri o ‛coordinate di Lorentz':
xi=(x, y, z, ct) (i=1, 2, 3, 4). (47)
Per due punti-eventi vicini la quantità (8a) assume la forma
dove gli εi hanno i seguenti valori:
ε1=ε2=ε3=1, ε4=−1. (49)
Inoltre una trasformazione di Lorentz è una trasformazione lineare
che lascia la quantità ds2 invariata. Poiché si ha
ciò significa che le costanti αik devono soddisfare ‛relazioni di ortogonalità' analoghe a quelle delle αικ nel È m, affinché risulti
per tutti i valori dei (dxi).
Salvo il segno ‛meno' del quarto termine nella somma su i, la (48) è molto simile all'espressione (43) di dσ2 e un confronto delle (48) e (52) con la (43) rende spontaneo interpretare la quantità ds come ‛distanza' tra punti-eventi che hanno differenze di coordinate pari a (dxi). Inoltre le trasformazioni di Lorentz (50) sono analoghe alle rotazioni e alle traslazioni (41) degli assi cartesiani in uno spazio euclideo ordinario a 3 dimensioni. Per questa analogia, ma anche per la differenza sostanziale dovuta al valore negativo di ε4, la geometria dello spazi o di Minkowski è detta pseudoeuclidea e le coordinate di Lorentz (xi) sono anche dette pseudocartesiane.
Il moto di una particella nello spazio fisico è rappresentato da una curva nello spazio quadridimensionale, la ‛linea oraria', costituita dai punti-eventi che contrassegnano l'apparire della particella nei diversi punti della sua traiettoria nello spazio fisico. Per due punti-eventi posti sulla linea oraria si ha, in virtù delle (48) e (21),
ds2=dx2+dy2+dz2−c2 dt2=
=−c2 dt2(1−u2/c2)=−c2 dτ2, (53)
dove dτ è il tempo proprio della particella. In modo analogo risulta
ds2=0, (54)
per due punti vicini sulla linea oraria di un segnale luminoso. Se si adotta il tempo proprio τ come parametro, una rappresentazione parametrica della linea oraria di una particella ha la forma
xi=fi(τ) (i=1, 2, 3, 4), (55)
dove le fi(τ) sono funzioni determinate di τ che caratterizzano il moto della particella. Per una particella libera la linea oraria è una retta, ossia le fi(τ) sono funzioni lineari di τ.
o) Formulazione matematica del principio di relatività
Ogni legge naturale esprime una certa relazione tra grandezze fisiche. Queste grandezze sono definite dai procedimenti necessari per la loro misura. Sia A, B, ... un insieme di tali grandezze fisiche misurate da un osservatore in un sistema di Lorentz S. Alcune di queste grandezze possono essere variabili di campo, funzioni delle coordinate spazio-temporali (xi) in S. Una legge naturale può allora essere espressa da una o più equazioni della forma
dove F è una funzione di A, B, ... ed eventualmente delle loro derivate di qualsiasi ordine rispetto alle coordinate spazio-temporali.
Un altro osservatore in un altro sistema di Lorentz S′, adottando gli stessi procedimenti di misura, troverà generalmente valori diversi A′, B′, ... per le grandezze fisiche cosl come per le loro derivate rispetto alle coordinate spazio-temporali (x′i). Tuttavia il principio di relatività esige che la relazione tra le grandezze fisiche sia ancora della forma
dove F nella (57) è, nei suoi argomenti, la medesima funzione F che compare nella (56). Questa è la formulazione più generale del principio di relatività speciale; si pone ora il problema di determinare la funzione F per le diverse leggi naturali.
Nonostante il suo carattere puramente formale, la rappresentazione quadridimensionale di Minkowski ha avuto un'importanza inestimabile a questo scopo. L'analogia tra le proprietà geometriche del quadrispazio e quelle di uno spazio euclideo tridimensionale permette di formulare tutte le leggi della fisica macroscopica in forma di relazioni tra vettori e tensori quadridimensionali. (Le leggi della teoria quantistica relativistica, che regolano il mondo microscopico, sono naturalmente in accordo con le (56) e (57); ma per esse conviene introdurre, oltre a vettori e a tensori, altri enti matematici, come ad esempio gli spinori, che si trasformano in modo diverso per trasformazioni di Lorentz).
p) Le leggi fisiche in forma di equazioni vettoriali e tensoriali a quattro dimensioni
In analogia con le (44), un quadrivettore è una grandezza che ha in un sistema di Lorentz quattro componenti (ai) e il legame tra le sue componenti nei sistemi S e S′ è fornito dalle equazioni
le αik sono i coefficienti che compaiono nelle trasformazioni di Lorentz (50), e un confronto con le (51) mostra che l'elemento di linea (dxi) è un particolare quadrivettore.
Un altro esempio di quadrivettore è costituito dal ‛quadrimpulso', che ha componenti
pi=(pι, E/c), (59)
dove le pι sono le componenti cartesiane della quantità di moto ed E è l'energia della particella.
Facendo uso delle (21), (26), (28) e (30) le pi si possono anche scrivere nella forma
pi=m0Ui, (60)
dove le
sono le componenti della quadrivelocità, ottenute deririvando le equazioni (55) della linea oraria. La (53) mostra che il tempo proprio è invariante; in effetti, dτ è il tempo segnato da un orologio standard che segua la particella nel suo moto. Pertanto le Ui si trasformano come i differenziali nella (51) e quindi Ui è un quadrivettore. Poiché anche la massa di quiete m0 è un invariante, la (60) mostra che pi è veramente un quadrivettore. Questo è in accordo con l'osservazione fatta nel È k a proposito della (33).
Dividendo le equazioni del moto (45) e l'equazione dell'energia (31) per √-1-−-u-2-/-c-2, si ricava, in virtù della (21), che le quattro equazioni della meccanica del punto nel sistema di Lorentz S possono essere compendiate nell'equazione a quattro componenti
dove le quattro grandezze ℱi sono definite come segue:
Il primo membro della (62) è un quadrivettore e questo implica che anche le ℱi definite dalla (63), sono necessariamente le componenti di un quadrivettore, la ‛quadriforza' di Minkowski. Allo stesso tempo si è ottenuta la legge di trasformazione della forza Fι per trasformazioni di Lorentz. Poiché ora ambo i membri della (60) si trasformano secondo le (58), le equazioni della meccanica del punto in un altro sistema di Lorentz S′ hanno esattamente la stessa forma, cioè
La (62) e la (64) sono esempi particolari delle equazioni generali (56) e (57).
Come le equazioni della meccanica del punto, tutte le equazioni della fisica macroscopica possono essere scritte in forma di relazioni quadrivettoriali o quadritensoriali. Un quadritensore è una grandezza che ha 16 componenti aik in ogni sistema di Lorentz. Esse sono collegate dall'estensione quadridimensionale delle trasformazioni tridimensionali (46). Come esempio, ricorderemo qui solamente il tensore energia-impulso di un sistema chiuso di materia distribuita in modo continuo. Le sue componenti hanno, in ogni sistema lorentziano S, il seguente significato: T44 è la densità di energia h e, se μ è la corrispondente densità di massa, si ha
T44=h=μc2. (65)
Inoltre, per ι=1, 2, 3, le componenti Tι4 e T4ι sono legate alla densità di impulso gι e alla densità di corrente di energia Sι dalle relazioni
Tι4=cgι, T4ι=Sι/c. (66)
Infine le componenti Tικ con i e κ uguali a 1, 2, 3, rappresentano gli sforzi nel sistema materiale. Il tensore Tik è simmetrico:
Tik=Tki; (67)
perciò si ricava dalla (66), per i=ι e k=4,
gι=Sι/c2. (68)
Questo legame tra densità di impulso e corrente di energia costituisce un modo generale di esprimere l'inerzia dell'energia.
Per un sistema fisico chiuso la divergenza dell'energiaimpulso è nulla (v. Møller, 19722, pp. 168-169). La divergenza di un quadritensore è la generalizzazione immediata della divergenza di un tritensore, come ad esempio l'usuale tensore degli sforzi della teoria classica dell'elasticità. Perciò per un sistema chiuso
Per i=1, 2, 3 le equazioni (69) contengono la legge di conservazione dell'impulso, rappresentano cioè le equazioni del moto della materia in ogni punto e a ogni istante nel sistema materiale continuo. Analogamente l'equazione (69) per i=4 esprime la legge di conservazione dell'energia. Dalle (65) e (66), per integrazione sullo spazio fisico, si ottengono per l'impulso totale e l'energia totale, ovvero per il quadrimpulso totale del sistema arbitrario considerato, le seguenti espressioni:
Per un sistema chiuso, dalla (69) segue (v. Møller, 19722, pp. 173-175) che le pi sono costanti rispetto al tempo e che esse sono le componenti di un quadrivettore, in accordo con le considerazioni fatte al È 1, che hanno condotto alla formula generale di Einstein (39).
A differenza dello spazio tridimensionale, che è teatro dei fenomeni fisici in un sistema inerziale, lo spazio quadridimensionale di Minkowski è uno spazio assoluto e, in un certo senso, la formulazione quadridimensionale delle leggi della natura ha restaurato alcuni degli ideali della filosofia newtoniana. È stato perciò suggerito da alcuni di abbandonare, per questa teoria, il nome di relatività. Occorre tuttavia ricordare che lo spazio di Minkowski è una costruzione matematica e che le misure fisiche, che dopo tutto definiscono i vettori e i tensori a quattro dimensioni nel quadrispazio, sono effettuate in laboratori situati in ben determinati sistemi di riferimento; quindi la nozione di relatività è un modo adeguato di esprimere le condizioni nelle quali dobbiamo lavorare nel tentativo di trovare le regolarità fondamentali nel complesso mondo fisico nel quale viviamo.
q) Relatività spaziale in coordinate curvilinee
Nel È m si è visto che la relatività spaziale si può esprimere scrivendo le leggi fisiche mediante equazioni vettoriali e tensoriali, le quali hanno la stessa forma in qualsiasi sistema di coordinate cartesiane. Un esempio è l'equazione del moto di una particella nella forma (45). La generalizzazione del calcolo vettoriale e tensoriale a coordinate curvilinee generali, come ad esempio coordinate polari o cilindriche, è un problema che i matematici hanno già risolto da tempo. Come preparazione per la relatività generale sarà utile dire qualche parola su questa generalizzazione nel caso della relatività spaziale.
Anziché specificare i punti di riferimento nello spazio euclideo a tre dimensioni in un assegnato sistema inerziale I mediante coordinate cartesiane
xCι =(x, y, z), (71)
si possono usare coordinate ‛curvilinee' arbitrarie (xι) legate alle (xCι) da una trasformazione
xι=fι(xCκ) (ι=1, 2, 3). (72)
Supporremo che le fι siano funzioni continue e differenziabili, ma per il resto completamente arbitrarie, delle coordinate cartesiane. L'uso di coordinate curvilinee per individuare una posizione è molto comune nella vita di ogni giorno. In alcune città, come New York per esempio, l'indirizzo di un appartamento contiene tre coordinate di questo tipo: il numero della strada, il numero della casa nella strada e il numero del piano. Per individuare una posizione situata tra due piani si potrebbe assumere come terza coordinata il numero di scalini che occorre salire. Anche se la strada è curva e la casa dotata di scale ad andamento tortuoso, queste coordinate danno, ai fini pratici, una sufficiente caratterizzazione di un determinato posto nella città. Le coordinate (xι) della (72) non sono altro che un raffinamento scientifico dei sistemi di coordinate più grossolani che vengono usati nella vita di ogni giorno.
Derivando la (72) si ottiene
in analogia con la (42), con la differenza che qui i coefficienti sono funzioni delle coordinate e non soddisfano alcuna relazione di ortogonalità. Perciò la distanza dσ tra due punti vicini è espressa, in termini dei differenziali delle coordinate curvilinee, dalla forma quadratica
Le sei componenti indipendenti γικ(x) del ‛tensore metrico' simmetrico sono funzioni delle coordinate (xι) che dipendono dal tipo di trasformazione (72). Solo quando le coordinate sono cartesiane, ossia nel caso di una trasformazione ortogonale (72), le γικ assumono i valori costanti
γ11=γ22=γ33=1, γik=0 per ι≠κ, (75)
corrispondenti all'espressione (43) di dσ2.
Come nel È m, anche in questo caso i differenziali delle coordinate (dxι) sono le componenti di un vettore tipo e le componenti ‛curvilinee' aι di qualsiasi altro vettore si ottengono dalle componenti ‛cartesiane' con una trasformazione del tutto analoga alla (73) e con gli stessi coefficienti αικ. Nel passaggio da un sistema (xι) a un qualsiasi altro sistema di coordinate curvilinee (x′ι), mediante un'arbitraria trasformazione, la variazione delle componenti del vettore è ancora della forma (44), con la differenza però che i coefficienti αικ sono ora funzioni delle coordinate. La stessa cosa vale per tensori di rango più elevato. Cosi per un tensore di rango 2 la legge di trasformazione è della forma (46) con le stesse funzioni αικ(x), come nel caso di un tensore di rango 1.
Data la dipendenza dalle coordinate dei coefficienti della trasformazione αικ la derivata temporale dpι/dt di un vettore pι non è essa stessa un vettore e deve essere sostituita dalla derivata ‛assoluta'
Si può dimostrare che questo ente è un vettore, purchè le γικλ che figurano nella (76) siano determinate funzioni algebriche delle γικ e delle loro derivate prime, note col nome di simboli di Christoffel. Questi sono funzioni lineari delle derivate ∂γικ/∂χλ. Perciò in un sistema cartesiano, nel quale le γικ sono costanti, i simboli di Christoffel sono nulli e la derivata assoluta D(3)pι/dt coincide con la derivata. usuale dpι/dt.
Pertanto, in coordinate curvilinee, le equazioni del moto (45) di una particella devono essere sostituite dalla
questa forma si conserva in ogni sistema di coordinate curvilinee, in accordo con la relatività spaziale.
Nelle equazioni (77) le γικ e le loro derivate prime intervengono come elementi essenziali. Queste grandezze erano. state considerate in un primo tempo come pure grandezze matematiche, senza significato fisico. La ragione di ciò sta nel fatto che si accettava come scontato che lo spazio fosse euclideo. Peraltro, come abbiamo sottolineato nel cap. 1, È b, la geometria dello spazio fisico deve essere determinata per via sperimentale. Ciò significa che le γικ che determinano le lunghezze di curve assegnate e quindi la geometria dello spazio fisico, devono essere considerate come grandezze fisiche. Infatti, in un dato sistema di coordinate, dove a ogni punto di riferimento dello spazio fisico sonò assegnati tre numeri (xι), le γικ possono determinare sperimentalmente in ogni punto misurando le lunghezze dσ di sei elementi di linea indipendenti, che forniscono sei equazioni per la determinazione delle γικ.
Avendo riconosciuto che il tensore metrico γικ è una grandezza fisica, il principio di relatività speciale può essere espresso in altro modo, affermando che tutte,le leggi fisiche hanno la forma (56) e (57), purché il tensore metrico venga incluso tra le grandezze fisiche A, B, ... nella (56). Quindi le (xι) possono anche essere coordinate curvilinee, mentre x4=ct rimane ancora una coordinata temporale di Lorentz. Perciò l'invarianza formale delle leggi della natura resta valida per un'arbitraria trasformazione di Lorentz (50) preceduta e seguita da trasformazioni arbitrarie delle coordinate spaziali. Questa ‛trasformazione di Lorentz generalizzata',
x′i=Li(xk), (78)
non è lineare, se non nella dipendenza di x′4 da x4. La (78) è la trasformazione spaziotemporale più generale rispetto alla quale le leggi della natura hanno forma invariante nella relatività speciale.
r) Spazio curvo riemanniano a tre dimensioni
In uno spazio fisico euclideo del tipo considerato nel paragrafo precedente, il tensore metrico γικ soddisfa la condizione che il tensore di curvatura sia ovunque nullo. Quest'ultimo è un tensore Pικλμ di rango 4, funzione algebrica ben determinata del tensore metrico e delle sue derivate prime e seconde. Pertanto l'equazione
Pικλμ=0 (79)
rappresenta un sistema di equazioni differenziali che deve essere soddisfatto dalle γικ affinchè nello spazio considerato valgano i consueti teoremi della geometria euclidea. In questo caso è sempre possibile introdurre sistemi di coordinate cartesiane nelle quali il tensore metrico abbia la forma (75).
Se le γικ, ottenute dalle misure sopra specificate, non soddisfacessero la condizione (79), allora si dovrebbe concludere che la geometria dello spazio fisico è non euclidea. In questo caso non è possibile introdurre coordinate cartesiane per cui le γικ abbiano la forma (75) in tutti i punti dello spazio. Tuttavia è sempre possibile, in infiniti modi, introdurre coordinate (xºι) che siano ‛coordinate geodetiche' in un assegnato punto P, ossia tali che le derivate prime ∂ γºικ/∂ xºλ si annullino nel punto P e che le γºικ abbiano ivi la forma (75). Perciò ‛localmente', e cioè in una regione infinitesima attorno a P, lo spazio è euclideo.
Uno spazio di questo genere, che viene chiamato spazio riemanniano curvo, è l'analogo tridimensionale di una superficie curva a due dimensioni in uno spazio euclideo a tre dimensioni. È ben noto, per esempio, che la geometria sulla superficie di una sfera è assai diversa dalla geometria nel piano euclideo. Su una sfera l'analogo bidimensionale del tensore di curvatura è diverso da zero e non è possibile adottare coordinate cartesiane. La possibilità di introdurre sistemi di coordinate geodetiche in un assegnato punto P di una superficie curva a due dimensioni è legata alla proprietà della superficie di coincidere, in una regione infinitesima attorno a P, con il piano euclideo tangente nel punto stesso.
3. Relatività generale
a) Il principio di relatività generale
Nei capitoli precedenti si è visto che lo sviluppo della fisica, dall'antichità fino all'inizio del XX secolo, è stato caratterizzato da un ampliamento continuo dei gruppi di invarianza delle leggi della natura. La relatività spaziale fu riconosciuta quando Galileo e Newton scoprirono che la caduta libera è un moto del tutto analogo a qualsiasi altro moto e che essa è causata dall'azione di una forza fisica effettiva, la forza gravitazionale della Terra (v. cap. 1, È b). La scoperta della relatività spaziale condusse all'invenzione del calcolo vettoriale e tensoriale a tre dimensioni. L'applicazione di questo calcolo alla fisica garantisce l'invarianza formale delle leggi fisiche rispetto al gruppo delle trasformazioni ortogonali non omogenee di coordinate cartesiane (v. cap. 2, È m) e rispetto al gruppo delle trasformazioni arbitrarie di coordinate curvilinee (v. cap. 2, È q).
La validità del principio di relatività speciale per i fenomeni meccanici fu originariamente espressa come invarianza delle leggi della meccanica newtoniana rispetto alle trasformazioni di Galileo, ma l'applicazione di questo principio a tutti i fenomeni fisici indusse a riconoscere che le leggi della natura hanno la forma (56) e (57) rispetto a qualsiasi trasformazione (50) delle coordinate di Lorentz (v. cap. 2, È o). In particolare questo requisito di invarianza lorentziana si può realizzare scrivendo le leggi fisiche in forma di equazioni vettoriali e tensoriali a quattro dimensioni (v. cap. 2, È p). Infine, si è visto che la forma (56) e (57) delle leggi fisiche si conserva per il gruppo delle trasformazioni di Lorentz generalizzate (78), purché le grandezze fisiche γικ vengano incluse tra le grandezze A, B, ... nella (56).
Le trasformazioni (78) non sono lineari; tuttavia esse rappresentano ancora un gruppo di trasformazioni molto ristretto e ci si può domandare perché mai l'invarianza delle leggi fisiche debba essere limitata a questo gruppo piuttosto particolare. Tenuto presente il precedente sviluppo storico era ben naturale che Einstein tentasse di generalizzare il principio di relatività speciale in un ‛principio di relatività generale', secondo il quale la forma delle equazioni (56) e (57) si conserva anche nel caso di trasformazioni spaziotemporali arbitrarie
x′i=fi(xk) (i,k=1, 2, 3, 4). (80)
I sistemi di riferimento associati alle trasformazioni di coordinate (78) sono i sistemi inerziali. Invece, ponendo nella (80) funzioni fι(xk) arbitrarie, i punti di riferimento (x′ι=costanti) nel sistema di riferimento specificato dalle coordinate (x′i) si muovono in modo del tutto arbitrario. Pertanto la validità del principio di relatività generale significherebbe che, a parità di condizioni, tutti i fenomeni fisici hanno lo stesso svolgimento in ogni sistema di riferimento.
b) Campi gravitazionali non permanenti
Come era stato fermamente sottolineato da Newton, le osservazioni più elementari paiono indicare che in natura non c'è posto per un principio di relatività generale. Si consideri per esempio un sistema di riferimento S* in rotazione uniforme, nel quale ogni punto di riferimento effettui un moto circolare con velocità angolare costante rispetto a un sistema inerziale S, come accade per i punti di un disco rotante rigidamente o di una giostra. In questo caso il moto di una particella rispetto a S* non è descritto da equazioni aventi la stessa forma delle equazioni del moto in S. Una particella libera, ad esempio, non descriverà sul disco una linea retta (si pensi alle graffiature casuali che la puntina di un giradischi può produrre sulla superficie di un disco in rotazione). Una particella lanciata con una certa velocità in direzione radiale sul disco rotante segue un cammino che devia dalla direzione radiale e una particella che sia inizialmente in quiete sul disco prenderà a muoversi in direzione radiale, in apparente contraddizione col principio di relatività generale. Un giocatore di tennis su una giostra, o a bordo di una nave, quando il mare è agitato, dovrà senza dubbio modificare la sua tecnica di gioco, poiché le leggi che regolano il moto della palla sono in apparenza manifestamente assai diverse da quelle alle quali è abituato.
Queste semplici osservazioni non implicano forse l'impossibilità del principio di relatività generale? O non può darsi, invece, che in un sistema inerziale e in un sistema di riferimento accelerato si abbiano condizioni diverse, qualcosa di analogo alla situazione descritta nel cap. 1, È b, dove l'apparente mancanza di relatività spaziale doveva attribuirsi alle condizioni fisiche diverse di due sistemi cartesiani con gli assi orientati in modo diverso ? A questo proposito è importante osservare il seguente fatto ben noto: per velocità piccole si ottiene una descrizione corretta del moto di una particella rispetto al riferimento rotante S*, se alla forza reale, nel secondo membro dell'equazione di Newton (1), si aggiungono le cosiddette forze apparenti, la forza di Coriolis e la forza centrifuga. Le forze apparenti sono proporzionali alla massa inerziale m. Ad esempio la forza centrifuga ha la forma
dove ω è la velocità angolare e r è la distanza dal centro del disco rotante. Queste forze venivano dette apparenti perché non potevano essere attribuite all'azione di alcun sistema vicino, come invece accade per tutte le altre forze fisiche effettive. Esse dipendono unicamente dall'accelerazione del sistema di riferimento rispetto alla distribuzione media di massa cosmica.
Dalla discussione precedente appare chiaro che il principio di relatività generale può essere valido soltanto se le forze apparenti possono essere considerate come forze fisiche effettive, nel qual caso la loro origine deve essere cercata nella presenza delle masse cosmiche, cioè esse devono essere una specie di forze gravitazionali. Contrariamente ai campi gravitazionali consueti, come quelli della Terra o del Sole, questo nuovo tipo di campo gravitazionale scompare nel passaggio dal sistema accelerato S* al sistema inerziale S. Campi di questo genere sono perciò chiamati campi gravitazionali non permanenti.
Da questo nuovo punto di vista il diverso comportamento di una particella in S e in S* è da attribuire al fatto che in S non c'è campo gravitazionale, mentre in S* è presente un campo gravitazionale dovuto al moto accelerato della distribuzione media di materia cosmica rispetto a S*; in altri termini, in S e in S* non si hanno uguali condizioni fisiche. Si è obiettato talvolta che il principio di relatività generale non è tanto un principio fisico, quanto piuttosto l'espressione di un atteggiamento filosofico, perché non sarà mai possibile stabilire uguali condizioni in S e in S*. È ben vero che non si può cambiare il moto della materia cosmica rispetto a S*; ma a questo riguardo la situazione in questo caso non è molto diversa da quella descritta nel cap. 1, È b a proposito della relatività spaziale. In quest'ultimo caso l'impossibilità pratica di creare condizioni esattamente uguali in due riferimenti cartesiani diversi situati sulla superficie della Terra non impedì di accettare fino in fondo l'idea della relatività spaziale. In ogni modo si deve riconoscere che il principio di relatività generale si è rivelato estremamente importante per lo sviluppo della fisica.
c) L'uguaglianza tra massa gravitazionale e massa inerziale
L'interpretazione dovuta a Einstein delle forze ‛apparenti' come forze gravitazionali è avvalorata in modo decisivo dal fatto che esse hanno una proprietà essenziale in comune con gli ordinari campi gravitazionali della Terra o del Sole, e precisamente la capacità di imprimere una medesima accelerazione a tutte le particelle libere, indipendentemente dalla loro massa. Si constata immediatamente che i campi non permanenti godono di questa proprietà (v. la 81); Galileo fu il primo a rilevarla nel caso del campo gravitazionale terrestre. Come risultato dei suoi esperimenti, egli affermò che tutti i corpi, nel vuoto, ‟cadono con la stessa velocità".
Per velocità piccole il moto di una particella in caduta libera è regolato dalle equazioni (1), con F uguale alla forza gravitazionale di Newton:
K=−mg grad χ=mgG. (82)
Qui χ rappresenta il potenziale gravitazionale, il cui gradiente determina il vettore campo gravitazionale G, e mg è la massa gravitazionale. La scoperta di Galileo implica chiaramente che il rapporto tra mg e la massa inerziale m che compare nel primo membro della (1) è una costante universale che, con un'opportuna scelta delle unità, può essere resa uguale a 1.
Nella teoria di Newton l'uguaglianza
m=mg, (83)
da cui segue l'equazione
a=G=−grad χ, (84)
nel caso di caduta libera, è un fatto empirico ‛casuale'. Invece nella teoria di Einstein la (83) è una condizione assolutamente necessaria per l'equivalenza tra campi gravitazionali permanenti e non permanenti e per una possibile validità del principio di relatività generale. È pertanto di estrema importanza il fatto che l'equazione (83) sia stata verificata sperimentalmente con grande precisione. Nel 1962 Dicke e collaboratori stabilirono che la differenza relativa tra m e mg è inferiore a 10-11 e recentemente Braginskii è riuscito ad abbassare questo valore al disotto di 10-12.
d) Il principio di equivalenza di Einstein
Per la proprietà sopra ricordata, un campo gravitazionale può essere caratterizzato dall'‛accelerazione gravitazionale' che non dipende dalla massa della particella di prova. Ciò vale sia per i campi non permanenti sia per i campi gravitazionali ordinari, come per esempio quello della Terra o del Sole, che sono detti permanenti perché non è possibile eliminarli completamente, nemmeno con l'introduzione di opportuni sistemi di riferimento. Appare allora del tutto naturale ammettere che entrambi i tipi di campo siano della stessa natura e seguano le stesse leggi fondamentali.
Mentre l'eliminazione completa di un campo gravitazionale permanente non è possibile, essa può almeno essere realizzata localmente adottando un sistema di riferimento che, in una regione limitata dello spazio e del tempo, sia costituito da punti di riferimento in caduta libera. All'interno di una ‛scatola di Einstein' di questo genere, non rotante, il campo gravitazionale è nullo. Com'è ben noto, nella cabina di un satellite orbitante attorno alla Terra, con i motori del razzo spenti, i corpi sono privi di peso. Una particella libera si muove in linea retta con velocità costante rispetto alle pareti della cabina e tutte le leggi della meccanica newtoniana sono sostanzialmente valide all'interno di una scatola di Einstein, se la velocità della particella è piccola rispetto a c. In aggiunta a ciò, Einstein ammise la seguente ipotesi, nota col nome di ‛principio (forte) di equivalenza': ‟tutte le leggi fisiche della relatività ristretta sono valide all'interno di una scatola di Einstein non rotante", la quale, per tal motivo, viene chiamata un riferimento inerziale locale. Si tratta di un riferimento limitato nello spazio e nel tempo, contrariamente ai sistemi inerziali della relatività speciale, che sono pensati come infinitamente estesi nello spazio. Questi ultimi, come vedremo, non sono che un'idealizzazione, poiché, a rigor di termini, i classici sistemi inerziali di estensione infinita possono realizzarsi soltanto nello spazio esterno vuoto, lontano da tutta la materia.
e) L'influenza dei campi gravitazionali sulle misure di spazio e di tempo
Nella relatività generale un campo gravitazionale non si limita a generare delle forze, ma, come vedremo, influisce su tutti i fenomeni fisici. In particolare influisce sulle misure di spazio e di tempo effettuate mediante regoli e orologi standard. Ciò si vede facilmente nel caso del campo gravitazione non permanente presente nel sistema rotante S* considerato nel È b.
Per stabilire quale geometria fisica sia valida sul disco rotante, si può misurare la lunghezza di curve segnate sul disco con l'uso di regoli standard in quiete sul disco stesso e si constata facilmente che questa geometria è non euclidea. A una distanza r dal centro i regoli sul disco si muovono su circonferenze con velocità rω rispetto al sistema inerziale S. I regoli che sono disposti lungo una circonferenza (r=costante) subiscono pertanto la contrazione di Lorentz, mentre i regoli disposti in direzione radiale non sono contratti. Di conseguenza il rapporto tra la lunghezza della circonferenza e quella del suo raggio, come risulta dalla misura effettuata mediante regoli standard sul disco rotante, è più grande del valore euclideo 2π. Perciò lo spazio fisico in S* è del tipo considerato nel cap. 2, È r. Il tensore metrico γικ, quale risulta dalle misure, non soddisfa la condizione (79) e pertanto non esistono coordinate cartesiane. Lo spazio a tre dimensioni è uno spazio riemanniano curvo.
In modo analogo si ricava dalla (21) che un orologio standard che si trovi in quiete sul disco a una distanza r ritarda rispetto agli orologi in S. Precisamente, tra i tempi dτ e dt, misurati rispettivamente dagli orologi in S* e in S, sussiste la seguente relazione:
dτ=dt √-1-−-r-2-ω-2-/-c-2. (85)
Da ciò consegue, tenuto conto della (22), che la frequenza della luce emessa con frequenza propria ν0 da una sorgente posta sul disco a distanza r, appare, a un osservatore situato al centro, pari a
ν=ν0 √-1-−-r-2-ω-2-/-c-2. (86)
Dal punto di vista di un osservatore in S questi risultati di misure fatte con regoli e orologi standard in quiete in S* appaiono come dovuti al moto degli strumenti rispetto a S. Un osservatore in S*, invece, dove gli strumenti sono in quiete, attribuirà questi effetti al campo gravitazionale presente in S*, perché, in base al principio di relatività generale, l'unica cosa che distingue dal punto di vista fisico S* da un sistema inerziale è la differenza del moto relativo della materia cosmica.
Facendo uso della (81) le equazioni (85) e (86) si possono anche scrivere nella forma
dτ=dt √-1-+-2-χ-/-c-2, ν=ν0 √-1-+-2-χ-/-c-2, (87)
dove χ è il potenziale gravitazionale scalare del campo centrifugo. Queste formule, ottenute per un campo gravitazionale non permanente molto particolare, esprimono la dipendenza dal potenziale gravitazionale della rapidità di funzionamento di orologi standard in quiete. Nel È k vedremo che le equazioni (87) sono valide anche in un campo gravitazionale stazionario di tipo permanente.
f) Formulazione delle leggi fisiche in presenza di campi gravitazionali non permanenti
Poniamoci ora il problema di formulare le leggi fisiche in accordo col principio di relatività generale. Si tratta di un compito facile nel caso di campi non permanenti. Infatti in tal caso si può introdurre un sistema di coordinate di Lorentz
xLι=(x, y, z, ctL), (88)
nel quale le equazioni fondamentali hanno la forma stabilita nella relatività speciale. Le equazioni della meccanica del punto, ad esempio, hanno la forma (62) e l'intervallo nello spazio di Minkowski è dato dalla (48):
Nel sistema inerziale corrispondente alle coordinate (88) tutti i punti di riferimento (xLι) si muovono con la medesima velocità costante rispetto alla materia cosmica e il tempo tL di un evento situato nel punto (xLι ) è segnato sull'orologio standard (accordato con i rimanenti) che si trova in quiete in quel punto.
Il sistema di riferimento più generale consiste in un insieme di punti di riferimento che si muovono in modo del tutto arbitrario, come i punti materiali di un fluido che scorre. In un assegnato sistema di riferimento di questo tipo si può introdurre un sistema S di coordinate spazio-temporali in molti modi. In primo luogo ciascun punto di riferimento può essere caratterizzato in modo univoco da un insieme di tre numeri costanti (xι), in maniera tale che punti vicini siano caratterizzati da piccole differenze di coordinate (dxι). In secondo luogo, i diversi eventi in corrispondenza di un dato punto P possono essere descritti da una variabile t registrata da un ‛orologio coordinato' posto in P. L'orologio coordinato può essere, ma non è necessario che sia, un orologio standard. L'esempio del sistema rotante al quale si riferisce la (86) mostra che non è sempre comodo adottare orologi standard per la descrizione dei tempi, a causa della diversa velocità di funzionamento di orologi situati in posti diversi del disco. Qualsiasi dispositivo che fornisca una successione crescente di numeri può fungere da orologio coordinato, purché le coordinate spazio-temporali
(xi=(xι, ct) (90)
di due eventi vicini differiscano soltanto di quantità piccole (dxi).
Il legame tra queste coordinate e le coordinate di Lorentz (88) è dato da una trasformazione generale del tipo
xi=fi(xkL). (91)
Un confronto tra la (91) e la trasformazione generale (72) in uno spazio tridimensionale mostra che le coordinate spazio-temporali (90) sono coordinate curvilinee generali nello spazio di Minkowski. In analogia con la (74) si ottiene allora, per l'intervallo (89), mediante queste coordinate, l'espressione
dove le dieci componenti indipendenti gik(xl) del ‛tensore metrico quadridimensionale' sono funzioni delle coordinate spazio-temporali xl. Nel caso in esame, cioè nel caso di campi gravitazionali non permanenti, le funzioni gik soddisfano un sistema di equazioni differenziali analogo alle equazioni (79) valide per uno spazio euclideo tridimensionale. Pertanto si ha
Riklm=0, (93)
dove Riklm è il tensore di curvatura quadridimensionale di rango 4, costruito algebricamente mediante le gik (e le loro derivate) allo stesso modo di come Pικλμ è costruito mediante il tensore metrico spaziale γικ. Le equazioni (93) esprimono in forma matematica il fatto che lo spazio pseudoeuclideo di Minkowski è ‛piatto'. Esse assicurano la possibilità di introdurre coordinate di Lorentz nelle quali le gik abbiano la forma della relatività speciale:
g11=g22=g33=1, g44=−1, gik=0 per i≠k. (94)
Nel cap. 2, È q abbiamo mostrato che il tensore metrico spaziale può essere determinato sperimentalmente effettuando misure con regoli standard. Analogamente, si può mostrare che, in qualsiasi sistema di coordinate (xi), le gik si possono ottenere mediante misure eseguite utilizzando regoli standard, orologi standard e segnali luminosi (v. Møller, 19722, pp. 268-271). In particolare si trova che la distanza spaziale dσ tra due punti di riferimento vicini è data dalla (74), con
γικ=gικ−gι4gκ4/g44. (95)
In generale le γικ dipendono dalla variabile temporale t, ossia lo spazio fisico nel sistema di riferimento in questione varia col tempo, come accade per la geometria di una superficie curva a due dimensioni, che sia sottoposta a deformazioni arbitrarie. Anche se il sistema di riferimento è rigido, cioè se le γικ sono indipendenti dal tempo, in generale esso non soddisferà le condizioni (79) e ciò significa che lo spazio fisico è curvo anche se il quadrispazio è piatto. Abbiamo già incontrato un esempio di ciò nel caso del sistema rotante S* considerato nel È e.
Poiché si possono dare regole ben precise per misurare le gικ, queste quantità, che indicheremo nel complesso come ‛campo G', devono essere considerate come grandezze fisiche. Il campo G è anzi, e in particolar modo, una grandezza fisica fondamentale; infatti, nella relatività generale, esso appare come costituente essenziale nella formulazione di tutte le leggi fisiche. La validità del principio di relatività generale può essere anche espressa affermando che tutte le leggi fisiche sono della forma (56), (57), dove il campo G è in tutti i casi compreso tra le grandezze fisiche A, B, ... . È chiaro inoltre che le derivate parziali di A, B, ... , che pure compaiono come argomenti di F; vanno ora intese come derivate rispetto alle arbitrarie coordinate curvilinee spazio-temporali (xi).
Per le leggi della fisica macroscopica la forma della funzione F si ottiene scrivendo le equazioni vettoriali a quattro dimensioni della relatività speciale in termini di queste coordinate curvilinee. Le equazioni (62) della meccanica del punto in coordinate curvilinee hanno la forma
dove la derivata assoluta quadridimensionale è definita da
si noti l'analogia delle (96) e (97), rispettivamente, con le (77) e (76), che sono le equazioni vettoriali tridimensionali in coordinate curvilinee. Qui i simboli di Christoffel quadridimensionali sono costruiti a partire dalle gik allo stesso modo in cui i simboli di Christoffel tridimensionali sono costruiti a partire dalle γικ. Pertanto le Γikl sono uguali a zero ovunque le derivate prime ∂gik/∂xl si annullino.
In modo analogo, in coordinate curvilinee le equazioni di conservazione (69) del momento e dell'energia sono sostituite dalle
Divi{T}=0 (i=1, 2, 3, 4), (98)
dove T è il tensore energia-impulso e Divi indica l'operatore divergenza dotato di covarianza generale, il quale differisce dall'ordinaria divergenza della (69) per termini proporzionali ai simboli di Christoffel.
Risolvendo le equazioni differenziali (96) si ottiene per la linea oraria di una particella una rappresentazione parametrica in coordinate curvilinee, corrispondente alle equazioni (55) in un sistema di coordinate di Lorentz. Per due punti-eventi vicini sulla linea oraria risulta, in base alle (53) e (92),
Qui τ è il tempo proprio invariante misurato da un orologio standard che segua la particella nel suo moto. Per un orologio standard in quiete in un dato punto di riferimento, ossia per dxι=0 (ι=1, 2, 3), la (99) si riduce a
dτ0=√-−-g-44-(-d-x-4-)-2-/-c-2 =√-g-4-4--d-t. (99a)
Analogamente si ha, in virtù delle (54) e (92), per il caso di due punti vicini sulla linea oraria di un segnale luminoso,
g) Campi gravitazionali permanenti
La proprietà che caratterizza i campi gravitazionali permanenti, come quello della Terra o del Sole, è il fatto che essi non possono essere eliminati completamente, ma solo localmente. È perciò naturale supporre che il continuo spazio-temporale sia in questo caso uno spazio riemanniano generale nel quale il tensore metrico non soddisfa le equazioni (93); ciò significa appunto che non è possibile introdurre coordinate spazio-temporali pseudocartesiane o lorentziane. Tuttavia, come già nel caso bidimensionale, anche in uno spazio quadridimensionale ‛curvo' è sempre possibile introdurre sistemi di coordinate (xºi) che risultino coordinate geodetiche in un assegnato punto-evento P, ossia tali che le çik assumano in P i valori (94) della relatività speciale e che le derivate prime ∂çik/∂ xºl si annullino in quel punto. Un esame della trasformazione che conduce a queste coordinate mostra (v. Møller, 19722, pp. 319-320) che i punti di riferimento (xºι=costanti) in una piccola regione di spazio e di tempo attorno all'evento P costituiscono una scatola di Einstein in caduta libera. Secondo il principio di equivalenza enunciato nel È d, ciò vuol dire che le coordinate geodetiche (xºi) costituiscono un ‛sistema di Lorentz locale' nel quale le equazioni fisiche fondamentali assumono, in P, la stessa forma che esse hanno nella relatività speciale.
Pertanto la formulazione generale delle leggi fisiche ottenuta nel paragrafo precedente nel caso di campi gravitazionali non permanenti deve valere anche nel caso di campi permanenti. Ad esempio le equazioni della meccanica del punto (96) e (97) e le leggi (98) di conservazione della quantità di moto e dell'energia, nel caso di una distribuzione continua di materia, devono valere per tutti i tipi di campo gravitazionale; infatti, in un sistema geodetico, nel punto P i simboli di Christoffel si annullano e queste equazioni si riducono alle corrispondenti equazioni (62) e (69) della relatività speciale. Di fatto tutte le equazioni del È f hanno validità generale, ad eccezione delle equazioni (93) che caratterizzano i campi non permanenti.
h) L'approssimazione newtoniana
Le equazioni (96) e (97) per la linea oraria di una particella nel continuo spazio-temporale a quattro dimensioni sono state ottenute sulla base del principio di relatività generale, del principio di equivalenza e di alcune ipotesi piuttosto astratte sulle proprietà geometriche di questo spazio puramente matematico. Benché, da un punto di vista formale, queste ipotesi appaiano del tutto naturali e addirittura necessarie, ci si può domandare se queste equazioni formali corrispondano a qualcosa che accade realmente nel mondo fisico. Per una particella libera, per la quale è Fi=0, le equazioni (96), con i=1, 2, 3, si riducono alle
che devono quindi costituire le equazioni che descrivono il moto della particella nello spazio fisico.
In tempi prerelativistici si dava per certo che lo spazio fisico fosse uno spazio tridimensionale euclideo. Invece con l'avvento della relatività generale ci si è resi conto che (99a) lo spazio fisico non ha affatto, di per sé, una metrica ben definita. La struttura dello spazio fisico può avere un significato preciso soltanto rispetto a un assegnato sistema di riferimento e, come si è visto nel È f; il tensore metrico spaziale (95) non si identifica in generale con quello della geometria euclidea.
D'altra parte è noto che nessuna misura diretta di distanze eseguita sulla superficie della Terra ha mai rivelato alcuna deviazione dalle leggi della geometria euclidea e prima dell'avvento della relatività generale nessuno metteva in dubbio il fatto che un sistema di riferimento legato alla Terra o al Sole costituisse, con alto grado di precisione, un sistema inerziale nel senso classico. Pertanto in molte applicazioni, per esempio in meccanica celeste, si può ammettere la possibilità di introdurre un sistema di coordinate (xi) approssimativamente lorentziane e questo significa che le deviazioni delle componenti gik del tensore metrico dai valori (94) della relatività speciale sono tanto piccole da poterne trascurare i quadrati. Oltre a questa ipotesi di un ‛campo gravitazionale debole' faremo l'ipotesi che il campo sia quasi statico, così che si possano trascurare le derivate temporali delle gik. Infine supporremo che la velocità della particella sia piccola rispetto a c. In queste ipotesi, che sono soddisfatte nel caso della meccanica celeste, la somma a secondo membro della (101) si riduce all'unico termine con k=l=4 e, ponendo
g44=−(1+2χ/c2), (102)
si vede facilmente che le (101) si riducono alle
che coincidono con le equazioni newtoniane (84).
È notevole il fatto che nel campo della meccanica celeste le equazioni (101) della relatività generale, senza nessuna ipotesi ad hoc, si riducano in prima approssimazione alle equazioni newtoniane del moto di una particella in un campo gravitazionale. Pertanto le numerose osservazioni astronomiche che confermano le previsioni della teoria di Newton possono esser considerate in un certo senso anche come una conferma della validità delle equazioni della relatività generale. Sono tuttavia più interessanti, come è ben naturale, le differenze tra le previsioni delle due teorie, anche se, in tutti i casi pratici, tali differenze risultano molto piccole. Nella successiva approssimazione le piccole deviazioni della geometria spaziale dalla geometria euclidea e i termini dipendenti dalla velocità, che abbiamo trascurato nella (103), non sono più trascurabili.
i) Campi gravitazionali intensi e alte velocità
Nel caso di campi gravitazionali intensi e di velocità elevate le equazioni (101) sono più complicate; tuttavia, nella maggior parte delle applicazioni, basta considerare il caso ‛statico', nel quale si può introdurre un sistema di coordinate tale che le gik risultino indipendenti dal tempo e insieme si abbia
gι4=0 (ι=1, 2, 3), (104)
ossia, in virtù della (95),
γικ=gικ. (105)
In questo caso (v. Møller, 19722, p. 381), le equazioni (101) si possono scrivere nella forma semplice
Il primo membro di questa equazione è la derivata assoluta tridimensionale (76), costruita mediante il tensore metrico spaziale (105). Inoltre la ‛massa' m è definita come il fattore di proporzionalità nella relazione tra impulso e velocità,
e χ è il potenziale gravitazionale scalare definito, anche nel caso di campo intenso, dalla (102). Perciò nel caso statico la forza gravitazionale a secondo membro della (106) è del tutto simile alla forza newtoniana (82). Nel caso che la (104) non sussista, la forza gravitazionale relativistica contiene anche termini dipendenti dalla velocità che sono simili alla forza di Coriolis presente su un disco rotante.
j) Le equazioni del campo gravitazionale
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto in qual modo un assegnato campo gravitazionale, ossia un assegnato campo metrico gik, influenzi i fenomeni fisici. Un problema altrettanto importante e molto più difficile è quello di stabilire le equazioni del campo gravitazionale dalle quali si possa calcolare il campo G prodotto da un assegnato sistema fisico. Dopo vari anni di lavoro intenso questo problema fu alla fine risolto, nel 1915, da Einstein (v., 1915). Le equazioni di campo di Einstein (v. Møller, 19722, pp. 423-427) hanno la forma
Gik=−κTik, (108)
ove Tik è il tensore energia4mpulso del sistema fisico. Il fattore κ è una costante legata alla costante gravitazionale k di Newton dall'equazione
κc2=8πk/c2 (109)
e Gik è un tensore simmetrico, funzione algebrica delle componenti del tensore di curvatura Riklm. Perciò Gik è una funzione algebrica formalmente invariante di gik e delle sue derivate parziali prime e seconde e la (108) rappresenta un sistema di dieci equazioni differenziali del secondo ordine alle derivate parziali per le funzioni gik.
Le equazioni di campo di Einstein godono delle seguenti notevoli proprietà.
1. In quanto relazioni tensoriali esse sono in accordo col principio di relatività generale, ossia sono del tipo (56), dove le funzioni F hanno la stessa forma in tutti i sistemi di coordinate spazio-temporali.
2. Nel caso di campi gravitazionali deboli e di piccole velocità della materia che genera il campo, i secondi membri delle (108) sono trascurabili, tranne che per l'equazione di indici i=k=4, la quale, con un'opportuna scelta delle coordinate, si riduce alla
In questa equazione χ è il potenziale definito dalla (102) e μ=h/c2=T44/c2 è la densità di massa data dalla (65). La (110) è identica all'equazione di Poisson che determina il campo gravitazionale nella teoria di Newton. Ciò completa la prova che la teoria di Einstein contiene la teoria gravitazionale di Newton come prima approssimazione (v. È h).
3. Tuttavia la proprietà più notevole della (108) è legata al fatto che la divergenza covariante (in senso generale) del tensore Gik è identicamente nulla. Perciò la legge di conservazione della quantità di moto e dell'energia nella forma (98) risulta essere una conseguenza delle equazioni einsteiniane del campo gravitazionale. Come si è osservato prima (v. cap. 2, È p), queste equazioni determinano il moto della materia nel sistema fisico. Nella teoria di Newton le leggi meccaniche che governano il moto delle sorgenti sono indipendenti dalle equazioni che determinano il campo gravitazionale. E infatti questo moto può essere assegnato arbitrariamente in tale teoria. Invece nella relatività generale le equazioni del campo gravitazionale determinano, per assegnate condizioni iniziali, sia il campo sia il moto delle sorgenti. Questa proprietà delle equazioni (108) in virtù della quale le leggi della meccanica sono inseparabilmente connesse con le leggi della gravitazione, costituisce uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Einstein. La fusione di due vasti rami della fisica insieme con la coerenza interna e la potenza della teoria danno un alto grado di credibilità alle conseguenze fisiche di tale formalismo.
k) Verifiche sperimentali dei tre classici effetti di Einstein
Mentre le conseguenze della relatività speciale sono state verificate in modo estremamente accurato in numerosi esperimenti, le verifiche sperimentali della relatività generale sono state, per mezzo secolo, limitate ai tre classici effetti di Einstein: lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali emesse dai corpi celesti, l'avanzamento del perielio di Mercurio e la deflessione della luce nel campo gravitazionale del Sole. A causa delle difficoltà di un'accurata valutazione delle condizioni fisiche sui corpi celesti, queste prime verifiche della teoria si dovevano considerare alquanto incerte e pareva piuttosto improbabile che sarebbe mai stato possibile verificare gli effetti in questione con esperimenti eseguiti sulla Terra o nelle sue immediate vicinanze. Invece nella seconda metà degli anni cinquanta la situazione è radicalmente cambiata a questo riguardo. L'enorme progresso raggiunto dalla tecnica sperimentale e il lancio di satelliti artificiali hanno aperto nuove e inattese possibilità di verifica per la teoria.
Il più elementare tra i tre effetti classici è lo spostamento einsteiniano delle righe spettrali emesse da atomi in quiete in un campo gravitazionale stazionario e osservate da luoghi con diverso potenziale gravitazionale. Dalle (99) e (102) si vede che la velocità di funzionamento di un orologio standard in quiete in un punto di riferimento con potenziale χ è legata alla velocità di funzionamento dell'orologio coordinato dalla formula
dτ=dt √-1-+-2-χ-/-c-2. (111)
In un campo stazionario, dove le gik sono indipendenti da t, la frequenza di un'onda luminosa misurata in unità temporali t (frequenza ‛coordinata') è costante lungo il raggio. Invece, secondo la (111), la frequenza propria ν, misurata in unità di tempo proprio τ0, varia in modo tale che risulta
ν √-1-+-2-χ-/-c-2 =costante (112)
lungo il raggio. Perciò, se una riga spettrale di frequenza propria ν1 viene emessa al punto 1 ove è presente un potenziale gravitazionale χ1, la frequenza propria osservata al punto 2 con potenziale gravitazionale χ2 è
ed è quindi
Le prime osservazioni degli spostamenti in frequenza degli spettri emessi dai corpi celesti mostrarono soltanto un accordo piuttosto modesto con la formula (113). Invece esperimenti terrestri eseguiti, utilizzando l'effetto Mössbauer, da Pound e altri (1960 e 1964), hanno confermato la formula (113) con la precisione di circa l'un per cento. Gli esperimenti di Cranshaw e altri, cui si è accennato nel cap. 2, È h, possono anche essere considerati come una verifica della formula generale (111) per il campo gravitazionale non permanente presente nel sistema rotante S* (v. le considerazioni fatte alla fine del È e; v. Møller, 19722, È 12.1).
Mentre il primo effetto di Einstein è indipendente dalla forma delle equazioni di campo, la trattazione del secondo effetto, l'avanzamento del perielio dei pianeti, richiede la risoluzione delle equazioni statiche di Einstein (108) nel caso di una distribuzione sferica di materia in condizioni statiche. Questo problema fu risolto nel 1916 da Schwarzschild, il quale determinò il potenziale scalare χ e il tensore metrico spaziale γικ. Quest'ultimo differisce dal corrispondente tensore di uno spazio euclideo per una quantità dell'ordine di χ/c2 (v. Møller, 19722, È 11.6). Introducendo nella (106) queste espressioni di χ e γικ, si può calcolare il moto di un pianeta nel campo gravitazionale del Sole.
Nell'approssimazione più bassa, in cui vale la teoria di Newton, l'orbita del pianeta è un'ellisse kepleriana fissa. Invece nell'approssimazione successiva, in cui si tiene conto delle deviazioni della metrica spaziale dalla geometria euclidea, l'ellisse orbitale effettua una lenta precessione nella stessa direzione del moto del pianeta sull'ellisse. Per Mercurio, pianeta per il quale questo effetto è più rilevante, la teoria predice un avanzamento del perielio di 42,9″ per secolo. Negli ultimi anni è stata anche presa in considerazione la possibile influenza di un momento di quadrupolo gravitazionale del Sole, desunto da misure del suo schiacciamento visibile (Dicke, 1964 e 1970). Per Venere e Terra si è trovato che le differenze tra i valori osservati e quelli calcolati per l'avanzamento del perielio sono compresi entro i limiti degli errori sperimentali. Alcune recenti osservazioni dell'asteroide Icaro sono pure apparse in accordo con le previsioni della relatività generale entro il 20% (v. Møller, 19722, È 12.2).
Il terzo effetto di Einstein riguarda la deflessione che subisce la luce nel campo gravitazionale del Sole. La propagazione di un segnale luminoso è descritta dall'equazione (100). Perciò per un campo statico si ottiene, facendo uso della (102) e delle (104) e (105),
che conduce alla seguente espressione per la velocità della luce c* in un campo gravitazionale statico:
Dalla (115) si vede che il campo gravitazionale influenza la velocità della luce allo stesso modo di un mezzo rifrangente non dispersivo e non omogeneo con indice di rifrazione
n=1/√-1-+-2-χ-/-c-2. (116)
Pertanto nel campo gravitazionale non omogeneo del Sole c'è da aspettarsi un incurvamento dei raggi luminosi.
Le equazioni del moto di un segnale luminoso si possono ottenere come caso limite dell'equazione (106) per una particella di massa propria nulla che si muova con velocità c*. Si può mostrare (v. Møller, 19722, È 10.5) che la traiettoria di un segnale soddisfa il principio di Fermat, secondo il quale il cammino effettivamente percorso dalla luce è tale da rendere minimo il ‛cammino ottico'. Ciò è espresso dal principio variazionale
È notevole il fatto che questo principio formulato nel XVII secolo possa ancora trovare applicazione nella più progredita delle moderne teorie della propagazione luminosa. Tuttavia la (117) mostra che nella versione moderna del principio influiscono sul cammino del raggio non soltanto le variazioni della velocità della luce, ma anche le deviazioni delle γικ dai valori euclidei.
Nel caso di un raggio stellare che sfiori il lembo del Sole, dai calcoli si ottiene un angolo di deflessione pari a 1,75″. Se si trascura il carattere non euclideo dello spazio in vicinanza del Sole, si ottiene soltanto la metà di questo valore. Osservazioni eseguite durante eclissi totali di Sole sembrano essere in buon accordo con il valore calcolato, ma dato che l'effetto posto in evidenza da queste osservazioni rientra appena nei limiti degli errori sperimentali, non si può attribuire troppa importanza all'accordo quantitativo. Osservazioni eseguite recentemente sulla deflessione della radiazione emessa da radiostelle (Seielstadt e altri, 1971; Muhleman e altri, 1971) hanno fornito una verifica molto più accurata della formula di Einstein. Si può comunque affermare con certezza che la deflessione è superiore al valore 0,87″ ottenuto trascurando la curvatura dello spazio fisico in vicinanza del Sole (v. Møller, 19722, § 12.3).
4. Conclusione
Non è stato naturalmente possibile, in questo articolo, dare più di un semplice abbozzo della teoria della relatività e delle sue conseguenze sperimentali, ma è da sperare che il lettore abbia avuto un'idea della bellezza, della coerenza e della forza di persuasione di questa affascinante teoria, che ha avuto influenze della più vasta portata sullo sviluppo della fisica. Assolutamente nessuna delle leggi fisiche prerelativistiche è rimasta invariata, ma, come sempre accade nelle scienze esatte, questo sviluppo è consistito in un'evoluzione piuttosto che in una rivoluzione. Le leggi prerelativistiche sono tuttora valide nei limiti in cui esse erano state derivate: le equazioni di Maxwell sono valide per tutti i fenomeni elettromagnetici macroscopici quando non sono presenti campi gravitazionali e le leggi di Newton della meccanica e della gravitazione valgono per corpi macroscopici quando le velocità in gioco sono piccole e quando i campi gravitazionali sono deboli e quasi statici, e così di seguito.
È bene osservare inoltre che il campo di applicazione delle vecchie teorie ricopre ancora la maggior parte della nostra esperienza. La teoria della relatività ha messo in luce i limiti di questo campo e inoltre ci ha fornito i mezzi per trattare i fenomeni più insoliti che si verificano al di fuori di questo dominio, ma è certo che anche questa teoria avrà un campo di validità limitato, come verrà messo in luce non appena fenomeni ancor più insoliti verranno scoperti. Nel mondo macroscopico ci si possono aspettare deviazioni dall'attuale teoria della relatività solo nel caso di campi gravitazionali ultraintensi. Nel campo della fisica microscopica è tuttora oggetto di discussione come conciliare le idee della teoria quantistica con i principi della teoria della relatività.
La vera rivoluzione realizzata dalla teoria della relatività è una rivoluzione concettuale. Essa ha cambiato il nostro modo di pensare e ci ha insegnato che tutti i concetti, per quanto naturali possano apparire, sono costruzioni mentali adattate alla descrizione di un certo insieme di fenomeni e che, come tali, debbono essere abbandonati o generalizzati alla luce di nuove scoperte.
bibliografia
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Gravitazione e cosmologia di Tullio Regge
sommario: 1. Il formalismo della relatività generale: a) introduzione; b) le varietà riemanniane; c) tetradi e forme differenziali; d) curvatura; e) il principio di equivalenza; f) le geodetiche; g) le equazioni di campo di Einstein. 2. Metriche isotrope e verifiche della relatività generale: a) il limite statico; b) lo spostamento gravitazionale verso il rosso; c) la metrica di Schwarzschild; d) moto dei corpi in un campo a simmetria sferica; e) le onde gravitazionali; f) test osservativi della relatività generale; g) modelli stellari relativistici; h) collasso gravitazionale e buchi neri. 3. Cosmologia relativistica: a) il principio cosmologico e i vettori di Killing; b) le metriche di Robertson e Walker; c) lo spostamento verso il rosso; d) i modelli di Friedmann; e) universo aperto, universo chiuso; f) lo stadio iniziale dell'universo. □ Bibliografia.
1. Il formalismo della relatività generale
a) Introduzione
La teoria della relatività generale nacque nel 1916 con la pubblicazione del fondamentale lavoro di Einstein Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie, in cui venivano poste le basi della moderna teoria della gravitazione. Sono trascorsi due terzi di secolo da questa data e la teoria ha subito una notevole evoluzione, che ha portato a nuove formulazioni di alto interesse teorico. È ripreso anche il lavoro verso la teoria unificata, che costituì l'obiettivo preminente dello stesso Einstein negli ultimi anni della sua vita (v. Woolf, 1980). Infine, lo Sviluppo rigoglioso dell'astrofisica ha aperto nuovi orizzonti alla teoria, conferendole concretezza e facendola emergere dallo sterile accademismo in cui si era rifugiata (v. Weinberg, 1972; v. Misner e altri, 1973).
Nel presente articolo si cercherà di toccare i punti essenziali di questo progresso, esponendo le vedute correnti tra i fisici teorici sul ruolo della relatività generale nella fisica contemporanea. Per questa ragione, si utilizzeranno notazioni e linguaggio matematico più moderni di quelli adottati nel precedente articolo di C. Møller, evidenziando - ove necessario - le relative corrispondenze.
Punto di partenza sarà una breve presentazione della relatività ristretta. In questa teoria l'insieme degli eventi fisici viene organizzato nel continuo dello spazio-tempo M di Minkowski. Un evento in M è identificato da quattro coordinate xα, α=1, 2, 3, 4 (v. articolo precedente, formula (47): x=x1, y=x2, z=x3, t=x4), ovvero, come coordinata temporale, si introduce x0=ct, dove c è la velocità della luce nel vuoto; in questo caso gli indici α, β, ... p0ssono assumere i valori 0, 1, 2, 3. L'evidenza empirica mostra che lo stesso continuo spazio-temporale può essere descritto da infiniti osservatori diversi, detti inerziali, il cui moto reciproco è rettilineo e uniforme. Per questi osservatori vale il principio di inerzia: ‛un corpo su cui non agiscono forze si muove di moto rettilineo uniforme'.
Siano A, B due osservatori inerziali generici, P un evento generico di coordinate xAα, xBα rispettivamente in A e in B. È anche un fatto empirico che la relazione tra xAα e xBα è univoca e lineare, cioè del tipo
dove le Λαβ e le Ξα sono coefficienti costanti che dipendono da A, B. Le Λαβ sono vincolate dalla condizione
essendo
η00=−1, η11=η22=η33=1, ηαβ=0 se α≠β. (3)
Nella (1), come in seguito, sono omessi i simboli di somma sugli indici ripetuti. Usando la (I) è facile verificare che la condizione (2) implica l'invarianza della forma quadratica
Questa invarianza significa, dal punto di vista fisico, che la velocità della luce nel vuoto è indipendente dall'osservatore inerziale. Siano infatti P1 e P2 due eventi di coordinate rispettivamente xα e xα+dxα, tali che la corrispondente forma ds2 sia nulla (v. articolo precedente, eq. 54):
dividendo per (dt)2, si vede che vale la relazione
per cui un segnale che parta da P1 al tempo t arriva in P2 al tempo t+dt viaggiando alla velocità della luce nel vuoto, c=(299.792,5±0,3) kms-1. Sotto le condizioni (2), questa relazione tra i due eventi non dipende dal sistema di riferimento e ha quindi un significato assoluto.
Le (Λαβ) si chiamano matrici di Lorentz; esse dipendono da sei parametri reali (tre angoli di Eulero che esprimono l'inclinazione relativa degli assi spaziali di A, B e le tre componenti della velocità relativa tra A e B). L'insieme delle matrici (Λαβ), al variare di tali parametri, forma un gruppo indicato con SO(3, 1) (v. Lyubarskij, 1960). Aggiungendo le traslazioni Ξα, si ottengono le trasformazioni non omogenee di Lorentz (1), dipendenti da 10 parametri, dette anche trasformazioni di Poincaré in una nomenclatura più moderna e storicamente corretta.
Lo spazio-tempo ???OUT-M??? di Minkowski è dunque lo spazio lineare a quattro dimensioni con la struttura addizionale della forma quadratica (4). Se questa fosse definita positiva, lo spazio così ottenuto sarebbe quello euclideo a quattro dimensioni; non è così nel presente caso, poiché le (3) e (4) definiscono una metrica detta pseudoeuclidea.
Nulla vieta di considerare nello spazio di Minkowski degli osservatori non inerziali A, B, le cui coordinate χAα, xBα per lo stesso evento, sono legate da relazioni non più lineari del tipo
che sostituiscono la (1). Per un osservatore non inerziale A, la forma quadratica ds2 non è più data dalla (4), bensì assume la forma
(v. articolo precedente, formula 92), dove le gαβ(xA, A) sono funzioni che dipendono dalla scelta delle coordinate xA, e quindi dall'osservatore A. Inoltre, in generale, non ci si aspetta che le xA siano coordinate che coprono tutto lo spazio ???OUT-M???. Si consideri, ad esempio, il seguente caso particolare della (5):
è evidente che, mentre le xBα descrivono tutto ???OUT-M???, le xAα coprono solamente il semispazio x¹A>0.
Lo spazio-tempo di Minkowski è un caso molto particolare di varietà differenziabile riemanniana, o meglio pseudoriemanniana, per via della metrica (3) non definita positiva (η00=−1). Lo studio di queste varietà è essenziale per la relatività generale; ad esse è dedicato il paragrafo seguente.
b) Le varietà riemanniane.
Sia ???OUT-M???n uno spazio topologico (v. Kobayashi e Nomizu, 1963) e {UA} un insieme di aperti di ???OUT-M???n che ricoprono ???OUT-M???n: ⋃A UA=???OUT-M???n. Per ‛carta locale' (brevemente carta) in ???OUT-M???n si intende una coppia (UA, ϕA), dove ϕA:UA→OA è un omeomorfismo tra UA e il sottoinsieme aperto OA di ???OUT-R???n. In linguaggio meno astratto, ciò significa identificare i punti in UA mediante n coordinate cartesiane x1, x2, ..., xn in OA. Per ‛atlante' di ???OUT-M???n si intende la collezione di carte (UA, ϕA). Un tale atlante costituisce una varietà differenziabile di ordine n sullo spazio ???OUT-M???n, se, per ogni A, B, tali che UA⋂UB≠0/, la ϕBϕA-1:ϕA(UA⋂UB)→ϕB(UA⋂UB) è un'applicazione differenziabile di ϕA(UA⋂UB) su ϕB(UA⋂UB). Questa condizione significa: 1) ove un punto appaia in due carte diverse (UA, ϕA), (UB, ϕB), esso sarà identificato da due distinte n-ple di coordinate: xA=(x¹A, x²A, ... , xnA), xB=(x¹B, x²B, ..., xnB); 2) il passaggio tra le coordinate xA e xB deve effettuarsi mediante funzioni differenziabili. Nella maggior parte delle applicazioni relativistiche si assume, per semplicità, differenziabilità indefinita, cioè funzioni di classe C∞.
Per quanto detto, lo spazio di Minkowski è una varietà differenziabile ???OUT-M???4 che possiede un ricoprimento costituito da un solo aperto U≡???OUT-M???4 lo spazio stesso. Le coordinate xAα identificano in questo caso una carta particolare (U, ϕA); carte diverse avranno 10 stesso aperto e differiranno per trasformazioni di Poincaré. L'atlante, in questo caso, è piuttosto banale.
L'utilità del concetto appare evidente se si pensa allo spazio4empo della relatività generale. Prima di sviluppare le considerazioni fisiche che conducono a questa asserzione, conviene accennare alle varie strutture matematiche definibili su una varietà differenziabile. Come già accennato, a meno di non limitarsi al caso banale dello spazio cartesiano ???OUT-R???n, ci si aspetta che non esistano su di una varietà generica ???OUT-M???n aperti che coincidano con ???OUT-M???n; una carta generica servirà a descrivere solamente un frammento della varietà. Tuttavia la conoscenza delle funzioni ϕBϕA-1 consente di ‛incollare insieme i vari elementi del ricoprimento, fornendo un atlante per tutta la varietà.
Sia dato un punto P∈???OUT-M???n e un intorno I(P)⊂???OUT-M???n di P. Una funzione differenziabile in P in una generica carta (UA, ϕA) tale che UA⊃I(P), lo è pure in una qualsiasi altra carta (UB, ϕB) con UB⊃I(P), in conseguenza della differenziabilità della funzione ϕBϕA-1. Il concetto di differenziabilità di una funzione definita in???OUT-M???n non dipende quindi dalla scelta della carta, ed è intrinseco alla varietà.
Secondo la visione einsteiniana, tutte le quantità di interesse fisico devono essere descritte mediante campi tensoriali. Un campo tensoriale di tipo (p, q): T consiste nell'assegnazione su ogni carta (UA, ϕA) di funzioni differenziabili nelle coordinate xAα relative a un punto P∈UA:
dove {α}≡{α1, ... , αp}, {β}≡{β1, ... , βq} sono indici composti. Queste funzioni differenziabili sono vincolate dalle condizioni di consistenza su UA⋂UB≠0/:
dove xA e xB sono le coordinate assegnate in A e B allo stesso punto P∈UA⋂UB; le (7) sono anche dette leggi di trasformazione tensoriale. Un tensore di tipo (p, q) si dice q volte covariante e p volte controvariante. Un tensore di tipo (0, 0) dicesi scalare, di tipo (1, 0) vettore controvariante, di tipo (0, 1) vettore covariante.
Una varietà differenziabile dotata di un tensore gαβ di tipo (0, 2) si dice riemanniana se la matrice (gαβ) risulta definita positiva in una carta generica. Se invece la matrice (gαβ) ha tutti gli autovalori positivi, tranne uno negativo, la varietà dicesi pseudoriemanniana e, se n=4, di tipo Lorentz. Come si vedrà, lo spazio-tempo della relatività generale è una varietà di tipo Lorentz e lo spazio di Minkowski ne è un caso particolare molto semplice, in cui le gαβ sono costanti coincidenti con le ηαβ definite nella (3). Il tensore gαβ, dicesi tensore metrico. In una carta generica conviene definire anche il tensore di tipo (2, 0), gαβ(xA, A), come l'inverso del tensore metrico:
dove δαα=1, δαβ=0 se α≠β. L'intervallo tra due eventi vicini è dato, in analogia con la (4), dalla formula
La differenziazione di un campo tensoriale pone problemi più complessi, che furono brillantemente risolti nel calcolo differenziale assoluto tramite la nozione di trasporto parallelo, introdotta da Levi-Civita (v., 1928).
Infatti si consideri per semplicità un campo vettoriale covariante Tα. L'assegnazione in una carta generica delle derivate
non dà luogo a quantità aventi carattere tensoriale di tipo (0, 2), come sarebbe desiderabile e come avviene nella relatività ristretta. Derivando la relazione
che è un caso particolare della (7), si ottiene
che, coinvolgendo le derivate seconde delle coordinate, non ha carattere tensoriale. In effetti, la derivata Tèαγ non ha alcun significato geometrico intrinseco di rilievo. Dato nello spazio euclideo un vettore T costante in ogni punto, le componenti del vettore risultano effettivamente costanti se si usano coordinate cartesiane e la loro derivata è nulla. In coordinate curvilinee, invece, le componenti del vettore risentono dell'incurvarsi delle linee coordinate e non sono costanti. Il trasporto parallelo di Levi-Civita permette di ovviare a questa manchevolezza, computando il cambiamento da imporre alle componenti di un vettore affinché esso rimanga effettivamente costante nel trasporto da un punto a un altro infinitesimamente vicino.
Si consideri dunque in P∈UA, di coordinate xA, un vettore controvariante Tα(xA, A) e se ne semplifichi la notazione in Tα. Trasportando Tα nel punto vicino xAα+dxAα, si otterranno nuove componenti Tα+dTα. È logico assumere che le dTα siano lineari nelle Tα e nelle dxAα. In tal caso si avrà una formula del tipo
dove le Γαγβ sono certi coefficienti che servono a trasportare i vettori e che devono tenere conto dell'arbitrarietà del sistema di coordinate.
Le (11) dovranno essere precisate da condizioni suppletive: a) simmetria: Γαγβ=Γαβγ. Esistono schemi più generali nei quali questa condizione non è soddisfatta, le cosiddette geometrie non riemanniane. Essa vale senza restrizioni nella relatività generale; b) la lunghezza del vettore Tα deve essere conservata durante il trasporto. In analogia con la geometria elementare, il quadrato della lunghezza di Tα è dato dall'invariante
T2=gαβTαTβ, (12)
ove per semplicità di notazione si è omesso completamente l'indice della carta. Imponendo che T2 sia lo stesso per Tα e per Tα+dTα, si trova la relazione differenziale
avente come soluzione
Le Γ sono talvolta scritte nella forma
e denominate simboli di Christoffel. Per esse vale la legge di trasformazione non tensoriale
che, combinata con l'analogo della (10) per il vettore controvariante Tα, mostra come l'assegnazione
definisca un tensore di tipo (1, 1), chiamato derivata covariante di Tα. In modo analogo si vede che un vettore covariante ha la derivata covariante data da
mentre un tensore generico viene derivato covariantemente come segue:
avendo omesso l'indice della carta.
La condizione (13) appare allora come la nullità della derivata covariante del tensore metrico gαβ. Inoltre è chiaro che il tensore metrico, tramite la (14), determina i simboli di Christoffel e tutta la geometria della varietà.
c) Tetradi e forme differenziali
È possibile sviluppare la geometria riemanniana in un formalismo più moderno, suscettibile di nuove aperture, usando il concetto di tetrade, introdotto originariamente in geometria da Cartan (v., 1923 e 1924) e sviluppato in fisica da Kibble (v., 1961) e Utiyama (v., 1956).
Invece del tensore metrico, a ogni punto di una generica carta A vengono associati n vettori covarianti indipendenti e ortonormali Vaα(xA, A), a=1 ... , n, formanti quindi una base V non degenere, detta n-ade; nel caso n=4, pertinente alla relatività generale, si parla di tetrade. L'ortonormalità implica
relazione che può anche essere letta come
per cui la conoscenza della base V in ogni punto implica quella del tensore metrico; la normalizzazione è scelta in modo che det(Vaα)=√ -−- -d-e-t- - (-g-α-β).
Accanto alla base V, si considera anche la base duale W=V-1, costituita dai vettori controvarianti Wαa normali a Vaα:
La base V è determinata dal tensore metrico solo a meno di una trasformazione generica del gruppo di Lorentz; infatti la base V′,
che ha come duale
in virtù della (2), conduce allo stesso tensore metrico gαβ.
Data la n-ade Va e un vettore generico controvariante Tα, si possono considerare le proiezioni
invece delle componenti originali Tα; queste proiezioni risultano indipendenti dalla carta; si scrive quindi Ta(x, V)≡Ta(xA, A, V). Infatti, cambiando base, secondo la (22a), si ottengono le nuove proiezioni
Dunque è possibile sostituire sistematicamente alle componenti di un vettore controvariante Tα le proiezioni Ta(V) che si comportano come scalari. In modo analogo, le componenti covarianti vengono proiettate sulla base duale W.
In linea di principio, questo formalismo usa solamente scalari e non necessita delle Γαβγ per la derivazione covariante. Un cambiamento locale di base secondo la (24) appare come una trasformazione di Lorentz sugli indici b nella proiezione di un tensore generico. Dunque scompare l'effetto della trasformazione di coordinate nel cambiamento di carta, ma appare una trasformazione generica locale di Lorentz.
Un'assegnazione
dicesi tensore se si trasforma appunto come
sotto una trasformazione di Lorentz generica. Si vede tuttavia che le derivate proiettate
pur essendo banalmente covarianti rispetto al cambiamento di carta, non lo sono rispetto alle trasformazioni locali di Lorentz; infatti, nel caso s=1, t=0, si ha
L'idea di Cartan fu di introdurre delle quantità ωpαq(V), analoghe alle Γαβγ, che rendono covariante la derivata (26). Per le ωpαq(V) si ha la condizione
da cui si vede facilmente che la derivata
è nuovamente un tensore, poiché
Il formalismo della n-ade si semplifica notevolmente usando il linguaggio delle forme (v. Flanders, 1963). Una 1-forma è essenzialmente equivalente al concetto di vettore covariante; infatti, in luogo del vettore Tα, si considera la forma differenziale
per cui T(A)=T(B) in UA⋂UB, come conseguenza della legge di trasformazione tensoriale. La forma non dipende dunque dalla carta. Si introduce il prodotto alla Grassman anticommutativo e associativo (v. Bleuler e Reetz, 1977), definito inizialmente sui differenziali dxα:
Una q-forma f(q) corrisponde al tensore di tipo (0, q) totalmente antisimmetrico ed è definita come il polinomio generico di grado q nelle dxα, con coefficienti che dipendono dalle xα:
la condizione di consistenza, caso particolare della (8), è
La nozione di prodotto ⋀ viene quindi estesa alle forme per distributività; vale la relazione ovvia
Per la derivata df di una forma, se f è una q-forma, df risulta essere una (q+1)-forma data da
Si hanno le relazioni particolari
che permettono di definire ricorsivamente la derivata di una forma.
L'operatore d generalizza le nozioni elementari di rotore e di divergenza di un vettore. Intendendosi per 0-forma una funzione ordinaria differenziabile f(x), la derivata df corrisponde al differenziale ordinario
Nel caso di una 1-forma T=Tα, dxα, per la definizione (36), la derivata è data da
che corrisponde al rotore. La relazione (38) indica che il rotore di un gradiente è nullo. Varrà la pena di notare come la definizione di rotore non richieda la conoscenza dei simboli di Christoffel, in quanto
per la simmetria di detti simboli. Analogamente, la derivata generica di una forma non richiede l'uso delle Γαβγ, a causa delle antisimmetrizzazioni che essa implica. La derivata d è dunque naturalmente covariante e ha significato intrinseco.
In questo senso, il calcolo delle forme appare come un algoritmo particolare contenuto nel calcolo tensoriale usuale. Avendo a disposizione la n-ade V e le ωbαc, è possibile esprimere anche il contenuto del calcolo tensoriale di Ricci e Levi-Civita mediante quello delle forme. Infatti, si può sempre spostare un indice α dallo spazio-tempo a un indice interno a, proiettando sulla n-ade e lasciando solamente indici covarianti antisimmetrici. In questo modo le q-forme del tipo
con un generico carattere di trasformazione tensoriale rispetto al gruppo di Lorentz, dovrebbero essere sufficienti a esprimere tutti gli enti geometrici rappresentati dal calcolo tensoriale ordinario.
Per le forme aventi indici tensoriali, occorre usare una derivata covariante in cui le ωbαc ricoprono lo stesso ruolo delle Γαβγ. Allo scopo conviene introdurre le 1-forme
per cui, come conseguenza della (28),
mentre la derivata covariante della forma tensoriale (42) viene espressa da
dove ωab=ωacηcb.
In questo modo la condizione (45) appare come la nullità della derivata covariante DVp. Per le ωab occorre specificare ancora la legge di trasformazione per cambiamenti di base; essa risulta data da
d) Curvatura
Le due formulazioni delle varietà riemanniane, mediante la metrica e mediante la n-ade, risultano equivalenti come contenuto, ma conducono a diversi sviluppi formali; in particolare, nello studio delle teorie unificate, la tetrade conduce a legami e analogie strette con la teoria dei campi di Yang-Mills (v. D'Adda e altri, 1980). In ambedue i casi un concetto fondamentale risulta essere quello di curvatura. Esso nasce dalla constatazione che il trasporto parallelo di Levi-Civita non è in generale integrabile: trasportando un vettore lungo una linea chiusa, si perviene a un vettore finale che non è uguale a quello di partenza, ma ne differisce per una trasformazione ortogonale, se la varietà è riemanniana, o di Lorentz, nel caso pseudoriemanniano. Solo in uno spazio che si riduca localmente a quello piatto euclideo, il trasporto di Levi-Civita equivale al parallelismo ordinario.
Questa non integrabilità comporta anche il fatto che non sussiste commutatività di due derivate covarianti analoga a quella delle derivate parziali. Si ha infatti, per un vettore covariante,
dove le Rαμνλ sono date dalla formula
e definiscono il tensore di Riemann di tipo (1,3). Per questo tensore, o, meglio, per l'analogo completamente covariante, Rαβ,μν=gαγRγβμν, valgono le proprietà di simmetria
e l'identità di Bianchi
Risulta molto istruttivo vedere come la curvatura, definita dal tensore di Riemann, si esprima nel formalismo delle n-adi. Mentre il quadrato dell'operatore di derivazione di forme è nullo in conseguenza della commutatività delle derivate parziali, per la derivazione covariante (46) si ha invece
dove le Rab sono 2-forme, dette di curvatura, definite da
essendo ωpb=ηpaωab. Le componenti delle forme di curvatura sono identiche alle componenti del tensore di Riemann e le (53) costituiscono una definizione equivalente che non coinvolge il tensore metrico.
Esistono geometrie in cui le quantità
non sono nulle e definiscono un nuovo ente, detto torsione, introdotto da Cartan (v., 1923 e 1924) in una generalizzazione della teoria della gravitazione che non manca dilati interessanti.
Accanto al tensore di Riemann, è molto utile considerare il tensore contratto
e l'invariante scalare
Allo stesso invariante si può arrivare tramite le forme; si ha infatti, nello spazio-tempo della relatività generale,
dove g è il determinante della matrice (gαβ) ed εabcd è il tensore definito come segue:
P(abcd) è la parità della permutazione (abcd) rispetto a (0123).
Queste formule sono essenziali nello stabilire un principio di minima azione per il campo gravitazionale.
Il concetto di curvatura ha un contenuto intuitivo che lo lega direttamente allo sviluppo delle geometrie non euclidee. Nel piano, l'assioma delle parallele implica che la somma degli angoli interni di un triangolo vale π. Sulla sfera questo teorema non vale ed è sostituito dalla seguente generalizzazione. Sia P1P2P3 un triangolo sferico formato dagli archi di cerchi massimi P1P2, P2,P3, P3P1 e siano α(Pi) gli angoli interni di tale triangolo; allora
dove A(P1P2P3) è l'area del triangolo sferico ed R il raggio della sfera. Si ha dunque, per la curvatura gaussiana della sfera (v. Gauss, 1828),
essa risulta costante ed espressa in termini di quantità misurabili interamente con un apparato a due dimensioni, senza uscire dalla superfice sferica. In generale, per una superficie Σ, la sua curvatura gaussiana KΣ(P) in P∈Σ è data da
dove, nel limite, P è contenuto in ogni triangolo P1P2P3 formato da archi di geodetiche di Σ.
In due dimensioni il tensore di Riemann ha appunto una sola componente, e questa può essere identificata con la curvatura gaussiana. Il limite dell'espressione a destra nella (60), quando l'area del triangolo tende a zero, coincide con la complessa espressione (56) contenente le derivate seconde del tensore metrico. La quantità α(P1)+α(P2)+α(P3)−π è appunto l'angolo di cui ruota un vettore trasportato alla Levi-Civita lungo il perimetro del triangolo geodetico P1P2P3.
e) Il principio di equivalenza.
Si usa distinguere tra un principio di equivalenza debole e uno forte. Nel principio debole si asserisce l'uguaglianza della massa inerziale e gravitazionale di un corpo. La massa inerziale mi appare nel secondo principio della dinamica newtoniana,
F=mia, (61)
che lega l'accelerazione a alla forza F agente sul corpo. La massa gravitazionale mg appare invece nella legge universale di attrazione:
Sia Mg la massa gravitazionale della Terra, mi, mg le masse di un corpo di prova. Se R è il raggio terrestre, l'accelerazione g di tale corpo sulla superficie terrestre si ottiene combinando le (61) e (62):
Questa accelerazione di gravità non dipende dal corpo di prova solamente se la massa inerziale è proporzionale alla massa gravitazionale. La famosa, e forse mai eseguita, esperienza di Galileo, in cui lo scienziato avrebbe lasciato cadere dei gravi dalla torre di Pisa, segnò l'ingresso del principio debole in fisica. In tempi recenti, le esperienze di Eötvös (v., 1889), e più ancora quelle di Dicke, hanno messo in evidenza l'assoluta proporzionalità delle due masse entro limiti relativi inferiori a 10-12 (per Dicke, si vedano i rendiconti Gravitazione sperimentale, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1977). Entro questi limiti, l'accelerazione di gravità non dipende dal corpo di prova.
Il principio debole ha fornito ad Einstein la base fisica per la costruzione della relatività generale. Einstein immaginò un ascensore ideale, una scatola chiusa in cui un osservatore svolge delle esperienze fisiche. L'interno di questo ascensore può equipararsi all'insieme aperto U di una carta dello spazio-tempo, descritto precedentemente. L'esperienza concettuale si può svolgere secondo quattro modalità.
A. L'ascensore è appeso nel campo gravitazionale di un corpo e i corpi al suo interno mostrano un'accelerazione di gravità comune, per esempio g nel campo terrestre.
B. L'ascensore è posto nello spazio vuoto, lontano da ogni influenza gravitazionale. Un motore imprime all'ascensore un'accelerazione costante g. I corpi al suo interno mostrano, relativamente alle pareti dell'ascensore, un'accelerazione di rinculo esattamente uguale e contraria a quella dell'ascensore, e comunque comune a tutti i corpi di prova. Un osservatore interno non riesce a distinguere questa configurazione dalla precedente A basandosi su osservazioni interne all'ascensore.
C. L'ascensore si trova nel campo gravitazionale terrestre, ma è in caduta libera. I corpi interni cadono con la stessa accelerazione delle pareti e quindi l'osservatore nell'ascensore non rileva alcuna forza di gravità.
D. L'ascensore è lontano da corpi e non è accelerato. Anche in questo caso i corpi di prova non rivelano alcuna accelerazione e il caso D non è distinguibile dal caso C.
L'indistinguibilità di A e B e quella di C e D seguono dal principio debole di equivalenza. Einstein ha spinto questa indistinguibilità alle estreme conseguenze logiche, pervenendo così al principio di equivalenza forte. Esso asserisce che lo spazio-tempo è una varietà differenziabile e che è possibile scegliere delle coordinate spazio-temporali locali in cui tutti i fenomeni fisici obbediscono alle stesse leggi già ottenute nella relatività ristretta.
Questo principio è essenzialmente un manifesto scientifico che trova la sua completa realizzazione nella metrica pseudoriemanniana. Si noti innanzitutto che, sia nel caso C che nel caso D, l'assenza apparente di accelerazione di gravità fa si che l'interno dell'ascensore possa considerarsi come un frammento di osservatore inerziale, in cui l'aperto U copre una piccola parte dello spazio-tempo. Ove sussistano campi gravitazionali molto intensi e non omogenei, occorrerà diminuire le dimensioni dell'ascensore. Una cabina spaziale, essendo in caduta libera, è con buona approssimazione un ascensore di Einstein. Per semplicità, la si supponga in orbita circolare circumterrestre. In questo caso, nel centro della cabina, la forza di attrazione terrestre è esattamente compensata dalla forza centrifuga. Se ci si avvicina alla parete rivolta verso la Terra, la forza di attrazione supera quella centrifuga e la compensazione non è più esatta. Ne risultano deboli forze di marea che rendono l'interno della cabina solo approssimativamente inerziale. Lo stesso ragionamento si può ripetere per la parete opposta. Quindi non è possibile concepire un osservatore inerziale di estensione illimitata; invero, la compensazione del campo gravitazionale avviene in linea di principio solo per un osservatore di estensione infinitesima.
Queste considerazioni trovano un'esatta corrispondenza matematica nella congettura di Einstein, secondo cui il tensore metrico va associato al potenziale gravitazionale, le Γαβγ all'accelerazione di gravità e le Rαβγδ alle forze di marea nello spazio4empo. Infatti è sempre possibile trovare un sistema di coordinate in un intorno di un punto x qualsiasi in cui il tensore metrico assuma la forma ηαβ dello spazio di Minkowski ed è sempre possibile specializzare ulteriormente questo sistema così da ottenere Γαβγ=0 localmente in x. In questo modo un osservatore limitato a un intorno molto piccolo del punto non riesce a distinguere la varietà dallo spazio di Minkowski. Allontanandosi di dxα dal punto x, le Γαβγ non saranno più nulle, risultando dell'ordine di Γαμν~Rαμνλ dxλ, dove Rαμνλ è il tensore di Riemann; questo tensore determina dunque le forze di marea. Non è possibile scegliere un sistema di coordinate in cui anche Rανμλ sia localmente nullo, in quanto Rαμνλ è un tensore e, se fosse nullo in un sistema di riferimento, lo sarebbe in tutti. Ricordando che la curvatura gaussiana ha le dimensioni dell'inverso del quadrato del raggio di curvatura (R nell'eq. 59), ci si aspetta che questo raggio di curvatura esprima le dimensioni dell'aperto ‛ascensore', in cui le forze di marea non disturbano l'inerzialità dell'osservatore. La curvatura dello spazio-tempo impedisce dunque la costruzione di una carta inerziale globale.
f) Le geodetiche
La seconda idea fondamentale della teoria della relatività generale concerne la relazione tra distribuzione di materia e geometria dello spazio-tempo. Lo spazio-tempo agisce sulla materia in quanto il tensore metrico è anche potenziale gravitazionale. Per un principio generalizzato di azione e reazione, la materia dovrebbe agire sullo spazio determinandone le proprietà geometriche. Devono quindi esistere due tipi di equazioni: il primo determina il moto relativistico di un grave in un campo gravitazionale, l'altro lega il tensore metrico alla distribuzione di materia.
Nella relatività ristretta il moto di un corpo libero, cioè non soggetto a forze esterne, segue dal principio di minima azione:
δ(−mc ∫ ds)=0, (64)
ove ds è specificato da ds2=ημν dxμ dxν. Nella relatività generale si sostituisce semplicemente ds2=gμνdxμ dxν, che si riduce al caso precedente in una carta inerziale, in conformità con il principio di equivalenza.
Le equazioni del moto che seguono dal principio variazionale (64) definiscono una classe di curve nello spaziotempo, chiamate geodetiche:
In una metrica riemanniana le geodetiche fissano il percorso di lunghezza minima tra due punti assegnati. In una metrica lorentziana, invece, la geodetica caratterizza il percorso corrispondente al massimo tempo proprio tra due eventi, e quindi alla minima azione, secondo la (64). Inoltre la geodetica è la linea più diritta, in quanto le (65) implicano che il vettore tangente dxα/ds è trasportato parallelamente, secondo Levi-Civita, lungo la curva. Infine, in una carta locale inerziale, si ha Γαβγ=0, e quindi l'equazione (65) si riduce a quella di una retta e corrisponde a un moto uniforme in assenza di accelerazione, come richiesto dal principio di equivalenza.
Nell'articolo di Møller (v. cap. 3, È h, dove il potenziale gravitazionale è indicato con χ), viene chiaramente indicato come, nell'approssimazione di campo debole in cui le gαβ differiscono di pochissimo dalle ηαβ, le equazioni (65) implichino la nota dinamica newtoniana
per l'accelerazione di un grave in un campo gravitazionale con potenziale Φ. In questa approssimazione si ha
per cui, in sostanza, un grave in moto lento sente solamente la componente g00 del tensore metrico.
L'equazione (65) è valida anche per il moto di un raggio di luce in un campo gravitazionale. La luce viene infatti deflessa dalla gravità, come risulta necessario applicando il principio di equivalenza al citato gedanken experiment dell'ascensore di Einstein (v. Einstein e Infeld, 1955). Nelle (65) si dovrebbe porre ds=0 e in tal caso esse perderebbero di significato. In realtà bisogna notare che le (65) rimangono invarianti scalando il parametro s di un fattore arbitrario costante. Per la propagazione della luce questo fattore di scala diventa infinito e la variabile s va interpretata come un parametro sulla curva, ottenuto dal tempo proprio mediante un procedimento limite.
Risulta comunque evidente che un raggio di luce sente tutte le componenti del tensore metrico e quindi la misura della sua deflessione dà informazioni su tutta la metrica, contribuendo così a differenziare la relatività generale da teorie più semplici, in cui il campo gravitazionale è rappresentato da un solo scalare. In effetti la deflessione di un raggio di luce sul bordo del Sole risulta doppia di quella di un ipotetico grave che viaggi alla velocità c, se calcolata nella vecchia approssimazione newtoniana.
g) Le equazioni di campo di Einstein
Resta infine da considerare il secondo tipo di equazioni, cioè le equazioni di campo di Einstein. Nella relatività generale le coordinate non hanno più un significato fisico diretto, in quanto servono solamente a etichettare in modo convenzionale i punti di una carta dello spazio-tempo. Le quantità di interesse fisico vengono interamente espresse mediante campi, tra i quali il tensore metrico per il campo gravitazionale. Le equazioni di interesse fisico devono essere completamente covarianti e avere carattere tensoriale, poiché esse non possono dipendere dalla scelta delle coordinate.
Le equazioni per il campo gravitazionale devono quindi soddisfare ai seguenti criteri: a) devono essere covarianti; b) devono ridursi alla nota equazione di Poisson
ΔΦ=4πGρ (68)
per il potenziale gravitazionale Φ newtoniano, nell'approssimazione in cui g00≃−(1+2Φ/c2).
Il tensore metrico possiede dieci componenti indipendenti e ci si aspetta che esistano dieci componenti dell'equazione del campo nella forma
dove il tensore Gμν contiene al massimo derivate seconde di gαβ e le Tμν rappresentano la distribuzione della materia, generalizzando la densità ρ che appare nella (68).
Un'analisi approfondita mostra che l'unica forma delle equazioni che soddisfi a questi criteri è
Il tensore Tμν, chiamato densità di energia-impulso, non è noto in generale con precisione per tutti i tipi di materia.
Dall'identità di Bianchi (51), mediante contrazione, si ricava
da questa, applicata alla (70), si ottiene l'equazione di continuità per il tensore di energia-impulso:
Le equazioni di campo (70) possono essere dedotte tramite un principio variazionale, detto di Hilbert-Einstein. In tal caso occorre specificare i campi che si vogliono considerare. Ad esempio, se si ammettono unicamente un campo gravitazionale gαβ e un campo elettromagnetico Fμν,
dato in funzione del potenziale vettore Aμ, allora l'azione S risulta
dove l'integrazione è estesa a tutto lo spazio; la curvatura scalare R(x) è definita nella (56).
Il principio di stazionarietà dell'azione richiede che S non vari quando avvengono variazioni infinitesime arbitrarie delle grandezze dinamiche; nel presente caso, gμν→gμν+δgμν, Aμ→Aμ+δAμ, con la sola condizione che δgμν e δΑμ si annullino quando ∣xμ∣ tende all'infinito. Il calcolo mostra che l'azione (74) è stazionaria se
dove il tensore di energia-impulso per il campo elettromagnetico risulta essere
Esplicitando le componenti di Aμ in funzione del campo elettrico E e magnetico B, si ha, per esempio,
che rappresenta la densità di energia del campo; inoltre
dove S è il vettore di Poynting.
Un caso particolarmente interessante di distribuzione di materia è offerto da un fluido relativistico di densità ρ, pressione p e velocità locale Uμ. Si può porre per esso
Ricordando la (16), la conservazione dell'energia-impulso (72) diventa, in tal caso,
che costituisce l'equazione dell'idrodinamica relativistica; essa è alla base dei modelli stellari relativistici.
Nel capitolo seguente verranno applicate le equazioni di campo di Einstein a configurazioni particolari, deducendone gli specifici effetti relativistici.
2. Metriche isotrope e verifiche della relatività generale
a) Il limite statico
La relatività generale, il cui formalismo è stato precedentemente esposto per sommi capi, contiene, come caso limite, la teoria della gravitazione newtoniana. Conviene esaminare in qualche dettaglio questo limite, prima di dedurre gli effetti relativistici più importanti.
Si supporrà di avere una distribuzione di massa statica con densità ρ(x), per la quale il tensore energia-impulso si riduce alla sola componente T00=c2ρ. Il potenziale newtoniano relativo a tale distribuzione è specificato dall'equazione di Poisson (68). Poiché l'esperienza insegna che essa descrive accuratamente la realtà nelle condizioni usuali, bisognerà ammettere che lo spazio-tempo - pur essendo curvo - differisce pochissimo dallo spazio piatto ???OUT-M???4, cioè si porrà
gμν=ημν+hμν, con ∣hμν∣≪1. (81)
L'ipotesi di staticità implica allora
Trascurando i termini di grado superiore al primo in hμν, il calcolo del tensore di Riemann conduce a
dove
e
Se si contrae la (83a) con gαβ, ovvero - per la (81) - con ηαβ, si ottiene
Occorre specificare maggiormente le coordinate, nel senso che, se si considerasse x′α=xα+ξα, con ∣∂ξβ(x)/∂xα∣≪1, si avrebbe
quindi, per il carattere tensoriale di gαβ, le h′αβ potrebbero sostituire le hαβ. Questo fatto è del tutto analogo all'invarianza classica di gauge del potenziale vettore Aμ, che non viene fissato univocamente dalle equazioni di Maxwell.
Una scelta conveniente delle coordinate si ottiene imponendo la condizione armonica
che implica, nella presente approssimazione,
Pertanto la (70) si riduce, per Tαβ generico, alla
ovvero, contraendo con ηαβ:
Ricordando la (82) e imponendo T00=ρc2, T0i=Tij=0, si ha, per α=β=0, Δh00≃−8πGρ/c2. Come evidenziato nel limite newtoniano delle geodetiche, Φ è legato a g00 dalla (67): h00=g00−η00=g00+1≃−2Φ/c2. Quindi si ottiene l'equazione di Poisson (68).
Per le valutazioni che seguiranno, conviene tenere presente che il tensore di Riemann si esprime in cm-2, Tμν in erg/cm3 e che si ha G/c2=7,421×10-29 cm/g.
b) Lo spostamento gravitazionale verso il rosso
Un effetto gravitazionale relativistico che conviene discutere preventivamente è lo spostamento verso il rosso delle onde elettromagnetiche in un campo gravitazionale. Esso deriva dal fatto che i corpi, salendo in un campo gravitazionale, rallentano e perdono energia cinetica. La perdita di energia della luce si manifesta nella diminuzione di frequenza, poiché Efotone=hν (h=6,626×10-27 ergs è la costante di Planck), mentre la velocità rimane inalterata al valore c.
Sia dato il campo gravitazionale newtoniano statico Φ(r)=−GM/r, generato, ad esempio, da una stella. Siano A e B due osservatori, il primo distante dalla stella (alto) e il secondo vicino alla stella (basso). In A un orologio scandisce il tempo con periodo T. Il tempo proprio (v. articolo precedente, eq. 15) che A vede passare tra due battiti successivi è allora TA=√-1-+-2-Φ- - (-r-A--)- -/-c-2 T.
Infatti, in analogia con la relatività ristretta, se gli eventi vicini P, P+dP sono separati da un intervallo ds2=gαβ dxα dxβ〈0, allora il tempo proprio dτ che separa tali eventi è dato da dτ=√-−-d-s-2-/-c-2. Poiché l'orologio è fermo in A, allora dxi=0, i=1, 2, 3, e, ricordando la (67), dτ=√-1-+-2-Φ-/-c-2 dt/c. Si noti ancora che 2Φ/c2≪1; nel caso del Sole, ad esempio, si ha 2Φ(R⊙)/c2≃4×10-6. Dunque TA≃(1+Φ(rA)/c2)T.
Si consideri ora una geodetica ‛messaggera' xi=xi(t), passante per A, B e parametrizzata dal tempo t in modo che xi(0) sia A e xi(t) sia B. Si supponga che, a ogni battito dell'orologio in A, un fotone parta da A e, viaggiando sulla geodetica, raggiunga B. L'osservatore B vede gli arrivi succedersi a intervalli TB≃(1+Φ(rB)/c2)T. Il rapporto TA/TB≃1-[Φ(rA)−Φ(rB)]/c2>1 indica che B percepisce i battiti come più frequenti che A, ovvero che A vede i fenomeni svolgersi in B con ritmo rallentato.
In altri termini, se un atomo (orologio) - posto adesso in B - emette radiazione di frequenza νB(TB=1/νB), la radiazione viene percepita in A con frequenza
cioè νA〈νB, che corrisponde a uno spostamento verso il rosso.
Sulla Terra l'effetto è molto piccolo. Per un dislivello h, il cambiamento percentuale in frequenza è Z≡(νB−νA)/νB≃hg/c2, dove g è l'accelerazione di gravità terrestre; si ha Z≃10-13, per h≃103 m. Tra il Sole e l'infinito Z≃2×10-6.
c) La metrica di Schwarzschild
Einstein nel 1915 trovò, sotto forma di serie, la soluzione approssimata per le equazioni di campo (70) nel caso di simmetria sferica. La soluzione esatta fu data da Schwarzschild (v., 1916) un anno dopo e costituisce la base per discutere importanti effetti relativistici.
Occorre usare coordinate quasi minkowskiane, ponendo x1=r senθ cosϕ, x2=r senθ senϕ, x3=r cosθ, e considerare metriche - dette isotrope - del tipo
ds2=−c2B(r) dt2+A(r) dr2+r2(dθ2+sen2θ dϕ2). (89)
Indici dei tensori saranno t, r, θ, ϕ; si ha quindi gtt=−c2B(r), grr=A(r), gθθ=r2, g῍῍=r2 sen2θ, gαβ=0 se α≠β. Risulta inoltre gα=(gαα)-1, gαβ=0 se α≠β. Calcolati i simboli di Christoffel con la (14) (essi vengono riportati nelle 96), dalle definizioni (49) e (55) si ottiene
dove gli apici denotano derivazione rispetto a r.
Per il campo gravitazionale generato da una massa M con simmetria sferica, le equazioni (70) - all'esterno di tale massa, cioè nel vuoto - diventano
ovvero, contraendo con gαβ, R=0 e Rαβ=0. Bisogna determinare A(r), B(r) in modo che tutte le componenti (90) siano identicamente nulle. Confrontando la (90a) con la (90b), si vede che A′/A+B′/B=0; quindi A(r)B(r)=cost. Poiché, quando r→∞, la metrica (89) deve coincidere con la (3) scritta in coordinate polari, si deve avere
, cioè A(r)=(B(r))-1. Eliminando A(r) si ottiene
Pertanto basta imporre rB′(r)+B(r)=1, che ha la soluzione in B(r)=1+κ/r, dove κ va determinata in modo che sia g00(r)≃−(1+2Φ/c2) per r→∞, in accordo con la (67). Si ottiene allora B(r)=1−2GM/(c2r).
La metrica di Schwarzschild risulta quindi data da
Essa presenta una singolarità polare quando r coincide con il raggio di Schwarzschild relativo alla massa M:
Ciò sembrerebbe indicare che la soluzione trovata per le equazioni di campo è valida solo se r>RS(M); nel caso del Sole ciò non porrebbe alcun problema, poiché RS(M⊙)≃2,95 km, da confrontare con R⊙≃6,96×105 km. Ma nel caso di oggetti molto densi, il loro raggio R potrebbe essere inferiore a RS; lo spazio compreso tra r=R e r=RS sarebbe vuoto, e la metrica (92) parrebbe non adattarsi ad esso.
In realtà, la singolarità nella (92) non è una singolarità del campo, ma è causata dalla scelta delle coordinate (v. Kruskal, 1960). Infatti, si introducano le nuove variabili u, v definite da
e
La metrica (92) si trasforma in
la cui singolarità, per r=0, non solleva più problemi del tipo accennato.
d) Moto dei corpi in un campo a simmetria sferica
Si discuterà ora il moto geodetico di un corpo di prova in un campo gravitazionale con simmetria sferica, e si applicheranno i risultati al caso del Sole. Le equazioni del moto coincidono con le equazioni delle geodetiche (65), nelle quali s è un parametro che descrive la geodetica xα=xα(s) percorsa dal corpo in regioni ove è sempre r/RS≫1. La metrica di Schwarzschild fornisce gαβ, e le uniche componenti non nulle dei simboli di Christoffel risultano essere
dove B(r)=(A(r))-1=1−2MG/(c2r). Sostituendo nelle (65) si ottiene
Per la simmetria sferica del campo non si perde in generalità ponendo θ=π/2, dθ/ds=0, così che il moto avviene nel piano x1, x2; la (97b) è allora identicamente soddisfatta, mentre le (97c) e (97d) si semplificano in
che mostrano l'esistenza di due costanti del moto, J ed E,
m è la massa a riposo del corpo di prova, m≪M. Quanto alla (97a), essa implica
La scelta della costante di integrazione x viene motivata come segue. Si ricavino dt, dr, dϕ dalle (98), (99), (100), e si sostituiscano nella (92); si ottiene ds2=κ(ds)2. Sulla geodetica è ds2〈0, quindi κ〈0. Poiché, come già notato, le (97) sono invarianti rispetto alla trasformazione di scala s→σs, σ≠0, si può porre κ=−1, così che ds=√-−-d-s-2 =c dτ, e la geodetica risulta parametrizzata essenzialmente dal tempo proprio.
Considerando il limite non relativistico, si vede che J ed E vanno interpretate come momento angolare ed energia totale del corpo di prova. Eliminando s con la (99), le (98) e (100) diventano
Poiché la velocità v del corpo di prova è molto piccola rispetto a c, l'intervallo di tempo proprio ds/c dovrà essere quasi coincidente con dt. È infatti RS/r≪1, così che A≃B≃1, ovvero gαβ=ηαβ, che implica ds/c=dτ≃√- (-d-t-)-2-−- - (-d-x-)-2-/-c-2 dt. Con queste approssimazioni, la (99) mostra che E≃mc2 e la (98′) assume la forma classica
Si ponga ancora E=mc2+W, W≪mc2, e si valuti correttamente il secondo membro della (100′):
Moltiplicando la (100′) per m/2, si ottiene al primo ordine
W ed E rappresentano quindi le energie totali newtoniana e relativistica di m.
Per ottenere l'equazione delle orbite, si elimini s tra (98) e (100); si ricava
dove ℰ=E/(mc2). Introducendo le variabili adimensionali ζ=RS/(2r), I=cJ/(GmM), si perviene all'equazione
la cui soluzione esatta è esprimibile in termini di funzioni ellittiche.
Per orbite quasi circolari, si ponga ζ(ϕ)=ζ0+ξ(ϕ), ove ζ0 è tale che 3ζ²0−ζ0+1/I2=0. Derivando la (103) rispetto a ϕ, essa diventa
poiché ζ≪1, trascurando ζ2, si ha la soluzione approssimata
dove ξ0 e ϕ0 sono costanti di integrazione. Due massimi successivi di ξ(ϕ) sono intervallati in ϕ da Δ=2π/√-1-6-ζ0; ciò indica che le orbite quasi circolari non si chiudono come avviene invece con le orbite ellittiche di Kepler, per le quali Δ=2π. Si ha
Δϕ≡2π/√-1-6-ζ0−2π≃6π/I2.
Per un'orbita stazionaria circolare di raggio r0 la legge di Kepler (dϕ/dt)2r03=GM implica J2=Gm2Mr0. La precessione relativistica dell'orbita quasi circolare è quindi Δϕ≃6πGM/(c2r0) per rivoluzione. Nel caso di Mercurio, le approssimazioni introdotte sono giustificate e risulta Δϕ=0,1038″ per rivoluzione, circa 43,03″ per secolo.
Studiando il limite v→c della (103) è possibile calcolare la deflessione dei raggi luminosi che transitano in un campo gravitazionale avente simmetria sferica. Sia v∞ la velocità della luce quando percorre, a distanza infinita, l'orbita aperta e b il parametro di impatto, cioè la distanza dal centro di M della retta asintotica cui tende l'orbita; è ovviamente b≫RS. Si ha allora (v. articolo precedente, eqq. 38) J=bp∞=bmv∞/√ -1-β-²∞, E=mc2/√-1-β²-∞; quindi I=c2bβ∞/(GM√-1-β²-∞, ℰ=1/√-1-β²-∞, ovvero ℰ/I=RS/(2b). Inoltre I→∞, se v→c. L'equazione dell'orbita (103) si riduce alla
e, derivando rispetto a ϕ, alla
Se si trascurasse il termine ζ2 rispetto a ζ, si avrebbe come soluzione ζ0(ϕ)=(RS/2b) sen ϕ, cioè la retta asintotica x2=b. La deviazione da tale retta causata dal termine non lineare può essere stimata ponendo ζ(ϕ)=ζ0(ϕ)+ζ1(ϕ) nella (107) e trascurando ζ²1 rispetto a ζ²0:
Le condizioni iniziali, ζ(0)=0, (dζ/dϕ)ϕ=0=RS/2b, conducono alla soluzione approssimata
Essa, oltre allo zero, ζ(0)=0, del raggio incidente, ha anche uno zero corrispondente al raggio luminoso che si allontana verso r=∞, cos ϕ/2+(RS/b)(sen ϕ/2)3=0, cioè, al primo ordine in RS/b, ζ(π+2RS/b)≃0. Come anticipato, la deflessione avviene verso la massa M e il suo ammontare è approssimativamente Δϕ≃2RS(M)/b. Nel caso del Sole, per raggi tangenti alla superficie (b=R⊙), si trova Δϕ≃1,75″.
e) Le onde gravitazionali
Esistono analogie formali tra elettromagnetismo e gravitazione; le equazioni di campo di Einstein predicono l'esistenza di onde gravitazionali, così come le equazioni di Maxwell predicono l'esistenza, nel vuoto, di onde elettromagnetiche. Per mostrare i limiti di tale analogia, occorre utilizzare le equazioni nel limite statico del È a, che si presentano lineari e quindi formalmente trattabili. Questa approssimazione è valida solamente se le onde gravitazionali così descritte risultano sufficientemente deboli da non generare loro stesse un campo gravitazionale, che distruggerebbe la linearità del processo. La non linearità delle equazioni di campo (70) trae appunto origine dal fatto che il campo gravitazionale, possedendo energia e impulso, è sorgente di se stesso.
Se si pone Tμν=0 nella (87′), l'equazione
□ hμν=0 (109)
descrive la propagazione nello spazio vuoto di onde gravitazionali con velocità c. La condizione armonica (85) implica, nell'approssimazione statica lineare,
Le soluzioni mediante onde piane delle (109) sono del tipo
purché sia
kλkλ=0; (112)
le (110) invece richiedono che sia
Scegliendo il riferimento spaziale in modo che l'onda si propaghi lungo l'asse x1, si ha k0=k1≡k, k2=k3=0. La (113) implica e02+e12=0, e03+e13=0, e10+e11=−e00−e01=(e11+e22+e33−e00)/2.
La condizione di armonicità non determina del tutto le coordinate. Infatti è possibile sostituire xμ con xμ+ξμ, dove
ξμ=iεμ exp(ikλxλ)−i(εμ)* exp(−ikλxλ),
e avere le (109) e (110) ancora soddisfatte nelle nuove coordinate. Poiche eμν viene sostituito da eμν+kμεν+kνεμ, si scelgano le eμ in modo da annullare e02, e03, e00, e11; si vede allora che rimangono solamente e23, e22, e33, vincolate da e22+e33=0. Ciò mostra che le onde piane gravitazionali, come le onde elettromagnetiche, hanno solo due stati di polarizzazione.
La teoria delle onde elettromagnetiche poggia sulle equazioni per il potenziale vettore Aμ,
□ Aμ=0 (114)
corrispondenti alle (109) e (110). Ponendo
si ottiene ancora la (112), mentre la (113) viene sostituita dalla
eμkμ=0. (117)
Scegliendo anche qui k0=k1≡k, k2=k3=0, si ha e0+e1=0. Le (114) e (115) sono invarianti sotto la trasformazione di gauge
dove
Λ=iε exp(ikλxλ)−iε* exp(−ikλxλ), (119)
che implica, per i versori di polarizzazione, eμ→eμ+εkμ; la scelta di ε consente di imporre e0=e1=0, così che rimangono due stati di polarizzazione.
Per evidenziare le differenze tra onde elettromagnetiche e gravitazionali, bisogna studiare il comportamento dei rispettivi versori di polarizzazione rispetto a rotazioni intorno alla direzione di propagazione, cioè, nel caso presente, intorno all'asse x1:
dove gli elementi non nulli di Dμα(ϕ) sono D00(ϕ)=D11(ϕ)=1, D²2(ϕ)=D³3(ϕ)=cos ϕ, D32(ϕ)=−D³2(ϕ)=sin ϕ. Ponendo
f±=e2±ie3, g±=e23±i(e33−e22)/2, (121a)
si trova
Un campo ψ che si trasformi secondo la legge ψ′=exp(iJϕ)ψ si dice avere elicità J; J è il momento angolare intrinseco (spin) - espresso in unità ℏ≡h/2π - delle particelle, o quanti, del campo. Dunque i fotoni e i gravitoni hanno rispettivamente elicità 1 e 2. Se lo spin di una particella è J, esso può essere inclinato rispetto alla direzione del moto in soli 2J+1 modi diversi, come conseguenza della quantizzazione del momento angolare; nel presente caso si avrebbero 3 e 5 stati diversi. La riduzione a due segue dalla nullità delle masse del fotone e del gravitone (v=c) e dalla contrazione relativistica che impedisce l'esistenza di stati nei quali lo spin non sia allineato con la direzione del moto.
Un gravitone reca con sé energia, che però, nel vuoto, non si manifesta in T, ma come termine non lineare in Rμν. Non è possibile separare covariantemente energia e impulso dagli altri contributi che formano Rμν. Si può tuttavia studiare il tensore ‛efficace'
che esprime in modo approssimato la potenza emessa da sorgenti di onde gravitazionali. L'analisi mostra che, come una carica in moto emette onde elettromagnetiche solo se è accelerata, così le onde gravitazionali vengono emesse da masse accelerate. La potenza emessa Pe può essere valutata in ordine di grandezza tramite l'espressione
dove P0=3,69×1059 erg/s è una potenza universale e M è la massa che nel sistema emittente viene spostata di L nel tempo T. Essendo P0 enorme, Pe risulta sempre molto piccola in condizioni usuali; si comprendono così le grandi difficoltà incontrate nella rivelazione delle onde gravitazionali.
Per un corpo rotante con frequenza Ω, si ottiene la valutazione
dove I ed e sono il momento di inerzia e l'ellitticità equatoriale, I=I11+I22, e=(I11−I22)/I, espressi in funzione dei momenti di inerzia I11, I22 relativi agli assi perpendicolari a quello di rotazione. Un corpo con simmetria circolare rispetto a tale asse ha e=0 e quindi non emette onde gravitazionali; non esistono onde da monopolo né da dipolo.
La (124) può essere applicata al caso di un corpo di massa m in orbita nel piano x3=0, a distanza r da un centro fisso xi=0. Il sistema di riferimento xi′ solidale con il corpo e ruotante con esso con frequenza Ω può essere scelto in modo che la posizione del corpo sia x1′=r, x2′=x3′=0; si ha, rispetto al punto fisso, I11=mr2, I22=0, e=1. La (124) diventa in tal caso
Ad esempio, per il moto orbitale della Terra, si ha Ω=1,99×10-7s-1, m=5,98×1027g, r=149,54×1011cm, e la (125) dà una potenza irradiata Pe≃0,2 kW, che è assolutamente trascurabile: occorrerebbero circa 8×1023 anni perché si verificasse la caduta della Terra sul Sole come conseguenza della perdita di energia da radiazione gravitazionale.
Nel caso della pulsar binaria PSR 1.913+16, r≃1011 cm, m≃1033 g, e il periodo di rotazione è di qualche ora; risulta Pe≃1031 erg/s. Il sistema decade, come ordine di grandezza, in un miliardo di anni. L'irraggiamento gravitazionale cresce rapidamente e riduce la distanza delle due componenti; per una separazione di 1.000 km, si avrebbe Pe≃1040 erg/s e il collasso avverrebbe in meno di tre ore.
f) Test osservativi della relatività generale
Gli effetti della relatività generale appaiono di regola come piccole correzioni e perturbazioni sovrapposte alle normali predizioni della meccanica newtoniana. Per questa ragione la teoria ha dovuto aspettare quasi mezzo secolo per un controllo sperimentale sistematico. Praticamente quasi tutte le predizioni verificabili concernono effetti speciali della metrica di Schwarzschild. Altre verifiche meno dirette seguono dalle predizioni associate all'astrofisica e alla cosmologia. Qui si riporteranno i dati più recenti relativi alle prime.
Il principio di equivalenza. - L'uguaglianza fra la massa gravitazionale e quella inerziale pare sia stata anticipata sin dal V secolo da Ioannes Grammaticus. Essa entrò nella fisica moderna con Galileo, Newton, Bessel, Eötvös e, più recentemente, con Dicke e Braginsky. Gli ultimi risultati indicano una rapporto
Da ciò risulta stabilito con grande accuratezza che le interazioni elettromagnetiche, nucleari e deboli contribuiscono in modo eguale alla massa inerziale e a quella gravitazionale. I campi associati a queste interazioni debbono quindi essere formalizzabili nella relatività generale.
Meno chiaro è il risultato per l'interazione gravitazionale stessa. L'ideale, per far luce su ciò, sarebbe di scoprire un sistema ternario di pulsar o di oggetti collassati. L'analisi del moto Luna-Terra-Sole, compiuta dai gruppi di Shapiro (v. Shapiro e altri, 1976) e di Williams (v. Williams e altri, 1976), secondo i suggerimenti di Nordtvedt (v., 1968), sembra in accordo con il principio di equivalenza. Si tratta di misure eseguite mediante laser tra telescopi terrestri e retroriflettori installati sulla Luna; si pensa che esse saranno perfezionate nei prossimi anni.
Confronto di orologi. - Due orologi identici posti in luoghi aventi un diverso potenziale gravitazionale dovrebbero mostrare un cambiamento di frequenza dato dalla formula (88):
La verifica più precisa della (127) è stata ottenuta sulla Terra (v. Pound e Snider, 1965) mediante l'effetto Mossbauer su raggi gamma di 14,4 keV emessi dal Fe57; la (127) risulta accurata con un errore relativo di circa l'1%.
Altre verifiche hanno utilizzato orologi atomici in varie configurazioni: si ricordano quella dell'istituto Elettrotecnico G. Ferraris di Torino (v. Briatore e Leschiutta, 1976) tra il Plateau Rosa e Torino, l'esperienza di Alley tra un aeroplano e il suolo e quella di Hafele e Keating (v., 1972), che hanno fatto volare due coppie di orologi al cesio in direzioni opposte intorno al globo. Tutte queste misure sono in ottimo accordo con la teoria. Si sta passando rapidamente dallo stadio della verifica a quello applicativo; il Global Positioning System prevede di utilizzare un complesso sistema di satelliti dotati di orologi atomici per misurare la posizione di un punto qualsiasi della superficie terrestre con un errore di pochi metri. L'effetto previsto dalla (127) e l'effetto Doppler devono essere inseriti in queste valutazioni per evitare errori grossolani.
Deflessione della luce. - Come abbiamo visto nel È e, un raggio di luce viene deflesso in un campo gravitazionale. Una valutazione accurata dell'effetto è stata ottenuta risolvendo le equazioni delle geodetiche in una metrica di Schwarzschild parametrizzante il campo esterno di una stella, quale il Sole, oppure di un pianeta di massa M e raggio R. Il risultato del calcolo dà
per la deflessione di un raggio che passa a distanza d dal centro della stella. Come già detto, per il Sole la (128) prevede, per raggi tangenti,
La prima conferma di questo dato venne dalla spedizione del 1919 a Sobral (v. Dyson e altri, 1920) con misure effettuate durante un'eclissi totale di Sole. L'idea è di fotografare il fondo stellare intorno al Sole durante l'eclissi e confrontarlo con l'immagine ottenuta a sei mesi di distanza. Il risultato ottenuto fu Δϕ=1,98″±0,16″. La precisione di queste misure ottiche non è aumentata durante le verifiche successive effettuate in varie riprese, fino al 1974, da un gruppo del Texas (v. Texas Mauritanian Eclipse Team, 1976). L'errore sembra essere in ogni caso del 10%.
Più accurate sono invece risultate le misure compiute mediante radiointerferometri da Counselman e altri (v., 1974) e da Fomalont e Sramek (v., 1976) usando le attrezzature del Radio Astronomy Observatory in Virginia e quelle dell'Haystack nel Massachusetts. I risultati sono in ottimo accordo con la (128), entro un errore relativo che è stato ridotto a circa l'1%. Si spera di abbassare ulteriormente questo limite usando il Very Large Array a Socorro nel New Mexico, fino a ridurre l'incertezza a valori di circa lo 0,1%.
Ritardo nel tempo di transito di segnali radio. - La relatività generale predice che il tempo di transito dei segnali radio tra due corpi (ad esempio, la Terra T e un pianeta P) aumenta se i due corpi sono posti nelle vicinanze di un terzo corpo massivo quale il Sole. Un esperimento in questo senso dovrebbe misurare il ritardo Δt nell'eco di un segnale radar inviato dalla Terra e riflesso da un pianeta. L'effetto sarebbe dell'ordine di
dove rT, rP sono le distanze di T e P dal Sole e rTP la distanza tra T e P. L'effetto sarebbe massimo per raggi che lambiscono il bordo del Sole; per questi ci si aspetta Δt dell'ordine di 250 μs. Misure di Δt sono state effettuate mediante osservazioni radar dei pianeti (v. Shapiro e altri, 1968) e delle sonde Mariner 6 e 7, in orbita eliocentrica, e Mariner 9, in orbita attorno a Marte. Si è trattato di misure molto difficili (v. Anderson e altri, 1975), in quanto le sonde impiegate non erano state progettate in funzione di questo esperimento; inoltre esistono incertezze nei parametri che definiscono l'orbita marziana. I risultati preliminari sono nuovamente in accordo con la teoria. Alcune deviazioni non sistematiche, non ancora spiegate, nei dati provenienti dalla sonda marziana consigliano tuttavia di continuare le misure di questo effetto.
La precessione del perielio. - La risoluzione esplicita delle equazioni geodetiche nel campo di Schwarzschild ha indicato una deviazione dell'orbita dei pianeti dalla forma ellittica prevista dalla meccanica di Newton. Questa deviazione è piccolissima, rispetto alle perturbazioni reciproche tra pianeti, e può essere convenientemente descritta come una precessione del perielio di un angolo Δϕ per secolo. Il calcolo conduce a un effetto relativistico
dove è L=(1−e2)a, n è il numero di rivoluzioni per secolo, a ed e sono rispettivamente il semiasse maggiore e l'eccentricità dell'orbita. Per i pianeti più vicini al Sole, i risultati delle osservazioni sono compendiati nella tabella.
Si deve tenere presente che la precessione indotta dagli altri pianeti è molto grande rispetto a questi valori; ad esempio, per Mercurio essa ammonta a circa 5.557,62″/secolo, quella osservata risulta pari a 5.600″/secolo e la differenza corrisponde appunto all'effetto relativistico. Un test del genere richiede dunque dati molto accurati sulle orbite planetarie. I risultati per gli altri pianeti sono molto più incerti, per via della loro maggiore distanza e della minore eccentricità dell'orbita. La precessione del perielio di Mercurio rimane uno dei test classici della teoria. Al momento, il fatto che la già citata pulsar binaria 1.913+16 mostri un avanzamento del ‛periastro' di 4,2°/anno non ha potuto essere utilizzato come test alternativo, poiché non si conoscono con sufficiente precisione le masse dei componenti.
L'effetto Lense-Thirring. - Lense e Thirring notarono, nel 1918, che un sistema di assi inerziali posto in una cavità al centro di una massa rotante dovrebbe ruotare relativamente al sistema inerziale esterno alla massa. Legato a questo effetto è il trascinamento del piano dell'orbita di un satellite da parte del pianeta in rotazione. La precessione della longitudine del nodo ascendente dell'orbita del satellite ammonterebbe a
dove I, ω sono rispettivamente il momento di inerzia e la velocità angolare del pianeta ruotante, mentre a ed e sono il semiasse maggiore e l'eccentricità dell'orbita del satellite. Si tratta di quantità molto piccole che non sono ancora state misurate. È in corso di allestimento un altro tipo di esperimento (cfr. Fairbank ed Everitt, in Woolf, 1980, p. 130) in cui si metterebbe in orbita un giroscopio osservandone la precessione con grande accuratezza, cioè errori di puntamento minori di 0,05″/anno. Rilevamenti del genere pongono formidabili problemi tecnici.
La radiazione gravitazionale. - Come abbiamo visto, la relatività generale prevede l'esistenza di radiazione gravitazionale. Finora nessuno dei rivelatori costruiti (v. Weber, 1968; v. Smarr, 1979) ha rivelato onde gravitazionali con un qualche grado di certezza, né ci si aspetta che questo avvenga in breve tempo, a meno di non assistere a eventi catastrofici entro la nostra galassia, quali supernove vicine con una forte emissione di onde gravitazionali.
Un'eventuale rivelazione di onde gravitazionali aprirebbe nuovi campi di ricerca di eccezionale interesse. Al momento, l'unica indicazione di rilievo in favore delle onde gravitazionali viene dall'osservazione della pulsar binaria 1.913+16; oltre a presentare - come già detto - fenomeni cospicui di precessione nel periastro dell'orbita relativa, questa pulsar mostra una variazione secolare nel periodo, in accordo con l'emissione di onde gravitazionali. In pochi anni le misure di Taylor, Fowler e McCulloch (v., 1979) dovrebbero fare luce sulla natura della diminuzione del periodo orbitale di PSR 1.913+16, in relazione alle predizioni della relatività generale.
Sul significato delle osservazioni astrofisiche e cosmologiche si discuterà in seguito. Certamente lo sviluppo tecnologico condurrà a notevoli miglioramenti nelle osservazioni e nei test della relatività generale. Quanto è stato ottenuto già dimostra che la teoria poggia su solide basi sperimentali. Inoltre, le varianti proposte finora al classico schema einsteiniano, quali la teoria di Brans-Dicke (v. Brans e Dicke, 1961) e quella di Rosen (v., 1974), sembrano sopravvivere solamente con parametri che le pongono a ridosso della teoria di Einstein e le rendono praticamente indistinguibili da essa. La loro minore semplicità costruttiva dovrebbe farle scartare.
g) Modelli stellari relativistici
Lo sviluppo dell'astrofisica sperimentale ha aperto nuovi importantissimi campi di applicazione della relatività generale. Qui si riassumeranno i problemi essenziali di equilibrio stellare, con il fine di sottolineare i sistemi nei quali la relatività generale gioca un ruolo importante.
Per semplicità conviene limitarsi a configurazioni statiche con simmetria sferica. Si supporrà inoltre che il plasma di cui è costituita la stella sia un fluido perfetto isoentropico (entropia per nucleone costante), caratterizzato da densità ρ(r) e pressione p(r), legate da un'equazione di stato assegnata, p=p(ρ), valida per qualunque r.
La simmetria sferica implica una metrica del tipo (89), ove A(r), B(r) vengono specificate dalle equazioni di campo (70). Si assume come tensore densità di energia-impulso quello dato dall'equazione (79), che si semplifica notevolmente nell'ipotesi statica: Ur=Uθ=U῍=0. Ponendo, come è consuetudine, B(r)=exp(2Φ(r)), la normalizzazione gαβUαUβ=−c2 conduce a Ut=c exp Φ(r), Ut=c exp(−Φ(r)). Le componenti non nulle di Tαβ si calcolano facilmente dalla (79), così che le equazioni di campo diventano
dove Rrr, Rθθ, Rtt sono definiti come nella (90); l'equazione per R῍῍, coincide con quella per Rθθ.
L'equazione di continuità (80) diventa, nel caso statico,
che costituisce l'equazione di equilibrio idrostatico per la stella. Nel limite non relativistico, infatti, si ha Φ(r)≃V(r)/c2, dove V(r) è il potenziale gravitazionale; poiché p/c2≪ρ, la (133) si riduce alla
che è la condizione classica dell'equilibrio idrostatico.
Si noti che la (133) è conseguenza delle (132); una di queste è superflua. Formando la quantità Rrr/2A+Rθθ/r2+Rtt/2B, si perviene all'equazione nella sola A(r)
che ha come soluzione
dove
Usando queste e la (133), si possono eliminare A e B dalle (132), ottenendo così
L'equazione di equilibrio diventa allora
La funzione assegnata, p−p(ρ), e le (135), (137) formano un sistema di equazioni accoppiate nella funzione incognita ρ(r), che vanno risolte imponendo le condizioni al contorno per r=0, cioè fissando p(0), ℳ(0)=0 e Φ(0) arbitrario. Queste equazioni vanno integrate per r crescente, fino a che si abbia p(R)=0 per un certo R finito, che definisce il raggio della stella. La costante di integrazione nella (137) è poi scelta in modo che B(r)= exp(2Φ(r))=1−2GM/(c2R), dove M=ℳ(R) è la massa della stella.
Il modello è dunque specificato dalla pressione centrale e dall'equazione di stato. Non esistono in genere soluzioni esplicite di queste equazioni, che vanno trattate numericamente. Un caso particolare non realistico, ma comunque di grande interesse, è offerto da ipotetiche stelle a densità uniforme e incompressibili. Si tratta di un modello fittizio, poiché in esso la velocità del suono √-d-p-/-d-ρ risulta infinita; il modello però può essere risolto esplicitamente, conducendo a utili disuguaglianze che risultano valide anche nel caso generale.
Ponendo ρ(r)=ρ, per 0≤r≤R, e ρ=0, per r>R, l'equazione (135b) dà
e la (135a)
La pressione p(r) può ora essere ottenuta integrando la (136):
per cui la pressione centrale è
Nel limite 2MG/(c2R)→0, si ha, all'ordine più basso, il risultato non relativistico: p(0)=MGρ/(2R). All'estremo opposto, diminuendo R, p(0) diventa infinita per R=9MG/(4c2), conducendo a un modello inaccettabile sotto ogni punto di vista. Dunque, sotto l'ipotesi di incompressibilità, la stella è stabile, purché sia R>9MG/(4c2), cioè R>9RS(M)/8. Si può dimostrare rigorosamente che nessuno dei modelli più generici può scendere al di sotto di questo limite; anzi, in pratica, una stella diventa instabile per valori di R molto maggiori di 9RS(M)/8.
Una discussione anche solo introduttiva dei modelli stellari non può prescindere dal caso più realistico in cui la stella è costituita da un gas di Fermi degenere, avendo raggiunto la fase finale della sua evoluzione. Il gas di Fermi può essere costituito da elettroni, la cui carica negativa è neutralizzata dai protoni (è questo il caso delle nane bianche), oppure da un fluido di neutroni (stella a neutroni, pulsar). In questa fase il collasso gravitazionale viene evitato grazie al principio di Pauli, che vieta a due fermioni di occupare lo stesso stato. Una trattazione di queste stelle richiede quindi in modo essenziale nozioni di meccanica quantistica. Uno dei risultati più importanti è l'avere riconosciuto (v. Chandrasekhar, 1935) l'esistenza di una massa limite data da
dove mN è la massa del nucleone e μ indica il numero di nucleoni per elettrone; per le stelle che hanno consumato tutto l'idrogeno è μ≃2. Al di sopra della massa limite MC la stella è instabile e procede verso il collasso gravitazionale.
In pratica il limite è ancora più basso di MC, perché, aumentando la densità, viene energeticamente favorita la reazione e-+p→n+ν, in cui scompaiono elettroni e protoni, mentre i neutrini prodotti abbandonano la stella. La reazione diminuisce la densità del gas di elettroni e così pure la repulsione derivante dal principio di Pauli. Per le nane bianche la massa limite si abbassa a circa 1,2 M⊙. La relatività generale non gioca un ruolo importante in questi sistemi, dato che alla superficie della stella si ha in genere RS/R≃(10-4÷10-6), R≃104 km lo spazio intorno alla stella è in ottima approssimazione piatto (A≃B≃1).
Alquanto più interessanti, sotto questo aspetto, sono le stelle a neutroni, stabilizzate dal principio di Pauli agente sui neutroni, come teorizzato per la prima volta da Oppenheimer e Volkoff (v., 1939). La massa limite, corrispondente a quella di Chandrasekhar per le nane, non è nota con precisione, ma difficilmente supera le 3M⊙. Il raggio delle stelle a neutroni è di circa 10 km e il valore di RS/R può giungere a 0,13: gli effetti della relatività generale cominciano a farsi sentire. Su questo argomento esiste una vasta letteratura (v. Cameron, 1970; v. Ruderman, 1971).
h) Collasso gravitazionale e buchi neri
Si è già detto che una stella con massa superiore al limite di Chandrasekhar non può resistere al collasso gravitazionale, a meno che non intervenga la pressione di radiazione. Una stella di massa M spende circa il tempo T=1010 (M⊙/M)3 anni nella sequenza principale, trasformando idrogeno in elio. Al termine di questo periodo comincia a sintetizzare elementi più pesanti, oppure si assesta sulla configurazione di nana bianca o di stella a neutroni: queste sono stabili per via del principio di esclusione di Pauli che ne inibisce il collasso gravitazionale.
Le stelle più massive sono invece costrette a continuare le reazioni termonucleari fino al punto in cui viene sintetizzato il ferro e finisce il combustibile. Si pensa che il collasso subitaneo del nocciolo stellare e la trasmissione dell'energia di implosione al mantello esterno siano responsabili del fenomeno delle supernove. Anche se i dettagli del collasso sono ancora incerti, si sa che lo stato finale del nocciolo può essere ancora una stella a neutroni, come nella Nebulosa del Granchio, oppure un buco nero.
Quest'ultimo caso si verifica quando le forze gravitazionali hanno il sopravvento su tutte le interazioni della materia e la stella comincia a contrarsi indefinitamente (v. Harrison e altri, 1965). Nel caso ideale di collasso a simmetria sferica, il raggio della stella diminuisce, per assestarsi, in una frazione di secondo, in un regime esponenziale asintotico, in corrispondenza del raggio di Schwarzschild RS=2MG/c2. Per un osservatore esterno questo limite non viene mai raggiunto, in quanto sulla superficie i fenomeni appaiono rallentati del fattore 1−RS/r. Allo stesso tempo, la velocità di fuga dalla superficie della stella, vf=√-2-M-G-/-R, tende al valore c e l'uscita della luce è permessa lungo un cono la cui apertura decresce; inoltre lo spostamento verso il rosso tende esponenzialmente a infinito. Al limite, nessun segnale può abbandonare il buco nero. Una configurazione di questo tipo era già stata anticipata dal matematico Laplace nel 1798.
La struttura del campo gravitazionale esterno al buco nero è data esattamente dalla metrica di Schwarzschild. Questo fatto segue dall'importante teorema di Birkhoff (v., 1923), secondo cui un campo gravitazionale non statico, ma dotato di simmetria sferica, coincide nel vuoto con il campo statico di Schwarzschild; un tale campo è quindi adatto per descrivere il collasso isotropo. Il teorema di Birkhoff generalizza, in un certo senso, una nota proprietà classica: il potenziale newtoniano generato da una massa sferica coincide, all'esterno della massa, con quello che si avrebbe se l'intera massa fosse contratta nel centro.
Più in generale si possono considerare collassi anisotropi in cui la stella possiede un campo magnetico ed è in rotazione. Il risultato finale del collasso dovrebbe essere esprimibile mediante una soluzione, detta di Kerr-Newman (v. Kerr, 1963; v. Newman e altri, 1965), dipendente solo da tre parametri: la massa M, la carica Q e il momento angolare J. Questa soluzione è data da
dove ρ2=r2+a2 cos2 θ, Δ=r2−RS(M)r+a2+Q2, J=Mac e infine Q=e√-8-π-G-/-c-4. Esiste dunque anche un campo elettromagnetico con un dipolo magnetico indotto dalla rotazione; esso ha la forma
e contribuisce al tensore energia-impulso (TEM)μν (v. eq. 76). Tutti i dettagli dello stato iniziale dovrebbero andar persi durante il collasso, ad eccezione di M, J, Q; questa assunzione è nota come la congettura del no hair (v. Wheeler, 1971). La soluzione (142) possiede un orizzonte degli eventi che generalizza la sfera di raggio r=RS del caso isotropo; nessun segnale può uscire dall'orizzonte degli eventi.
In una serie di lavori di grande interesse teorico (v. Ruffini e Wheeler, 1971) è stato dimostrato che, almeno teoricamente, è possibile estrarre energia da un buco nero ‛rotante' (J≠0), azzerando al limite il momento angolare. A parte questa possibilità, il buco nero si fa sentire agli osservatori esterni attraverso l'azione del suo campo gravitazionale. Si hanno buone ragioni per credere che l'emissione di raggi X da parte della stella Cygnus X-1 sia dovuta alla presenza di un buco nero in orbita attorno a una gigante blu. L'atmosfera di questa precipita nel campo gravitazionale del buco nero e viene costretta a percorrere orbite sempre più strette, subendo una forte compressione. Nello stadio finale la sua temperatura è così elevata da provocare l'emissione di raggi X. Il meccanismo di accrezione sopra descritto dà predizioni in ottimo accordo con i dati osservativi.
Si pensa che i buchi neri siano molto comuni nell'universo, e in particolare nella nostra galassia, anche se di difficile osservazione. Le emissioni di raggi X dal centro degli ammassi globulari potrebbero spiegarsi assumendo la presenza di buchi neri di massa molto più elevata di quella solare, dovuta al collasso consecutivo di molte stelle nella regione centrale ad alta densità di stelle. Su scala ancora più colossale, certe anomalie nella distribuzione stellare e gli imponenti fenomeni associati all'emissione di getti dal nucleo di M 87, una galassia ellittica gigante nell'ammasso della Vergine, farebbero pensare a buchi neri con una massa di circa 109 masse solari, posti nel nucleo. Per quanto detto, un buco nero rotante è probabilmente molto più attivo di uno isotropo, per cui ci si aspetta in genere una configurazione con J≠0.
Ultimamente è stato riconosciuto, secondo le idee di S. W. Hawking (v., 1977), che ambedue le configurazioni sono stabili solo entro i limiti della meccanica classica e che il buco nero isotropo evapora lentamente con un meccanismo di tunneling quantistico. Già si pensava che un buco nero dovesse possedere entropia elevata, in quanto - se si accetta la congettura no hair - quasi tutta l'informazione sullo stato iniziale viene cancellata dal collasso. Un buco nero deve quindi corrispondere a una grande varietà di stati iniziali e deve riunire nella sua configurazione esterna non uno solo, ma un gran numero di stati quantistici; e ciò significa entropia elevata. Secondo Beckenstein (1973) e Bardee e Hawking (1975), l'entropia del buco nero dovrebbe essere proporzionale alla sua area. Nel caso J=0 questo corrisponde all'entropia
In effetti si può scrivere un secondo principio della termodinamica generalizzato, in cui l'entropia totale di un sistema contenente buchi neri aumenti sempre, purché si tenga conto del contributo dei buchi neri secondo la (143).
Più recentemente Hawking ha riconosciuto che il buco nero è anche caldo, nel senso che ad esso va associata una temperatura
dove k è la costante di Boltzmann; cioè Θ(M)≃1015M-1 °K, essendo M la massa del buco nero espressa in grammi. In essenza, il campo gravitazionale del buco crea coppie virtuali di fotoni; uno dei fotoni viene assorbito dal buco con un guadagno di energia che compensa quella usata durante il processo virtuale e permette in più l'emissione del secondo fotone. Si tratta dunque di un tipico fenomeno di tunneling quantistico. Esso dà luogo a una continua emissione di fotoni da parte del buco, con uno spettro che è quello planckiano alla temperatura Θ(M).
In seguito all'emissione di energia, la massa del buco diminuisce, mentre la temperatura aumenta continuamente. Assumendo una superficie emittente dell'ordine di M2 e la legge di Stephan per la potenza emessa per unità di superficie w=σΘ4, si vede che la potenza di emissione del buco nero è
La vita media del buco sarebbe quindi, in ordine di grandezza,
Per un buco nero di massa solare derivante dal collasso sopra descritto, ciò corrisponde a una vita lunghissima di circa 1064 anni, ben al di là della scala di evoluzione stellare e cosmologica. Invece, un buco nero formatosi poco dopo il big bang e avente una massa di circa 1015 g avrebbe una vita media di circa 1010 anni, per cui esso potrebbe venire osservato anche nella nostra epoca.
Per quanto detto, la potenza di emissione cresce con l'esaurirsi del buco nero. Raggiunta la temperatura di 1012 °K, diventa possibile l'emissione di altre specie di particelle e la vita media viene ulteriormente accorciata. Si valuta che nell'ultimo decimo di secondo di vita vengano emessi circa 1030 erg di energia sotto forma di radiazione gamma e di particelle ad alta energia. Si spera appunto di osservare questi eventi per avere una conferma della teoria.
In genere un buco nero di massa stellare assorbirebbe molta più energia dalla radiazione fossile di quanta ne emetterebbe evaporando; esso sarebbe dunque destinato a crescere. Invece un buco con massa inferiore a quella della Luna avrebbe una temperatura superiore a 3 °K e sarebbe destinato a scomparire. Il prossimo decennio dovrebbe vedere sostanziali progressi sia teorici che osservativi sulla fisica del buco nero. In ogni caso si tratta di un capitolo squisitamente interdisciplinare della fisica, in cui si intrecciano relatività generale e meccanica quantistica, con risultati di altissimo interesse teorico.
3. Cosmologia relativistica
a) Il principio cosmologico e i vettori di Killing
Nel 1916, quando nacque la relatività generale, esistevano ben pochi dati osservativi sulla struttura in grande dell'universo. La messa in opera del telescopio di Monte Wilson e lo sviluppo rigoglioso dell'astrofisica permisero di raggiungere alla fine degli anni venti una prima valutazione di questa struttura e di riconoscere l'esistenza della recessione cosmica.
Le osservazioni astronomiche rivelano che, su scala ‛piccola', di alcuni anni luce, la materia è aggregata in stelle, distribuite in modo altamente non uniforme, a loro volta aggregate, su scala di 105 anni-luce, in galassie della massa tipica di 1011÷1012 masse solari. Sulla scala di alcuni milioni di anni luce, esiste una forte correlazione tra galassie, che appaiono riunite in ammassi galattici. Su scala cosmica di 108 anni luce l'universo appare invece riempito uniformemente da una ‛polvere' di galassie, cioè la materia risulta in media distribuita nella stessa maniera in una sfera di questo raggio centrata sulla Terra, come in un'altra qualsiasi centrata altrove.
Da questa evidenza empirica nasce il cosiddetto principio cosmologico, che asserisce appunto l'omogeneità e l'isotropia dell'universo visto su grande scala. Evidenza supplementare per il principio viene dalle radiosorgenti e, come si vedrà più avanti, dalla radiazione fossile. Il principio cosmologico è in primo luogo un'asserzione sulla distribuzione di materia nel cosmo. Poiché la materia determina la geometria dell'universo, è naturale assumere che tale geometria sia la stessa in qualunque punto la si osservi, e in qualunque direzione.
In realtà questa asserzione nasconde la condizione implicita che le osservazioni siano fatte allo stesso tempo. L'universo non è infatti immutabile e un confronto è possibile solamente se si specifica la variabile tempo. Più precisamente, il principio cosmologico asserisce l'esistenza di una variabile privilegiata t, detta tempo cosmico, tale che le ipersuperfici t=costante rappresentano istantanee dell'universo che si conformano alle ipotesi di omogeneità e isotropia di cui si è detto. Queste condizioni restringono a priori le possibili metriche cosmologiche riducendole a una forma molto semplice, che permette tra l'altro un'efficiente trattazione matematica.
Il concetto base è quello di metrica invariante in forma. Siano date due carte (UA, ϕA), (UB, ϕB), UA⋂UB≠0/; si dirà che gμν è invariante in forma se è
La metrica di Minkowski è chiaramente invariante in forma per tutte le trasformazioni del gruppo di Poincaré. La relazione tra xA e xB si dice isometria se soddisfa la (147). Le isometrie infinitesime sono realizzate da relazioni del tipo xνB=xνA+ εξν dove ε è infinitesimo e ξν è un vettore controvariante opportuno; sostituendo infatti nella (147) e sviluppando in ε, si trova al primo ordine la condizione
Un campo di vettori che soddisfi alla (148) si chiama vettore di Killing per la metrica gμν. In quanto segue si tralascerà l'indicazione esplicita della carta, che non è necessaria in un'analisi puramente locale.
I vettori di Killing godono di varie proprietà notevoli. Dalla regola di commutazione delle derivate (48) e dall'identità (50c) per il tensore di Riemann si ricava
Questa relazione permette, applicata ripetutamente, di calcolare tutte le derivate di ξμ in un dato punto P, se sono date ξμ e ξ;μ;ν in P. Si può dunque concludere che ξμ è completamente determinato da queste condizioni iniziali. I vettori di Killing formano uno spazi o vettoriale, poiché la combinazione lineare a coefficienti costanti di due vettori è ancora un vettore di Killing. Questo spazio è isomorfo a un sottospazio lineare di quello dei dati iniziali ξμ, ξμ;ν, e quindi ha al più dimensione N(N+1)/2 per una varietà a N dimensioni.
Data un'isometria xBν =fν(xA), si può considerare la corrispondenza che assegna a un punto xAν di UA il punto di UB avente coordinate xBν =xAν . Uno spazio metrico si dice omogeneo se, dati due punti qualsiasi, essi si corrispondono sempre in una isometria del tipo considerato. Uno spazio omogeneo contiene sempre almeno N vettori di Killing. Inoltre uno spazio si dice isotropo in un punto P se esistono isometrie che lasciano P invariato, ma che assumono tutti i valori possibili compatibilmente con la condizione (148). Se uno spazio è omogeneo e isotropo, esso possiede il numero massimo N(N+1)/2 di vettori di Killing e in questo caso si chiama anche massimale simmetrico.
In generale non è detto che ogni metrica ammetta vettori di Killing; tuttavia è un fatto acquisito che le soluzioni note delle equazioni di Einstein possiedono sempre dei vettori di Killing, la cui esistenza ne semplifica la trattazione. Dato che un vettore di Killing Tα è anche un vettore tangente alla varietà, si può considerare la sua rappresentazione
Il commutatore di due vettori di Killing Tα, Qα.
è ancora un vettore di Killing; dunque essi formano in modo naturale un'algebra di Lie che è isomorfa all'algebra di Lie del gruppo delle isometrie.
b) Le metriche di Robertson e Walker
Con ciò si giunge al punto essenziale per cui sono stati introdotti i vettori di Killing (v. Helgason, 1962). Si noti che la simmetria di uno spazio metrico è stata finora descritta come una proprietà particolare della metrica, rilevabile solamente in certi sistemi di coordinate, con un procedimento antitetico rispetto all'uso di atlanti generici. I vettori di Killing, invece, permettono di definire la simmetria di uno spazio senza riferimento alcuno a un particolare sistema di carte.
Per lo spazio di Minkowski è gμν=ημν e si hanno esplicitamente i vettori di Killing
la cui algebra è isomorfa all'algebra di Lie del gruppo di Poincaré. Lo spazio di Minkowski è dunque banalmente massimale simmetrico.
Nella cosmologia è necessaria una classe più generica di spazi massimali simmetrici, per quanto riguarda le simmetrie spaziali, ma che non possieda alcuna invarianza rispetto a traslazioni temporali. La maggior parte dei modelli cosmologici è della forma
ds2=−c2 dt2+R2(t)(gèik dxi dxk), (151)
dove il fattore di scala R2(t) dipende solamente dal tempo cosmico e non dalle coordinate spaziali. La metrica
dl2=gèik(x) dxi dxk (152)
è invece massimale simmetrica in tre dimensioni spaziali.
Si può dimostrare che le metriche di questo tipo, anche nella dimensione generica N, hanno curvatura costante, cioè
K gioca il ruolo di curvatura gaussiana dello spazio ed è costante. Assegnato K, lo spazio è completamente determinato e può essere costruito come segue.
Si consideri uno spazio piatto a N+1 dimensioni, ???OUT-R???N+1, con coordinate z, xi, i=1, ... , N, e metrica
In ???OUT-R???N+1, si consideri la varietà SN
differenziando possiamo eliminare z e dz ed esprimere la metrica su SN direttamente in funzione di xi. Il risultato è
e appare come una generalizzazione dello spazio piatto a N dimensioni (K=0). È noto che la (154) e la (155) sono invarianti per le trasformazioni ‛rigide' di Lorentz in N+1 dimensioni, che formano, appunto, un gruppo con N(N+1)/2 parametri. La forma (156) può essere ulteriormente standardizzata ponendo
ed effettuando la trasformazione di scala
xi→Rxi. (158)
Si ottiene
dove il fattore R2 può essere assorbito nella (152) dalla funzione R(t). La classificazione della metrica (152) dipende dunque dal parametro κ. Nel caso N=3, introducendo coordinate polari, x1=r sen θ cos ϕ, x2=r sen θ sen ϕ, x3=r cosθ, la (156) assume la forma
La (155) mostra che, per K>0, la varietà è compatta e omeomorfa alla sfera SN; altrimenti, la varietà non è compatta: se K=0, si ha lo spazi o euclideo ???OUT-R???N, come mostrato anche dalla (156), mentre, se K〈0, si ha la pseudosfera di Lobačevskij. Il calcolo dei simboli di Christoffel basato sulla (156) porta alla notevole relazione
Γikl=Kgèklxi, (161)
dalla quale segue la semplice equazione per la geodetiche
Essa è banalmente integrabile in termini di funzioni trigonometriche (K>0), lineari (K=0), o iperboliche (K〈0); anche in questo modo si trova che solamente nel caso K>0 le geodetiche sono finite.
Stabilite le principali proprietà di questi spazi, conviene riscrivere la (151) esplicitamente:
le metriche di questo tipo sono chiamate metriche di Robertson-Walker (v. Robertson, 1935 e 1936; v. Walker, 1936). Dalla (163) si deduce che Fttμ=0, per cui le linee caratterizzate da r, θ e ϕ costanti sono geodetiche dello spazio-tempo. È questo un risultato che permette di considerare le galassie come granelli di polvere in caduta gravitazionale libera su coordinate spaziali fisse. Una distribuzione di polvere che sia uniforme a un dato istante rimane tale durante l'evoluzione degli universi di Robertson-Walker.
Si rappresenti questa distribuzione di materia come un fluido perfetto descritto dal tensore energia-impulso (79), ove Ui=0, Ut=c; in questo schema le funzioni p, ρ dipendono solamente dal tempo. Dall'equazione di continuità (80) si ottiene
Se la pressione è trascurabile, come suggerito dall'attuale situazione sperimentale, si ottiene
R3(t)ρ(t)=costante. (165)
Ciò indica che le galassie si addensano in proporzione inversa al fattore di scala R(t). Il problema dinamico consiste nel dedurre R(t) dalla distribuzione di materia presente nell'universo, dalla relativa equazione di stato e dalle equazioni di campo.
c) Lo spostamento verso il rosso
Un dato empirico molto importante, che riguarda la funzione R(t), è l'osservazione di spostamenti spettrali verso il rosso nelle gaiassie, interpretati, in base all'effetto Doppler (v. articolo precedente, cap. 2, È h), come velocità radiali di recessione delle galassie. Il primo ad accorgersi che le linee spettrali delle galassie sono spostate in prevalenza verso il rosso fu V. M. Slipher, in una serie di misure effettuate tra il 1910 e il 1920. Toccò a E. Hubble (v., 1929) l'annuncio finale, dato nel 1929, di una relazione rozzamente lineare tra spostamento delle righe spettrali e distanza della galassia emittente.
Se la lunghezza d'onda emessa e quella osservata sono rispettivamente λ e λ′, lo spostamento spettrale è definito come Z=(λ′−λ)/λ. Sono stati osservati quasar con Z≃3,5. Tenendo conto che λ′=λ √-(-1-+-β-)--/--(-1-−-β-) (cβ è la velocità di recessione), si trovano valori di β prossimi a 0,9. Per distanze non estreme, la legge di Hubble è appunto lineare,
v=H0 d; (166)
v è la velocità di recessione, d la distanza della galassia e H0 è detta costante di Hubble; il suo valore non è ancora noto con precisione, ma è certamente compreso tra 50 e 100 chilometri per secondo e per megaparsec (cfr. Vaucouleurs, in Woolf, 1980). In altri termini, (H0)-1 è dell'ordine dei 10-20 miliardi di anni ed entra direttamente nella determinazione di R(t). Sia data infatti una galassia di coordinate r, ???62???, ???63???, emittente un segnale al tempo t1. Il segnale viaggia lungo la geodetica che connette la galassia all'origine r=0, dove viene osservato al tempo t2. È evidente che il fronte d'onda viaggia lungo la linea θ=???62???, ϕ=???63??? e che lungo questa traiettoria risulta, dalla (163),
da cui la relazione integrale
Un secondo segnale, emesso al tempo t1+δt1, giunge al tempo t2+δt2 e si ha
da cui segue la relazione δt2/R(t2)=δt1/R(t1). Se δt è la distanza tra due onde successive, è λ=cδt1, λ′=cδt2, da cui si ottiene Z=R(t2)/R(t1)−1. Quindi un universo in espansione (R(t2)>R(t1), per t2>t1) dà luogo a spostamenti verso il rosso, uno in contrazione, invece, a spostamenti spettrali verso il blu. Per distanze non troppo grandi, Z è piccolo e può essere approssimato con β. Inoltre c(t2−t1)≃d, dove d è la distanza della galassia. Ne segue
che è la legge di Hubble. Poiché il tempo t2 indica il presente, lo si denoti con t0 in una opportuna scala di tempo cosmico; allora si ha H0=Ê(t)/R(t)∣t=t0.
d) I modelli di Friedmann.
Si scrivano ora le equazioni di campo (70) con la metrica di Robertson-Walker. Nell'ipotesi del fluido perfetto, si ha
e le gèik sono specificate dalla (163). Le singole componenti di queste equazioni risultano essere
mentre le equazioni spazio-tempo sono identicamente soddisfatte. Eliminando Ë, si ottiene un'equazione del primo ordine:
Inoltre si ha la conservazione dell'energia (164):
ma si noti che la (169) segue dalle (168) e (171). Accanto a queste equazioni occorre specificare l'equazione di stato p=p(ρ). L'insieme di queste condizioni definisce i modelli cosmologici di Friedmann (v., 1922 e 1924).
Nell'epoca presente la densità di energia nell'universo è dominata dalla materia, per cui il termine di pressione è trascurabile; come già osservato, ciò implica ρmateria R3=costante e p=0. In un universo molto più piccolo di quello attuale, poteva predominare la densità di radiazione (fotoni), con equazione di stato pfotoni=c2ρ/3; in questo caso la (171) dà ρfotoni R4=costante.
La (168) in ostra che, essendo al presente 3p+c2ρ>0, deve essere Ë〈0, per cui la curva di espansione dell'universo R(t) ha la concavità rivolta verso il basso. Quindi R(t) deve avere avuto uno zero nel passato. Si misureranno i tempi a partire da questo istante: R(0)=0, cosicché il valore t0 del tempo presente può chiamarsi età dell'universo. Da questo andamento di R(t) si vede che deve essere soddisfatta la disuguaglianza t0〈H0-1. Infatti, se, per o〈t〈t0, fosse Ë(t)=0, allora sarebbe R(t)=R(t0) t/t0 e quindi si avrebbe esattamente H0-1=t0; poiché invece Ë(t)〈0, segue t0〈H0-1. La costante di Hubble pone quindi dei limiti abbastanza stringenti all'età dell'universo, che ancora sollevano problemi, in particolare per quanto riguarda il valore piuttosto basso t0~1010 anni proposto da Vaucouleurs.
La (171) permette di trovare ρ(t) in funzione di R(t) quando sia nota l'equazione di stato; introducendo questa soluzione nella (170) si può poi ricavare R(t). Qualitativamente, se K〈0, fintanto che p(t)>0, si ha (Ê)2>0 e quindi l'espansione dell'universo non può mai fermarsi: R(t)∝t→∞. Se K=0, vale un risultato analogo, con crescita più lenta di R(t). Se invece K>0, si può avere Ê=0 appena è ρ=3c4K/(8πGR2). Dato che si ha sempre Ë〈0, la derivata Ê diventa negativa passando a una fase di compressione che riporta a R=0 in qualche istante futuro.
Ponendo q0=−ËR/(Ê)2∣t=t0 (q0 si chiama parametro di decelerazione), le (169) assumono la forma, per il tempo presente,
Definendo anche la densità critica: ρc=3c2H²0/(8πG), si vede che il segno della curvatura spaziale dipende da quello di ρ0−ρc. Essendo al presente la pressione trascurabile rispetto a ρ0, si ha
e quindi
La misura di q0 darebbe indicazioni sul valore della densità di materia nell'universo; essa si effettua cercando delle deviazioni della legge di Hubble dalla semplice linearità.
Un valore alto di q0 implicherebbe che le galassie stanno decelerando; quindi nel passato esse avrebbero viaggiato più veloci. In un grafico della distanza d in funzione di Z si dovrebbe vedere un incurvamento rispetto alla relazione lineare (166). In effetti, sviluppando Z=R(t0)/R(t1)−1, si ottiene, al second'ordine in Z,
Sfortunatamente la valutazione di q0 è resa difficile da vari errori sistematici dovuti alla rotazione galattica, all'assorbimento della nostra galassia, all'incertezza nella scala delle distanze cosmiche e a deviazioni locali dall'omogeneità dell'universo. Infine le galassie più distanti sono anche più giovani e la loro luminosità poteva essere diversa nel passato. Le misure più recenti (v. Woolf, 1980) sembrano favorire q0≤0,5 e quindi K〈0, cioè un universo aperto, ma non escludono affatto la possibilità che sia q0>0,5, cioè che l'universo sia chiuso.
e) Universo aperto, universo chiuso
Con ciò si è giunti al punto più dibattuto e qualificante della cosmologia contemporanea, e cioè la questione, tuttora da decidere, se l'universo sia aperto o chiuso. Non essendo possibile risolvere il dilemma in base alla misura di q0, si può ricorrere a valutazioni di ρ0. Dalla distribuzione delle galassie e dall'applicazione del teorema del viriale - secondo cui la massa di un oggetto viene stimata a partire dalla distribuzione delle velocità rotazionali rispetto al centro - si ottiene un valore molto basso: ρ0=0,028ρc, che implicherebbe, tramite la (173), q0=0,014, cioè un universo aperto. Il risultato, pur significativo, non è del tutto convincente; in fondo esso si basa su una valutazione della massa presente nell'universo, che tiene conto solamente delle masse visibili otticamente e con radiotelescopi, mentre potrebbe esserci materia nascosta sotto forma, per esempio, di gas di neutrini, di gravitoni, oppure di idrogeno intergalattico ad altissima temperatura.
Un'altra indicazione in favore dell'universo aperto proviene dalla scoperta di deuterio interstellare. È molto difficile che si formi deuterio nelle stelle, ove esso viene rapidamente convertito in elio, e parrebbe quindi logico che esso si sia formato negli istanti iniziali dell'universo, quando furono sintetizzate le specie nucleari. Si vede, tuttavia, che in un universo chiuso la densità troppo alta della materia impedisce la formazione di deuterio e che la percentuale di questo è un indice molto sensibile della densità ρ0; un criterio dunque che tende a favorire l'ipotesi dell'universo aperto.
Le equazioni di campo sono state analizzate esplicitamente nel caso dominato dalla materia: p=0; come già osservato, in conseguenza della (171) si ha ρR3=costante e quindi ρ=ρ0(R0/R)3. Normalizzando le variabili rispetto ai valori attuali anche nella (170), si ottiene
che ha come soluzione
A seconda del valore di q0, si distinguono i seguenti casi.
1. q0>0,5, K>0, ρ0>ρc. Ponendo
si trova
H0t=q0(2q0−1)-3/2(θ−sen θ). (176b)
Le (176) sono equazioni parametriche di una cicloide. Il massimo di R(t) viene raggiunto per t=tm=πq0(2q0−1)-3/2/H0 e si ha R(tm)=2q0R0/(2q0−1). L'universo collassa nuovamente al tempo t=2tm: R(2tm)=0. L'intero ciclo dura non meno di 80 miliardi di anni; stando alle stime, q0≤1, H0-1≃13×109 anni. Per l'età attuale dell'universo si trova
2. q0=0,5, K=0, ρ0=ρc. Si ha
R(t)=R0(3H0t)2/3 (178)
e quindi
t0=2/3H0-1≃9×109 anni.
Questo universo corrisponde al modello di Einstein-De Sitter (v. Einstein, 1917; v. De Sitter, 1917); R(t) cresce indefinitamente.
3. q0〈0,5, K〈0, ρ0〈ρc. Ponendo
si trova
H0t=q0(1−2q0)-3/2(senh ψ−ψ). (179b)
Come nel caso 2, R(t) cresce senza limiti e si ha
t0≃0,96 H0-1≃13×109 anni. (180)
L'età di certi ammassi globulari è stimata tra 9,5×1010 e 15×1010 anni. La datazione delle rocce radioattive porta a concludere che sia t0>ì7×1010 anni. È un dato estremamente positivo che la determinazione cosmologica di t0 sia dello stesso ordine di grandezza di quella ottenuta con altri metodi. Esiste tuttavia il pericolo che, risultando H0 troppo alto, il valore di t0 si abbassi entrando in conflitto con le stime precedenti. In questo caso si potrebbe ‛curare' t0 introducendo il cosiddetto termine di repulsione cosmica nelle equazioni di Einstein; tuttavia le equazioni di campo verrebbero alterate e la loro bellezza e semplicità risulterebbero diminuite.
f) Lo stadio iniziale dell'universo.
Tutte le soluzioni prospettate per le equazioni di campo di Einstein mostrano un andamento R(t)∝t2/3 per piccoli t. Tuttavia lo stadio iniziale dell'universo doveva essere ben più denso e caldo di quello attuale. Per valori sufficientemente piccoli di t, e quindi di R(t), la densità dell'energia di radiazione, che varia come (R(t))-4, doveva predominare su quella della materia, che varia solo come (R(t))-3. Per questa ragione, per t→0, occorre risolvere nuovamente le equazioni del campo per il caso della radiazione, ponendo p=c2ρ/3. L'effetto più ragguardevole è che l'andamento di R(t), per piccoli t, diventa R(t)∝t1/2.
Il calcolo realistico di quello che avvenne nei primi istanti dell'universo esula dagli scopi di questo articolo: si tratta di valutazioni che richiedono lo studio di misture statistiche di particelle e antiparticelle create dalla conversione di energia termica in materia, in epoche in cui la temperatura era altissima. Una valutazione grossolana della temperatura Θ dell'universo segue dalla relazione qualitativa Θ(t) R(t)=cost. Per piccoli t, ciò implica √-tΘ(t)=cost. Con buona approssimazione, si può porre R(t)=2×10-10 R0 √-t e quindi √-tΘ(t)≃1010 °K, esprimendo t in secondi.
La cronistoria dell'universo, a partire da un istante successivo a t=0 (big bang), può prospettarsi come segue.
A. t〈10-4 s, Θ>1012 °K. È l'epoca adronica, in cui esistono particelle e antiparticelle con interazioni forti: lo studio dettagliato dei processi in questo primissimo stadio è tuttora molto difficile.
B. 10-4 s〈t〈10-2 s. Tutte le particelle e le antiparticelle si annichilano lasciando elettroni, positoni, neutrini, antineutrini e fotoni, con un residuo di protoni e neutroni.
C. 10-2 s〈t〈4 s. Si annichilano le coppie elettronepositone lasciando un eccesso di protoni rispetto ai neutroni; circolano neutrini e fotoni.
D. 4 s〈t〈180 s. Ha luogo la fusione di protoni e neutroni in nuclei più pesanti. Rimane essenzialmente gas di idrogeno con il 27% di elio e tracce di altri nuclei; tutti gli atomi sono ionizzati.
E. 180 s〈t〈1 milione di anni. La temperatura scende gradualmente fino a 4.000 °K e l'idrogeno ionizzato si ricombina in atomi. Fino a questo momento l'idrogeno è in equilibrio termico con la radiazione di corpo nero che riempie l'universo.
F. Nelle epoche successive la densità di energia elettromagnetica scende al di sotto di quella della materia. All'epoca t=1 miliardo di anni comincia la formazione delle galassie e si entra nella storia contemporanea.
La radiazione elettromagnetica che si disaccoppia dalla materia alla fine dell'epoca E continua a circolare per l'universo ed è ancora visibile oggi sotto forma di un fondo planckiano cosmico di microonde a temperatura 2,7 °K, che è stato scoperto nel 1965da Penzias e Wilson (v., 1965). Questa radiazione, detta fossile, ha subito uno spostamento verso il rosso corrispondente a Z=1.000 circa. Essa ci dà delle informazioni dirette sull'epoca E non ottenibili altrimenti. L'omogeneità mostrata da questo fondo riflette quella dell'universo in quest'epoca primitiva ed è un argomento in favore del principio cosmologico. Inoltre, la scoperta della radiazione fossile ha fatto scartare il modello steady state con creazione continua di materia, proposto da Hoyle (v., 1948).
Da quanto detto emerge che alcuni problemi fondamentali attendono risposta. Tra questi, la determinazione di q0, e quindi la decisione tra universo aperto e chiuso, è il più importante. Rimane anche da condurre a termine l'analisi teorica e (se possibile) osservativa delle epoche anteriori a E. Resta pure il problema della formazione delle galassie, che si presume originino dall'instabilità gravitazionale della materia, ma la corrispondente teoria è poco nota e mal compresa nei dettagli. Infine occorre guardarsi da professioni dogmatiche di fede nei riguardi del big bang; al momento il modello è attraente, ma una sua revisione, anche radicale, non è impossibile.
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Einstein e la filosofia di Eugenio Garin
sommario: 1. I termini di un problema. 2. Lo svolgimento del pensiero di un fisico. 3. Oltre il positivismo. 4. Fra neopositivisti e neokantiani. 5. Problemi ‛metafisici'. 6. Il dibattito su Einstein: equivoci e confutazioni. □ Bibliografia.
1. I termini di un problema
Si dirà qui di Einstein, e dei suoi rapporti e atteggiamenti nei confronti della filosofia e dei filosofi; non della filosofia di Einstein. Non, dunque, un tentativo di dare forma organica a una concezione della realtà enucleata più o meno arbitrariamente dalle varie affermazioni generali di carattere teorico fatte dallo scienziato, e neppure una sorta di prematura nuova ‛critica della ragione' fondata sulla fisica di Einstein anziché su quella di Newton - se è pur vero, come ha affermato H. Reichenbach, che per importanza filosofica ‟l'unico predecessore di Einstein fu Newton" (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 260). È stato d'altra parte proprio Reichenbach a insistere con energia sul fatto che, se Einstein ha avuto un'importanza decisiva nel dibattito filosofico contemporaneo, ciò è avvenuto senza che egli abbia formulato una precisa dottrina filosofica. ‟Nei suoi scritti non si può trovare l'esposizione e l'approfondimento di una teoria filosofica. Di fatto la filosofia di Einstein non è tanto un sistema filosofico quanto un atteggiamento filosofico, cosicché egli è rimasto, per così dire, un filosofo implicito" (ibid., p. 239).
Questo non toglie che Einstein abbia preso esplicita posizione sui grandi problemi filosofici, morali e teoretici, anche se in molti casi in forme non adeguatamente mediate, come del resto traspare dalle stesse espressioni linguistiche di cui spesso fa uso: ‟io c r e d o fermamente"; ‟atteggiamento i s t i n t i v o"; ‟io c r e d o che tutto ubbidisca a una legge"; ‟in un mondo di realtà obbiettive, che cerco di cogliere per via f u r i o s a m e n t e speculativa"; e così di seguito. Sempre Reichenbach ricorda: ‟Quando io, in una certa occasione, domandai al professor Einstein come avesse trovato la sua teoria della relatività, egli rispose di averla scoperta perché era profondamente convinto dell'armonia dell'universo. E indubbiamente questa teoria costituisce una dimostrazione assai convincente dell'utilità della sua convinzione. Ma un c r e d o non è una filosofia" (ibid., p. 240). Comunque, egli ha via via dichiarato i suoi debiti e la sua adesione, così come il suo distacco e la sua critica, nei confronti di precise posizioni teoriche del passato (Hume e Kant, Berkeley), e dei suoi tempi (Mach, i neokantiani, Russell). Con la filosofia, insomma, e proprio nel senso più tecnico del termine, Einstein ha costantemente trovato il modo di fare i conti, mettendo consapevolmente in discussione alcuni principi fondamentali per qualsiasi concezione del mondo, dichiarando a più riprese le proprie idee sul significato e il valore della scienza, discutendo del senso della vita, e del valore dell'uomo e dei suoi comportamenti, con una drammatica coscienza dei conflitti del mondo contemporaneo, e con una rara efficacia nel pronunciare parole di universale saggezza. Certamente - e lo ha di fresco ribadito in Italia L. Geymonat - Einstein ‟non è stato un filosofo nel senso tecnico del termine", né può dirsi che ‟abbia avuto un pensiero filosofico sistematico e univoco" (v. Geymonat, 1980, p. 137). Tuttavia, anche talune incongruenze e interpretazioni contrastanti del suo pensiero si pacificano con facilità, solo che le varie formulazioni vengano datate e ricollocate negli adeguati contesti e momenti di uno sviluppo complesso e travagliato. Sicché, alla fine, risulta convincente l'osservazione che Heisenberg premise al carteggio di Einstein con Born: ‟Ogni lavoro scientifico si sviluppa [...], consciamente o inconsciamente, a partire da un'impostazione filosofica, da una determinata struttura mentale, che fornisce al pensiero un fondamento stabile. Senza una simile impostazione difficilmente i concetti e i nessi concettuali potrebbero conseguire quel grado di chiarezza e di univocità che è il presupposto di ogni lavoro scientifico". Per converso, quando quei quadri teorici medesimi che hanno consentito la comprensione di nuovi campi di esperienza si irrigidiscono in strutture assolute, possono trasformarsi da strumenti fecondi in ostacoli insormontabili. Se ‟quasi tutti i ricercatori - continuava Heisenberg - sono pronti ad accogliere nuovi contenuti di esperienza e a riconoscere nuovi resultati che rientrino nel quadro della loro impostazione filosofica, nel progresso della scienza può accadere che un nuovo campo d'esperienza divenga pienamente comprensibile solo quando si compia l'enorme sforzo di ampliare questo quadro e di modificare la struttura stessa del pensiero". Proprio nel confronto fra Einstein e Born sulla teoria dei quanti Heisenberg trovava un documento esemplare di quanto ‟il lavoro scientifico [...] sia determinato da certe posizioni filosofiche e umane di fondo". Non solo: leggeva anche, nella vicenda di Einstein, l'insorgere, a un certo momento, del rifiuto - e dell'impossibilità - di rimettere sempre in discussione ‟la struttura stessa del pensiero", o almeno i concetti fondamentali (v. Einstein e Born, 1969; tr. it., pp. XII-XIII).
Comunque, e giova sottolinearlo, si cercherà qui di mettere a fuoco soprattutto due punti precisi: 1) l'atteggiamento consapevole, le prese di posizione esplicite, il confronto dichiarato, da parte di Einstein, con quello che egli considerava ‛filosofia' in senso proprio - e con certi ‛filosofi' determinati; 2) la reazione suscitata da Einstein in alcuni pensatori contemporanei, e in alcune aree di pensiero, anche se in certi casi - e taluni, come quello di Bergson, clamorosi - si trattò di veri e propri fraintendimenti ed equivoci; come scrisse una volta Bachelard, ‟si potrebbe fare una divertente raccolta di sciocchezze riunendo le opinioni dei ‛filosofi' che hanno ‛giudicato' la relatività; un cieco parlando dei colori mostrerebbe altrettanta competenza" (v. Bachelard, 1949; tr. it., pp. 169-170). Ad ogni modo su entrambi i punti indicati - 1) quello che Einstein ha detto della filosofia e dei filosofi; 2) quello che i filosofi hanno detto delle tesi einsteiniane - l'analisi mirerà a ricostruire e a mettere in evidenza nei vari interlocutori i termini e le forme di un dialogo (poco importa se, a volte, fra sordi), e i suoi echi, talora distorti, ma ampi e profondi in tutta la cultura contemporanea. È, spesso, la cronaca di una vicenda di errori, di fraintendimenti, di falsificazioni; ma così sono andate le cose, e anche gli errori, ormai, hanno il loro peso e il loro significato. Reichenbach ne indicava la fonte nel carattere non rigoroso della ‛filosofia' einsteiniana: e la sua forza - diceva (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 239) - ma anche la sua debolezza [...]: la sua forza, perché ha reso tanto più concreta la sua fisica; la sua debolezza, perché ha lasciato la sua teoria esposta ai travisamenti e alle interpretazioni sbagliate". In realtà la ragione di fondo era probabilmente un'altra: il carattere rivoluzionario della teoria imponeva la revisione di alcuni concetti-chiave, e proprio a questo il pensiero dominante riluttava.
2. Lo svolgimento del pensiero di un fisico
Nel 1944, scrivendo sul pensiero di Bertrand Russell, Einstein tenne a ricordare due cose: 1) che ‟le difficoltà interne alla scienza impongono o g g i allo studioso di fisica una presa in considerazione dei problemi filosofici assai più estesa che in passato"; 2) che egli, Einstein, fino ad allora aveva limitato il suo raggio di interesse al campo della fisica, senza impicciarsi di filosofia (v. Schilpp, 19633, p. 278). Questa seconda affermazione non era assolutamente vera, ed era buttata là come una civetteria. Era vero, invece, che l'interesse in lui costante per i problemi specificamente filosofici legati alla sua ricerca si era venuto intensificando e precisando - sul terreno della fisica - come esigenza di una sempre più raffinata riflessione epistemologica, non mai disgiunta dal nesso fecondo con l'indagine scientifica in atto. ‟L'epistemologia senza contatto con la scienza - concluderà nel 1949 (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 629) - diventa uno schema vuoto. La scienza senza epistemologia - se pure si può concepirla - è primitiva e informe". Il sapore kantiano dell'espressione (non a caso la tesi appare in un contesto ove a Kant si vuol rendere giustizia, in opposizione a Reichenbach), mentre sottolinea il rifiuto di una scienza che non sia costantemente consapevole dei propri problemi di fondo e delle proprie strutture concettuali, respinge con uguale energia le pretese dei filosofi della scienza di determinare essi, a priori, i sistemi concettuali, i procedimenti e le strutture della ricerca scientifica. Non sfugge a Einstein la ricorrente tentazione riduttiva dell'epistemologo incline a ricondurre entro le proprie raggiunte sistemazioni concettuali ogni novità, magari paradossale, ma non per questo da respingere. "L'epistemologo - sottolinea (ibid., pp. 629-630) - nella sua ricerca di un sistema chiaro è portato a interpretare il contenuto di pensiero della scienza secondo il suo sistema, e a rifiutare tutto ciò che al suo sistema non si adatta". Del resto, e non senza il gusto del paradosso, Einstein rivendicò una volta il diritto per lo scienziato di essere insieme realista e idealista, positivista e platonico: di spezzare, insomma, con una ‛scienza nuova' gli schemi inadeguati di una ‛filosofia antica'.
In realtà, alla soglia degli anni cinquanta, Einstein ha ormai compiuto un lungo viaggio filosofico e, com'è naturale, le sue posizioni su molti punti sono venute modificandosi rispetto all'inizio del secolo. Nel medesimo testo del 1949 citato sopra, la Replica finale agli scritti intorno alla sua opera inclusi nel volume a lui dedicato dalla Library of Living Philosophers di P. A. Schilpp, egli riconosce di ‟non essere cresciuto nella tradizione kantiana, ma di essere arrivato finalmente a capire l'aspetto veramente valido che si può trovare nella dottrina di Kant" (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 625). Il che sottolineava in contrasto con Reichenbach che sempre, anche in polemica con Cassirer, aveva sostenuto che ‟è nel processo di dissoluzione del sintetico a priori che noi dobbiamo porre la teoria della relatività, se noi vogliamo giudicarla dal punto di vista della storia della filosofia" (ibid.; tr. it., p. 257). Già nel 1920, nel saggio su Einstein discusso con Einstein (Zur Einstein'schen Relativitätstheorie, Berlin 1920), Cassirer aveva insistito sul tema che ‟la critica della ragione pura non mirava a inchiodare la conoscenza filosofica una volta per sempre su un determinato sistema dogmatico di concetti". E l'interpretazione a cui arriverà, appunto, Einstein, e che non è molto lontana da quella che ne darà Born: ‟Posso afferrare l'idea di Kant che ci siano dei principi e delle categorie mentali che costituiscono le condizioni per l'effettiva conoscenza e che si possono scoprire indagando sulla struttura della conoscenza stessa. Questo è quello che facciamo noi fisici teorici, con l'unica differenza che non pretendiamo che la nostra ultima analisi sia una legge definitiva e irremovibile, ma la consideriamo solo un altro gradino verso una verità lontana" (v. Born, 1978; tr. it., p. 150). A posizioni del genere Einstein era arrivato in verità da tempo, come da tempo aveva oltrepassato il suo caro e tanto ammirato Hume, e gran parte di Mach, e, soprattutto, il positivismo vecchio e nuovo, se, nella Herbert Spencer Lecture tenuta a Oxford il 10 giugno 1933 On the method of theoretical physics, aveva potuto affermare: "La nostra esperienza fin qui raccolta ci conforta a credere che la natura sia la realizzazione delle idee matematiche più semplici che si possano concepire. Io sono convinto che per mezzo di costruzioni matematiche si possono scoprire i concetti e le leggi che li collegano l'uno con l'altro, e che costituiscono la chiave per la comprensione dei fenomeni naturali. L'esperienza può suggerire i concetti matematici più appropriati, ma in nessun caso possono esserne dedotti. L'esperienza resta, naturalmente, il solo criterio dell'utilità fisica di una costruzione matematica. Ma i principi creativi risiedono nella matematica. In un certo senso, io tengo per vero che il pensiero puro possa afferrare la realtà, come sognavano gli antichi" (v. Einstein, 1933; tr. it., pp. 254-259).
Nel 1931, nel saggio Maxwell's influence on the development of the conception of physical reality, aveva già affermato che "la fede in un mondo esterno, indipendente dal soggetto che lo percepisce, è la base di tutta la scienza naturale". Dopo di che aveva aggiunto: ‟ma poiché la percezione dei sensi c'informa solo indirettamente su questo mondo esterno o ‛realtà fisica', noi possiamo afferrare quest'ultima solo con mezzi speculativi. Ne deriva che le nostre nozioni sulla realtà fisica non possono mai essere definitive. Dobbiamo sempre essere pronti a cambiare queste nozioni - cioè la sottostruttura assiomatica della fisica - per rendere conto dei fatti percepiti nel modo logicamente più perfetto possibile" (v. Einstein, 1931; tr. it., p. 251). In un testo contemporaneo, una conferenza berlinese del 4 ottobre del 1931 (v. Einstein, 1979; tr. it., p. 28), Einstein dice non molto diversamente che "per la formulazione di una teoria non basta soltanto riunire i fenomeni già registrati - ci dev'essere sempre l'apporto della libera invenzione dello spirito umano che afferra l'essenza delle cose. Inoltre il fisico non deve contentarsi della mera osservazione fenomenologica. Dovrebbe invece passare al metodo speculativo, che ricerca la struttura di base". ‛Libera invenzione dello spirito umano' - è, questa, una frase che piace a Einstein, che vi torna con insistenza quasi ad accentuare la divaricazione fra sensibilità e razionalità, fra mondo delle ‛sensate esperienze' e mondo delle ‛ragioni matematiche'. "La fisica - scrive nel 1936 - costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione e le cui basi non si possono ottenere attraverso una distillazione delle esperienze vissute mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione. La giustificazione (il contenuto di verità) del sistema sta nella dimostrazione di utilità dei teoremi derivati sulla base delle esperienze sensoriali, mentre le relazioni di queste ultime con i primi possono venir comprese solo intuitivamente. L'evoluzione procede nella direzione di una crescente semplificazione dei fondamenti logici. Per avvicinarci sempre più a questa meta, dobbiamo rassegnarci ad accettare il fatto che i fondamenti logici si allontanano in maniera sempre più accentuata dai fatti dell'esperienza, e che il cammino del nostro pensiero dalle basi fondamentali a questi teoremi derivati, riferentisi all'esperienza sensoriale, diventa continuamente più difficile e più lungo" (v. Einstein, 1936; tr. it., p. 74). Quasi contemporaneamente, per altro, con un linguaggio dalle sfumature quasi spinoziane, e in una visione fondamentalmente unitaria dell'essere, rifiuta ogni dualismo ontologico fra ‛materia' e ‛spirito'. Scrive nel 1937 (v. Einstein, 1979; tr. it., p. 36) che ‟l'anima e il corpo non sono due cose diverse, ma solo due modi diversi di percepire la stessa cosa", così come ‟la fisica e la psicologia rappresentano solo due tentativi diversi di unificare le nostre esperienze secondo il pensiero sistematico". Ed è questo pensiero sistematico, radicato nel più profondo della soggettività, che assicura l'oggettività della scienza. Nel 1944 Einstein sottolineerà, perché meravigliosamente espresse (‟in wunderbar prägnanter Form"), le affermazioni di Russell nell'introduzione a An inquiry into meaning and truth: ‟L'osservatore che è convinto di osservare una pietra, sta in realtà, se dobbiamo prestar fede ai fisici, osservando gli effetti prodotti dalla pietra su se stesso. La scienza [...], quanto più cerca di essere obbiettiva, tanto più, contro la sua volontà, si trova tuffata nella soggettività" (v. Schilpp, 19633, p. 280).
Mentre sul piano dell'esperienza il mondo machiano delle ‛sensazioni' diviene un mondo di ‛eventi', si fanno sempre più caratteristiche le espressioni usate per indicarne la struttura profonda e le vie dell'accesso: l'‛essere allo stato puro' cui fanno riscontro il ‛pensiero puro', il ‛metodo speculativo', la ‛fede'. In un testo del 1936 si legge: ‟La ricerca scientifica è basata sul concetto che tutto quel che accade è determinato dalle leggi della Natura [...]. Bisogna però ammettere che la nostra attuale conoscenza di queste leggi è solo incompleta e frammentaria; quindi in effetti anche la convinzione dell'esistenza dileggi fondamentali della Natura poggia su una specie di fede. Tuttavia tale fede è stata finora confermata dai resultati della ricerca scientifica" (v. Einstein, 1979; tr. it., pp. 30, 31, 64). In realtà l'allontanamento dal ‛positivismo' si faceva sempre più grande. Il 28 novembre del 1930 scrive proprio a Moritz Schlick: ‟La Sua presentazione non corrisponde al mio stile concettuale nella misura in cui trovo l'insieme del Suo orientamento troppo positivista [...]. Diciamolo apertamente: la fisica è il tentativo di costruire concettualmente un modello dell'u n i v e r s o r e a l e e della struttura che gli danno le sue leggi. Certo la fisica deve mostrare in modo esatto le relazioni empiriche esistenti fra le esperienze sensibili a cui noi ci apriamo; ma solo in questo è legata ad esso [...]. Io sento dolorosamente la separazione fra r e a l t à- d e l l ' e s p e r i e n z a e r e a l t à-d el l ' E s s e r e [...]. Sarà sorpreso del metafisico Einstein. Ma ogni animale, quadrupede o bipede, è in questo senso metafisico" (v. Holton, 1967, p. 135). Confermerà il 24 gennaio del 1938 scrivendo a C. Lanczos: "Iniziai con un empirismo scettico più o meno come quello di Mach. Ma il problema della gravitazione mi convertì in un razionalista convinto, cioè in una persona che cerca l'unica fonte attendibile della verità nella semplicità matematica", e che ha ferma "la fede nella comprensione della realtà attraverso qualcosa di fondamentalmente semplice e unito" (ibid., p. 131). Non si tratta qui, come spesso si è detto, di un uso equivoco di termini insidiosi o di contraddizioni dovute a poco chiara coscienza teorica - si tratta del progressivo abbandono critico di positivismi vecchi e nuovi, e non per ‛pitagoreismi' o ‛idealismi', ma per una revisione del valore dell'esperienza nei confronti della ragione, e del significato stesso di ‛realtà' in genere, alla luce dei nuovi sviluppi della fisica. È del 9 dicembre 1952 la perentoria affermazione: "È vero che la comprensione della verità non è possibile senza una base empirica. Tuttavia più andiamo a fondo, più diventano esaurienti e ampie le nostre teorie, e meno abbiamo bisogno di conoscenze empiriche per definire quelle teorie" (v. Einstein, 1979; tr. it., pp. 27-28).
3. Oltre il positivismo
Philipp Frank, nella sua biografia, riconoscendo non senza qualche perplessità il distacco di Einstein dal positivismo, ricorda di essersene reso conto con sorpresa solo nel 1929, a proposito di una discussione sulle teorie di Bohr. Senonché, pur fra notazioni giuste, tende sostanzialmente a riportare a contraddizioni e incertezze filosofiche l'atteggiamento critico di Einstein: ‟Molte persone - osserva - consideravano Einstein come una specie di santo patrono del positivismo. Ai positivisti egli sembrava portare la benedizione della scienza, e per i loro oppositori egli era uno spirito diabolico. In realtà il suo atteggiamento verso il positivismo e la metafisica non era affatto così semplice. Le contraddizioni della sua personalità [...] si manifestavano anche nella sua filosofia" (v. Frank, 1947; tr. it., pp. 293). Purtroppo la logica del Wiener Kreis impediva a Frank di rendersi conto che ‟la relatività del tempo di Einstein" non era affatto riducibile a ‟una r i f o r m a in semantica" - come egli sosteneva - ma esprimeva al contrario - e lo capì e lo disse con efficacia Bachelard - l'inizio di ‟una r i v o l u z i o n e sistematica delle nozioni di base" (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 512).
Del resto, ben prima del 1929 Einstein aveva cominciato a indicare chiaramente il mutare di certi suoi orientamenti. Nel 1918, nel discorso berlinese Zu Max Plancks 60. Geburtstag, in termini di sapore a volte stranamente bergsoniano (e mostrò già d'accorgersene Popper), aveva precisato (lo ha ben sottolineato il Northrop): ‟Il compito supremo del fisico è di arrivare a quelle leggi elementari universali da cui si può costruire il cosmo per pura deduzione. Non c'è nessun filo logico che porti a queste leggi: soltanto l'intuizione, che si basa sulla comprensione simpatetica dell'esperienza [così A. Harris tradusse l'originale tedesco Einfühlung; Einstein, con evidente reminiscenza spinoziana, rese il termine con intellectual love = amor intellectualis], può afferrarle. In questa incertezza metodologica, si potrebbe supporre che vi sia un numero arbitrario di sistemi possibili di fisica teorica, tutti ugualmente giustificabili; e questa opinione, teoricamente, è senza dubbio esatta. Ma l'evoluzione storica ci ha mostrato che, in ogni determinato momento, di tutte le possibili costruzioni una sola si è sempre dimostrata superiore a tutte le altre. Chiunque abbia veramente approfondito la materia non potrà negare che, in pratica, il mondo dei fenomeni determina in modo univoco il sistema teorico, anche se non c'è nessun ponte logico tra i fenomeni e i principi teorici [...]. I fisici spesso accusano gli epistemologi di non prestare sufficiente attenzione a questo fatto" (v. Einstein, 1918; tr. it., pp. 213-215).
Siamo nel 1918. Forse metterà conto ricordare che Einstein proprio in quell'anno confessava a Born di essersi messo a leggere (con ammirazione) i Prolegomeni di Kant. Che Kant fosse stato fra le sue prime letture lo dice Frank, ma troppo genericamente - né si vede su che basi, né se si trattasse di letture dirette. In realtà solo ora sembra scoprirlo davvero: ‟Comincio a capire l'enorme potere di suggestione che quest'uomo ha avuto e continua ad avere. Per cadere nelle sue mani è sufficiente concedergli l'esistenza di giudizi sintetici a priori; per poter essere d'accordo con lui, dovrei attenuare questo ‛a priori' in ‛convenzionali', ma anche così non andrebbe bene nei particolari. Tuttavia è delizioso da leggersi, sebbene non sia bello quanto il suo predecessore Hume, che fra l'altro era dotato di un istinto molto più sano" (v. Einstein e Born, 1969; tr. it., p. 11). In realtà era solo l'inizio di un avvicinamento che nel 1949 si tradurrà in una vera e propria difesa di Kant, anche se di un Kant molto più vicino a Hume, per una radicale revisione del significato dell'a priori spogliato di ogni irrigidimento assolutizzante (‟il pensiero è necessario per poter capire il dato empirico, e i concetti e le ‛categorie' sono necessarie come elementi indispensabili del pensiero"). Einstein confesserà di non essere ‟cresciuto nella tradizione kantiana", ma di essere ‟arrivato a capire l'aspetto veramente valido che si può trovare nella dottrina di Kant", come esigenza di comprensione unificatrice - quella unificazione logica la cui ‛regola' egli ebbe a presentare con molta forza proprio in opposizione agli ‛ideali' del positivismo: ‟dietro gli sforzi incessanti del ricercatore si nasconde una forza più potente, più misteriosa: è l'esistenza stessa e la realtà che egli desidera comprendere" (v. Einstein, 1934, pp. 137 ss.).
Per questo non gli rese affatto giustizia Born, quando, commentando la lettera del 1918, osservò che Einstein continuava a rifiutare Kant perché ‟a quel tempo era schiettamente empirista e seguace di Hume", e solo in seguito cambiò perché ‟speculazioni e congetture prive di un solido fondamento empirico assunsero nel suo pensiero un'importanza sempre maggiore". In realtà Einstein nel 1918 non aveva più preclusioni assolute nei confronti della problematica kantiana. Dopo una forte influenza di Hume e Mach (e soprattutto, a un certo momento, di Mach) di pari passo con il processo della sua ricerca, e - non dimentichiamolo - del dibattito filosofico contemporaneo in Europa, Einstein era venuto rispondendo via via a suo modo alle diverse esigenze teoriche che accompagnarono la crisi del positivismo, e dell'immagine positivistica della scienza: una crisi a cui, sia pure indirettamente, si trovò a contribuire egli stesso non poco.
4. Fra neopositivisti e neokantiani
Sensibile da sempre ai problemi ‛filosofici' - e nel sottolinearlo Frank ha ragione (‟egli venne presto a contatto con una serie di problemi di carattere filosofico [...]. Contrariamente alla maggioranza degli specialisti non si disinteressava mai a un problema per il fatto che appartenesse piuttosto al campo filosofico che a quello scientifico") - Einstein si era formato in quell'inquieta atmosfera di crisi culturale che accompagnò il passaggio da un secolo all'altro. Se il positivismo era fiorito per l'esigenza di ricondurre al rigore della ‛scienza' ogni umana ricerca, ivi comprese le ‛scienze dello spirito', in un'ideale rinnovata ‛enciclopedia filosofica', la dissoluzione del positivismo si determinò con la messa in discussione di un modello di scienza definito dal meccanicismo ottocentesco. ‟Tutti i fisici concordano - aveva scritto Hertz nel 1894 - che il problema della fisica consiste nel ricondurre i fenomeni della natura alle semplici leggi della meccanica". La caduta di quella ‛immagine' della scienza, che poi era in realtà soltanto la proiezione di una concezione del mondo, travolse il positivismo ottocentesco come filosofia, anzi metafisica, pur non annullandone affatto le istanze metodologiche. Se restò così indenne il richiamo al nesso fra scienze e filosofia, e alla necessità di definire un metodo rigoroso delle ‛scienze dello spirito' (le Geisteswissenschaften nei confronti delle Naturwissenschaften), che le sottraesse alle improvvisazioni della fantasia, crollò quella concezione del mondo meccanicistica che si era così variamente intrecciata allo sviluppo delle scienze fisiche. Fu una crisi attraverso la quale si fecero strada non pochi equivoci di un irrazionalismo incalzante da varie parti, che a volte riuscì a dare immagini deformate della stessa ricerca più avanzata quale quella di Einstein, e, prima ancora, della storicizzazione critica di cui Mach si era servito per far crollare le dogmatizzazioni delle concezioni fisiche.
È in questa prospettiva, appunto, che vanno collocati i giovanili entusiasmi di Einstein - da lui sempre ricordati - per Hume e per Mach, ma anche le non meno significative letture di Schopenhauer e di Nietzsche segnalate da Frank. Nelle ‛note autobiografiche' premesse al volume raccolto dallo Schilpp nel 1949, Einstein scriverà: ‟Fu Mach a scuotere, nella sua Storia della meccanica, questa fede dogmatica nella meccanica come fondamento ultimo di tutto il pensiero fisico: il suo libro, quand'ero studente, esercitò una profonda influenza su di me". Segue la critica: ‟Oggi riconosco la grandezza di Mach nel suo scetticismo incorruttibile e nella sua indipendenza; ma negli anni della mia giovinezza rimasi influenzato molto profondamente anche dalla sua posizione epistemologica, che oggi mi sembra sostanzialmente insostenibile. Infatti egli non mise in giusta luce la natura essenzialmente costruttiva o speculativa del pensiero, e più particolarmente del pensiero scientifico; condannò quindi la teoria proprio in quei punti in cui il carattere costruttivo-speculativo appare manifesto" (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 12). Molti anni prima, in un momento di polemica più aspra, nella conferenza parigina del 6 aprile 1922, aveva detto: ‟Il sistema di Mach studia le relazioni esistenti fra i dati dell'esperienza; secondo Mach la scienza è la totalità delle relazioni. Questo punto di vista è falso; in realtà Mach ha stabilito un catalogo, non ha creato un sistema" (cit. in Holton, 1967, p. 128).
In realtà era stato Mach, con Die Mechanik in ihrer Entwickelung historischkritisch dargestellt, che nel 1883 aveva dato il maggior contributo critico, non solo alla distruzione dell'egemonia del meccanicismo ma a un rinnovamento del sapere scientifico. ‟La concezione che fa della meccanica - aveva scritto fra l'altro - il fondamento di tutti gli altri rami della fisica, e secondo la quale tutti i fenomeni devono avere una spiegazione meccanica, è per noi un pregiudizio". La sua grande arma era stata la storia: la storicizzazione della fisica classica con la conseguente messa in discussione di Newton e delle concezioni di spazio, tempo e movimento. Per un verso Mach aveva mostrato che ‟i problemi oscuri si chiariscono quando se ne segue lo svolgimento storico", per un altro verso, con l'Analisi delle sensazioni (Beiträge zur Analyse der Empfindungen, Jena 1886, e poi Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen, Jena 1900), aveva richiamato al concreto dell'esperienza sensibile, e a Hume. Ancora nel necrologio per la ‟Physikalische Zeitschrift" del 1916 Einstein riconosceva che lo studio di Mach e Hume (ed è importante il nesso costante) gli era stato ‟direttamente e indirettamente di grande aiuto", soggiungendo che proprio Mach aveva ‟già riconosciuto i punti deboli della meccanica classica e non era molto lontano dal richiedere una teoria generale della relatività" (un elogio, quest'ultimo, che Mach prima di morire aveva sdegnosamente respinto). E, tuttavia, a proposito della teoria delle ‛sensazioni', faceva un rilievo di non poco interesse: ‟Mach concepì come il compito di ogni scienza quello di mettere ordine nelle singole osservazioni elementari da lui descritte come ‛sensazioni'. Si deve probabilmente all'uso di questo termine se questo pensatore rigoroso e prudente fu definito filosofo idealista o solipsista da chi non aveva studiato abbastanza le sue opere" (cit. in Schilpp, 1949; tr. it., p. 220). L'allusione al celebre attacco di Lenin al machismo è trasparente; eppure proprio il costante riferimento di Mach alle ‛sensazioni', alle ‛esperienze isolate' (Einzelerlebnisse), sarebbe diventato centrale anche nella polemica di Einstein, che in un testo uscito il 21 giugno 1926 nella ‟Neue Freie Presse" di Vienna (per l'inaugurazione di un monumento a Mach) ebbe a dire: ‟Il più potente motivo di Mach era di ordine filosofico: il valore di ogni concetto scientifico ha per motivo fondamentale le esperienze singole (Einzelerlebnisse) a cui il concetto rimanda. Questa proposizione fondamentale non ha mai smesso di guidarlo in tutte le sue ricerche, e gli ha dato la forza di esaminare i concetti fondamentali tradizionali della fisica (tempo, spazio, inerzia) con una indipendenza di giudizio allora sconosciuta". Senonché, dopo avere riconosciuto la funzione critica, ‛falsificante', dell'appello all'esperienza, Einstein rivendicava il carattere ‛speculativo' della scienza. ‟I filosofi e gli scienziati hanno spesso, e con ragione, criticato Mach per avere eliminato l'indipendenza logica dei concetti in rapporto alle ‛sensazioni', e per avere voluto dissolvere la realtà dell'essere - postulato di cui la scienza non può fare a meno - nella realtà dell'esperienza".
C'è appena bisogno di sottolineare quella ‛realtà dell'essere', espressione forte ma non aliena dal linguaggio di Einstein, che, d'altra parte, aveva mal sopportato nel 1921 la pubblicazione postuma, con la prefazione stesa nel luglio del 1913, dei Prinzipien derphysikalischer Optik, in cui Mach sdegnosamente contestava qualsiasi precorrimento della ‛relatività' da parte sua (‟io devo contestare di essere un precursore dei relativisti"). Il 6 aprile 1922 - lo si è ricordato spesso - nel corso della celebre discussione parigina sulla relatività, rivolgendosi a É. Meyerson Einstein esclamò che Mach era sì un bon mécanicien, ma un déplorable philosophe. Ciò non toglie che il 28 agosto 1918, in una lettera a M. Besso, difendesse ancora la superiorità dell'empirismo (‟mai una teoria capace di andare al fondo delle cose è stata scoperta con la speculazione pura"). Era tuttavia il momento stesso in cui riprendeva in mano il testo di Kant; era il momento in cui Schlick - col suo Raum und Zeit in gegenwärtigen Physik, 1917 - ‟tentava di integrare il neopositivismo con le idee emerse dalla scienza di Einstein" (v. Frank, 1949; tr. it., pp. 44-45). Erano anni, fra il 1916 e il 1918, decisivi per l'Europa, su ogni piano.
Tanto tempo dopo, l'8 gennaio 1948, in una lettera a Besso, Einstein si abbandonerà a una ‟ricapitolazione rivelatrice" - un bilancio da tenere ben presente, inteso com'è a scandire il significato di Mach nella cultura europea, e la varia incidenza che il machismo aveva avuto sulla sua personale ricerca. ‟Quanto a Mach - scrive - io vorrei distinguere fra la sua influenza in generale e l'influenza che ebbe su di me [...]. Secondo me, la sua debolezza stava nel credere che la scienza consista in un semplice ordinamento del materiale empirico, ossia nel non riconoscere alcuna parte all'elemento di libera rielaborazione nella formazione dei concetti. In un certo senso Mach pensava che le teorie nascono grazie alle scoperte e non grazie alle invenzioni. Arrivava al punto di vedere nelle ‛sensazioni' non solo un materiale da studiare, ma anche le componenti dell'universo reale; credeva così di poter colmare il fossato fra psicologia e fisica. Se ne avesse tratte tutte le conseguenze, avrebbe dovuto rifiutare non solo l'atomismo, ma l'idea stessa di realtà fisica". Che era, quest'ultima, opinione così diffusa che perfino l'Encyclopedia Britannica liquida il machismo come una ‟teoria viziata dalla confusione fra fisica e psicologia", laddove sarebbe stato necessario un ben più sottile esame dell'uso machiano del termine ‛sensazione'.
Comunque, venendo ai suoi personali rapporti con Mach, Einstein è singolarmente netto: ‟Quanto poi all'influenza di Mach sul mio sviluppo personale, essa è stata certamente grande. Io ricordo molto bene come mi avete segnalato la Meccanica e la Termodinamica (Die Prinzipien der Wärmelehre. Historisch-kritisch entwickelt, Leipzig 1896) durante i miei primi anni di studio, e quale viva impressione quelle due opere mi facessero. A dir il vero, la misura in cui influirono sulla mia opera non mi è molto chiara. Per quanto mi risulta a livello cosciente, Hume ebbe su di me una più grande influenza immediata. Però, come ho detto, non sono in grado di analizzare quello che è sepolto nel mio inconscio. È invece interessante notare come Mach abbia respinto con veemenza la teoria della relatività ristretta (non è vissuto abbastanza per vedere la relatività generale). Per lui, tale teoria era speculativa: non poteva ammetterla. Mach non sapeva che questo carattere speculativo si trova ugualmente nella meccanica di Newton, e in ogni teoria di cui il pensiero è capace. Fra le teorie esiste solo una differenza di grado, nella misura in cui le catene di pensieri che vanno dai concetti fondamentali alle conclusioni empiricamente verificabili hanno lunghezza e complessità variabili".
5. Problemi ‛metafisici'
Il testo citato sopra, del 1948, per essere inteso a pieno deve essere ricollegato con altri due, del 1944 e del 1949: e cioè al già citato contributo al volume russelliano dello Schilpp e ad alcune risposte conclusive del volume dedicato dallo stesso Schilpp ad Einstein. Discutendo Russell, Einstein è preoccupato soprattutto di salvaguardare dall'empirismo i diritti del pensiero puro e l'autonomia delle elaborazioni concettuali (‟die in unserem Denken [...] auftretenden Begriffe sind alle - logisch betrachtet - freie Schöpfungen des Denkens und können nicht aus den Sinnes-Erlebnissen induktiv gewonnen werden"). Invalicabile è l'abisso che separa mondo dei concetti e mondo dell'esperienza sensibile (‟die Welt der sinnlichen Erlebnisse von der Welt der Begriffe und Aussagen"). La colpa di Hume è di avere provocato quella sorta di ‛malattia mortale' del pensiero contemporaneo che è l'orrore della metafisica. ‟Con la sua limpida critica Hume fece senza dubbio progredire in modo decisivo la filosofia, ma anche - senza sua colpa - suscitò quella ‛paura della metafisica' che sarebbe divenuta la malattia dell'empirismo contemporaneo (eine [...] Angst vor der Metaphysik ins Lebens trat, die eine Krankheit der gegenwärtigen empiristichen Philosophie bedeutet)". Per contro, e anche questo è significativo, viene, sia pure parzialmente, difeso Kant su un punto: ‟che noi usiamo a buon diritto di concetti a cui non ci apre l'accesso il materiale dell'operazione sensibile (zu welchem es keinen Zugang aus dem sinnlichen Erfahrungsmaterial gibt)". Anzi Einstein pensa di poter andare molto oltre: i concetti di cui ci serviamo per interpretare l'esperienza sono ‛tutti' libere creazioni del pensiero (freie Schöpfungen des Denkens).
Nel 1949 la validità, e i limiti di Kant, sono precisati ulteriormente: ‟Kant ha imparato da Hume che vi sono concetti (come, ad esempio, quello della connessione causale) i quali hanno una posizione dominante nel nostro pensiero, e che tuttavia non possono essere dedotti attraverso un processo logico dal dato empirico [...]. Che cosa giustifica l'uso di tali concetti? Supponiamo che egli avesse risposto in questo modo: il pensiero è necessario per poter capire il dato empirico, e i concetti e le ‛categorie' sono necessarie come elementi indispensabili del pensiero. Se egli si fosse accontentato di dare una risposta di questo genere, [...] non avresti potuto trovare in lui alcun difetto". In altri termini la ‛lettura di Kant', prospettata da Einstein, ne rifiuta la pretesa di assolutizzare la geometria euclidea e la tavola delle categorie, ma ne accetta con l'idea del ‛reale' come ‛costruzione concettuale' il tema dell'unificazione del sapere come idea regolativa. Come scrive a Lanczos il 21 marzo 1942: ‟la fede nella comprensione delle realtà attraverso qualcosa di fondamentalmente semplice o unito": o, come aveva scritto in altra occasione, ‟unificare le nostre esperienze mediante il pensiero sistematico" (v. Einstein, 1979; tr. it., pp. 36, 63).
Einstein ‛metafisico'! Scriveva Popper, quando Einstein era ancora operoso: ‟Einstein ha creduto a lungo nella metafisica, operando liberamente col concetto di ‛fisicamente reale', sebbene, senza dubbio, disapprovi quanto noi tutti il pretenzioso verbalismo metafisico". Popper polemizzava con Carnap, che pure aveva dovuto riferire le significative riserve di Einstein nei confronti del positivismo dei viennesi e della ‛scienza' in generale. È proprio Carnap a presentarci un Einstein ‛bergsoniano' che non può non fare impressione. ‟Una volta Einstein - racconta Carnap - disse che il problema dell'O r a lo preoccupava seriamente. Spiegava che l'esperienza dell'O r a significa per l'uomo qualcosa di particolare, qualcosa di essenzialmente differente dal passato e dal futuro, ma che questa importante differenza non ricorre e non può ricorrere nella fisica. Il fatto che tale differenza non possa essere colta dalla scienza gli sembrava un elemento di penosa ma inevitabile rassegnazione; io osservai che tutto ciò che obbiettivamente accade può essere descritto dalla scienza; da una parte le sequenze temporali degli eventi sono descritte dalla fisica, mentre dall'altra le particolarità delle esperienze dell'uomo in rapporto al tempo, compreso il suo differente atteggiamento verso passato, presente e futuro, possono essere descritte e (in linea di principio) spiegate dalla psicologia. Ma Einstein pensava che queste descrizioni scientifiche non possono soddisfare le nostre necessità umane, che vi è qualcosa di essenziale riguardante l'O r a, che è proprio fuori dell'ambito della scienza" (v. Schilpp, 1963; tr. it., p. 38). È lo stesso Carnap a fare il nome di Bergson, soggiungendo che Einstein confondeva, a parer suo, esperienza e conoscenza, ma non rendensosi conto che era proprio lui, Carnap, che per un verso insinuava dogmatismi ‛metafisici', e sia pure con quelle che Popper chiamava ‟infiocchettature linguistiche" volte a mascherarli, e per un altro verso mutilava la ricchezza della problematica einsteiniana sulla umana coscienza del tempo (ibid., pp. 38-39). Non a caso, a H. Feigl che lo interrogava a Princeton, nel 1954, sul problema bodymind, rispose ‟con un'energica e, in certa misura, volgare, frase tedesca: se non ci fosse l'illuminazione interna (cioè ad opera della coscienza) dell'universo fisico, il mondo non sarebbe altro che un mucchio di spazzatura" (v. Feigl, 1968; tr. it., pp. 70-71).
6. Il dibattito su Einstein: equivoci e confutazioni
Con la consueta esuberanza espressiva Bachelard nel 1949 affermava (v. Schilpp, 1949; tr. it., p. 510) che ‟le virtù filosofiche della rivoluzione einsteiniana avrebbero potuto essere ben altrimenti efficaci, in confronto alle metafore filosofiche della rivoluzione copernicana, se soltanto vi fosse stata da parte dei filosofi la volontà di cercare tutto l'insegnamento contenuto nella scienza relativistica". Secondo Bachelard i filosofi non si erano accorti che con Einstein era cominciata ‟una rivoluzione sistematica dei concetti fondamentali", si era stabilito ‟un relativismo del razionale e dell'empirico", la scienza era stata sottoposta a ciò che ‟Nietzsche chiamava ‛terremoto dei concetti', quasi che la Terra, l'universo, le cose, acquistassero una struttura diversa per il fatto che la loro spiegazione poggiava su nuove fondamenta", mentre i concetti base subivano ‟una trasformazione dialettica", che ‟realizzava una sintesi filosofica del razionalismo matematico e dell'empirismo ‛tecnologico'". Che il significato ‛filosofico' delle tesi einsteiniane fosse facile ad enucleare in modo univoco, non risulta neppure dalle parole di Bachelard, né le sue ‛formule' sembrano riuscirvi. D'altra parte non è affatto vero che i ‛filosofi' non si fossero dati da fare.
Scriveva V. F. Lenzen (v., 1923, p. 135) che la teoria di Einstein in quel momento dominava l'interesse dei filosofi. Prima ancora, alla pubblicazione della teoria della relatività generale, una duplice discussione si era accesa: 1) sulle conseguenze della ‛relatività' per una concezione del tempo e dello spazio, e in genere della realtà fisica; 2) sui metodi, i procedimenti e il valore della scienza nei suoi rapporti con le ‛visioni del mondo'. E fu una discussione che le prese di posizione ‛filosofiche', non solo dello stesso Einstein, ma di scienziati anche eminenti, complicarono non poco con ambiguità ed equivoci, non di rado pari alle ‛fantasie' dei ‛filosofi'. Basterebbe ricordare, di K. Gödel, il saggio su Teoria della relatività e filosofia idealistica. Premesso che uno degli aspetti più interessanti della teoria della relatività, per chi abbia una mentalità filosofica, sta nel fatto che essa svela in modo nuovo e sorprendente aspetti profondi della natura del tempo, di questa entità misteriosa e apparentemente contraddittoria, che sembra tuttavia formare la base della nostra stessa esistenza e di quella del mondo, Gödel si ferma sulla ‟scoperta di una nuova e stupefacente proprietà del tempo, cioè la relatività della simultaneità, da cui deriva in buona parte quella della successione". Nello sviluppo del suo discorso, a parte l'ipotesi che ‟il viaggio nel proprio passato si possa effettivamente compiere", colpisce la tesi di fondo, e cioè che, ‟tirando le conseguenze di questo strano stato di cose, si è portati a conclusioni di grandissima portata sulla natura del tempo. In breve, sembra che si ottenga una prova inequivocabile a favore delle idee di quei filosofi che, come Parmenide, Kant, e gli idealisti moderni, negano l'obbiettività del cambiamento e considerano il cambiamento come un'illusione o un'apparenza dovuta al nostro modo particolare di percepire le cose (v. Schilpp, 1949; tr. it., pp. 503 ss.). Così un logico come Gödel nel 1949, quando Russell fin dal 1925 aveva osservato che ‟la relatività getta ben poca luce su controversie secolari come quella tra il realismo e l'idealismo", mentre nel 1920 un filosofo ‛kantiano' come Cassirer aveva rifiutato qualsiasi significato ontologico-metafisico alla teoria della relatività, considerandola nient'altro che la conquista di un più raffinato livello di simbolismo matematico.
In realtà, ben diversamente da quanto diceva Bachelard, le tesi di Einstein vennero sfruttate già nel 1917 per costruire sulla ‛nuova fisica' una nuova filosofia: il nuovo positivismo che credeva di poter liquidare con Euclide e Newton gli ultimi resti di Kant e del neokantismo. Per usare le battute di Frank (v., 1949; tr. it., p. 40), non si voleva mettere il vino nuovo di Einstein negli otri vecchi dei kantiani. Cominciò Schlick con Raum und Zeit in gegenwärtigen Physik del 1917, subito ampliato (nei capitoli II e IX) nel 1919, affermando che se la teoria einsteiniana della ‛coincidenza degli eventi' permetteva un soddisfacente punto d'incontro fra fisica e gnoseologia, consentiva anche il superamento della teoria machiana delle sensazioni e della scienza fisica tutta fondata sulle percezioni sensibili (‟gli oggetti della fisica n o n sono dati dal senso; lo spazio della fisica non è affatto un dato percettivo, ma un prodotto concettuale; l'immagine del mondo della fisica è un sistema di simboli disposti in uno schema quadridimensionale per il cui mezzo conosciamo la realtà; l'analisi di Einstein delle nozioni di spazio e tempo appartiene alla stessa categoria di progressi filosofici a cui appartengono le critiche di Hume delle idee di sostanza e causa"). D'altra parte per Schlick ‟ogni conoscenza vera, in qualsiasi dominio dello scibile, è essenzialmente lo stabilimento di una corrispondenza univoca tra i fatti del mondo e un sistema di simboli" (v. Schlick, 1917; tr. ingl., pp. 44, 78, 84, 87). In direzione analoga si mosse Reichenbach (Relativitätstheorie und Erkenntnis a priori del 1920; Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre del 1924). Reichenbach insiste sul fatto che avendo dimostrato Einstein che il mondo è non-euclideo, la teoria di Kant non è più sostenibile. Proprio su questo punto si venne definendo il contrasto con Cassirer, il cui saggio Zur Einstein'schen Relativitätstheorie è anch'esso del 1920. Per Reichenbach sarebbe nell'interesse di una chiarificazione generale se si ammettesse ‟la patente contraddizione tra l'unica possibile filosofia moderna dello spazio e Kant"; per Cassirer già Schlick ha dimostrato di non intendere che la soggettività trascendentale kantiana è l'insieme delle condizioni che rendono possibile la stessa conoscenza sperimentale ‛oggettiva', ossia ‛oggettivante'. Per un verso, Kant non si è mai sognato di ‟inchiodare la conoscenza filosofica una volta per tutte su un determinato sistema dogmatico di concetti", ma ha solo voluto aprirle il sentiero sicuro della scienza. Per suo conto Einstein ha portato al limite la tendenza della scienza fisica a ‟studiare i fenomeni sotto la prospettiva e il presupposto della misurabilità", cercando di ‟risolvere la compagine dell'essere e dell'accadere in una compagine pura, in un ordinamento di numeri". Con le parole stesse di Einstein, Cassirer respinge qualunque tentativo di tradurre in termini ontologici o metafisici la teoria della relatività: per essa il procedimento di ogni ‛spiegazione' dell'accadere naturale consiste e si esaurisce ‟nel far corrispondere a ogni punto del continuo (a ogni evento) spazio-temporale quattro numeri x1, x2, x3, x4 (coordinate) che non hanno assolutamente nessun significato fisico immediato, ma il cui unico scopo è di numerare i punti del continuo in un modo preciso ma convenzionale" (v. Cassirer, 1920; tr. it., pp. 601-606).
Come si vede, Cassirer non solo rifiuta di considerare la teoria di Einstein una nuova intuizione del mondo, o una nuova metafisica comunque implicita, ma ne esclude ogni immediata conseguenza ontologica circa lo spazio ‛reale' e la geometria ‛vera' - problemi che gli si svelano addirittura privi di senso. Come del tutto privo di senso gli appare l'avvicinamento al ‟positivismo relativistico" (che discute in J. Petzoldt), o, peggio, alla sofistica antica e alla tesi protagorea dell'uomo misura di tutte le cose. ‟La teoria fisica della relatività non vuole affatto dire che per ciascuno è vero quanto gli appare, ma al contrario avverte di non prendere già per verità nel senso della scienza, cioè per un'espressione della legalità complessiva e definitiva dell'esperienza, fenomeni che valgono solo a partire da un singolo determinato sistema di riferimento".
Come si vede, nel confronto fra ‛neopositivisti' e ‛neokantiani' il dibattito su Einstein si veniva mostrando, già negli anni venti, in tutta la sua complessità: problemi di logica e di epistemologia venivano a intrecciarsi con tematiche ‛metafisiche' di vario tipo. Al centro, il problema del tempo che sembrava dominare la riflessione europea, anche se spesso filosofi e scienziati intendevano cose molto diverse pur usando gli stessi termini. Il 6 aprile a Parigi, nella pubblica discussione con Bergson alla Société française de philosophie, Einstein ebbe a osservare a un certo punto: ma ‟il tempo del filosofo è davvero lo stesso tempo del fisico?". I due, quando discutono, parlano delle stesse cose? Nella risposta Einstein è molto deciso: ‟non c'è un tempo dei filosofi; c'è solo un tempo psicologico che è diverso dal tempo del fisico", anche se, poi, quel tempo psicologico resta una ‛realtà', e abbastanza ingombrante (‟Bulletin de la Sociétè Française de Philosophie", 1922, XVII, p. 107).
Come è noto, il contrasto Bergson-Einstein, data la personalità degli autori, fu clamoroso. Il libro di Bergson del 1922, Durée et simultanéité, dette luogo a un'acre polemica, non sempre costruttiva, che indusse Bergson a lasciar poi cadere l'opera sua. Rimasero così in ombra anche certi spunti bergsoniani presenti in Einstein, o variamente filtrati fra Whitehead e Einstein. Proprio Popper, parlando della ‛logica della scoperta scientifica', osserverà: ‟Il mio punto di vista si può esprimere dicendo che ogni scoperta contiene un ‛elemento irrazionale' o ‛un'intuizione creativa' nel senso di Bergson. In modo analogo, Einstein parla della ‛ricerca di quelle leggi altamente universali [...] dalle quali possiamo ottenere un'immagine del mondo grazie alla deduzione'. Non esiste alcuna via logica, egli dice, che conduca a queste leggi. Esse possono essere raggiunte soltanto tramite l'intuizione, basata su alcunché che possiamo chiamare Einfühlung con gli oggetti d'esperienza" (v. Popper, 1968; tr. it., p. 11).
Nel 1935, scrivendo a Popper, Einstein ribadiva: ‟La tendenza ‛positivistica' oggi di moda, di attaccarsi a ciò che è osservabile, non mi piace affatto [...], e penso (come del resto pensa anche lei) che la teoria non possa essere fabbricata a partire dai resultati dell'osservazione, ma possa solo essere inventata" (ibid., p. 520). Ma la più profonda tematica bergsoniana emergerà in Einstein proprio quando a Princeton esporrà a Carnap le aporie del nunc, del ‛presente' vissuto, dell'‛ora'. A Carnap, ascoltando, il nome di Bergson era venuto spontaneamente. La verità è che, nonostante ogni esorcismo dei neopositivisti, i problemi urgevano, e la nuova fisica non faceva che acuirli. Ed erano problemi che investivano sia la struttura e il significato delle teorie scientifiche, sia il loro rapporto con le concezioni del mondo e della vita. Popper, citando polemicamente una battuta di Carnap secondo cui la fisica si sarebbe praticamente liberata dalla metafisica grazie agli sforzi di Einstein, non solo osservava che Einstein aveva continuato a credere nella metafisica, ma aggiungeva ironizzando che ‟la maggioranza dei concetti con i quali la fisica lavora, quali forze, campi, e persino gli elettroni e le altre particelle, sono quello che Berkeley (per fare un solo esempio) chiamava qualitates occultae" (v. Schilpp, 1963; tr. it., p. 184).
In un lucido testo del 1925, Russell aveva sottolineato assai bene come, se nei tempi lunghi la relatività era destinata a incidere a fondo, le sue conseguenze filosofiche immediate non potevano essere né ‛grandiose', né ‛sorprendenti'. Rilevava tuttavia come ‟il mondo che la teoria della relatività prospetta alla nostra immaginazione non sia tanto un mondo di ‛cose' in ‛movimento' quanto un mondo di ‛eventi'" (v. Russell, 1925; tr. it., pp. 181-183). Era, come dirà altrove, ‟la filosofia degli eventi" di Whitehead, che si adattava bene anche a Einstein, qualunque fosse la via per cui era giunta ai suoi vari sostenitori. Comunque, diceva Whitehead, ‟il complesso totale degli eventi prende il posto dell'etere materiale della scienza del secolo scorso. Possiamo chiamarlo etere degli eventi". Sempre Russell concludeva nel 1925 il suo saggio con una serie di considerazioni ironiche che non hanno perduto il loro sapore: ‟Il crollo della nozione di un unico tempo universale, mediante il quale possono essere datati tutti gli eventi che capitano in qualsiasi punto dell'universo, si ripercuoterà a lungo andare sul nostro modo di pensare circa i rapporti di causa ed effetto, circa l'evoluzione e molte altre questioni. Ad esempio il problema se, tutto considerato, vi è progresso nell'universo, può dipendere dalla scelta della misura del tempo. Se tra tanti orologi tutti ugualmente buoni, scegliamo un determinato orologio, possiamo arrivare alla conclusione che l'universo stia progredendo con la rapidità immaginata dal più ottimista degli americani; ma se scegliamo un altro orologio altrettanto buono, possiamo viceversa convincerci che l'universo sta andando di male in peggio, e con la rapidità di cui è convinto il più malinconico degli slavi. Dunque essere ottimista e pessimista non è né giusto né sbagliato, ma dipende dalla scelta degli orologi" (ibid., p. 185).
Neopositivisti e Carnap, Cassirer e Popper, Bergson e Meyerson, Whitehead e Russell, e il problema del tempo e della scienza in Husserl e Heidegger, e l'ansia di una ‛ragione' unitaria e di una ‛legge razionale' del tutto - per non dire dell'alta ispirazione morale e politica e dell'ansia religiosa di Einstein: questo lo sfondo ‛filosofico' dell'opera sua. Per contro, per concludere su una nota malinconicamente bassa, ecco come in Italia, nel 1922, A. Tilgher presentava Einstein: ‟Con Hans Vaihinger, autore della Filosofia del Come se, con Oswald Spengler, autore del Tramonto dell'Occidente, Albert Einstein, fisico e matematico, sta terzo duce del formidabile assalto relativista che, irraggiando dalla Germania in tutto il mondo civile, tende a rinnovellare le basi stesse del nostro sapere [...]. Con tutto il suo genio e la sua sterminata erudizione fisico-matematica, Einstein non avrebbe mai scoperto la teoria della relatività se non fosse vissuto nel secolo dell'imperialismo, dei trusts, del titanismo e del pragmatismo, che tutti insieme lo prepararono a quella visione di mobilismo universale, grazie alla quale, riflettendo sulla fisica newtoniana, ne scoprì la debolezza fondamentale". Tilgher crede di mettere cosi in luce ‟la portata tremendamente rivoluzionaria della teoria della relatività", che ‟scioglie la massa in energia" e proietta ‟senza saperlo nella natura quella volontà di azione e di potenza illimitate che è lo stato d'animo radicale della nostra civiltà", trasformando in mitologia quella che viene presentata come scienza positiva. ‟All'intuizione recisamente attivistica della vita e del mondo, che si era già nettamente espressa in altri domini spirituali, Einstein ha dato espressione fisicomatematica mettendo così al corrente la fisica che sonnecchiava su posizioni ormai psicologicamente invecchiate" (v. Tilgher, 1922, pp. 31-47).
Del resto, di lì a poco, sempre in Italia ma con intento aspramente polemico, sul terreno matematico C. BuraliForti si sarebbe impegnato, insieme a T. Boggio, a ‟mettere bene in evidenza - diceva - tutto quello che di arbitrario e di irrazionale era contenuto nei fondamenti" della teoria della relatività (Espaces courbes. Critique de la relativité, Torino 1924). Eppure anche questo Einstein, presunto padre e maestro del ‛relativismo positivistico' degli empiriocriticisti, come del più volgare relativismo ‛pirandelliano' del Tilgher, è sempre Einstein, perché l'eco deformata e le immagini illusorie appartengono pur esse a chi le ha suscitate. Un biografo recente ha ricordato l'osservazione di Russell che ‟ogni filosofo ha tentato di interpretare il lavoro di Einstein in accordo col proprio sistema metafisico" (v. Bergia, 1978, p. 142). Ma che altro si poteva fare? Da Einstein sono partite infatti sollecitazioni d'ogni sorta, molto diverse fra loro se non contraddittorie, e non tutte in tempi diversi: anche il richiamo - menzionato da Y. Elkana nel Simposio di Gerusalemme del 1979 - a quanto di oscuro, di irrazionale, di folle, l'inesauribile natura, quasi per proprio divertimento, immette a volte in un individuo. Eppure con il rifiuto del Dio che giuoca a dadi (‟non credo per un solo istante che Lui giuochi a dadi"), è stato in Einstein dominante lo sforzo verso una visione unitaria e razionale (‟considero la comprensibilità del mondo come un miracolo o un segreto eterno"), verso una ‟crescente semplicità", verso ‟una base teorica unificatrice". ‟Se c'è in me qualcosa che si possa definire sentimento religioso - disse una volta (v. Einstein, 1979; tr. it., p. 41) - è l'ammirazione infinita per la struttura del mondo rivelata dalla scienza".
Con molta eleganza Popper ha distinto in Einstein una rivoluzione scientifica da una rivoluzione ideologica. Le due tuttavia si intrecciano e si confondono, e spesso in modi equivoci. Continueranno a farlo, almeno finché non si definirà una critica filosofica che stia all'universo di Einstein come la ‛critica della ragione' di Kant stette all'universo di Newton.
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