Abstract
Questo contributo è volto ad esaminare, anche alla luce delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, la disciplina che regola il sistema delle relazioni esterne dell’Unione europea. Ancorché l’azione dell’UE sul piano internazionale non si esaurisca con la conclusione di accordi con Stati terzi o organizzazioni internazionali, questa ne è senz’altro la manifestazione più significativa. Particolare attenzione è dunque dedicata, da una parte, all’analisi del cd. treaty-making power e della procedura per concludere accordi, dall’altra, all’esame degli effetti di questi ultimi nell’ordinamento UE.
Il Trattato di Lisbona, nell’intento di semplificare l’architettura del sistema delle relazioni esterne dell’Unione, ha inserito, nel Titolo V del Trattato sull’Unione, un capo relativo all’azione esterna dell’UE nel suo complesso (artt. 21 e 22). Questa previsione ha l’ambizioso obiettivo di imporre una struttura unificata che disciplini sistematicamente i vari ambiti nei quali si svolge l’azione dell’Unione sul piano esterno. A tal scopo, il Titolo V TUE colloca insieme alla politica estera e di sicurezza comune (PESC) non solo le politiche inserite nella Parte quinta del TFUE, tra le quali vi sono la politica commerciale e la cooperazione con i Paesi terzi e all’aiuto umanitario, ma anche «le altre politiche nei loro aspetti esterni» (art. 21, par. 3, TUE). Se, da una parte, il criterio che fa riferimento all’“aspetto esterno” rende alquanto complessa la concreta individuazione delle politiche che concorrono a definire l’azione esterna dell’Unione, dall’altra, esso ha il pregio di rendere applicabile la disciplina contenuta nel titolo V TUE a qualsiasi politica suscettibile di avere ripercussioni sul piano delle relazioni internazionali. Di conseguenza, è ragionevole pensare, ad es., che anche la politica ambientale, quella in tema di visti, asilo, immigrazione, la politica monetaria e quella di vicinato, ecc., ancorché non inserite nella Parte quinta del TFUE, siano da considerarsi soggette alla disciplina contenuta agli artt. 21 e 22 TUE in quanto idonee, nel loro concreto esercizio, a comportare un impatto significativo sugli orientamenti dell’azione esterna dell’Unione.
Quanto alla disciplina, il Titolo V TUE prevede alcuni strumenti generali di coordinamento e unificazione normativa destinati quindi ad operare rispetto all’insieme delle politiche che vi sono incluse. Mentre l’art. 21 TUE elenca i principi ispiratori e gli obiettivi dell’«azione esterna» dell’Unione, l’art. 22 TUE prevede che il Consiglio europeo emani, sulla base di quei principi ed obiettivi, un atto generale di indirizzo contenente la definizione di interessi e obiettivi strategici che l’Unione deve attuare attraverso l’esercizio delle singole competenze di rilievo esterno.
Di particolare interesse è la previsione contenuta al secondo paragrafo dell’art. 21 TUE. Si potrebbe pensare che questa disposizione, nel definire una serie di obiettivi di differente natura e portata, i quali devono guidare la complessiva «azione esterna» dell’Unione, abbia la funzione di assegnare a ciascuna politica di rilievo esterno obiettivi diversi ed ulteriori rispetto a quelli specificamente stabiliti da ciascuna base giuridica (Cremona, M., The Two (or Three) Treaty Solution: The New Treaty Structure of the EU, in Biondi, A..-Eeckhout, P.-Ripley, S., (eds.), EU Law After Lisbon, Oxford, 2012, 46-47). In questa prospettiva, l’effettiva competenza dell’Unione nell’ambito delle varie politiche materiali di rilievo esterno dovrebbe essere ricavata da una lettura congiunta degli obiettivi indicati all’art. 21 e dei poteri assegnati dalle specifiche basi giuridiche complessivamente considerati e bilanciati gli uni rispetto agli altri.
Una tale ricostruzione, che avrebbe dunque il pregio di evitare la settorializzazione dell’azione esterna, fondata finora su una rigida separazione del sistema dei fini della politica estera da quelli assegnati alle singole politiche materiali, presenta tuttavia evidenti limiti. Essa, infatti, nel rendere le differenti politiche di rilievo esterno tra di loro interscambiabili, renderebbe assai ardua, se non impossibile, l’individuazione della base giuridica pertinente in relazione a singole misure adottate, e si porrebbe inevitabilmente in contrasto con il principio di attribuzione. Una visione integrata delle varie competenze di rilievo esterno sembra preclusa anche dall’art. 40 TUE il quale rafforza la clausola di salvaguardia, già presente nel precedente art. 47 TUE, tesa ad assicurare la separazione tra il sistema dei fini della politica estera da quelli assegnati alle singole politiche materiali. Alla luce di queste considerazioni, sembra allora ragionevole pensare che l’art. 21, par. 2, TUE non abbia la funzione di allargare l’ambito d’applicazione di ciascuna politica di rilievo esterno, bensì, nell’indicare una serie di obiettivi che devono ispirare la complessiva azione esterna dell’Unione, si limiti piuttosto a delineare il quadro nel quale le singole politiche debbano essere condotte (v. Van Vooren, B., The Small Arms Judgment in an Age of Constitutional Turmoil, in European Foreign Affairs Review, 2009, 340 e 345).
In principio, l’azione esterna può essere condotta ed attuata sia con atti interni che con accordi internazionali. Anche un atto interno può, infatti, avere un impatto significativo sulla sfera delle relazioni internazionali, come dimostra la copiosa casistica di regolamenti e decisioni in tema di politica commerciale comune o di cooperazione allo sviluppo (Bartoloni, M.E., Politica estera e azione esterna dell’Unione europea, Napoli, 2012). Se, dunque, non mancano casi in cui le finalità riconnesse alle politiche di rilievo esterno sono perseguite e realizzate attraverso l’adozione di atti interni, gli accordi internazionali sono peraltro lo strumento privilegiato per dare attuazione agli orientamenti dell’azione esterna dell’Unione.
Nel sistema dell’Unione europea, a fronte dell’attribuzione di vasti settori di competenza sul piano interno, le disposizioni che conferiscono espressamente alle istituzioni il potere di stipulare accordi internazionali continuano ad essere relativamente poche. Questa tendenza, pur attenuata dalle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, è tuttavia ancora significativa. Il trasferimento all’Unione di una competenza espressa a stipulare continua infatti ad essere circoscritto ad ambiti limitati. Oltre ai tradizionali settori della politica commerciale comune (art. 207, par. 3, TFUE), degli accordi di associazione (art. 217 TFUE), della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario (artt. 209, par. 2, e 214, par. 4, TFUE) e della cooperazione nei settori della ricerca e dello sviluppo tecnologico (art. 186, co. 2, TFUE) e dell’ambiente (art. 191, par. 4, TFUE), il Trattato prevede una competenza espressa in relazione agli accordi di riammissione nel quadro della politica di immigrazione ed asilo (art. 79, par. 3, TFUE) e agli accordi in materia di tassi di cambio e di regime monetario e valutario (art. 219 TFUE). A queste disposizioni si affiancano l’art. 37 TUE in materia di PESC, l’art. 6, par. 2, TUE, che prevede l’adesione dell’Unione europea alla CEDU, e l’art. 8, in materia di politica europea di vicinato. Esistono poi alcune più generiche clausole che prevedono la cooperazione dell’Unione con paesi terzi o organizzazioni internazionali in materia di istruzione e di sport (art. 165, par. 3, TFUE), di formazione professionale (art. 166, par. 3, TFUE), di cultura (art. 167, par. 3, TFUE), di sanità pubblica (art. 168, par. 3) e in materia di reti trans europee (art. 171, par. 3, TFUE).
È altresì noto che, nonostante l’assenza nei Trattati di una competenza generale in tema di conclusione di accordi, questa è stata ricostruita dalla Corte di giustizia come conseguenza implicita dell’esercizio di competenze sul piano interno. L’asimmetria tra competenza ad adottare atti interni e competenza a stipulare è stata dunque tendenzialmente superata sulla base di una ricostruzione sistematica delle norme dei Trattati. Questa giurisprudenza, tanto raffinata quanto complessa, è stata formalizzata nel Trattato di Lisbona nei suoi contenuti essenziali. L’art. 216, par. 1, TFUE (utilizzando una formulazione molto simile a quella impiegata nell’art. 3, par. 2, TFUE in tema di competenze esclusive) stabilisce infatti che l’Unione, oltre che nei casi previsti dai Trattati, può stipulare «qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai Trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell’Unione, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata». La disposizione attribuisce espressamente all’Unione una competenza a stipulare fondata su vari titoli, la cui rispettiva estensione e portata, tuttavia, possono essere dedotte solo in riferimento all’esistenza o esercizio di corrispondenti competenze interne. L’art. 216, par. 1, ha dunque l’effetto, invero assai singolare, di conferire in termini espressi competenze che continuano a configurarsi, quanto a contenuto e ad effetti, implicite.
Tra le ipotesi individuate all’art. 216, par. 1, la terza è quella che esprime più compiutamente il meccanismo di intimo collegamento che si instaura tra il trasferimento interno di competenze e il riflesso che il loro esercizio produce sul piano esterno. Questa ipotesi individua infatti il potere dell’Unione di concludere accordi dall’esistenza di norme interne, in applicazione dei principi enunciati dalla Corte per la prima volta nella sentenza AETS (C. giust., 31.3.1971, C- 22/70, Commissione c. Consiglio, 263). Sulla base del criterio assai rigoroso stabilito da questa sentenza, l’Unione possiede un potere esclusivo di concludere accordi produttivi di obblighi la cui attuazione comporti un’interferenza con preesistenti norme interne. Il criterio adottato dalla sentenza AETS richiede dunque una considerazione analitica del rapporto tra le singole disposizioni dell’accordo previsto e lo stato della normativa interna. Questo criterio è stato oggetto di precisazioni ad opera della giurisprudenza successiva, verosimilmente in ragione delle rilevanti difficoltà che la sua applicazione comporta, i cui risultati sono suscettibili di mutare nel tempo. Inoltre, dal momento che la competenza esterna dell’Unione segue i contorni dell’esercizio della competenza interna, è sufficiente che una singola disposizione di un accordo fuoriesca dall’ambito d’applicazione della normativa UE per imporre la partecipazione degli Stati membri. Così, la Corte nel parere n. 2/91 (C. giust., 19.3.1993, parere n. 2/91, relativo alla competenza della Comunità europea a stipulare la convenzione OIL n. 170, p.I-1061) ha precisato che gli Stati membri debbano astenersi dal concludere un accordo le cui disposizioni rientrino in un settore ampiamente disciplinato da norme comunitarie o la cui applicazione altererebbe l’ambito di preesistenti norme UE. Questo orientamento è stato ulteriormente elaborato nelle sentenze Open Skies (C. giust., 5.11.2002, cause riunite C-467/98, C-468/98, C-469/98, C-471-98, C-472/98, C-475/98, C-476/98, p. I-9427). In questi casi, la Corte sembra peraltro indicare che l’esistenza di una competenza esclusiva dell’Unione non derivi solo dalla interferenza che un accordo produrrebbe rispetto ad una specifica norma interna, ma anche dal grado di plausibilità che una tale interferenza possa verificarsi, soprattutto in settori densamente normati a livello interno. Nonostante le evidenti differenze rispetto al criterio originariamente elaborato nella sentenza AETS, la Corte non ha mostrato di volersi discostare dal criterio originale rispetto al quale, quindi, quest’ultimo andrebbe configurato come un ulteriore sviluppo. Uno scostamento sostanziale rispetto alla giurisprudenza AETS sembra invece realizzarsi con il parere n. 1/03 (C. giust., 7.2.2006, parere n. 1/03, sulla competenza della Comunità a concludere la nuova Convenzione di Lugano concernente la competenza giudiziaria, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, p.I-1145) nel quale la Corte sembra prospettare l’esistenza di una competenza esclusiva dell’Unione a stipulare anche in relazione ad aspetti non ancora regolati da norme interne. In questo parere infatti la Corte, nell’affermare che «occorre prendere in considerazione non solo il settore disciplinato sia dalle norme comunitarie sia dalle disposizioni dell’accordo previsto […], ma anche la natura e il contenuto di tali norme e disposizioni, al fine di assicurarsi che l’accordo non sia tale da pregiudicare l’applicazione uniforme e coerente delle norme comunitarie e il corretto funzionamento del sistema che esse istituiscono» (par. 133), non richiede alcuna interferenza, ancorché potenziale, con una misura interna per radicare la competenza esclusiva dell’Unione a concludere accordi. Questa soluzione sembra allora produrre un rovesciamento di prospettiva rispetto alla sentenza AETS: la competenza implicita dell’Unione preclude le attività degli Stati membri sul piano esterno non solo laddove vi sia una previa disciplina interna, ma anche nel caso in cui l’esercizio da parte degli Stati membri dei propri poteri possa potenzialmente produrre interferenze rispetto al complessivo sistema normativo UE. Il risultato assai netto cui conduce questa soluzione sembra allora attenuare sensibilmente la linea di demarcazione tra la categoria dei poteri impliciti esclusivi e quella dei poteri impliciti concorrenti (v. infra).
La prima ipotesi presa in considerazione dall’art. 216, par. 1, si fonda sostanzialmente sulla ricostruzione sviluppata dalla Corte nel parere n. 1/76 (C. giust., 26.4.1977, parere n. 1/76 sulla compatibilità con il Trattato di un progetto di accordo relativo all’istituzione di un fondo europeo d’immobilizzazione della navigazione interna, p.741). In quell’occasione la Corte ha riconosciuto il potere dell’Unione di concludere accordi anche in assenza di norme comuni interne qualora la conclusione dell’accordo risulti necessaria per il conseguimento degli scopi del Trattato. Tale potere peraltro concorre con il potere parallelo degli Stati di agire sul piano delle relazioni internazionali e di concludere propri accordi, fintantoché l’Unione non abbia agito. Soltanto l’effettivo esercizio di detta competenza renderà dunque esclusiva quest’ultima. Il contenuto del potere dell’Unione è stato poi precisato nel parere n. 1/94 (C. giust., 15.11.1994, parere n. 1/94 Competenza della Comunità a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, p. I-5267), nel quale la Corte ha chiarito che esso ricorre solo nel caso in cui la realizzazione degli obiettivi del Trattato è indissolubilmente collegata con la conclusione di un determinato accordo. Ne consegue che se l’Unione volesse concludere un accordo in un settore non regolato da norme interne, essa dovrebbe dimostrare che la conclusione dell’accordo non solo è auspicabile o opportuna, ma anche necessaria al fine di conseguire gli scopi del Trattato, nel senso che questi non potrebbero altrimenti essere realizzati, in modo soddisfacente, ricorrendo esclusivamente a corrispondenti norme interne. Si tratta, come si vede, di un’attribuzione di competenza in principio ampia e generale, salvo per il limite rappresentato dal nesso di necessità che deve sussistere tra l’accordo previsto e la realizzazione di uno scopo del Trattato.
Infine, l’ultima ipotesi riguarda la possibilità per l’Unione di concludere accordi allorché tale conclusione «sia prevista in un atto giuridico vincolante» (l’art. 3, par. 2, in tema di competenze esclusive si riferisce, in termini chiaramente restrittivi, ad «un atto legislativo»). Anche questa ipotesi di competenza rappresenta la codificazione di un principio enunciato nella giurisprudenza. Come si ricorderà, nel parere n. 1/94 la Corte aveva affermato che l’Unione «allorché nei suoi atti legislativi interni […] ha conferito espressamente alle proprie istituzioni una competenza a negoziare con i paesi terzi, acquista una competenza esterna esclusiva in misura corrispondente ai suddetti atti».
La competenza a stipulare può essere classificata, oltre che in ragione delle modalità attraverso cui è devoluta, anche in conseguenza del suo carattere esclusivo o concorrente. Di conseguenza, si potrà parlare di poteri esclusivi espressi, di poteri esclusivi impliciti, di poteri concorrenti espressi e di poteri concorrenti impliciti. Poiché a ciascuna categoria di competenza corrisponde un distinto regime giuridico, non è trascurabile sapere dove debba essere collocato un certo accordo.
In principio, l’identificazione di ciascuna di queste categorie risponde a criteri netti. Così, si possono agevolmente ascrivere alla prima categoria gli accordi aventi ad oggetto la politica commerciale comune e la gestione delle risorse biologiche marine, cioè accordi che rientrano in quei settori che i Trattati riconducono espressamente ad una competenza esterna esclusiva (v. art. 3, par. 1, TFUE). Considerazioni analoghe valgono, in principio, anche per la categoria dei poteri concorrenti espressi ai quali sono sicuramente riconducibili gli accordi che ricadono nei settori dell’ambiente, della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario e della cooperazione nei settori della ricerca e dello sviluppo tecnologico, materie per le quali i Trattati prevedono espressamente il carattere concorrente della competenza esterna. Ancorché di evidenza meno immediata, anche il carattere esclusivo o concorrente di una competenza esterna implicita è, in principio, agevolmente individuabile. Seppure il Trattato di Lisbona – nell’introdurre due disposizioni dalla formulazione sostanzialmente analoga, l’art. 216, par. 2 e l’art. 3, par. 2, TFUE, delle quali la prima nulla dice relativamente al carattere esclusivo o concorrente delle competenze enunciate, mentre l’altra qualifica esclusive quelle stesse competenze – non apporti alcuna chiarezza, è ragionevole pensare che il carattere esclusivo o concorrente di una competenza implicita debba continuare ad essere ricostruito alla luce della giurisprudenza elaborata al riguardo. Sulla base dei tradizionali criteri individuati dalla Corte, un accordo dovrebbe così ricadere nella competenza esterna esclusiva allorché ricorrano i presupposti indicati nella giurisprudenza AETS, mentre si avrebbe una competenza esterna concorrente se l’accordo risponde ai requisiti individuati nel parere n. 1/76.
Nella pratica può però non sempre essere semplice determinare in quale categoria ricada un’azione dell’Unione. Questa difficoltà è chiaramente emersa, come già accennato, nel parere n. 1/03. La Corte sembra indicare l’esistenza di una competenza esclusiva dell’Unione a stipulare allorché una corrispondente azione degli Stati sul piano esterno sia idonea a produrre potenziali interferenze rispetto al sistema giuridico dell’Unione. Nell’orientamento espresso nel parere n. 1/03 la Corte sembra dunque discostarsi dal criterio utilizzato nella giurisprudenza AETS in quanto non richiede, al fine di fondare la competenza esclusiva implicita dell’Unione, alcuna interferenza con una misura UE attuale o soltanto potenziale.
Difficoltà analoghe sono emerse, ad es., nello specifico settore ambientale. Se l’art. 191, par. 4, TFUE attribuisce all’Unione una competenza espressa a stipulare, ancorché concorrente, ciò non significa necessariamente escludere l’applicazione della dottrina dei poteri impliciti. La Corte, nel parere n. 2/00 (C. giust., 6.12.2001, parere n. 2/00 concernente il Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, p. I-9713), ha infatti riconosciuto che i due titoli di competenza, espressa ed implicita, rispondono ad esigenze diverse. Mentre l’art. 191, par. 4, TFUE, è idoneo a fondare una competenza concorrente estesa a tutto il settore ambientale, ma limitata a disciplinare forme di cooperazione con Stati terzi, la dottrina dei poteri impliciti conferisce all’Unione una competenza esterna esclusiva idonea ad estendersi ad ogni tipo di accordo, ma solo nella misura in cui le disposizioni dell’accordo da concludere interferiscano su norme comuni. I contorni di questa giurisprudenza sono peraltro resi ulteriormente incerti a seguito della sentenza resa nel caso Mox Plant (C. giust., 30.5.2006, C-459/03, Commissione c. Irlanda, p. I-4635) nella quale la Corte, discostandosi da quanto affermato nel parere n. 2/00, ha riconosciuto all’Unione una generale competenza a stipulare accordi in materia ambientale sulla base dell’art. 191, par. 4, TFUE ancorché l’accordo previsto non si limiti a prevedere modalità di cooperazione con Stati terzi (Cannizzaro, E., Le relazioni esterne della Comunità: verso un nuovo paradigma unitario?, in Riv. dir. eur, 2007, 223 ss.).
Il carattere necessariamente incompleto della competenza dell’Unione a stipulare ha dato origine alla prassi degli accordi misti. Questi ultimi sono infatti ampiamente utilizzati nell’ambito delle relazioni esterne per consentire all’Unione e agli Stati membri di concludere in forma congiunta accordi che non ricadono completamente nella competenza né dell’una, né degli altri. Gli Stati membri partecipano, in sostanza, accanto all’Unione, all’accordo, o per integrare l’assenza di competenza di quest’ultima, o anche qualora la competenza dell’Unione sussista, ma sia una competenza non esclusiva, bensì concorrente. In quest’ultimo caso, il ricorso a un accordo misto non sarebbe a rigore necessario, in quanto l’esistenza di una competenza concorrente consentirebbe comunque all’Unione di stipulare da sola un accordo. Tuttavia, gli Stati membri, in casi di questo genere, manifestano di regola l’esigenza di partecipare all’accordo allo scopo principalmente di non restare esclusi dalle relazioni negoziali con i Paesi terzi. Una volta concluso un accordo misto, il principio di leale collaborazione impone agli Stati membri e all’Unione di non creare ostacoli alla piena e corretta esecuzione dell’accordo. Questa esigenza si presenta particolarmente stringente allorché l’accordo non distingua le posizioni soggettive che spettano, sul piano internazionale, rispettivamente all’Unione e agli Stati membri con la conseguenza che la violazione di un obbligo da parte di uno Stato membro potrebbe giustificare l’adozione di contromisure nei confronti dell’Unione.
Al fine di superare il precedente regime di frammentazione, il Trattato di Lisbona ha accorpato in un’unica disposizione, l’art. 218 TFUE, la disciplina relativa alla conclusione degli accordi internazionali da parte dell’Unione. Questa disposizione è peraltro volta ad imporre il principio del parallelismo nella conclusione degli accordi internazionali rispetto alle procedure di formazione di atti interni. Così, pur nell’ambito di una disciplina unificata, ciascun accordo andrà quindi tendenzialmente concluso secondo il medesimo ordine di competenze necessario per l’adozione di un atto interno avente il medesimo contenuto (C. giust., 24.6.2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, non ancora pubblicata in Racc., parr. 52-53). Ne consegue che nell’ambito del negoziato, che è la prima fase dell’iter di formazione di un accordo, il potere di iniziativa sarà suddiviso tra la Commissione e l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), in corrispondenza del ruolo loro assegnato nell’ambito della procedura di adozione di atti interni. Se l’accordo riguarda «esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza comune» spetterà all’AR raccomandare al Consiglio l’autorizzazione all’apertura del negoziato; in tutti gli altri casi sarà la Commissione ad assumere l’iniziativa. La designazione del negoziatore, che avviene contestualmente alla decisione di autorizzazione di avvio dei negoziati, risponde a criteri analoghi: esso è infatti individuato dal Consiglio «in funzione della materia dell’accordo previsto». Presumibilmente, se l’accordo in questione riguarda esclusivamente la PESC, il negoziatore sarà l’AR; se esso riguarda esclusivamente altri settori esterni, il negoziatore sarà la Commissione. Allorché l’accordo tocchi trasversalmente materie diverse è ragionevole ipotizzare che il Consiglio nominerà una squadra di negoziatori di cui faranno parte sia l’AR, sia i membri della Commissione, e che il capo di tale squadra sarà il soggetto che rappresenta l’elemento materiale preponderante. La fase negoziale, che sarà improntata alle direttive che il Consiglio potrà impartire, si chiude con la firma del progetto di accordo che, come ogni decisione relativa alle fasi di formazione e di vita dell’accordo, è autorizzata dal Consiglio.
L’esigenza di parallelismo si riflette, pur con qualche ambiguità, anche nel ruolo attribuito al Parlamento europeo (PE). L’art. 218, par. 6, lett. a), e b), prevede che il Consiglio «adotta la decisione di conclusione dell’accordo», previa, a seconda dei casi, approvazione o consultazione del PE, a meno che l’accordo previsto non riguardi «esclusivamente la politica estera e di sicurezza comune». Nell’indicare, in particolare, che la regola generale e residuale rispetto al coinvolgimento del PE è quella della consultazione (par. 6, lett. b), mentre solo alcune categorie di accordi esigono la previa approvazione (par. 6, lett. a), l’art. 218, par. 6, prevede dunque chiaramente che le forme di partecipazione del PE alla formazione di un accordo si modellino sulle prerogative assegnate al Parlamento dai Trattati istitutivi per la formazione di atti interni. Questa esigenza di parallelismo appare invece attenuata laddove la disposizione impone la partecipazione del PE alla conclusione di accordi che non rilevino “esclusivamente” della politica estera. Sulla base di questa previsione, il PE dovrebbe dunque partecipare – nella forma impegnativa dell’approvazione, ovvero della consultazione – anche alla conclusione di accordi aventi un contenuto prevalente di politica estera, pur se, come è noto, nella formazione di atti interni di politica estera il ruolo parlamentare è assolutamente marginale. Dato che la politica estera si concreta, nella massima parte dei casi, in atti che hanno qualche contenuto materiale, ancorché di rilievo funzionale alla realizzazione di obiettivi politici, la disposizione ha l’effetto di imporre la partecipazione parlamentare per accordi il cui contenuto ricada, sia pure in maniera marginale, in una qualsiasi politica materiale interna. In questa prospettiva, il PE si troverebbe dunque ad esercitare sul piano esterno funzioni che, in ambito PESC, gli sono invece precluse sul piano interno (v. Bartoloni,M.E., Sulla partecipazione del Parlamento europeo alla formazione di accordi in materia di politica estera e di sicurezza comune, in Riv. dir. intern., 796 ss.).
Questa asimetria è stata corretta sulla base di un’interpretazione dell’art. 218, par. 6, co. 2, adotatta dalla Corte di giustizia nella menzionata sentenza del 24.6.2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio. La Corte ha indicato che, al fine di escludere il Parlamento dall’iter decisionale di un accordo, è sufficiente che questo si fondi «su una base giuridica sostanziale rientrante nell’ambito della PESC».
L’accordo è infine concluso dal Consiglio che delibera a maggioranza qualificata. Tuttavia, esso provvede all’unanimità, in ossequio al principio del parallelismo, per gli accordi che riguardano un settore per il quale è richiesta l’unanimità sul piano interno (tra cui gli accordi PESC), per gli accordi di associazione, per gli accordi sulla cooperazione economica, finanziaria e tecnica con paesi terzi diversi dai paesi in via di sviluppo, di cui all’art. 212 TFUE, qualora siano conclusi con gli Stati candidati all’adesione all’UE e per il previsto accordo sull’adesione dell’UE alla CEDU. In aggiunta a questi casi, il ricorso all’unanimità è imposto dall’art. 207 anche per la conclusione di taluni accordi commerciali.
Ai sensi dell’art. 218, par. 11, la Corte di giustizia può essere chiamata a esprimere il proprio parere sulla compatibilità di un accordo previsto con i Trattati. Sono competenti a richiedere il parere gli Stati membri, il PE, il Consiglio e la Commissione. Questa competenza è chiaramente volta ad evitare le conseguenze negative, sia sul piano interno che su quello internazionale, che potrebbero conseguire all’accertamento successivo di una eventuale incompatibilità con i Trattati di accordi internazionali che vincolano l’Unione. Per questo motivo, il parere, se negativo, impedisce alle istituzioni di concludere l’accordo, «salvo modifiche dello stesso o revisione dei Trattati». Di fatto, però, le istituzioni, a fronte di un parere negativo, saranno indotte a procedere alla modifica dell’accordo, soluzione normalmente meno complessa rispetto all’apertura della procedura di revisione dei Trattati istitutivi. Resta inteso, ad ogni modo, che se l’accordo dovesse essere concluso in difformità dal parere della Corte, la decisione di conclusione del Consiglio potrebbe essere impugnata attraverso un ricorso di annullamento o essere messa in causa in un eventuale rinvio pregiudiziale. Quanto all’oggetto del parere, esso può riguardare tanto la compatibilità con le disposizioni dei Trattati di un accordo progettato, quanto la competenza dell’Unione o delle sue istituzioni a concludere tale accordo. Sotto altro profilo, poiché il parere ha ad oggetto un accordo solo previsto, questo potrà essere richiesto fino al momento dell’adozione, da parte del Consiglio, della decisione di conclusione dell’accordo. La Corte ha peraltro chiarito che, per quanto attiene al problema della competenza dell’Unione a concludere un accordo, è nell’interesse delle istituzioni e degli Stati, ivi compresi i paesi terzi, che la questione sia chiarita sin dall’avvio dei negoziati e prima ancora che siano stabiliti gli elementi essenziali dell’accordo: unica condizione in questo caso è che l’oggetto dell’accordo sia conosciuto prima dell’avvio dei negoziati (v. C. giust., 4.10.1979, parere n. 1/78, p. 2871, par. 35; C. giust., 28.3.1996, parere n. 2/94, p. I-1759, parr. 10 e 14). Per quanto riguarda invece il controllo della compatibilità con i Trattati sotto il profilo del contenuto, occorre che il testo dell’accordo sia sufficientemente definito perché la Corte possa essere in grado di pronunciarsi (parere n. 1/94, cit., parr. 20-22).
Ai sensi dell’art. 216, par. 2, TFUE «gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri». Ancorché la disposizione in questione non sia del tutto priva di ambiguità, la sua formulazione, almeno nei suoi presupposti fondamentali, trae chiaramente ispirazione dalla dottrina monista. Gli accordi, una volta conclusi, entrano a far parte dell’ordinamento UE (C. giust., 30.4.1974, C-181/73, Haegemann, p. 449, parr. 3-5) e sono automaticamente dotati dei caratteri del primato e degli effetti diretti. Essi, in altri termini, prevalgono rispetto a qualsiasi norma di diritto derivato, con l’unica eccezione data dal rispetto dei Trattati istitutivi che costituiscono il diritto primario dell’Unione. Essi, inoltre, sono in principio idonei a operare nella sfera dell’ordinamento interno e a disciplinare direttamente attività individuali, senza bisogno di alcuna forma di ricezione ad opera di norme UE. Tuttavia, affinché un accordo sia idoneo a produrre effetti diretti, le sue norme devono presentare pienezza di contenuto dispositivo tale da poterne desumere la disciplina di rapporti interni (C. giust., 12.4.2005, C-265/03, Simutenkov, p. I-2596,par. 21; v. anche C. giust., 5.2.1976, C-87/75, Bresciani, p. 129; C. giust., 26.10.1982, C-104/81, Kupferberg, p. 3641, par. 17). In caso contrario, la sua attuazione comporterà l’intervento delle istituzioni le quali dovranno trasformare gli obblighi internazionali in precetti normativi applicabili nell’ordinamento interno. Ciò comporta, agli effetti pratici, che un accordo, pur entrando a far parte dell’ordinamento UE in conseguenza della sua conclusione, sarà idoneo a disciplinare compiutamente rapporti giuridici interni – e dunque a produrre effetti diretti – solo se le sue norme presentano completezza di contenuto. Si tratta del problema, noto in tutti gli ordinamenti giuridici, relativo al carattere self-executing di un accordo internazionale. Solo le norme dotate di pienezza dispositiva, in quanto idonee a costituire il fondamento di posizioni individuali, saranno infatti applicate direttamente dal giudice e assistite da tutti gli strumenti di garanzia che accompagnano, in genere, l’attuazione delle norme interne.
Nell’ambito dell’ordinamento UE, forse anche al fine di limitare l’apertura internazionalista che ispira l’art. 216, par. 2, la nozione di norma self-executing ha assunto, perlomeno in relazione ad alcuni accordi, un significato parzialmente diverso. Una norma sarebbe tale non tanto se presenta completezza dispositiva, quanto se è stata posta in essere nell’ordinamento internazionale espressamente al fine di disciplinare direttamente fattispecie interne. Questa tendenza è innanzitutto emersa in relazione agli effetti interni dell’accordo GATT. La Corte di giustizia ha costantemente negato che il GATT possa essere applicato nell’ordinamento interno nonostante molte delle sue disposizioni siano formulate in modo da trarne in maniera chiara la disciplina di rapporti individuali. La Corte ha tratto questa conclusione dal fatto che il GATT sarebbe fondato sulla reciprocità delle posizioni giuridiche delle parti (C. giust., 12.12.1972, cause riunite da C-21/1972 a C-24/1972, International Fruit, p. 1219; C. giust., 23.11.1999, C-149/96, Portogallo c. Consiglio, p. I-8395). Questa circostanza impedirebbe di assisterne l’attuazione attraverso i consueti strumenti di garanzia interni in quanto il loro utilizzo comprometterebbe quel margine di discrezionalità di azione che le istituzioni esercitano nei confronti delle proprie controparti commerciali. Tale orientamento è stato mantenuto anche dopo l’inclusione del nuovo GATT nell’ambito del quadro della nuova Organizzazione mondiale del commercio (OMC), dotata, come è noto, di meccanismi di carattere giudiziale per la risoluzione delle controversie. La Corte ha chiaramente affermato che affidare al giudice interno la garanzia dell’attuazione delle decisioni giudiziarie degli organi OMC equivarrebbe privare le parti dell’accordo della possibilità di utilizzare strumenti di tipo interstatuale (C. giust.,1.3.2005, C-377/02, Van Parys, p. I-1465).
La tendenza a limitare gli effetti degli accordi nell’ordinamento UE sembrerebbe emergere anche da un altro filone giurisprudenziale. Nella sentenza Intertanko (C. giust., 3.6.2008, C-308/06, p. I-4057, par. 42), la Corte ha escluso che la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 produca effetti diretti in quanto le sue disposizioni non disciplinano direttamente situazioni individuali. La Corte sembrerebbe dunque indicare che l’idoneità di un accordo ad essere applicato direttamente è conseguenza dell’intenzione delle parti di conferire diritti e obblighi nei confronti di individui.
Questi orientamenti, pur fondati su argomenti diversi, evidenziano l’esigenza di rispettare la natura che ciascuna norma internazionale ha nel proprio ordinamento di origine. Nel fare ciò, hanno peraltro l’effetto di negare radicalmente gli effetti interni alle norme internazionali (Cannizzaro,E., Il diritto internazionale nell’ordinamento giuridico comunitario: la sentenza Intertanko, in Riv. dir. eur., 2008, 645 ss.).
Un altro aspetto problematico, strettamente connesso con quello appena esaminato, riguarda l’attenuazione della posizione di primato che gli accordi dovrebbero rivestire, ai sensi dell’art. 216, par. 2, rispetto al diritto derivato. La giurisprudenza della Corte giustizia è intervenuta a più riprese sul tema indicando, in maniera non del tutto coerente, che un accordo può fungere da parametro di validità per gli atti di diritto derivato se, oltre ad essere vincolante per l’Unione, produce effetti diretti (International Fruit, cit., par. 19 ss.; C. giust., 5.10.1994, C-280/93, Germania c. Cons., p. I-5039, parr. 109 e 110; Intertanko, cit., par. 65). Questo orientamento determina la conseguenza, invero difficilmente conciliabile con la lettera dell’art. 216, par. 2, che un accordo può prevalere su corrispondenti atti di diritto derivato con esso contrastanti solo se produttivo di effetti diretti.
Artt. 6, 8, 21, 22, 37, 40 TUE; Artt. 3, 79, 167, 168, 171, 186, 191, 207, 209, 212, 214, 217, 219 TFUE.
Amadeo, S., Unione europea e treaty-making power, Milano, 2005; Bartoloni, M.E., Sulla partecipazione del Parlamento europeo alla formazione di accordi in materia di politica estera e di sicurezza comune, in Riv. dir. intern., 796 ss.; Id., Politica estera e azione esterna dell’Unione europea, Napoli, 2012; Cannizzaro, E., On some recent developments in the law of Community external relations: towards a unitary paradigm?, in Die Herausforderung von Grenzen. Festschift für Roland Bieber, Zürich, 2007, 474 ss.; Id., Il diritto internazionale nell’ordinamento giuridico comunitario: la sentenza Intertanko, in Riv. dir. eur., 2008, 645 ss.; Id., Le relazioni esterne della Comunità: verso un nuovo paradigma unitario?, in Riv. dir. eur., 2007, 223 ss.; Cremona, M., The Two (or Three) Treaty Solution: The New Treaty Structure of the EU, in Biondi, A.-Eeckhout, P.-Ripley, S., (eds.), EU Law After Lisbon, Oxford, 2012, 40 ss.; Cremona, M.-De Witte, B., (Eds), EU Foreign Relations Law. Constitutional Fundamentals, Oxford, 2008; Dashwood, A.,-Maresceau, M., (Eds), Law and Practice of EU External Relations. Salient Features of a Changing Landscape, Cambridge, 2008; Gaja, G.-Adinolfi, A., Introduzione al diritto dell’Unione europea, Roma-Bari, 2010; Van Vooren, B., The Small Arms Judgment in an Age of Constitutional Turmoil, in European Foreign Affairs Review, 2009, 231 ss.; Gattinara, G., Art. 216 TFUE, in Curti Gialdino, C., a cura di, Codice dell’Unione europea operativo, Napoli, 2012, 1582; Id., Art. 218 TFUE, in Curti Gialdino, C., a cura di, Codice dell’Unione europea operativo, Napoli, 2012, 1601; Mignolli, A., L’azione esterna dell’Unione europea e il principio della coerenza, Napoli, 2009.