Relazioni industriali
1. Definizione e ambito delle relazioni industriali
Per indicare gli istituti, le norme e i processi della regolamentazione del rapporto di lavoro, le scienze sociali utilizzano normalmente l'espressione relazioni industriali.Il termine relazioni denota un'interazione fra gli attori coinvolti non semplicemente occasionale, bensì dotata di un certo grado di continuità; forme di negoziato e di scambio piuttosto che rapporti di forza e di potere; rapporti che attengono alla sfera della società civile e delle aggregazioni sociali piuttosto che a quella politico-istituzionale.In effetti, le relazioni fra i lavoratori, le loro organizzazioni e gli imprenditori presentano sovente, specie nel passato, atteggiamenti antagonistici, motivi di opposizione e di estraneità, manifestazioni conflittuali anche aspre. Il principale esempio è rappresentato dallo sciopero, un fenomeno che assume forme e rilievo assai differenti e si manifesta anche in assenza di profondi contrasti e in contesti di radicate tradizioni negoziali.Il termine in questione appare meno appropriato per le fasi iniziali dell'economia capitalistica, nelle quali manca spesso la condizione della continuità dei negoziati e dello scambio, mentre risulta più adatto per le fasi successive, soprattutto per i decenni del secondo dopoguerra, caratterizzati da una costante e articolata regolamentazione dell'impiego del lavoro dipendente.
Lo stesso termine può essere utilizzato, seppure in modo improprio, in riferimento a paesi con regimi politici autoritari (v. Cella e Treu, 1986), nei quali la soppressione della democrazia ha comportato (come nel caso dell'Italia nel ventennio fascista) la revoca della libertà di associazione, di conflitto, di effettivi negoziati per gli attori 'naturali' delle relazioni industriali, in particolare per le organizzazioni sindacali. Tuttavia anche i regimi politici autoritari hanno prodotto istituti e pratiche di regolamentazione del lavoro.
Oltre alle relazioni fra tali attori, appaiono rilevanti le iniziative legislative dello Stato nei confronti del rapporto di lavoro e delle stesse organizzazioni sindacali. Queste iniziative, se osservate per grandi tendenze, passano da una fase iniziale di ostacolo e di repressione dell'azione di tali organizzazioni a una fase successiva che vede il loro riconoscimento e provvedimenti a favore dei lavoratori in cui, non di rado, sono contemplate anche misure di disciplina delle relazioni fra imprenditori e dette organizzazioni.
L'aggettivo 'industriale', derivato dalla tradizione anglosassone, segnala la centralità dei settori manifatturieri, ma è usato per estensione anche in rapporto ad altri settori. Si parla quindi di relazioni industriali anche con riferimento al settore agricolo, al terziario privato e al pubblico impiego.
Questa estensione si giustifica con le trasformazioni del mercato del lavoro e delle organizzazioni sindacali. Nel primo caso, alla riduzione degli addetti all'agricoltura e all'espansione della popolazione industriale ha fatto seguito negli ultimi decenni un più forte incremento dell'occupazione nei servizi. Nel secondo caso, dopo una lunga fase di prevalenza operaia nei sindacati, il lavoro organizzato a partire dal secondo dopoguerra si espande in settori extra-industriali. La situazione recente mostra - con sensibili differenze anche all'interno del panorama europeo - una diminuzione dei livelli di sindacalizzazione nei settori industriali (dovuta principalmente a cambiamenti strutturali), la continuità di livelli contenuti nel terziario privato (nel quale prevalgono piccole imprese più difficilmente sindacalizzabili) e livelli complessivamente consistenti o elevati per il pubblico impiego (v. Visser, 1994).
Ciò precisato, possiamo dare la seguente definizione delle relazioni industriali: l'insieme di norme (più o meno formalizzate, specifiche o generali), relative all'impiego del lavoro dipendente, nonché ai problemi e alle controversie che da tale impiego derivano, prodotte in prevalenza da attori collettivi più o meno organizzati (sindacati dei lavoratori, associazioni imprenditoriali oppure singole imprese) e quasi sempre con il concorso dell'attore pubblico.Tali relazioni normalmente presentano delle peculiarità per i lavoratori del pubblico impiego. Se, da una parte, non si differenziano molto da quelle dei settori manifatturieri (presenza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e ricorso allo sciopero), dall'altra, se ne discostano per numerosi aspetti (la natura e la legittimazione del datore di lavoro, una elevata regolamentazione legislativa, una maggiore uniformità delle norme).
All'interno delle norme prodotte appare rilevante la distinzione fra norme sostanziali e norme procedurali: le prime regolano le materie del rapporto di lavoro (retribuzione, orario, mansioni, ecc.); le seconde regolano le modalità e gli attori per la produzione delle norme stesse (diritti e rappresentanze sindacali, agenti e livelli contrattuali, meccanismi di composizione delle controversie, reclutamento della manodopera, ecc.).
L'espressione 'relazioni industriali' può essere intesa in due accezioni, una ampia e una ristretta.Nel primo caso essa indica l'insieme dei processi di interazione fra imprenditore e lavoratori, quindi non solo le relazioni con le rappresentanze dei lavoratori ma anche quelle 'interne' e interpersonali con la gerarchia manageriale, le consuetudini e le pratiche quotidiane di utilizzo e di valutazione delle prestazioni (v. Marsh, 1979). Si pensi, ad esempio, al tema cruciale dei percorsi di carriera. Così intese le relazioni industriali fanno riferimento soprattutto all'impresa.
Nella seconda accezione l'espressione si riferisce specificamente alle norme e agli attori della regolamentazione del rapporto di lavoro, alle relazioni fra imprenditori e rappresentanze dei lavoratori, agli orientamenti e alle azioni degli uni nei confronti degli altri. Così intese le relazioni industriali fanno riferimento non solo all'impresa ma anche ad altri livelli (settore produttivo, ambito nazionale o subnazionale).
In questa sede useremo l'espressione relazioni industriali nell'accezione ristretta. Questa scelta, per altro condivisa da gran parte della letteratura, comporta due ulteriori specificazioni.
Le relazioni industriali riguardano i lavoratori come collettività e si manifestano attraverso forme di negoziato e di scambio fra le parti coinvolte. Ciò implica il riconoscimento reciproco, di fatto o esplicito, di tali parti e 'un gioco a somma diversa da zero', ossia scambi con i quali ognuna delle due parti non intende conseguire vantaggi semplicemente a danno dell'altra. Questi due elementi sono spesso presenti nell'evoluzione dei rapporti fra imprenditori e rappresentanze organizzate dei lavoratori, ma a volte sono assenti o embrionali; in questi casi, anche se si attuano pratiche negoziali, si ha 'un gioco a somma zero', ossia il vantaggio di una parte è o viene ritenuto una perdita per l'altra parte.
Le relazioni industriali sono prevalentemente esaminate e valutate considerandone i caratteri essenziali a livello nazionale; anche se, per i paesi europei, non è più possibile ignorare il livello comunitario (v. Streeck, 1990). La considerazione di tali caratteri consente di individuare i diversi sistemi di relazioni industriali e di compiere analisi comparative per coglierne le differenze e le convergenze (v. Bean, 1985).
2. Teorie delle relazioni industriali
Le relazioni industriali costituiscono l'oggetto di studio di numerose discipline, dall'economia alla sociologia, dal diritto alla psicologia sociale.Gli approcci interdisciplinari sono stati applicati a sistemi consolidati di relazioni industriali soprattutto nell'area anglosassone. In altri paesi, come in Italia, tali approcci sono relativamente recenti, mentre nel passato hanno prevalso le interpretazioni ideologiche e la considerazione delle relazioni industriali e sindacali come momento o segmento delle vicende politiche.Il problema di fondo nello studio delle relazioni industriali è quello di spiegare le differenze e le similarità dei vari sistemi rilevando i caratteri essenziali di ciascuno e tracciandone l'evoluzione (v. Shalev, 1980 e 1981).Altre rilevanti questioni possono essere elencate come segue.
1. I sistemi di relazioni industriali mostrano crescente omogeneità e sostanziale convergenza, oppure la persistenza di caratteri e tradizioni nazionali?
2. Vanno nella direzione di una crescente stabilità, con strutture regolative e requisiti istituzionali congrui, oppure sono segnati da una intrinseca instabilità, tale, comunque, da non consentire di prevedere il loro 'destino'?
3. Gli assetti delle relazioni industriali possono essere spiegati facendo riferimento a istituti e norme 'interne', frutto di processi di interazione e di aggiustamenti successivi promossi dagli imprenditori e dalle rappresentanze dei lavoratori, oppure riconducendoli a fattori 'esterni', più o meno connessi con l'impiego del lavoro dipendente?
4. Nel secondo caso, quali sono i fattori che maggiormente influiscono su tali assetti, oltre a quello ritenuto normale della dimensione politica?
Le vicende e le fasi delle relazioni industriali nei paesi capitalistici non consentono risposte nette a questi interrogativi. Tuttavia, sul terreno dei riscontri empirici, per quanto riguarda, ad esempio, la prima questione possiamo constatare pur nella persistenza dei caratteri nazionali dei sistemi di relazioni industriali un maggior grado di convergenza rispetto al passato (v. Baglioni, 1989).
Le questioni sopra elencate sono diffusamente assunte nelle teorie sulle relazioni industriali, a volte estese, specie nel passato, ai rapporti sociali complessivi delle società capitalistiche. Tali teorie, in particolare, sono sovente influenzate dall'atteggiamento ideologico o da opzioni di valore, esplicite o implicite, verso il conflitto.Il conflitto, infatti, risulta quasi sempre presente nelle relazioni industriali, con forme molto differenti nel tempo e nello spazio; ha avuto di volta in volta obiettivi difensivi, rivendicativi o organizzativi, mostrando connessioni verificate con l'andamento dell'economia, con le situazioni politiche, con i livelli di sindacalizzazione (v. Cella, 1979). Esso, soprattutto mediante la pratica dello sciopero, rappresenta lo strumento più diretto, più efficace e, spesso, più costoso di cui dispongono i lavoratori dipendenti.
Per offrire una sommaria conoscenza empirica del fenomeno, riportiamo nella tabella i dati degli scioperi relativi ai cinque paesi industriali più importanti dell'Occidente, utilizzando il più significativo dei suoi indicatori, ossia il numero delle giornate di lavoro perse. Questi dati evidenziano la crescita del numero delle giornate perse dall'inizio del secolo in avanti; la tendenziale flessione negli ultimi due decenni; la consistenza del fenomeno in tutti i paesi esaminati, con l'eccezione della Germania per l'intero secondo dopoguerra (fatto principalmente dovuto alla costruzione di un sistema di relazioni industriali consolidato, articolato e istituzionalizzato).
Data la centralità del tema del conflitto, i diversi orientamenti teorici possono essere ordinati in base alla posizione assunta verso questo fenomeno.Nelle fasi iniziali dell'economia capitalistica il problema del lavoro dipendente viene visto con la preoccupazione di delineare assetti sociali e produttivi alternativi o diversi da quello capitalistico. In quest'ambito ritroviamo due orientamenti profondamente diversi fra di loro (v. Baglioni, 1995).
Il primo è costituito dalle dottrine e dai programmi mirati a una stabile armonizzazione degli interessi fra lavoratori e imprenditori, specialmente attraverso l'attuazione di un sistema corporativo, che affida il superamento dei problemi del lavoro dipendente a istituzioni che operano per il bene comune e nelle quali il conflitto appare evitabile. Così pensavano molti autori di ispirazione cristiano-sociale ma anche un grande pensatore razionalista come Durkheim (v., 1893).
Il secondo orientamento, partendo dal presupposto della inconciliabilità di interessi fra lavoratori e imprenditori, mira alla modificazione effettiva della asimmetria intrinseca del rapporto di lavoro e della stessa condizione dei lavoratori dipendenti nella società; propone il superamento dell'assetto capitalistico, a cominciare dal controllo che i lavoratori dovrebbero esercitare sui processi produttivi; ritiene che il conflitto sia inevitabile e necessario, specie se presenta legami con obiettivi e organizzazioni politiche.
Questo secondo orientamento è rappresentato soprattutto (ma non esclusivamente) dai progetti e dai programmi di ispirazione marxista, la cui influenza è stata notevole in numerosi paesi del continente europeo, anche in decenni a noi vicini. Il conflitto, oltre che necessario, è visto come un requisito primario per l'emancipazione della classe lavoratrice; il grado di conflittualità è valutato come il principale indicatore della coscienza di classe e della solidità delle organizzazioni dei lavoratori.
Questa impronta antagonistica viene ripetutamente messa in discussione negli ambienti intellettuali e operativi del movimento sindacale e operaio, dove si impongono orientamenti che ritengono non conveniente per i lavoratori lo scontro irriducibile con la controparte e, conseguentemente, si propongono di migliorare gradualmente le loro condizioni nella società e nell'impresa con gli strumenti della democrazia politica e delle rappresentanze sindacali riconosciute all'interno delle unità produttive. Il riformismo socialdemocratico in numerosi paesi europei è stato l'espressione più significativa di tali orientamenti.
Nel contempo molte esperienze sindacali si affermano e prevalgono sul piano della tutela delle condizioni dei lavoratori al di fuori o contro programmi di ispirazione marxista. Si pensi alle importanti esperienze sindacali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Nello stesso continente europeo svolgono un ruolo certo non marginale i movimenti sindacali e politici di ispirazione cristiana.
Nelle fasi più avanzate dell'economia capitalistica, negli anni venti e, soprattutto, nel secondo dopoguerra, continuano interpretazioni e proposte di tipo ideologico; tuttavia i problemi e le vicende relativi all'impiego del lavoro dipendente vengono trattati in modo sempre più svincolato da progetti politici più o meno innovativi, con una maggiore attenzione analitica per i processi, gli istituti e gli attori coinvolti, di cui si studia il funzionamento e l'evoluzione.
Questo nuovo atteggiamento si afferma soprattutto nei paesi nei quali si sono sperimentate soluzioni di convivenza negoziale fra imprenditori e lavoro organizzato, sono attivati contenuti e procedure di regolamentazione collettiva del rapporto di lavoro e le organizzazioni sindacali sono (esplicitamente o di fatto) riconosciute. In questi paesi e con queste condizioni si parla normalmente di assetti pluralistici e sono ugualmente chiamate teorie pluraliste gran parte di quelle che ora brevemente richiamiamo. John T. Dunlop (v., 1958) elabora una teoria che si basa sul concetto di industrial relations system, inteso come un sottosistema del sistema economico. In tale sistema gli attori principali - lavoratori e loro organizzazioni, imprenditori e agenzie pubbliche - interagiscono e, nei luoghi di lavoro, stabiliscono una rete di norme che regolano i loro rapporti. Tali attori sono soggetti all'influenza dell'ambiente (contesto politico, orientamenti ideologici, fattori tecnologici, ecc.), che può essere considerata come esogena. Pur assumendo una varietà di forme, le norme costituiscono il comune denominatore del funzionamento dei sistemi di relazioni industriali.
Dunlop, che si distingue per l'utilizzo di un impianto analitico rigoroso, ha suscitato notevoli perplessità in quanto presenta l'attore sindacale come un mero attore economico, costituito da strutture frammentate a livello dell'impresa (trascurando, quindi, le grandi organizzazioni di settore e territoriali); inoltre, sembra considerare il conflitto come un fenomeno non consustanziale alla produzione delle norme.Sempre all'interno della tradizione anglosassone, un orientamento dotato di maggiori capacità esplicative e sensibile alla tematica del conflitto è quello rappresentato da A. Flanders, A. Fox e H. A. Clegg, gli esponenti più significativi della Scuola di Oxford (v. AA.VV., 1980). Questi autori hanno proposto uno schema di analisi fondato sul modello input-output. Nell'input rientrano i conflitti, le rivendicazioni, le diverse domande connesse al rapporto di lavoro dipendente, ossia tutto ciò che è possibile definire come fattori di turbamento dell'ordine industriale (senza dare a questo termine nessun significato di valore). Nell'output rientrano le norme, le regole più o meno formalizzate che governano lo stesso rapporto. Fra le due componenti operano gli strumenti e le procedure predisposti dai sistemi di relazioni industriali per la trattazione e la composizione delle controversie, fra i quali un posto fondamentale è assunto dalla contrattazione collettiva.Il sindacato non è visto come una semplice organizzazione economica e, di conseguenza, la contrattazione collettiva come una semplice 'istituzione' economica. Esso esercita, invece, la doppia funzione di gruppo di pressione e, assieme agli imprenditori, di 'legislatore privato'. La contrattazione collettiva si presenta qui come struttura portante del pluralismo nelle relazioni industriali. Per Clegg (v., 1976), in particolare, il comportamento sindacale dipende dalla struttura della contrattazione, influenzata principalmente dagli atteggiamenti delle associazioni imprenditoriali e dalle direzioni delle imprese.
Questo orientamento, adatto per cogliere la produzione delle norme e i processi negoziali fra gli attori delle relazioni industriali, sembra tuttavia sottovalutare i motivi più profondi delle manifestazioni conflittuali.
Questi aspetti, partendo dall'analisi del caso francese, vengono invece considerati, fra gli altri, da E. Shorter e C. Tilly (v., 1974), per i quali la rete di relazioni fra le organizzazioni sindacali e le controparti resta segnata dalla divergenza di interessi (economici, politici, organizzativi), la forza organizzativa dei sindacati si configura come la variabile decisiva della loro azione, e lo sciopero è considerato come lo strumento che estende alle relazioni di lavoro i normali percorsi della partecipazione politica.Alcuni autori cercano di ricostruire l'evoluzione delle relazioni industriali. Per essi l'elemento determinante resta il conflitto, destinato al declino per alcuni, dotato di persistenza per altri.C. Kerr (v. Kerr e altri, 1962) ritiene che siano progressivamente superati i motivi che, nel passato, avevano prodotto l'ostilità operaia contro il capitalismo industriale. Si vanno affermando condizioni economiche e istituzionali che favoriscono la convivenza fra imprenditori e lavoratori, sanciscono il superamento della lotta di classe, e vedono lo sciopero sostituito da 'contese burocratiche' fra i rappresentanti delle due parti.
La tesi del declino del conflitto (miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori, sviluppo dello Stato sociale, politiche manageriali più attente ai problemi del lavoro) è sostenuta da A.M. Ross e P.T. Hartman (v., 1960). La pratica dello sciopero ha avuto un processo evolutivo in due direzioni: dove la contrattazione collettiva è stata estesamente sperimentata (come nei paesi dell'Europa centrosettentrionale) il conflitto è praticamente scomparso; permane invece diffuso dove (come in Francia e in Italia) esso sovente non riguarda le materie delle relazioni industriali ma si configura come manifestazione di protesta sociale, di azione politica.
I tre autori ora richiamati colgono con precisione le condizioni che possono favorire rapporti negoziali e il riconoscimento reciproco fra imprenditori e rappresentanze dei lavoratori. Meno convincente, invece, appare la tesi del declino del conflitto, non solo perché essa non verrà confermata dagli sviluppi successivi agli anni sessanta, ma anche perché non si possono stabilire strette correlazioni fra la riduzione di posizioni e sentimenti anticapitalistici del mondo del lavoro e il superamento delle pratiche conflittuali. Per gli stessi anni sessanta, questa correlazione viene smentita dagli Stati Uniti, paese di business unionism e di grandi scioperi.
Ciò viene confermato da Ralf Dahrendorf (v., 1957), che, all'interno della sua originale teoria delle classi, sottolinea lo sviluppo della regolazione dei rapporti di lavoro attraverso la sua 'istituzionalizzazione'. Il conflitto fra chi occupa ruoli di comando e coloro che occupano ruoli subordinati (nell'impresa come in altre strutture coordinate da norme imperative) tende a diminuire perché, essendo considerato una caratteristica naturale della vita industriale, è stato riconosciuto e, quindi, regolato. Dahrendorf, conseguentemente, ritiene che le modalità più congrue della 'istituzionalizzazione' sono quelle (come la contrattazione collettiva e gli istituti di mediazione e arbitrato) che non si propongono di eliminare il conflitto e che non modificano la distinzione di ruoli e di responsabilità delle parti coinvolte.
Le teorie pluraliste e lo stesso Dahrendorf sono propensi a rappresentare le relazioni industriali come relativamente isolate, come processi di confronto e di aggiustamento fra i loro attori naturali. Questo approccio può essere considerato valido in quanto mette in luce le proprietà e i meccanismi di tali processi; tuttavia può portare a sottovalutare i fattori esterni che influiscono sulle relazioni industriali e le loro implicazioni sul contesto politico ed economico.
Nella realtà, infatti, è difficile cogliere relazioni pluralistiche 'pure'. Spesso i confini fra la sfera privata e quella pubblica non sono definiti e l'intervento dello Stato, con azioni di sostegno o di controllo, può sensibilmente condizionare l'autonomia dei sistemi delle relazioni industriali. Inoltre, specie a partire dagli anni settanta, gli esiti di tali pratiche pluralistiche sono sovente ritenuti troppo instabili e disordinati e, fatto ancora più rilevante, vengono valutati in ragione della loro compatibilità con le esigenze dell'impresa e della competitività dei sistemi economici.
È proprio negli anni settanta che si afferma l'orientamento del neocorporativismo, il quale analizza l'evoluzione e le trasformazioni del pluralismo e, specificamente, fa riferimento ad accordi di scambio più o meno espliciti e formalizzati (v. Pizzorno, 1980) fra lo Stato e gli attori delle relazioni industriali, accordi con i quali lo Stato fa partecipi tali attori di talune scelte decisionali (di politica economica e sociale) di sua competenza e questi ultimi ottengono concessioni e assumono congiuntamente vincoli definiti (in primis, per il contenimento delle dinamiche rivendicative, tramite le politiche dei redditi) (v. Tarantelli, 1986).
Pluralismo e neocorporativismo si possono considerare come modi alternativi di regolazione degli interessi delle parti in gioco solamente sul piano teorico, in quanto configurano casi limite all'interno dei quali si collocano le esperienze concrete. Tuttavia il neocorporativismo non è semplicemente una sottospecie del pluralismo. La presenza delle grandi organizzazioni di interessi nell'arena politica è una realtà diffusa (più del passato che recente), ma le pratiche riconducibili ad assetti neocorporativi evidenziano tipi di presenza qualitativamente differenti (v. Crouch, 1993).
3. I metodi delle relazioni industriali
I sistemi di relazioni industriali sono stati costruiti con strumenti differenti e con ruoli diversi degli attori implicati. Tra questi si fa preminente riferimento alle rappresentanze sindacali, perché complessivamente esse costituiscono l'attore più attivo e con interessi più diretti e pressanti.Riprendendo l'impostazione tradizionale dei coniugi Webb (v. Webb e Webb, 1897) si possono individuare tre metodi principali: 1) la formulazione da parte dei sindacati di proprie norme che precisano le condizioni alle quali i loro affiliati potrebbero accettare l'impiego (regolamentazione unilaterale); 2) la definizione congiunta delle norme attraverso accordi fra datori di lavoro e sindacati (contrattazione collettiva); 3) gli interventi, spesso sotto la pressione dei sindacati, del legislatore (regolamentazione per legge).Il primo metodo è tipico dei sindacati di mestiere (che organizzano lavoratori con una specifica qualifica professionale e occupati in imprese appartenenti a diversi settori produttivi). Il secondo è stato ed è il più rilevante strumento di tutela e di valorizzazione del lavoro utilizzato dai sindacati industriali (che organizzano tutti i lavoratori di un settore produttivo) e dai sindacati 'generali' (che organizzano i lavoratori di due o più settori produttivi). Il terzo, presente in misura e in modi diversi nei vari paesi, viene sostenuto (ma non esclusivamente) dalle confederazioni sindacali, ossia dalle strutture organizzative cui aderiscono i tipi di sindacati appena richiamati.
Il passaggio dal primo al secondo metodo è dovuto principalmente ai cambiamenti che intervengono nella composizione della forza lavoro. In Gran Bretagna, ad esempio, dall'inizio del secolo in poi, si ha una diminuzione delle quote di operai professionali, i quali difendevano le specificità e le diversità delle loro condizioni occupazionali con sindacati di mestiere. Nel contempo, come avverrà anche in altri paesi industriali, si assiste all'aumento degli addetti-macchina e degli operai semi-specializzati, i cui interessi salariali si fondano sulle caratteristiche comuni e vengono tutelati attraverso sindacati industriali (v. Cella, 1979).
Il secondo e il terzo metodo, ancora pienamente attuali, mostrano spesso confini incerti, e non solo per i settori del pubblico impiego nei quali lo strumento prevalente è la regolamentazione legislativa oppure un intreccio fra questa e le pratiche contrattuali. I coniugi Webb non avevano previsto e considerato un quarto metodo, presente fin dall'inizio del capitalismo e con numerose esperienze specie nei decenni del nostro dopoguerra. Ci riferiamo alla partecipazione, favorita dall'intervento legislativo in numerosi paesi (soprattutto europei) e in grado di integrarsi con la contrattazione collettiva (come spesso è accaduto recentemente).
Tuttavia la partecipazione è uno strumento diverso dalla contrattazione collettiva. Schematizzando, possiamo dire che quest'ultima mira a ottenere determinate condizioni economiche e normative per la tutela dei lavoratori mantenendo la distinzione di funzioni e di interessi fra le parti coinvolte, mentre la partecipazione presuppone che si possa andar oltre le condizioni negoziali, modificando con maggiore o minore intensità la distinzione di funzioni e di interessi, a vantaggio dei lavoratori o con la convergenza delle parti coinvolte.
La struttura della contrattazione collettiva all'interno dei sistemi di relazioni industriali si caratterizza per queste due importanti dimensioni: il grado di autonomia e il grado di centralizzazione (v. Cella e Treu, 1986). Il primo indica la maggiore o minore indipendenza di tale struttura da fonti di controllo e di regolazione esterne alle parti sociali (normalmente lo Stato); il secondo indica il livello negoziale prevalente o dominante, ad esempio, quello dell'impresa (come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna), o quello nazionale, spesso con poteri di controllo sui livelli inferiori (Europa centrosettentrionale, specie in connessione con gli accordi neocorporativi).
Altre dimensioni tipiche sono l'estensione (quota di lavoratori tutelati dalla contrattazione collettiva), la profondità (grado di coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori dell'impresa per la stipulazione o la gestione dei contratti), la portata (l'ampiezza degli aspetti del rapporto di lavoro regolati dalla contrattazione) (v. Clegg, 1976).
La partecipazione, dal canto suo, può essere di tre tipi: 1) partecipazione antagonistica, o con componenti antagonistiche, volta alla modificazione effettiva della asimmetria intrinseca del rapporto di lavoro e, spesso, della condizione stessa dei lavoratori nella società; 2) partecipazione collaborativa, che contempla la possibilità di migliorare la posizione socioeconomica dei lavoratori e di correggere detta asimmetria, senza modificare l'assetto istituzionale del capitalismo e la ragione sociale dell'impresa; 3) partecipazione integrativa, che si propone di interessare i lavoratori (non necessariamente con il tramite delle loro rappresentanze) all'andamento dell'impresa e di coinvolgerli nelle sue vicende e nel suo destino.
La partecipazione antagonistica, oggi sostanzialmente obsoleta, si è espressa nel passato, ad esempio, nei tentativi di 'controllo operaio'.
La soluzione collaborativa ha dato cospicui risultati nel nostro dopoguerra, particolarmente con la prospettiva della 'democrazia industriale', che prevede la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori in organi decisionali dell'impresa e che è emblematicamente riferita all'esperienza tedesca della codeterminazione.
La partecipazione integrativa, infine, di spiccata attualità, è la sola che vede l'iniziativa e il consenso di molti imprenditori e si manifesta spesso come partecipazione economica nelle forme del profit sharing (una quota variabile della retribuzione determinata dall'andamento dell'impresa sulla base di parametri scelti) e dell'employee ownership (facilitazioni particolari per l'acquisto di azioni da parte dei dipendenti) (v. Baglioni, 1995).
Questa forma di partecipazione è stata favorita dalla crescente esigenza delle imprese di conseguire maggiore flessibilità nell'impiego e nella valutazione del lavoro, per rispondere alle domande del mercato e per essere in grado di competere sul mercato internazionale, sempre più concorrenziale.
4. I modelli delle relazioni industriali e la loro evoluzione
I modelli sono costruiti sulla base delle convergenze presenti fra diversi sistemi di relazioni industriali e, naturalmente, mettendo in luce le differenze con altri sistemi. Essi ci consentono di cogliere i caratteri essenziali dei modi di regolazione, mediante l'individuazione degli elementi costitutivi e dell'evoluzione di ciascun modello.
Tali elementi riguardano, in generale, l'ambito delle relazioni industriali, il grado di riconoscimento e di scambio fra gli attori, il posto del conflitto, i diversi metodi con gli strumenti connessi, l'influenza dei fattori interni ed esterni, le ragioni di compatibilità con le esigenze dell'economia e dell'impresa.
Nel lungo cammino delle relazioni industriali si possono cogliere i seguenti modelli, elencati in successione temporale: modello contestativo, modello pluralista, modello statalista, modello collaborativo.
Il modello contestativo si ritrova nei paesi industriali, Italia compresa, nella seconda metà del XIX secolo e fino alla grande guerra.In questo periodo non esistono sistemi di relazioni industriali, come sono stati da noi precedentemente definiti (v. Bendix, 1956). Le pratiche di gestione del lavoro sono normalmente semplici e rozze, se si eccettua il caso di qualche imprenditore che mostra sensibilità e può intraprendere iniziative paternalistiche. I rapporti fra le organizzazioni dei lavoratori e la loro controparte sono di estraneità, non definiti e segnati da conflitti spesso molto aspri, e assumono prevalentemente i caratteri di un 'gioco a somma zero', anche quando sono attivate pratiche negoziali. Gli imprenditori, come potrà accadere anche in periodi successivi, dispongono di posizioni di forte potere ed è per loro naturale pensare a rapporti di lavoro senza la mediazione e la rappresentanza sindacali. I lavoratori, specie i militanti, mirano in molti casi alla prospettiva di un ordine economico e sociale radicalmente trasformato (v. Crouch, 1993).
Tali rapporti, nella singola impresa, sono ampiamente determinati da fattori interni ma con una forte influenza di fattori esterni. Contro gli interessi e le speranze dei lavoratori operano la logica dell'individualismo di mercato e l'esigenza di salvaguardare il libero funzionamento dei meccanismi del mercato. Ciò favorisce interventi legislativi di repressione o di limitazione del lavoro organizzato e delle sue manifestazioni conflittuali.
Se questo è l'utilizzo del metodo della regolamentazione legislativa, sussistono ostacoli alla diffusione della contrattazione collettiva; mentre, per quote modeste di operai specializzati, si va gradualmente affermando il metodo della regolamentazione unilaterale, centrato sulla fissazione delle tariffe salariali.Nel periodo in questione l'attività sindacale promuove spesso azioni difensive o lotte rivendicative, non generalizzate, nelle fasi espansive del ciclo.Il modello pluralista costituisce il modo di regolazione più diffuso e persistente del rapporto di lavoro e segna un cambiamento radicale rispetto al modello precedente.
Affermatosi negli anni della grande guerra in area anglosassone, in altri paesi industriali ebbe un ruolo rilevante nel superamento della crisi economica degli anni trenta e si consolidò nel secondo dopoguerra con lo sviluppo economico continuato e con il ritorno alla democrazia rappresentativa di importanti paesi europei (Germania e Italia).
Con questo modello si perviene alla costruzione dei sistemi nazionali di relazioni industriali, con aspetti, come la struttura della contrattazione collettiva, che permangono fino a oggi.
Questa costruzione si basa fondamentalmente sui processi negoziali fra gli imprenditori e le rappresentanze dei lavoratori. Tali processi producono regole, procedure e istituti che, complessivamente, danno luogo a una crescente istituzionalizzazione delle relazioni fra gli attori coinvolti. Essi riguardano i criteri di impiego e di valutazione del lavoro e, spesso, le stesse pratiche conflittuali. La logica pluralistica non elimina il conflitto; può anzi favorirlo; ma esso si svolge all'interno di relazioni più o meno 'codificate' e, normalmente, con manifestazioni meno aspre. Questa logica corrisponde a un 'gioco a somma diversa da zero' quando le parti trovano reciproche convenienze nell'esito del negoziato, nei risultati della successione di negoziati. Essa comincia a imporsi quando e dove gli imprenditori si rendono conto che possono trarre vantaggi dalla riduzione della conflittualità e il lavoro organizzato considera non realizzabili o non opportune per gli stessi lavoratori prospettive rivoluzionarie o meramente antagonistiche.
Col modello pluralista, in sostanza, avviene il riconoscimento dell'esistenza e delle funzioni delle rappresentanze collettive operaie da parte degli imprenditori, e questi ottengono da tali rappresentanze un riconoscimento di legittimazione. In alcuni casi questo scambio avviene solo di fatto, in altri e in misura crescente avviene con orientamenti espliciti e coerenti.
Gli assetti pluralistici si affermano in connessione con le trasformazioni economiche e politiche delle società industriali, come quelle dovute al rilievo della grande impresa e della produzione di massa, al suffragio universale e al sorgere dei grandi partiti, al crescente intervento dello Stato nell'economia e nelle questioni sociali. L'attore pubblico promuove i sistemi di protezione e previdenza e prende provvedimenti a favore dei diritti dei lavoratori per il miglioramento delle loro condizioni e, in molti casi, a favore delle loro rappresentanze.
Queste trasformazioni hanno consentito la crescita e il consolidamento dei fattori interni delle relazioni industriali. Il modello pluralista è, rispetto agli altri, quello che dà il maggior rilievo ai fattori interni, data la centralità della contrattazione collettiva come strumento di regolamentazione del rapporto di lavoro. Il suo grado di autonomia risulta associato al grado di decentralizzazione (come negli Stati Uniti e in Giappone); il grado di centralizzazione appare associato alla presenza e ai legami politici del sindacato (come in Svezia); sussistono, inoltre, situazioni 'miste' (come in Italia) con tradizioni sindacali politicizzate ma con una costante presenza della contrattazione collettiva anche a livello dell'impresa.
Altri elementi significativi sono la grande estensione della tutela contrattuale (e legislativa), la crescita (seppure non omogenea) degli iscritti ai sindacati, la pluralità dei tipi di organizzazioni dei lavoratori (fra le quali quella più diffusa e più congrua è costituita dai sindacati industriali).Il modello statalista, per contro, è da ricollegare al prevalere di progetti e di forze politiche che si propongono di organizzare la società e le istituzioni senza la democrazia politica, condizione prioritaria delle esperienze pluraliste.
Sul piano delle relazioni industriali, questo modello può presentarsi sia come opposizione alla continuità delle pratiche pluraliste, sia come alternativa a esse.Il primo caso si verifica in alcuni paesi industriali europei, le cui classi dominanti non intendono più sopportare i costi e le implicazioni della vita politica democratica e delle lotte sociali e sindacali. È quanto accade, fra le due guerre, in Italia e Germania, che attivano relazioni industriali 'corporative', riprese e continuate in seguito anche in Spagna e Portogallo.
Il secondo riguarda inizialmente la Russia, dove la nuova classe dirigente considera inadeguato il metodo della democrazia pluralista e rappresentativa per costruire una società alternativa a quella capitalistica e ritiene inefficiente la tutela sindacale per gli interessi dei lavoratori. Ciò crea forme di 'sindacalismo statizzato', come è accaduto appunto in Unione Sovietica e poi nei paesi del 'socialismo reale'.
Al di là delle differenze fra i due casi, si possono schematicamente individuare alcuni tratti comuni di questo modello (v. Cella e Treu, 1986): a) gli istituti delle relazioni industriali presentano un'accentuata dipendenza o mancanza di autonomia dallo Stato, diventando parte del sistema politico-istituzionale; b) le forme di rappresentanza collettiva sono uniche, pubbliche e normalmente non volontarie, in conformità con l'unità del sistema economico e politico; c) le organizzazioni sindacali e la contrattazione collettiva sono tipicamente accentrate e controllate in modo rigoroso dal centro, anche nelle loro espressioni periferiche; d) il conflitto è soppresso e la composizione delle controversie avviene con forme alternative al conflitto (arbitrato obbligatorio e interventi legislativi o amministrativi), in una logica di elevata istituzionalizzazione dell'intero sistema delle relazioni di lavoro.
Questo modello si caratterizza per la netta prevalenza dei fattori esterni, per il riconoscimento riservato solo ai sindacati ufficiali, per la mancanza della effettiva libertà negoziale e conflittuale delle parti sociali. La sua impostazione comporta a priori la compatibilità con gli indirizzi e gli obiettivi della politica economica.La sua applicazione non esclude che le relazioni industriali svolgano importanti funzioni nella regolamentazione del mercato del lavoro e nell'amministrazione dei servizi connessi agli interessi dei lavoratori: previdenza e sicurezza sociale, servizi sociali in genere e collocamento. In alcune esperienze, come in quelle del fascismo in Italia, la struttura e i contenuti normativi della contrattazione collettiva vengono ampiamente elaborati e saranno in buona misura ripresi nel dopoguerra (v. Sapelli, 1982).
Ricordiamo, infine, che alcuni tratti del modello saranno riscontrabili, in seguito, nella regolamentazione del lavoro dipendente guidata dallo Stato in numerosi paesi in via di sviluppo.
L'espressione 'modello collaborativo' non esaurisce i fenomeni cui si riferisce e potrebbe essere sostituita da altre espressioni, quali: pluralismo organizzato, neocorporativismo, concertazione, modello partecipativo. I requisiti del modello collaborativo sono i seguenti: la considerazione di materie e problemi che possono essere affrontati e gestiti sulla base di interessi ritenuti comuni dalle parti coinvolte e con vantaggi reciproci; la contemperanza fra le iniziative in favore della dignità e degli interessi dei lavoratori e le esigenze e gli obiettivi degli altri attori (imprenditori e Stato), attraverso processi di scambio; l'assunzione di responsabilità delle rappresentanze dei lavoratori verso il funzionamento del sistema economico e dell'impresa.Le esperienze del modello collaborativo si affermano prevalentemente sul terreno degli assetti pluralistici e cercano di correggere le loro difficoltà di funzionamento e i loro limiti intrinseci. Tali assetti, pur rappresentando la modalità più sperimentata di regolazione degli interessi degli attori delle relazioni industriali, si esprimono con ripetute procedure negoziali-contrattuali, ma senza stabilire priorità fra tali interessi in vista del perseguimento di obiettivi generali. Queste procedure spesso non impediscono situazioni di instabilità, conflitti ricorrenti, sprechi di risorse; con esiti che, quantomeno nel breve-medio periodo, sono dovuti non tanto a fattori oggettivi (condizioni economiche e produttive), quanto a fattori organizzativi (rapporti di forza fra gli attori). Tali esiti, in sostanza, possono produrre situazioni di distacco fra le relazioni industriali e i fattori oggettivi, ponendo problemi di compatibilità fra tali relazioni e questi fattori.
La correzione rispetto all'impostazione pluralista, nel senso di tener conto di interessi comuni alle parti e utili per gli equilibri socioeconomici più generali, si è manifestata a due livelli: a) a livello macroeconomico, specie attraverso le politiche dei redditi, che coordinano e disciplinano le domande e le dinamiche rivendicative (v. Tarantelli, 1986); b) a livello dell'impresa, attraverso il metodo della regolamentazione partecipativa, in particolare con la prospettiva (precedentemente indicata) della 'democrazia industriale' (v. Baglioni, 1995).
A volte i due livelli coesistono e si sostengono reciprocamente, mentre in altri casi vengono promosse e applicate politiche dei redditi senza corrispondenti esperienze partecipative. Queste esperienze, in alcuni paesi, anticipano tali politiche e proseguono anche quando queste affrontano forti difficoltà, estendendo la logica partecipativa dalle soluzioni collaborative alle soluzioni integrative. Ciò avviene perché a livello macroeconomico si possono attivare modi generalizzati di regolazione, mentre le esperienze partecipative nell'impresa costituiscono un metodo di regolamentazione non destinato a manifestarsi generalmente e cioè in misura consueta e costante.
Soffermandoci ora sul livello macro, osserviamo che l'impostazione collaborativa o concertativa inizia nei decenni di sviluppo economico continuato del dopoguerra (v. Bordogna e Provasi, 1984). Essa si impone negli anni settanta in concomitanza con la riduzione dello sviluppo e con le crisi recessive, per poi declinare nel decennio successivo. Le ragioni e le manifestazioni concertative, tuttavia, non vengono meno completamente. Esse divengono più difficili per i mutamenti intervenuti negli orientamenti degli attori coinvolti (principalmente gli imprenditori) e per la ristrettezza di risorse che i governi possono mettere a disposizione dei processi di scambio.
L'impostazione concertativa si ritrova in numerosi paesi europei. Le esperienze iniziali, in cui può prevalere, come nel caso dell'Austria, l'intento di rimediare a divisioni e tensioni sociali e culturali, sono realizzate in presenza di governi di coalizione (di partiti riformisti e di ispirazione confessionale). In seguito, tale scelta è motivata dalla necessità di gestire e di coordinare gli interessi rappresentati dalle parti sociali, da parte di governi socialdemocratici e/o attenti al consenso del lavoro organizzato, come nei casi della Germania e della Svezia. L'Italia produce, non senza forti contrasti politici, accordi concertativi negli anni ottanta e, con una maggiore convergenza degli attori coinvolti, anche nel 1992 e nel 1993.
Le caratteristiche essenziali degli accordi concertativi sono le seguenti: crescente politicizzazione degli interessi dei grandi gruppi organizzati e riduzione del grado di autonomia delle relazioni industriali, compensata dalla presenza diretta del sindacato nella sfera politico-istituzionale; cooperazione fra lo Stato e le rappresentanze dei lavoratori e degli imprenditori, mediante l'instaurazione di rapporti trilaterali, con modalità più o meno formalizzate; disponibilità da parte dello Stato a negoziare aspetti della politica economica e sociale con dette rappresentanze di fronte alla loro disponibilità a concordare la gestione centralizzata delle rivendicazioni (politica dei redditi) per obiettivi ed equilibri di ordine generale (contenimento dell'inflazione, sostegno alla competitività, riduzione del debito pubblico).
Tra gli altri aspetti dell'impostazione concertativa vanno sottolineati l'alto grado di riconoscimento delle organizzazioni sindacali al di là dell'ambito specifico delle relazioni industriali; la forte influenza su di esse di fattori esterni congiunta, però, al coinvolgimento attivo dei suoi attori 'naturali'; gli esiti tendenzialmente positivi degli orientamenti e degli impegni di tali attori; il superamento del conflitto come elemento endemico dei rapporti di lavoro. Per quest'ultimo aspetto, tuttavia, va precisato che il conflitto può ugualmente sussistere in una certa misura in ragione delle differenti tradizioni nazionali, del fatto che non tutte le materie di tali rapporti sono considerate dalle pratiche concertative, dei possibili contrasti nella determinazione e nell'applicazione di dette pratiche.
5. Situazioni e problemi recenti e attuali
A partire dalla fine degli anni settanta tutti i sistemi delle relazioni industriali subiscono profondi o significativi cambiamenti a seguito di processi ed eventi che hanno influenzato i modi di regolazione e di regolamentazione dei rapporti di lavoro, e sicuramente continueranno a influenzarli anche in futuro. Non si può, quindi, delineare un nuovo panorama delle relazioni industriali con consistenti aspetti di (sia pure relativa) stabilità.
Se ci limitiamo a considerare i paesi di capitalismo avanzato, osserviamo che i due modelli in essi dominanti, e cioè quello pluralista e quello collaborativo, hanno subito un processo di attenuazione e di revisione.
L'attenuazione e, a volte, il superamento degli istituti e delle pratiche pluraliste sono riconducibili all'esigenza di rivedere le rigidità normative nell'impiego del lavoro, di ridurre il grado di tutela e di garanzia, di contenere il costo del lavoro e, conseguentemente alla necessità di introdurre maggiori o nuove forme di flessibilità di tale impiego, di poter rendere più elastica la quota degli addetti, di attivare forme atipiche di rapporti di lavoro (come il part time).
Per quanto riguarda il modello collaborativo, abbiamo già accennato alla minore frequenza e alle maggiori difficoltà degli accordi di concertazione a livello macro. Tale modello, però, ha trovato crescente (ma mai generalizzata) applicazione attraverso la soluzione della partecipazione integrativa. Questa viene normalmente sostenuta da attori del mondo imprenditoriale soprattutto per incentivare nei dipendenti un maggiore impegno nello svolgimento delle loro mansioni e per pervenire a rapporti di collaborazione e di fiducia fra dipendenti e management. A ciò si aggiunge la preoccupazione manageriale di innovare e raffinare la gestione delle risorse umane e di determinare, meglio che in passato, l'impronta delle relazioni industriali e l'impatto con le domande sindacali (v. Crozier, 1989).
La partecipazione integrativa può manifestarsi in due modi principali: attraverso le forme della partecipazione economica (alle quali abbiamo accennato a proposito dei metodi delle relazioni industriali) e attraverso i programmi della 'qualità totale'. Questi ultimi presuppongono una comunanza di motivazioni di tutti gli attori che operano nell'impresa e non prevedono vantaggi economici dichiarati per i lavoratori, ai quali si chiede di identificarsi con l'organizzazione dell'impresa e di dare il loro concreto consenso per il raggiungimento dei suoi obiettivi: prodotti senza difetti e ottenuti con elevata produttività, progressiva riduzione dei costi di produzione, piena soddisfazione delle articolate e mutevoli esigenze dei clienti.
Sebbene a volte la partecipazione integrativa non preveda negoziati con le rappresentanze collettive dei lavoratori, spesso viene attuata con accordi contrattuali e strumenti che li facilitano (come i diritti di informazione e di consultazione).
Complessivamente nel periodo considerato il tentativo di riequilibrare il lavoro organizzato e le sue controparti che aveva caratterizzato i decenni del dopoguerra, si conclude a favore del primo. La tutela del lavoro non viene meno; il declino del sindacato (ipotizzato all'inizio degli anni ottanta) non è avvenuto e, certamente, non nella misura da taluni prevista; non vi è stato un generalizzato o prevalente attacco del mondo imprenditoriale alla logica e agli attori sindacali, ma si è interrotto il processo di conquiste e acquisizioni cumulative di tali decenni e sono state introdotte molteplici revisioni del precedente trattamento del lavoro dipendente.
I fattori che spiegano tali cambiamenti sono numerosi e diversi sebbene strettamente interrelati. Certamente hanno avuto un peso sensibile i fattori politici, non solo per la diffusione di equilibri politici moderati o conservatori (si pensi agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna), ma anche per le comuni necessità di contenere l'inflazione, di ridurre la dinamica della spesa pubblica (specie la spesa sociale), di favorire la competitività della produzione nazionale.Anche le situazioni del mercato del lavoro hanno avuto e sono destinate ad avere un peso rilevante. Ricordiamo la disoccupazione (che costituisce un deterrente alle domande rivendicative degli occupati nel medio-lungo periodo); la riduzione del lavoro operaio e della dimensione della popolazione delle grandi imprese; la frammentazione e la moltiplicazione delle figure professionali (che rendono più problematica la funzione di rappresentanza del sindacato), sovente congiunte alla decentralizzazione delle relazioni industriali nei settori privati e alla spiccata mobilità della forza lavoro occupata.
I fattori direttamente economici sono quelli che hanno una influenza dominante. Le relazioni industriali, più del passato, sono soggette ai vincoli di compatibilità con le condizioni dell'economia e, meno del passato, possono essere determinate dalle situazioni politiche e organizzative (come la forza contrattuale del sindacato). Il processo di 'globalizzazione' dell'economia, l'accentuazione della competitività dei mercati, la concorrenza esercitata da paesi di recente industrializzazione, la necessità di innovazione tecnologica e organizzativa delle imprese costituiscono le principali sfide agli assetti tradizionali delle relazioni industriali e pongono problemi convergenti ai sistemi di tali relazioni - in primis, il contenimento del costo del lavoro.
Il processo di 'globalizzazione' e le altre tendenze, pur imponendosi (specie per i settori produttivi nevralgici), consentono, però, la sussistenza di non pochi caratteri peculiari delle economie nazionali o regionali.
Bisogna anche sottolineare che gli effetti di tale sfida non appaiono omogenei (e di pari portata) sugli stessi sistemi di relazioni industriali. I cambiamenti rispetto alle conquiste e alle acquisizioni del lavoro sono risultati minori che altrove nei paesi con sindacati forti (come in Germania) e/o nei paesi con la presenza sindacale nella sfera politico-istituzionale (come in Svezia e in Italia).
All'interno dei singoli sistemi di relazioni industriali, inoltre, si è accresciuta la possibilità di situazioni di 'dualismo' nelle condizioni di impiego del lavoro: sia il dualismo 'classico' fra lavoratori tutelati (pubblico impiego) e non tutelati (industria e servizi) per il mantenimento dell'occupazione, sia altri e più nuovi dualismi - osservanza o meno delle disposizioni contrattuali e legislative di tutela, imprese coinvolte o meno in esperienze di partecipazione (v. Goldthorpe, 1984).
Pur con una consistente convergenza oggettiva di problemi e di vincoli, i singoli sistemi presentano notevoli differenze di impostazione e di funzionamento. Queste differenze possono essere rappresentate in modo schematico distinguendo quattro situazioni.
1. La situazione dell'Europa. - Il lavoro organizzato, anche qui con difficoltà di rappresentanza, continua a essere normalmente riconosciuto, mediante una diffusa tutela contrattuale, integrata da provvedimenti legislativi. Le pratiche pluralistiche hanno mostrato notevoli capacità di adattamento alle esigenze dell'economia; non mancano la continuità o nuovi tentativi di accordi concertativi; restano attivate le forme precedenti della partecipazione collaborativa (Germania), cui si sono aggiunte le forme della partecipazione integrativa (specie in Francia e in Gran Bretagna).
2. La situazione degli Stati Uniti. - Si osserva qui una pesante revisione della cultura e degli istituti pluralisti e una crescita dei rapporti di lavoro 'deregolati', una forte mobilità occupazionale e molteplici forme atipiche di occupazione (v. Albert, 1991). I sindacati, che non avevano mai conseguito un riconoscimento generalizzato come in Europa, hanno pagato costi elevati di rappresentanza e di potere negoziale e spesso sono assenti anche nelle diffuse esperienze di partecipazione integrativa. Sono, invece, presenti in ampi settori dell'impiego pubblico e in specifiche imprese industriali (specie di grandi dimensioni).
3. La situazione del Giappone. - Le relazioni industriali di questo importante polo capitalistico sono divenute ormai il punto di riferimento (nelle due precedenti situazioni) per molti sostenitori di rapporti di lavoro armoniosi e senza conflitti. A prescindere da ogni idealizzazione, tali rapporti, anche utilizzando strumenti pluralisti (contrattazione collettiva), sono contrassegnati da uno spirito e da istituti profondamente partecipativi e sono regolati soprattutto a livello aziendale. Lavoratori e sindacati manifestano lealtà, fiducia e alto impegno verso l'impresa, cui corrispondono diffuse e consistenti forme di partecipazione economica e tradizioni con significative implicazioni integrative (come l'impiego a vita nella stessa impresa) (v. Dore, 1987).
4. Le situazioni dei paesi di recente industrializzazione. - Ci riferiamo, in particolare, al Sudest asiatico e all'America Latina. In tali paesi ritroviamo un livello molto basso di regolamentazione e un ampio grado di violazione delle disposizioni legislative a tutela del lavoro. Le condizioni di lavoro sono normalmente pesanti per l'aspetto retributivo e per quello normativo. Il sindacato non viene riconosciuto, anzi lotta per la sua sopravvivenza, incontrando molteplici ostacoli specie nell'utilizzo della protesta e del conflitto. Queste situazioni, con uno stadio dello sviluppo capitalistico profondamente diverso, presentano realtà e problemi che richiamano quelli iniziali del modello contestativo.
Concludendo con un riferimento specifico al nostro paese, possiamo dire che esso ha un posto di rilievo nel panorama europeo dei sistemi di relazioni industriali. Questo rilievo inizia nel decennio settanta in connessione con il ciclo di lotte di quel periodo, con l'impegno sindacale nella sfera delle politiche economiche e sociali (principalmente nell'espansione degli istituti assistenziali e previdenziali), con l'emanazione della legge detta Statuto dei lavoratori (1970), il cui primo obiettivo è stato quello di istituzionalizzare la presenza delle organizzazioni sindacali più rappresentative all'interno dell'impresa (v. Romagnoli e Treu, 1977).
Attualmente il nostro sistema di relazioni industriali, specie nei settori privati, mostra notevoli capacità innovative e adattive, conservando, nel contempo, un grado relativamente elevato di legittimazione del lavoro organizzato.Le organizzazioni confederali - CGIL, CISL e UIL -, anche se subiscono la concorrenza di sindacati di categoria e di 'mestiere' in settori pubblici e dei servizi, conservano piena cittadinanza presso gli attori politico-istituzionali e presso la controparte imprenditoriale. Il nostro sistema di relazioni industriali continua a produrre trattative e accordi concertativi, ha mantenuto una struttura contrattuale articolata (con la definizione di funzioni distinte fra livello nazionale e livello aziendale), ha introdotto pratiche di partecipazione economica col metodo negoziale (specie nelle imprese di maggiori dimensioni) e sperimentato istituti congiunti (per i diritti di informazione e di consultazione), ha iniziato una riforma del pubblico impiego che dovrebbe portare un graduale avvicinamento del trattamento del lavoro a quello dei settori privati (come incentivi e mobilità).
Anche la conflittualità dimostra, da almeno un decennio, un andamento più contenuto, seppure con iniziative ricorrenti e frammentate nei settori dei trasporti. Tale andamento può essere verificato con l'indicatore delle giornate perse (in migliaia) per scioperi originati dal rapporto di lavoro: 25.912 nel 1975, 10.745 nel 1980, 1.577 nel 1985, 1.653 nel 1991.
Tuttavia, rispetto alle esigenze di competitività delle imprese, altri elementi e istituti di flessibilità vanno introdotti, oltre quelli già in atto, nell'impiego del lavoro; rispetto ai compiti della pubblica amministrazione e alla riduzione della spesa pubblica, vanno conseguiti livelli di efficienza e di efficacia maggiori di quelli finora ottenuti.Sul sistema di relazioni industriali e sugli stessi equilibri sociali del paese si sente il peso del dualismo fra lavoratori occupati e non (soprattutto nelle regioni del Sud) e di un potenziale conflitto intergenerazionale fra il volume e le capacità di pressione dei pensionati e il carico previdenziale che dovranno sopportare le nuove leve di lavoratori, leve particolarmente modeste per il ridotto tasso di natalità. (V. anche Corporativismo/corporatismo; Economia e politica del lavoro; Industria; Lavoro; Operai; Rappresentanza; Sciopero e serrata; Sindacato).
bibliografia
AA.VV., La contesa industriale, Roma 1980.
Albert, M., Capitalisme contre capitalisme, Paris 1991 (tr. it.: Capitalismo contro capitalismo, Bologna 1993).
Baglioni, G. (a cura di), Le relazioni industriali in Italia e in Europa negli anni '80, Roma 1989.
Baglioni, G., Democrazia impossibile? Il cammino e i problemi della partecipazione nell'impresa, Bologna 1995.
Bean, R., Comparative industrial relations. An introduction to crossnational perspectives, London 1985.
Bendix, R., Work and authority in industry, New York 1956 (tr. it.: Lavoro e autorità nell'industria, Milano 1973).
Bordogna, L., Provasi, G., Politica, economia e rappresentanza degli interessi, Bologna 1984.
Cella, G.P. (a cura di), Il movimento degli scioperi nel XX secolo, Bologna 1979.
Cella, G.P., Treu, T., Relazioni industriali, in "Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali", 1986, VIII, 31, pp. 475-521.
Clegg, H.A., Trade unionism under collective bargaining. A theory based on comparisons of six countries, Oxford 1976 (tr. it.: Sindacato e contrattazione collettiva, Milano 1980).
Crouch, C., Industrial relations and European State traditions, Oxford 1993.
Crozier, M., L'entreprise à l'écoute, Paris 1989 (tr. it.: L'impresa in ascolto, Milano 1990).
Dahrendorf, R., Soziale Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft, Stuttgart 1957 (tr. it.: Classi e conflitto di classe nella società industriale, Bari 1963).
Dore, R., Taking Japan seriously. A Confucian perspective on leading economic issues, Stanford, Cal., 1987 (tr. it.: Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi, Bologna 1990).
Dunlop, J.T., Industrial relations systems, New York 1958.
Durkheim, É., De la division du travail social, Paris 1893 (tr. it.: La divisione del lavoro sociale, Milano 1962).
Goldthorpe, J. (a cura di), Order and conflict in contemporary capitalism, Oxford 1984 (tr. it.: Ordine e conflitto nel capitalismo moderno, Bologna 1989).
Kerr, C., Dunlop, J.T., Harbison, F.H., Myers, C.A., Industrialism and industrial man, London 1962 (tr. it.: L'industrialismo e l'uomo dell'industria, Milano 1969).
La Valle, D., Sulla teoria nelle relazioni industriali, in "Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali", 1984, VI, 23, pp. 553-570.
Marsh, A., Concise encyclopedia of industrial relations, Portsmouth 1979.
Pizzorno, A., I soggetti del pluralismo: classi, partiti, sindacati, Bologna 1980.
Romagnoli, U., Treu, T., I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Bologna 1977.
Ross, A.M., Hartman, P.T., Changing patterns of industrial conflict, New York 1960.
Sapelli, G., Il sindacalismo fascista, in AA.VV., Storia del sindacalismo, Padova 1982.
Shalev, M., Industrial relations theory and the comparative study of industrial relations and industrial conflict, in "British journal of industrial relations", 1980, XVII, 1, pp. 26-40.
Shalev, M., Theoretical dilemmas and value analysis in comparative industrial relations, in Management under differing value systems (a cura di G. Dlugos e K. Weiermair), New York 1981.
Shorter, E., Tilly, C., Strikes in France 1830-1968, London 1974.
Streeck, W., La dimensione sociale del mercato unico europeo: verso un'economia non regolata?, in "Stato e mercato", 1990, n. 28, pp. 29-68.
Tarantelli, E., Economia politica del lavoro, Torino 1986.
Visser, J., Mutamenti sociali ed organizzativi del sindacato nelle democrazie avanzate, in "Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali", 1994, XVI, 62, pp. 289-324.
Webb, S., Webb, B., Industrial democracy, 2 voll., London 1897 (tr. it.: La democrazia industriale, Torino 1912).