RELIGIONE
Concetto cattolico. - Il concetto cattolico di "religione", raccoglie in sintesi, integra e chiarisce gli elementi di verità che si possano trovare sparsamente confusi anche nei concetti pagani o eterodossi. Così da Lattanzio, Arnobio, Girolamo, Agostino, per tutta la serie dei Padri latini e orientali - anche sotto termini e denominazioni diverse e varie etimologie non sempre accertate, come quella di religio da relegendo o da religando - fino a S. Tommaso con le parole religio proprie importat ordinem ad Deum (Summa theol., II, 2ae, q. 81, a. l.), esso denota, cioè, "il complesso delle relazioni che ordinano l'uomo a Dio", come a suo principio e ultimo fine. E poiché l'uomo si riferisce o congiunge a Dio mediante l'intelligenza e la volontà, come alla fonte del vero e del bene a cui l'una e l'altra è ordinata quale sua perfezione e beatitudine, praticamente la religione va concepita come "la maniera di conoscere e di onorare Iddio, secondo la nota frase di S. Agostino, cum de religione... id est de colendo atque intelligendo Deo agitur (De utilitate credendi, XII, 27). Di più un tale "modo di cognizione e di onore" o culto divino si può considerare oggettivamente, e dà il concetto della religione in sé, cioè nei suoi dogmi, nei suoi precetti e nel suo culto; ovvero soggettivamente, e dà il concetto della religione in quanto è abbracciata dalla creatura ragionevole, secondo queste medesime parti onde "si conosce e si onora debitamente Iddio", ed è atto o abito virtuoso.
Questo concetto importa, dunque, quanto alla cognizione, un ordine o complesso di verità, teoriche e pratiche, ordinate a riferire o congiungere l'uomo con Dio, e quanto al culto una serie di atti interni ed esterni destinati ad esprimere e attuare questa relazione stessa o unione dell'anima con Dio. Quindi il terrmine di religione si applica, secondo il riguardo oggettivo o soggettivo, ora al sistema delle verità che hanno ordine a Dio, ora al complesso degli atti di adesione, sia intellettuale sia pratica, alle verità stesse e al complesso degli atti che a Dio prestano riverenza e onore e costituiscono il culto propriamente detto: due concetti e significati più frequenti, che toccano l'uno la verità, l'altro la pratica della religione.
All'uno e all'altro può l'uomo giungere per sé col semplice lume della ragione, in quanto non superano le possibilità o forze della natura: e si ha così la "religione naturale" secondo cui saranno giudicati, come dice S. Paolo, quelli che non hanno conosciuto la legge positiva (Romani, II, 12); ma, secondo il concetto cristiano, nella presente economia della provvidenza e perciò storicamente parlando, la religione naturale non basta, mentre alla rivelazione naturale o manifestazione della ragione si aggiunge la rivelazione positiva e soprannaturale, non opposta, ma superiore alla prima, trascendendo ogni debito o esigenza di natura creata o creabile (v. rivelazione). Da essa trae origine la religione positiva e soprannaturale, sia quella dell'antica legge o Antico Testamento, sia quella della legge evangelica o Nuovo Testamento, la quale perfezionò l'antica e racchiudendo la pienezza o depositum integro della rivelazione fatta al genere umano, rivendica a sé la proprietà di unica religione vera.
Questa religione, infine, rivestendo per divina istituzione una forma sociale, come si attuò prima nella sinagoga del popolo d'Israele, così ora si attua nella Chiesa cattolica, quale custode e depositaria della rivelazione.
Avendo poi il culto divino una specialissima ragione di debito da parte della creatura, il renderlo a Dio volontariamente riesce conforme alla esigenza della giustizia, o alla stretta convenienza dell'ordine; ha quindi ragione di bene, e perciò di perfezione, o di "virtù". Di qui segue pure il concetto proprio di religione in quanto è una virtù morale, annessa alla giustizia, e designa "l'abito morale di porgere a Dio il culto e l'onore che gli è dovuto". Ed essa è tra le morali una virtù speciale, perché affatto propria è la ragione che riguarda nel prestare questo culto, cioè l'eccellenza divina, la quale trascende le cose tutte in infinito e secondo ogni specie di eccedenza nella perfezione. È anzi per ciò stesso la precipua tra le virtù morali, come quella che più delle altre si approssima a Dio, operando ciò che direttamente e immediatamente va ordinato all'onore divino, come spiega S. Tommaso (Summa theol I, 2ae, q. 81, a. 4). Il suo oggetto è il culto stesso prestato a Dio: gli atti, cioè, con cui Iddio viene onorato, e che sono compiuti col fine di onorarlo: altri interni, altri esterni; quelli principali, questi secondarî, come segni o manifestazioni di quelli interni e ordinati ad essi, perché dai segni esterni e sensibili l'anima è eccitata e condotta agli atti dello spirito, essendo, come dice il Concilio di Trento (Sess. 22, c. 5), la natura dell'uomo così fatta che "difficilmente si solleva alla meditazione delle cose divine, senza gli amminicoli dell'esterno".
Dagli atti interni più che dagli esterni si desumono quindi le denominazioni attribuite a persone o a determinati ceti di persone, o a stati di vita che hanno obbligo e titolo speciale di "religione", perché professano una particolare adesione o consacrazione al culto e all'onore di Dio, mediante vincoli speciali. Così quelli specialmente che si obbligano all'osservanza, non dei precetti solo, ma anche dei consigli evangelici, mediante i "voti religiosi" (ordini, famiglie, congregazioni religiose).
Da questo concetto cattolico segue che la religione vera non può essere se non una; e perciò quelle che sono false non si possono chiamare religioni, né molto meno dire buone, o egualmente conducenti alla salvezza dell'anima, sebbene si debba anche ritenere, conforme alla precisa dichiarazione di Pio IX (allocuzione del 9 dicembre 1854), che "quanti si trovano nell'ignoranza della vera religione, ove l'ignoranza sia invincibile, non ne saranno colpevoli innanzi a Dio" (pro certo pariter habendum est qui verae religionis ignorantia laborent, si ea sit invincibilis, nulla ipsos obstringi huiusce rei culpa ante oculos Domini). Resta dunque l'obbligo evidente di formarsi un giusto concetto della religione vera e aderirvi, conforme al dettame della retta ragione, escludendo ciò che ad essa ripugna, come il ridurre la religione a un cieco istinto o a una vaga sentimentalità o ad una pretesa "esperienza" mistica, senza ordine a Dio, ovvero derivarla esclusivamente dalla sua funzione e influenza sociale (teoria sociologica) o dal mero lavorio interno della coscienza individuale (teoria psicologica) secondo varie ipotesi o denominazioni, dell'animismo, per es., della subcoscienza, dell'immanenza o simili, fino a quella del modernismo, sedicente cattolico, descritta e condannata esplicitamente dall'enciclica Pascendi (8 settembre 1907), siccome contraria del tutto e alla schietta filosofia e alla teologia cattolica.
Bibl.: Per le fonti o definizioni dottrinali, cfr. Denzinger-Bannwart, Enchiridion symbolorum, definitionum, ecc., Friburgo in B. 1928, specialmente nn. 1646 segg., 2074 segg. Per la bibliografia, oltre gli autori citati sopra, v.: Fr. Suarez, De virtute et statu religionis libri X (tomi XII-XV, Venezia 1742), particolarmente libro I, c. 1-2; C. Mazzella, De religione et ecclesia, Roma 1883; J. Van den Gheyn, La religion, son origine et sa definition, Parigi 1891; J. C. Brussolle, La religion et les religions, ivi 1909; A. Capecelatro, La nostra religione, Roma 1910; G. Bonomelli, Religione sì, Chiesa no, ivi 1912; G. Faraoni, La religione di Gesù Cristo, Firenze 1934.
Filosofia. - Il concetto che è a fondamento di tutte le religioni, e da cui derivano tutte le determinazioni della fede e le forme del culto, è il concetto della relazione dell'uomo con Dio: concetto più o meno chiaro in tutti i gradi della coscienza religiosa e corrispondente a uno di quegli atteggiamenti essenziali dello spirito umano, che sono le categorie con le quali l'uomo pensa, procurando di rendersi conto della realtà e operando in conseguenza del modo in cui riesce a pensare. Questo concetto si attua, com'è ovvio, in due forme correlative e complementari che sono come i due aspetti d'uno stesso concetto: il concetto dell'uomo e il concetto di Dio. È evidente infatti che il concetto dell'uomo che è alla base della coscienza religiosa è determinato in guisa da comprendere il concetto di Dio. È, per es., definito come il concetto di un essere finito o imperfetto: concetto che non avrebbe nessun significato se chi lo concepisce non pensasse insieme in qualche modo e quasi non presentisse un essere esente da siffatti caratteri negativi, e cioè infinito o perfetto. Viceversa, il Dio di ogni religione essendo il Dio di cui l'uomo ha bisogno per rendersi ragione di sé medesimo, non viene abbracciato dal pensiero se non come la ragione della stessa esistenza dell'uomo; per es., come quell'infinito che è la negazione dell'umana finitezza, e quel perfetto in cui rientra quanto di positivo l'uomo trova nella propria essenza.
Così è che la filosofia ogni volta che ha razionalmente indagato i motivi della credenza religiosa dello spirito umano e cercato di assicurarsi logicamente dei fondamenti della fede, si è potuta trovare innanzi a due vie che paiono opposte, ma appunto perciò coincidono: e ha proceduto a posteriori dal finito all'infinito, e cioè dall'uomo a Dio; o ha proceduto a priori, dall'infinito al finito e da Dio all'uomo. Grandi polemiche tra i sostenitori degli argomenti a posteriori e i sostenitori degli argomenti a priori; polemiche interminabili poiché infatti il cammino degli uni è proprio l'inverso del cammino degli altri. Ma in realtà il finito da cui si può dedurre l'infinito è il finito il cui concetto fa tutt'uno con quello del suo opposto; e viceversa. E le opposte ragioni della polemica scaturiscono dalla effettiva inscindibilità dei due termini, bensì distinti ma connessi in modo da non potersi pensare l'uno se non in funzione dell'altro.
Questa necessità assoluta della relazione tra i due concetti dell'uomo e di Dio è la sorgente dell'universalità e indefettibilità della religione, per cui non c'è popolo né individuo che sia privo al tutto di ogni concetto del divino e di ogni sentimento che a tal concetto si riferisca.
Ma questa necessità non si può scorgere da chi si limiti a considerare in astratto o esteriormente il concetto dell'uomo. Questo è il difetto del materialista e in generale del naturalista; e qui è l'origine delle difficoltà che egli incontra poi nel concepire Dio e spiegarsi l'attitudine religiosa dello spirito umano. Questo pure il motivo originario del sospetto comune ai mistici verso le dimostrazioni e costruzioni razionali e filosofiche del contenuto della fede religiosa. L'uomo che non si può concepire senza concepire Dio, non è l'uomo visto dal di fuori come uno degl'infiniti oggetti del pensiero, definito e classificato nelle sue relazioni con tutti gli altri; è invece l'uomo che attua l'esperienza della sua umanità realizzando nella vita spirituale quella coscienza di sé ond'egli in fatti si distingue dalle cose. Il suo distinguersi è nel suo stesso essere o realizzarsi come uomo: e il concetto di cui si tratta, non è pertanto nulla di diverso dall'essere dell'uomo. Il quale è uomo acquistando una coscienza sempre più profonda di sé stesso, e in questa coscienza il concetto di quel che egli propriamente, in concreto, è.
Per acquistar coscienza di sé pensa; e pensando si trova ad essere soggetto di un pensiero che è pensiero di qualche cosa. Egli e l'oggetto: due termini opposti, irrisolubili l'uno di fronte all'altro, reciprocamente escludentisi: l'essere dell'uno, non essere dell'altro. L'uomo perciò, per acquistar coscienza di sé, si trova davanti a quella che, pensata da lui e non potuta non pensare, è la Realtà: davanti a una realtà che, almeno da principio, non può non rappresentarglisi come tutto; e lui perciò nulla. Nulla, perché codesta realtà equivale al suo non essere. È il momento dell'oggettività della coscienza di sé (autocoscienza): momento eterno dello spirito umano, perché costitutivo della sua natura, essenziale all'ideale processo del suo realizzarsi.
In questo momento dell'oggettività dello spirito umano è la sorgente della religione. Momento mistico, ch'è unità immediata dell'uomo con Dio in quanto l'uomo è il soggetto della sua vita spirituale, e Dio, come realtà assoluta e infinita, ne è l'oggetto Unità, evidentemente, non pensata, ma realizzata; e non realizzabile se non in quanto il soggetto s'immedesima o, come i mistici dicono, s'immerge, si dissolve e si annulla nell'oggetto, che è tutto.
Da questa sorgente originaria della vita religiosa scaturisce ogni carattere del domma, che la teologia in ogni caso presuppone, come qualche cosa d'immediato (rivelato) che il pensiero trova innanzi a sé, e su cui può riflettere, ma che non può presumere di creare (teologia negativa o positiva, comunque incapace di costituire liberamente la sua verità); poiché, posto che l'oggetto è tutto, nulla può esserci che abbia un valore positivo qualsiasi e non provenga da esso; e scaturisce del pari ogni forma di culto, che non può concorrere al raggiungimento dei fini della vita umana se non rivolgendosi a una volontà da propiziare come principio d'ogni bene di cui l'uomo possa aver bisogno, nulla egli potendo, anzi nulla egli essendo. Le forme stesse dei riti religiosi, che paiono accennare piuttosto alla fede umana nella potenza dell'umano volere (magia), attingono il loro significato religioso dal loro mistico presupposto che l'energia di cui l'uomo dispone non può essere se non quella comunicatagli dalla stessa divinità.
Duplice l'aspetto del sentimento religioso: un aspetto negativo rispetto al soggetto, onde l'uomo si umilia e nega perciò la possibilità di risolvere con le proprie forze il problema del sapere e della vita; e un aspetto positivo rispetto all'oggetto, a cui l'uomo si appoggia, in cui ha fede, e da cui confida pertanto di essere fatto partecipe di una forza superiore, affatto sovrumana, e perciò capace di svelargli il mistero della vita e di scorgerlo e abilitarlo alla sua salvazione. Ma l'aspetto negativo è non meno essenziale del positivo, anzi è fondamentale rispetto al secondo, poiché il principio della fede, e quasi la porta per cui il senso del divino entra nel cuore dell'uomo e se ne impossessa, è quel radicale sospetto tremendo che s'affaccia all'uomo consapevole dei limiti e della debolezza della propria natura di fronte alla natura misteriosa e possente che lo fronteggia dapprima e lo atterra, e lo suscita dal nulla per annullarlo, avvolgendolo e trascinandolo via nella vita e nella morte, vittima del dolore e della tenebra. Perciò v'ha forme religiose (come il buddhismo) che paiono racchiuse nella sola forma negativa di questo atteggiamento religioso; per le quali la soluzione del problema della vita diresti si chieda alla stessa negazione della soggettività (delle sue tendenze che lo portano a desiderare e ad agire, e perfino della sua stessa coscienza), all'ascesi, alla rinunzia, onde l'uomo rientrerebbe in sé medesimo per toccare di là dalla coscienza il fondo del suo niente; quantunque non sia difficile avvertire il carattere trascendente e però oggettivo di questo niente, in cui è la fine del dolore perché esso dall'uomo si raggiunge superando i limiti della propria immediata, naturale soggettività: Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; et si animam mutabilem inveneris, transcende te ipsum (S. Agostino, De v. rel., 39, 72). La semplice negazione non basta alla vita religiosa; ma non c'è vita religiosa che non cominci negando, mortificando, flagellando la persona dell'uomo che si sente al cospetto della divinità, per quindi passare ad esaltarsi nell'amore di questa. Amore che tende ad essere una partecipazione della sua infinita potenza.
Infinite le gradazioni delle forme religiose, tra negative e positive. Ma non c'è, né è possibile, una forma tutta negativa, né una forma tutta positiva. E l'elemento positivo essenziale alla religiosità porta lo spirito umano a elaborare progressivamente il concetto dell'essere trascendente verso di cui egli si orienta con tutti i bisogni teorici e pratici ond'è mosso a pensare e a dirigere la propria vita. Elaborazione che storicamente si manifesta come una spiritualizzazione sempre maggiore (sempre più logica) del trascendente. Il quale è già persona, a cui l'uomo possa rivolgere le sue preghiere propiziatrici, anche quando si presenti sotto forme materialisticamente naturali; ma nelle religioni più perfette rispecchia la coscienza sempre più profonda che lo spirito viene acquistando della propria libertà. Dio è sempre concepito, più o meno coerentemente, come persona, perché persona è e resta sempre l'uomo che cotesto essere trascendente si rappresenta come infinito, e non può quindi negargli quello che di più positivo egli trova in sé medesimo senza spogliarlo della infinità che gli attribuisce intanto come essenziale. Dio non può essere da meno dell'uomo.
E un altro principio è immanente, ancorché non sempre esplicitamente sviluppato e consapevolmente affermato, nel pensiero religioso: quello dell'immortalità dell'anima, ossia del soggetto che si mette in rapporto con Dio. Giacché, se per un verso il sentimento religioso è la negazione dell'essere del Soggetto, per l'altro questo sentimento, nel suo atteggiamento positivo, riportando l'uomo a Dio e risolvendo il soggetto nell'oggetto assoluto, non può più vedere il primo se non nel secondo: partecipe di quella vita divina che è propria di questo, infinita, e quindi immortale.
La necessità e l'universalità della religione sono la più efficace convalidazione del suo valore, e cioè della sua verità. Dio esiste, ed è persona, e l'anima è immortale perché tutto ciò ha lo stesso significato di quel concetto dello spirito che non è un'astratta definizione speculativa, la quale sia da dimostrare, ma è la stessa realtà, come s'è notato sopra, della vita spirituale. La quale si attua attraverso questa negazione di sé e posizione del Tutto, il cui crollo sarebbe il crollo (impossibile) dello stesso atto onde si costituisce la vita dello spirito. La riflessione, in cui si suol far consistere la filosofia, può non riuscire a rendersi conto di questa fede presente a quella stessa attività del pensiero con cui si riflette; ma Dio è lì, presente e operante, anche se ignoto. E prima o poi si svela.
La religione, presa ad oggetto di problema filosofico, dà origine a quella che si dice "filosofia della religione", e che si distingue nettamente dalla scienza designata invece col nome di "storia delle religioni". Filosofia della religione anche se non sempre designata con tale termine specifico, è ogni teoria che si proponga di determinare l'essenza della religione nel suo aspetto universale e necessario, prescindendo dalle sue manifestazioni contingenti, o meglio stando di fronte a queste manifestazioni nello stesso rapporto in cui per, es., la teoria filosofica dell'estetica sta alla conoscenza delle singole opere d'arte. Ma per ciò stesso s'intende che, al pari della filosofia dell'arte, anche la filosofia della religione, pur non essendo propriamente condizionata, per la sua trascendentalità, dall'esperienza particolare dei fenomeni religiosi, appare tuttavia strettamente collegata ad essa, sia in quanto fornisce i criterî di giudizio per quello stesso esame empirico, sia in quanto appare a sua volta influenzata, nelle proprie caratteristiche, dal medesimo clima storico in cui risulta inquadrata anche la contemporanea fenomenologia religiosa.
Perché si possa parlare di una filosofia della religione è quindi necessario presupporre l'esistenza di una filosofia dello spirito che comunque concependo e inquadrando in sistema le facoltà dello spirito stesso, consideri l'attività religiosa come una di esse. Non esiste quindi propriamente filosofia della religione per tutto il periodo della storia del pensiero in cui religione e filosofia appaiono non subordinate l'una all'altra ma concorrenti, e cioè non legate da un rapporto per cui la prima venga definita e circoscritta nei suoi limiti dalla seconda, ma concernenti alla pari le stesse supreme verità e realtà. Così, quando, per es., Senofane critica l'antropomorfismo della religione tradizionale, non costruisce già una filosofia della religione, ma solo sostituisce quella religione che egli ritiene adeguata, e che perciò si fonde con la filosofia, alla concezione comune della divinità, per le sue deficienze indegna della qualifica stessa di religione. Parimenti, non altro che eliminazione della religione in cospetto di una scienza ritenuta capace di tenerne senz'altro il posto è quell'atteggiamento teoretico per cui molti rappresentanti dell'ultimo naturalismo presocratico e della sofistica ricevono dalla tradizione il nome di "atei". E quando invece Platone, integrando anche dal punto di vista religioso la reazione allo spirito meramente negativo e illuministico di tale movimento già compiuta da Socrate sul piano morale e politico, trasferisce nel seno della filosofia i motivi mistici e religiosi dell'orfismo e del pitagorismo, non fa che realizzare in una più alta sfera speculativa le sue aspirazioni religiose. Lo stesso si può dire di Aristotele, almeno nella sua fase giovanile (e l'empirismo e il naturalismo verso i quali egli va poi sempre più inclinando provocano d'altronde piuttosto un allontanamento del suo spirito dall'esperienza religiosa che un ripensamento e una definizione particolare di tale esperienza), così come di tutte le altre grandi concezioni filosofiche ellenistiche, dallo stoicismo al neoplatonismo. Anche le interpretazioni allegorizzanti della mitologia e della teologia, che in questa età si vengono moltiplicando, rientrano in questo quadro generale, caratterizzato dalla sostanziale identità di dominio di una filosofia che sente sé come religione con una religione che assume l'assolutezza e universalità della filosofia.
Non si può dire, peraltro, che anche nell'età classica manchino del tutto accenni a una filosofia della religione in senso vero e proprio. Quando, nell'età sofistica, Crizia vede nelle credenze religiose il prodotto dell'accorgimento di antichi uomini politici, che le escogitarono per imporre così ai sudditi il sacro timor delle leggi, egli elabora già, in certo modo, una teoria dell'atteggiamento mentale che conduce alla fede religiosa. Lo stesso sì può dire del cirenaico Evemero, che considera l'idea dell'esistenza della divinità come prodotta dall'originaria ammirazione verso antichi eroi, per la singolare loro capacità e potenza trasfigurati in aspetti soprannaturali; e, ancora meglio, di Epicuro, il quale, pur non negando l'esistenza della divinità e mirando anzi a concepirla in quell'atteggiamento di completa autosufficienza e conseguente indifferenza per ogni evento mondano che per lui costituisce insieme l'ideale della felicità umana, combatte le comuni credenze religiose facendole risalire a opinioni fallaci (ὑπολήψεις ψευδεῖς), del genere di quelle che occorrono nei sogni, e all'esigenza di spiegare con fantasie mitologiche le ignote cause dell'accadere. È questa filosofia epicurea della religione, a noi soprattutto manifesta attraverso l'entusiastico riecheggiamento di Lucrezio, quella che principalmente spiega l'energico atteggiamento antireligioso che l'epicureismo assume in quanto si propone di restituire gli uomini nella loro piena dignità e libertà affrancandoli da quel timor, che primus in orbe Deos fecit.
S'intende con ciò come di vera e propria filosofia della religione, nel senso che si è cercato di definire, si possa ricominciare a parlare nell'età moderna solo quando in essa torna a farsi valere quel freddo empirismo che della filosofia epicurea costituiva comunque il primo fondamento. È evidente, infatti, che filosofia della religione non s'incontra propriamente - per lo meno quando, come nel presente cenno, occorra attenersi all'essenziale e trascurare le manifestazioni secondarie e saltuarie - non solo nel Medioevo, ma neppure nelle età del naturalismo umanistico-cinquecentesco e del razionalismo cartesiano: ché in tutti i sistemi filosofici di questo lungo periodo storico, comunque venga in essi subordinata o identificata la verità filosofica alla verità religiosa, quest'ultima non è mai considerata come prodotto di un particolare atteggiamento dello spirito umano, che la filosofia definisca e circoscriva nei suoi limiti. Anche quando, come nella dottrina averroistica della duplice verità, la rivelazione religiosa accolta per fede viene respinta ai margini di quella scienza razionale che soprattutto si mira a elaborare, ciò può accadere solo in quanto la verità religiosa non è già delimitata e quindi dominata dalla verità filosofica che le si contrappone, ma anzi proprio in quanto indefinitamente la supera, coprendo con la sua generica superiorità l'opera di corrosione teoretica che l'altra svolge. Ma ecco che Niccolò Machiavelli rinnova la concezione sofistica della religione come prodotto di accorta azione politica mirante a imporre ai sudditi il giogo di timori soprannaturali; e Hobbes richiama in vita la tesi epicurea derivante l'esperienza religiosa dall'ignoranza delle naturali cause degli eventi e dal timore che questi siano determinati da volontà superiori. Concezioni analoghe serpeggiano attraverso l'empirismo inglese, tornando in luce specialmente nel Hume: tuttavia ancora in questo periodo la preoccupazione religiosa, componendosi con la critica delle religioni singole, dà origine al deismo (Toland, Rousseau, Voltaire, ecc.), che è a sua volta non una filosofia della religione ma una filosofia religiosa o una religione filosofata. Più libero è bensì lo Shaftesbury, che derivando la religione dall'entusiasmo umano per la bellezza e la sublimità dell'universo orienta meglio il problema verso la determinazione specifica dell'attività religiosa dello spirito, pur definendo quest'ultima in forma che troppo l'accosta all'attività estetica e a quella morale.
Ma il compito di elaborare e porre i problemi nella forma propriamente moderna e di fornire così gli strumenti di lavoro al posteriore pensiero dell'Otto e del Novecento doveva, anche nel campo della filosofia della religione, essere serbato al Kant. Com'è noto, questi determina l'indole dell'esperienza religiosa ponendola in stretta connessione, e quasi identificandola, con l'esperienza morale. Secondo la sua distinzione, è "religione rivelata" quella nella quale, per riconoscere come dovere morale l'obbedienza a un dato comandamento, si ha bisogno di saper prima che questo comandamento è divino, mentre è "religione naturale" quella nella quale, all'inverso, il riconoscimento di una legge come tale che sia imposta dalla divinità è condizionata dal riconoscimento di essa come legge morale. Come si vede, questa distinzione è strettamente analoga a quella che contrappone, nell'etica kantiana, la morale autonoma, in cui il dovere ha la priorità sull'interesse, alla morale eteronoma, in cui l'interesse ha la priorità sul dovere: con la conseguenza che mentre da un lato la "religione rivelata" (e cioè, per es., lo stesso cristianesimo nella sua formulazione canonica) viene implicitamente abbassata al grado di morale eteronoma, contesta d'imperativi ipotetici, dall'altro lato la "religione naturale" (cioè quella razionale, perché universalmente intrinseca alla natura umana) viene implicitamente sollevata al grado di morale autonoma, in maniera tale da rendere problematica la stessa possibilità di distinguerla dalla morale. L'esigenza di sfuggire a queste difficoltà, e nello stesso tempo di render ragione dei motivi che le determinano, si riflette d'altronde nella concezione kantiana della religione che si presenta come momento integrativo e conclusivo del suo sistema di filosofia della pratica. La sfera dei valori religiosi resta anche qui legata al mondo morale, giacché la conoscenza, limitata al campo dell'esperienza possibile e quindi al dominio della causalità fenomenica della natura, non può mai attingere, senza cadere nelle antinomie dialettiche, l'incondizionata e illimitata realtà divina, per la stessa ragione per cui nemmeno può mai comprendere la libertà morale. La sfera religiosa si distingue d'altronde da quella morale proprio in virtù dello stesso motivo eudemonistico che nella ricordata contrapposizione dei due tipi di religione faceva assumere alla religione rivelata quel deteriore aspetto eteronomico. Religioso è infatti il concetto del "sommo bene", come supremo stato in cui la perfezione morale si concilia con la felicità, in quel "regno dei fini" nel quale l'autonoma volontà morale non ha più da lottare contro l'eteronomicità degl'impulsi, cioè delle cause naturali, perché la necessità causale vi s'identifica con la finalità libera, e regna così la "volontà santa", che non è più il risultato di un continuo conflitto del dovere con la passione ma bensì il prodotto di una spontanea e completa adesione al bene. S'intende quindi come Kant possa considerare le verità religiose dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima, non dimostrabili dalla ragion teoretica, come "postulati della ragion pratica", cioè come tesi che la ragion pratica è portata necessariamente ad ammettere per poter credere che il volere buono non è condannato in eterno al dissidio terreno e viene infine compensato dalla felicità, nello stesso modo in cui era condotta fin da principio ad ammettere, perché avesse senso ogni comando morale, la possibilità di un volere libero. La difficoltà di questa conclusione religioso-eudemonistica della morale kantiana è d'altronde evidente nel fatto che, tale morale essendo tutta basata sul contrasto rigoristico del dovere all'impulso e della virtù alla felicità, l'eliminazione del contrasto equivale, a rigore, all'eliminazione della morale stessa. Kant non sfugge, insomma, al dilemma che gl'imporrebbe o di risolvere senz'altro la religione nella morale, togliendo la distinzione, o di risolvere la morale nella religione, attribuendo alla prima il carattere eteronomico e eudemonistico della seconda: e, timoroso della svalutazione dell'esperienza religiosa che la logica del suo sistema richiederebbe così in entrambi i casi, oscilla incerto fra le due soluzioni.
Questa problematica della concezione kantiana della religione nei suoi rapporti con la morale costituisce il fecondo terreno da cui nascono le varie dottrine della religione dell'idealismo postkantiano. Il Fichte insiste inizialmente sulla tendenza razionalistica del kantismo ("religione nei limiti della ragion pura", come suona anche il titolo di uno scritto del Kant), ribadendo, nella Kritik aller Offenbarung, la svalutazione della religione rivelata nei confronti di quella naturale o razionale, che s'identifica sostanzialmente con l'etica; ma presto la tendenza mistica prende in lui il sopravvento, e già nell'Anweisung zum seligen Leben è detto che l'uomo non può crearsi alcun Dio, ma solo annientare sé stesso per dissolversi in Dio. Così le due tendenze che nel kantismo erano concomitanti vengono a manifesto conflitto: né esso è conciliato dallo Schelling, già nella prima fase del suo filosofare incline a scorgere l'assoluto in una sfera superiore ai limiti delle stesse conoscenze filosofiche, e nella fase posteriore recante in più viva e cruda luce la tendenza teosofico-mistica intrinseca al suo temperamento speculativo. Questo riavvicinamento della sfera religiosa alla sfera dell'irrazionale giova d'altronde a quella valutazione del carattere "sentimentale" della religione che, riconnettendosi specialmente a motivi della kantiana Critica del Giudizio, compiono in questo periodo, per es., il Fries e lo Schleiermacher. In quell'opera del Kant viene attribuita al "sentimento" (cioè alla facoltà di giudicare le cose senza determinarle teoreticamente e senza modificarle praticamente, e solo avvertendo la qualità per cui esse possono piacere o dispiacere all'animo del contemplante) la considerazione estetica e quella teleologica dell'universo: e giacché sentire, oltre i limiti della conoscenza teoretica sempre legata alla causalità dell'esperienza, il mondo come organismo finalisticamente orientato tanto vale quanto avvertire in esso l'opera di una divina provvidenza, s'intende come breve sia stato il passo, da quei pensatori compiuto, per ascrivere senz'altro al "sentimento" anche l'esperienza religiosa.
I diversi motivi della filosofia della religione propria dell'età postkantiana si ritrovano raccolti e conciliati nell'opera del Hegel, il maggior sistematico ed enciclopedico dell'idealismo ottocentesco. Nelle Lezioni sulla filosofia della religione egli mira a determinare tutti i varî aspetti della fenomenologia religiosa e delle sue interpretazioni speculative, mostrando come essi s'inseriscano in un ideale processo dialettico; e nella sua costruzione più propriamente sistematica (per cui è soprattutto da vedere l'ultima parte dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) accoglie la religione, insieme con l'arte e con la filosofia, nella suprema sfera dello spirito assoluto, subordinandola alla filosofia e superando con ciò la contraddizione tipica del kantismo e della sua collocazione dei valori religiosi al di là dei limiti del sapere teoretico, ma nello stesso tempo concependola come rispecchiamento dell'assoluto e dell'infinito nell'ambito della rappresentazione finita e quindi conferendo anche ad essa il carattere di esperienza metafisica che il soggetto ha di Dio. Nei diversi indirizzi seguiti dagli epigoni del Hegel, i varî motivi che nel sistema di quest'ultimo appaiono conciliati, tornano invece a scindersi. La cosiddetta "destra" hegeliana accentua il momento valutativo dell'esperienza religiosa, fino a sboccare in un deciso teologismo; la "sinistra" invece, insistendo (specie nella fase "moderata") sul carattere antinomico che la religione presenta in virtù del contrasto, in essa implicito secondo la concezione hegeliana, dell'oggettività infinita con la soggettività infinita, giunge nella fase "estrema", rappresentata specialmente da L. Feuerbach, a una vera e propria esclusione del valore di ogni religiosità, interpretata solo come prodotto fittizio di un'ipostatizzazione metafisica dei desiderî umani di bontà e di perfezione. S'intende perciò come questa filosofia della religione, professata dall'estrema sinistra hegeliana (che del resto si perpetua nell'ostilità per la religione propria di tutte le ideologie socialistiche e comunistiche, derivate in larga misura, attraverso il Marx, da quella corrente speculativa), abbia potuto aver successo e trovare continuazione, nonostante le sue origini schiettamente idealistiche, nelle analoghe concezioni della religione prodotte dal positivismo e dal materialismo della seconda metà dell'Ottocento.
Una più adeguata valutazione filosofica dell'esperienza religiosa torna di conseguenza a farsi strada solo quando l'attenzione per i valori ideali e spirituali ridiventa vivace e profonda. Il neokantismo e la filosofia dei valori, nelle loro varie formulazioni (Cohen, Natorp, Windelband, Rickert, Vaihinger, ecc.), mirano a perfezionare la concezione kantiana della religione, pur mantenendo immutata nella sostanza la sua impostazione del problema e quindi anche le sue principali difficoltà; e circa lo stesso si può dire, in generale, anche delle altre concezioni della religione avanzate nell'ultimo Ottocento e nel Novecento dal pensiero germanico ricollegantesi, se non proprio al Kant, almeno alla generale tradizione del razionalismo e dell'idealismo. A una più diretta comprensione della religiosità nella sua intimità psicologica e nei suoi riflessi pratici contribuisce d'altronde il pragmatismo, se non nella sua forma più tipica (rappresentata per es., dal James e dalla sua deduzione della fede religiosa dalla stessa "volontà di credere", la quale presuppone logicamente un'ulteriore volontà di credere che sia giusta la definizione della religione come volontà di credere), almeno in quella datale dai pensatori del modernismo cattolico francese (Blondel, Laberthonnière), interpretanti la religiosità in termini di "azione" e cioè localizzanti il senso del divino e del trascendente nello stesso agire dell'uomo, che ricollegandosi al cosmo lo implica in sé e perciò ne avverte l'infinità. Nell'idealismo italiano contemporaneo, l'energico motivo storicistico e immanentistico conduce il Croce a togliere valore autonomo all'esperienza religiosa: egli non l'accoglie tra le forme dello spirito e scorge in essa soltanto un aggregato di concetti etici e metafisici, rappresentati in forma mitologica. Il Gentile invece, ricollegandosi più strettamente alla tradizione hegeliana, mantiene l'idea dell'antitesi dell'arte e della religione quali momenti astratti della sintesi filosofica, ma, trasferendo questa triade dal sopramondo dello spirito assoluto nella concreta immanenza del soggetto pensante e definendo la religione come momento dell'oggettività (cioè come momento in cui il soggetto si oggettiva, per acquistar coscienza di sé medesimo e cioè pienamente possedersi nella concreta sintesi della sua astratta soggettività e della sua astratta oggettività), pone in viva luce la natura e la contraddittorietà di quell'annichilamento mistico dell'io in Dio, che dell'esperienza religiosa costituisce il momento o l'ideale supremo.
Bibl.: Indichiamo qui le principali trattazioni storiche complessive della filosofia della religione: per la bibliografia particolare cfr. le voci sui singoli autori. I. Berger, Geschichte der Religionsphilosophie, Berlino 1800; B. Pünjer, Geschichte der christlichen Religiosphilosophie seit der Reformation, voll. 2, Brunschwig 1880-83; O. Pfleiderer, Geschichte der Religionsphilosophie von Spinoza bis auf die Gegenwart (vol. I della Religionsphilosophie auf geschichtlicher Grundlage), Berlino 1893; E. Trol̈tsch, Religionsphilosophie, in Die Philosophie zu Beginn des 20. Jahrhunderts, Heidelberg 1904, pp. 104-62; M. Lütgert, Die Religion des deutschen Idealismus, Gütersloh 1923-26. V. inoltre l'articolo di M. Heinze, in Realencycklopädie für protestantische Theologie und Kirche, 3ª ed., XVI (Lipsia 1905), pp. 597-630, anche per le indicazioni bibliografiche, per cui cfr. pure Die Religion in Geschichte und Gegenwart, IV, Tubinga 1930, col. 1921.
La storia delle religioni.
"Storia" e "scienza" delle religioni. - Storia della religione è pensiero della religione come valore che si svolge. Storia delle religioni è propriamente lo studio delle forme storiche della religione secondo il concetto di svolgimento; più genericamente significa ogni indagine storiografica sulle religioni anche indipendentemente dall'idea di svolgimento, ciò che alcuni preferiscono chiamare scienza delle religioni, o anche storia comparata delle religioni, mentre altri riservano il termine scienza della religione per il complesso delle discipline aventi per oggetto la religione, quali la filosofia della religione, la psicologia religiosa, la storia delle religioni, ecc.
Storia degli studî. - Già i primi raggruppamenti di divinità a scopo di culto, le prime teocrasie ossia fusioni di diverse figure divine (nell'Oriente antico), le prime formazioni di sistemi di dei (triadi, eptadi, enneadi, dodecadi) testimoniano di una elementare speculazione "teologica" sulle cose della religione a opera principalmente dei sacerdoti: in Grecia la troviamo coltivata assai per tempo anche in ambiente laico (Esiodo: teogonia e genealogie divine). L'interesse per le religioni di popoli stranieri è già vivo in Ecateo di Mileto. In Erodoto è svolto sistematicamente il concetto della derivazione delle principali divinità greche da divinità egiziane corrispondenti. Nel pensiero speculativo sorge presto (scuola ionica) la critica della religione tradizionale: si vuole separare la religione dai miti, concepiti come invenzione dei poeti. Senofane contrappone gli dei foggiati dagli uomini a propria immagine e somiglianza (antropomorfismo; prima comparazione etnologica: gli Etiopi, i Traci) all'unico Iddio supremo. I sofisti assegnano non solo al mito ma alla religione stessa un'origine prettamente umana, istituzionale, politica. L'interesse per le religioni di altri popoli s'intensifica in Democrito (per la religione babilonese) e in Platone (per le religioni dei "barbari"), e culmina in Aristotele. Nella scuola di Aristotele, certo in connessione col vasto piano di sistemazione del sapere promosso dal maestro, si ha anche una τῶν περὶ τὸ ϑεῖον ἱστορία ("di Teofrasto", ma più probabilmente, a quanto pare, di Eudemo di Rodi), ossia una prima "scienza delle religioni" (nel senso aristotelico della parola). Le conquiste di Alessandro, allargando l'orizzonte geografico del mondo antico, forniscono nuove e più esatte conoscenze di religioni straniere, l'egizia (Manetone), l'indiana (Megastene), la babilonese (Beroso), la fenicia (Filone Biblio). Il problema centrale resta sempre quello della religione greca tradizionale con i suoi molti iddii e con i suoi miti assurdi. Esso riceve nell'età ellenistica varie soluzioni: gli dei sono uomini delle età primitive divinizzati perché benefattori dell'umanità (evemerismo); i miti sono l'espressione simbolica di avvenimenti storici o di verità morali o di fenomeni fisici (allegoria); gli iddii veri sono i grandi corpi astrali, mentre gli dei inferiori della credenza popolare sono genî e demoni. L'allegoria, che ha già un precursore in Teagene di Reggio (secoli VI-V a. C.), fu coltivata sistematicamente dagli stoici e appoggiata a una rudimentale scienza del linguaggio (etimologia; polionimia divina). Il demonismo, già nettamente formulato in Plutarco, si determinò poi nella teoria neoplatonica degli esseri divini intermedî (eoni) fra il Dio supremo e il mondo.
Nel primo cristianesimo quel ch'era stato nell'antichità il problema della mitologia volgare e dei suoi "iddii" di fronte ad una più elevata nozione del divino, venne sostituito dal problema delle religioni false (tutte le pagane) di fronte alla sola religione vera (la cristiana e l'ebraica). L'esegesi allegorica, che in seno al paganesimo, non ostante lo spirito critico che la informava, aveva avuto tuttavia una funzione conservatrice, in quanto giustificatrice delle forme religiose tradizionali, fu valutata nel cristianesimo nel suo significato negativo e dissolvente, e adottata come prova che il paganesimo stesso forniva della propria falsità e inconsistenza. Anche fu adottata la concezione demonistica degli dei, con estensione, ben inteso, a tutte le divinità del paganesimo e con determinazione della loro natura demonica in senso cattivo, restando con ciò implicitamente riconosciuta la loro esistenza. Nella prima apologetica questa risoluzione degli iddii pagani in demoni cattivi si trova talvolta precisata nel senso che gli dei sarebbero gli angeli decaduti, il cui culto sarebbe stato fondato dai giganti nati dal loro commercio con le figlie degli uomini. Il problema centrale dell'apologetica cristiana rimase quello della presenza di elementi comuni al paganesimo e alla religione rivelata. Per spiegarla si ammise che poeti e filosofi pagani avrebbero copiato da Mosè (teoria del plagio). Una soluzione in certo senso opposta fu la dottrina della condiscendenza, secondo la quale Iddio avrebbe tollerato di essere adorato dagli Ebrei in forme più o meno paganeggianti destinate poi a far posto alla vera religione, ciò che implicava la possibilità di un progresso religioso. Invece nella dottrina del plagio, e ancor più in quella, che poi prevalse, della contraffazione diabolica (per cui le religioni pagane sarebbero una goffa imitazione - suggerita dal demonio - della religione rivelata), è implicita quella teoria del regresso o degenerazione che non venne mai meno nella teologia e ancora oggi, come si vedrà più avanti, fa sentire la sua influenza nella storiografia religiosa.
Distrutto il paganesimo, cessata la lotta anche nel campo del pensiero, le dottrine dell'apologetica cristiana e quelle che essa aveva, a scopo polemico, ereditato dall'antichità, passarono nella patristica e nella scolastica, mantenendosi per tutto il Medioevo sostanzialmente immutate. L'idea che gli dei del paganesimo sono uomini (evemerismo) ricompare in Gregorio di Tours (sec. VI), quella che gli dei sono demoni cattivi in Fulgenzio (Mythologiarum libri tres).
L'esegesi allegorica dei miti è ripresa all'epoca carolingia da Teodulfo ed è comune ai Mythographi Vaticani. Dopo il Mille rifiorisce specialmente l'allegoria morale applicata di preferenza all'Eneide di Virgilio (spiegata da Giovanni di Salisbury come un adombramento della vita umana) e alle Metamorfosi di Ovidio (Integumenta Ovidii; Ovide moralisé). Anche Dante vi indulge, nel Convivio; e il Boccaccio l'applica largamente non solo nel senso morale, ma anche nel fisico e storico nel De genealogia deorum in 15 libri, che restò per alcuni secoli la principale opera mitologica, "il primo e per molto tempo unico tentativo di spiegare il lato religioso del mito antico".
La presa di contatto col mondo islamico, le nuove cognizioni sui popoli dell'Oriente, dovute alle missioni francescane e domenicane in Asia nel sec. XIII, non fecero progredire lo studio delle religioni. Anche al Corano fu applicata l'esegesi simbolistica (averroisti).
L'umanesimo rinnovò la conoscenza diretta dell'antichità classica, e quindi anche della religione romana e greca, ma non fece che ribadire, da un lato, l'esegesi evemeristica (G. Nanni, o Annio da Viterbo) e allegoristica (Cr. Landino) dei miti, anche ora applicata di preferenza a Virgilio (F. Filelfo) e ad Ovidio (N. degli Agostini, L. Dolce), e, dall'altro, la teoria della dipendenza delle religioni pagane dalla religione rivelata (A. Steuco, Jan Becan van Gorp, ecc.). Mentre il rinnovato studio del greco non riusciva a superare il pregiudizio della sua derivazione dall'ebraico, parallelamente, e non senza il solito concorso di etimologie viziate appunto da questo pregiudizio, si riducevano le divinità greco-romane a figure della storia sacra, Bacco a Noè, Giano a Jafet, ecc., e perfino si vedeva in Zeus stesso una figura del vero Dio (Steuco). Anche nella Mythologia di Natale Conti (Natalis Comitis Mythologiae sive explicationum fabularum libri X, Venezia 1551), la più importante opera mitologica dopo quella del Boccaccio, è svolta l'idea che il politeismo sia un adombramento e rifrazione del monoteismo, un'espressione inadeguata e larvata della presenza del vero Dio nella natura.
Anche l'opera del Conti, del resto, è tutta dominata dall'allegorismo, sia morale, sia fisico o storico, mentre quella del ferrarese G. G. Giraldi (De deis gentium varia et multiplex historia, Basilea 1548) fa ancora larga parte all'evemerismo.
Lutero, verosimilmente per influenza di Melantone, si pronunziò nettamente contro l'esegesi allegorica. La Riforma promosse grandemente le indagini sopra il cristianesimo, specie sul cristianesimo "genuino" delle origini e le successive infiltrazioni di elementi spurî, aprendo la via a una ricostruzione non ancora propriamente storica, ma almeno cronologica (Centurie di Magdeburgo; v. centuriatori) della religione cristiana. D'altro lato, col suo accentuato soprannaturalismo, ribadì il concetto della trascendenza del cristianesimo sopra le altre religioni, soffocando i primi vaghi accenni in senso contrario che pur si ebbero nel Rinascimento, sia in seno al rinnovato (neo-) platonismo (il platonismo assimilato al cristianesimo: Marsilio Ficino; il platonismo come comune fondamento di tutte le religioni: Gemisto Pletone), sia da parte di qualche isolato studioso, come quel Giovanni Boem che nella sua opera Omnium gentium mores leges et ritus... (1520), fornendo non si può dire una storia, ma una descrizione di tutte le religioni dell'Africa, dell'Asia o dell'Europa, trattò anche del cristianesimo al posto che geograficamente gli spetta.
Anche nel sec. XVII l'allegoria evemeristica e allegoristica seguitò ad essere coltivata da cattolici e protestanti (anche F. Bacone), frequentemente combinata con la vecchia teoria della degenerazione a di mostrare la sopravvivenza della religione rivelata nelle religioni del paganesimo (G. J. Voss, De theologia gentili, 1642; S. Bochart, Geographia sacra, 1646-1651; P.-D. Huet, Demonstratio evangelica, 1679), non senza il solito apparato di etimologie dall'ebraico come lingua primordiale (nell'opera del Voss è perfino ripresa la teoria degli angeli decaduti). Anche la dottrina della contraffazione (v. sopra) ebbe i suoi fautori, e A. Kircher la estese alle religioni dei popoli americani, che ora soltanto incominciarono ad attirare l'attenzione dei teologi. Le opere di carattere enciclopedico abbraccianti le religioni di tutte le genti (l'Oedipus Aegyptiacus del Kircher tratta anche delle religioni del Giappone, della Cina, ecc.) sono infatti una caratteristica della produzione erudita di questo secolo, a cominciare dalla Pansebeia or a View of all Religions in the World di A. Ross (Londra 1653), che è forse "la prima storia generale delle religioni", presto seguita da molte analoghe, come quella dell'olandese Carolinus (Het Hedendaagsche Heidendom, Amsterdam 1661) e altre, le quali sono tutte fondate sopra le descrizioni dei viaggiatori, i giornali di viaggio, le relazioni dei missionarî, ecc.
Non meno sintomatica è la contemporanea comparsa delle prime monografie dedicate a singole religioni, come il De diis Syris (1617) dell'inglese J. Selden, e il De religione veterum Persarum (1700) di T. Hyde, viziate bensì dai difetti generali dell'erudizione del tempo, ma fondate sullo studio delle fonti e condotte con un certo rigore di metodo che preannuncia i progressi futuri della filologia. Soprattutto va segnalata come sintomatica l'opera del teologo anglicano John Spencer (v.), De legibus Hebraeorum ritualibus et earum rationibus (1685), dove si trova nettamente affermato il concetto che non tutta la religione mosaica dipende dalla rivelazione, ciò che può implicare l'esistenza e l'influenza di un paganesimo indipendente (tollerato da Dio ai fini della salvezza, secondo la vecchia dottrina della condiscendenza), onde si poté dire (W. Robertson Smith) che quest'opera segna l'avvento della scienza comparata delle religioni.
La storia delle religioni nel senso proprio ebbe il suo precursore in G. B. Vico (Scienza nuova, 1725-30), che mantenne bensì l'esistenza di una religione rivelata, ma soltanto presso il popolo ebraico, e alla religione presso tutti gli altri popoli attribuì una origine umana, facendola nascere dal timore e dall'ignoranza, e intendendo il mito come la spontanea e necessaria espressione fantastica della religione stessa, cioè dell'idea di Dio, la quale si svolge dall'individuo isolato (i "bestioni") alla famiglia, alla città, alla nazione e a tutta l'umanità, essendo la religione uno degli aspetti della complessiva civiltà umana, con che appunto il Vico anticipa di un secolo la storia delle religioni (v. oltre). Caratteristico del sec. XVIII è l'estendersi dell'indagine religiosa alle religioni dei "selvaggi" (anche nel Vico): esse sono messe addirittura a confronto con le religioni dell'antichità nell'opera del gesuita J.-F. Lafitau, Møurs des sauvages amériquains comparés aux møurs des premiers temps (Parigi 1724), che insieme col Fontenelle (De l'origine des fables) prelude alla scienza comparata delle religioni secondo il metodo antropologico del sec. XIX. Mentre respinge, come il Vico, l'esegesi allegoristica, il Lafitau mantiene del pari la rivelazione, ma non quella fatta a Mosè, bensì quella primordiale, fatta al primo uomo, alla quale egli fa risalire la presenza di elementi che anche le religioni dei selvaggi hanno comuni col cristianesimo.
Il problema di questo fondo comune sta anche alla base della controversia dei riti cinesi e dei riti malabarici (per la quale v. malabarici e cinesi, riti).
Tutt'altra soluzione trovò quel problema nel deismo (precedenti nel sec. XVII: E. Herbert of Cherbury) e nel razionalismo, in quanto anche quel fondo comune a tutte le religioni - al quale, secondo questa teoria, lo stesso cristianesimo, sfrondato da tutte le soprastrutture di origine spuria, si riduceva - fu sottratto alla rivelazione e dichiarato di origine "innata" o "naturale" e di carattere "razionale", cioè conforme ai dati della ragione (un Dio unico, immortalità dell'anima). Qui è il naturalismo che si afferma contro il supernaturalismo della Riforma. Ma in questa contrapposizione di una religione naturale e razionale alle religioni storiche, tutte impostura e superstizione, si continua l'antico concetto della trascendenza della religione vera, che è la rivelata, sopra le false, che son tutte le altre. Corrispondentemente ritorna nel razionalismo anche la vecchia dottrina apologetica della degenerazione o depravazione, ché ancora per il Voltaire (Dictionnaire philosophique, 1764) la forma originaria della religione è il monoteismo (v.), mentre il politeismo è una forma posteriore, dovuta alla faiblesse humaine (cfr. l'inopia del Vico). D. Hume è il primo a capovolgere i termini di questa sequenza, affermando che "il politeismo o idolatria fu... la prima e più antica religione dell'umanità" e che soltanto in seguito si formò il monoteismo (The Natural History of Religion, 1755, pubblicata nel 1757). Questa è anche la teoria del Rousseau, espressa nell'Émile (1762) con esplicito riferimento ai "manitu dei selvaggi" e ai "feticci dei Negri".
Nel 1760 usciva (a Ginevra, ma senza indicazione del luogo e dell'anno) l'opera di C. De Brosses (presentata all'Académie française nel 1757 e rifiutata), Du culte des dieux fétiches ou Parallèle de l'ancienne Religion de l'Egypte avec la Religion actuelle de la Nigritie, dove è usato per la prima volta il termine feticismo, a designare la forma originaria della religione (ci fu pure, anche il De Brosses lo ammette, una religione rivelata, ma è come se non fosse avvenuta, perché se ne perdé presto il ricordo), della quale si hanno residui (concetto di sopravvivenza) anche nelle religioni dell'antichità classica, essendo appunto questi elementi inferiori, e non già i dogmi della religione rivelata (Lafitau) e nemmeno la verità della religione naturale (razionalisti), il fondo comune a tutte le religioni. La tesi del De Brosses è un capovolgimento di quelle correnti ai suoi tempi e un altro gran passo avanti verso la scienza delle religioni d'indirizzo antropologico.
Nel campo teologico (protestante) è da segnalare l'opera di J. L. von Mosheim (1694-1755), che per il carattere storico-critico impresso alle sue ricerche, per la prevalenza concessa all'interesse scientifico sopra il dogmatico anticipa i progressi della storia ecclesiastica del sec. XIX.
Contro il razionalismo prevalsero al principio del sec. XIX anche nello studio delle religioni le correnti del criticismo, del romanticismo e dell'idealismo. Dalla sfera della ragione la religione fu trasferita in quella del "sentimento", dell'autocoscienza e dell'esperienza interiore. Il concetto, già vichiano, della spontaneità del mito fu ribadito dal Herder, e largamente accettato. Da esso dipende, in certo senso, anche il concetto di simbolo in G. F. Creuzer (Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen, voll. 4, 1810-12) e in altri simbolisti (J. von Görres, Mythengeschichte der asiatischen Welt, 1810; J.-D. Guigniaut, Les Religions de l'antiquité considerées principalement dans leurs formes symboliques et mythologiques, voll. 10, 1825-1851: "traduzione" dell'opera del Creuzer), sebbene oscurato dall'idea di un simbolismo secondario sovrapposto ad arte dai sacerdoti al primitivo e spontaneo, donde una nuova giustificazione dell'esegesi allegoristica, nonché un ritorno alla tesi del monoteismo primordiale, ecc. La reazione degli antisimbolisti si muove anch'essa più o meno nell'orbita del pensiero romantico (J. H. Voss, Antisymbolik, 1824; Chr. A. Lobeck, Aglaophamus, 1829; B. Constant, Du polythéisme romain, 1833), dal quale restano ora investiti e fecondati in generale anche i lavori di erudizione, allontanandosi dal vecchio tipo enciclopedico per organizzarsi nelle varie filologie speciali e specializzate, in corrispondenza col concetto dell'originalità di ogni singola tradizione nazionale.
Nella filologia greca questo concetto fu applicato sistematicamente da K. O. Müller (Prolegomena zu einer wissenschaftlichen Mythologie, 1825), che accentuò il carattere nazionale e, subordinatamente, tribale del mito greco, e si oppose alla teoria delle sue derivazioni orientali (alla quale aderì, p. es., Ph. Buttmann, Mythologus, voll. 2, 1828-29), e soprattutto insegnò a studiare, accanto ai miti, i culti greci, principio che fu poi applicato largamente nello studio delle religioni in genere.
Circa lo stesso tempo nasceva, con i Grimm, la filologia germanica (J. Grimm, Deutsche Mythologie, 1832-35), e con essa lo studio della religione, della mitologia, del folklore dei popoli europei (W. Mannhardt). E in seguito alle scoperte e alle decifrazioni delle antiche scritture d'Oriente si fondavano le varie filologie orientalistiche, indiana, iranica, egizia, babilonese, onde aveva principio la conoscenza diretta della religione vedica e brahmanica, del buddhismo e dello zoroastrismo, della religione egizia e della babilonese e assira.
Il concetto della storia come svolgimento nella forma dialettica impressagli dal Hegel e da lui stesso applicata anche alla religione (classificazione hegeliana delle religioni come momenti della religione assoluta) fu applicato integralmente alla storia del cristianesimo, in specie del cristianesimo primitivo (D. F. Strauss, F. C. Baur e la Scuola di Tubinga), come pure allo studio dell'Antico Testamento e alla storia del popolo d'Israele (W. Vatke, J. F. L. George).
Anche il positivismo pose fra i suoi principî fondamentali il concetto di evoluzione, e proprio il suo fondatore A. Comte lo applicò anche alla religione, costruendo una evoluzione della umanità attraverso i tre stati, teologico, metafisico e positivo, il primo dei quali suddiviso nei tre momenti del feticismo, del politeismo e del monoteismo (Cours de philosophie positive, 1830-1842): costruzione naturalistica, dove i varî stati e momenti hanno la fissità delle leggi fisiche e naturali, come quelli per cui tutte le società umane dovrebbero necessariamente e costantemente passare, restando così negata la storia nella sua non riproducibile originalità.
Dalla filologia indiana sorse e fiorì nella seconda metà del secolo XIX la nuova "scienza delle religioni", rappresentata specialmente da F. Max Müller (Lectures on the Science of Religion, 1870, pubblicate nel 1872; Introduction to the Science of Religion, 1873; Origin and Growth of Religion as illustrated by the Religions of India, 1880; Contribution to the Science of Mythology, voll. 2, 1897): essa ha il suo fondamento nella "mitologia comparata" (A. Kuhn, M. Bréal, A. De Gubernatis, M. Kerbaker), dove però la comparazione è limitata alle mitologie dei popoli indoeuropei, e l'idea stessa di una religione proto-indoeuropea superordinata alle singole religioni nazionali dei popoli indoeuropei non è storicamente costruita, ma logicamente dedotta dall'esistenza di un linguaggio proto-indoeuropeo; e mentre il concetto (derivato da Schelling) dell'enoteismo (v.) come forma religiosa elementare, da cui il politeismo sarebbe derivato, rappresenta un larvato ritorno alla vecchia teoria apologetica e razionalistica della degenerazione o regresso, d'altro lato il concetto del mito come "malattia del linguaggio" posto a base della mitologia comparata sembra introdurre un biologismo di derivazione naturalistica e positivistica.
Il pensiero positivistico prevalse nello studio delle religioni dei popoli "selvaggi" o "primitivi", i quali, come popoli "senza storia", erano oggetto dell'antropologia come scienza naturale dell'uomo. Il sistema comtiano dell'evoluzione religiosa fu adottato da E. B. Tylor (Primitive Culture, 1871), con la sostituzione dell'animismo al feticismo come prima forma della religione, e divenne così lo schema classico della scuola "antropologica". Ma le ulteriori ricerche nel campo delle religioni primitive portarono alla scoperta di altre forme religiose anteriori e indipendenti da ogni nozione animistica (preanimismo), quali da un lato la "magia" come forma prereligiosa (J. G. Frazer, The Golden Bough, 1890), la nozione di forza-sostanza divina anteriore alla concezione personale della divinità (R. R. Marett, The Threshold of Religion, 1909), il totemismo come forma elementare della vita religiosa associata (E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912 e la scuola sociologica; S. Reinach, Cultes Mythes et Religions, voll. 5, 1905-1924), dall'altro la nozione di un essere supremo (A. Lang, The Making of Religion, 1898). Ma nello stesso tempo la scienza dell'uomo primitivo fu anch'essa investita dal pensiero storico: si vide che non ci sono popoli "senza storia". L'antropologia cessò di essere soltanto scienza naturale per divenire di fatto, se non di nome, anche scienza storica, cioè storia dell'umanità primitiva (etnologia).
Vero è che proprio uno dei rappresentanti dell'etnologia storico-culturale (W. Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee, 1912) ha tentato di costruire sulla scoperta langhiana una storia etnologica della religione in funzione di un monoteismo primordiale e di un successivo scadimento della religiosità, ciò che rappresenta un ritorno alla posizione dei Padri della Chiesa.
Al concetto etnologico delle aree culturali e relativi centri d'irradiazione (diffusionismo) fa riscontro, in un certo senso, la teoria del "panbabilonismo" (H. Winckler, Babylonische Geisteskultur, 1907; A. Jeremias, Handbuch der altorientalischen Geisteskultur, 1913), secondo la quale la Mesopotamia sarebbe stato il centro antichissimo di un'elevata civiltà (sumerica, prima ancora che babilonese), i cui principî fondamentali (concezione astralistica dell'universo, corrispondenza fra la vita del mondo e i moti degli astri, ecc.) si ritroverebbero nelle civiltà e religioni degli altri popoli; dove si vede riapparire la vecchia idea della derivazione delle varie religioni dall'Oriente (ma non più da Israele, che dipenderebbe anch'esso dalla Mesopotamia), contro il concetto romantico della originalità delle singole religioni nazionali.
Liberato dagli apriorismi dialettici, adeguato alle esigenze critiche del pensiero positivistico, progressivamente arricchito dall'apporto degli studî speciali nei varî settori religiosi dell'etnologia, dell'americanistica, della sinologia, dell'indologia, dell'iranistica, della filologia classica, della filologia semitica, dell'egittologia, ecc., il concetto di svolgimento ha a sua volta più o meno diretto la recente e la recentissima storiografia religiosa (E. Renan, C. P. Tiele, W. Robertson Smith, A. Harnack, A. Loisy, H. Usener, E. Rohde, R. Reitzenstein, U. von Wilamowitz, G. Wissowa, Fr. Cumont, M. P. Nilsson, C. Clemen, A. Bertholet, K. Th. Preuss, R. Dussaud, E. Lehmann, Tor Andrae, ecc.). Il principio dell'interdipendenza dei valori culturali è stato attuato nel disegnare la storia di una data religione in rapporto con lo svolgimento degli altri aspetti della civiltà (R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica, 1921). La posizione del trascendentalismo è stata combattuta dalla "scuola storico-religiosa" (W. Bousset, H. Gunkel, ecc.) con l'inserzione della formazione del cristianesimo nello svolgimento complessivo della religione nel mondo antico. Anche le forme religiose "primitive" o "elementari", già oggetto di comparazione astratta, tendono a inserirsi in una più vasta linea di svolgimento religioso unitario che le congiunge alle forme superiori (N. Söderblom, Gudstrons uppkommst, 1914; R. Pettazzoni, Dio, I, 1922; id., La confessione dei peccati, 1929-1935).
D'altro lato, contro gli eccessi e le deficienze dello storicismo, si sono affermate ultimamente anche nella storiografia religiosa alcune correnti antistoriche. La più importante è quella dell'irrazionalismo: il concetto di F. Schleiermacher (Reden über die Religion, 1799) che la religione non è né cognizione né azione, bensì una forma particolare del "sentimento" come dato immediato dell'autocoscienza, è stato ripreso e sviluppato da R. Otto (Das Heilige, 1917), per il quale la religione, come esperienza "numinosa" del sacro è un sui generis irreduttibile. Questa teoria è stata dall'Otto applicata specialmente alle religioni dell'India: ma la sua portata positiva sta soprattutto nell'approfondimento psicologico del fatto religioso.
Questo psicologismo, più o meno accentuato nelle opere di F. Heiler (Das Gebet, 1918), J. W. Hauer (Die Religionen, I, 1923), H. Frick, G. Mensching, ecc., è comune anche alle altre correnti antistoriche della psicoanalisi (S. Freud, Totem und T.abu, 1913; O. Rank, Psychoanalitische Beiträge zur Mythenforschung, 1919), del realismo sociologico (L. Lévy-Brühl, Les fonctions mentales dans les sociétdés inférieures, 1910; La mentalité primitive, 1921; L'âme primitive, 1927), del realismo neoclassico (W. F. Otto, Die Götter Griechenlands, 1929), della fenomenologia (G. van der Leeuw, Phänomenologie der Religion, 1933), e anche la storia delle religioni nel senso specifico deve e dovrà tenerne conto. Il concetto di "evoluzione creatrice" è stato da H. Bergson (Les deux sources de la morale et de la religion, 1932) applicato anche alla religione nelle sue forme storiche, riuscendone ripristinata la posizione eccezionale (trascendentale) del cristianesimo.
Organizzazione degli studi. - Cattedre di storia e di scienza delle religioni sorsero prima nelle università di Olanda (1876) e di Svizzera (dal 1877); poi a Parigi al Collège de France (dal 1880 al 1906 A. Réville, poi J. Réville fino al 1909, A. Loisy fino al 1932) e in alcune università minori di Francia, indi in Inghilterra, negli Stati Uniti e in altri paesi (in Giappone, all'università di Tōkyō nel 1903; nella repubblica argentina, all'università di La Plata nel 1927).
In Germania si dibatté la questione pregiudiziale della posizione della storia delle religioni rispetto alle facoltà di teologia, che fu risolta in generale con la sua assegnazione alle facoltà filosofiche: i primi che insegnarono storia delle religioni furono il danese E. Lehmann a Berlino (1910-1913) e lo svedese N. Söderblom a Lipsia (1912-1914). Per l'Italia, v. sotto.
Un primo congresso di storia delle religioni ebbe luogo a Stoccolma nel 1897. La serie ufficiale dei "congressi internazionali di storia delle religioni" incomincia con quello di Parigi del 1900; il secondo si riunì a Basilea nel 1904, il terzo a Oxford nel 1908, il quarto a Leida nel 1912, il quinto a Lund nel 1929, il sesto a Bruxelles nel 1935. Fuori serie resta un congresso che si tenne a Parigi nel 1923 in occasione del centenario della nascita di E. Renan. Un "congresso di storia del cristianesimo" (Jubilée Alfred Loisy) ebbe luogo a Parigi nel 1927.
I principali periodici specifici per la storia delle religioni sono: la Revue de l'histoire des religions, dal 1880 (110 volumi), l'Archiv für Religionswissenschaft dal 1898 (31 volumi), gli Studi e materiali di storia delle religioni dal 1925 (10 volumi). Nell'Archiv escono anche i Beiträge zur Religionswissenschaft della "Società per la scienza delle religioni" di Stoccolma.
Società analoghe esistono a Parigi (Société Ernest Renan, fondata nel 1919), a Berlino e altrove. Emanazione della "Fondazione Hibbert" sono le Hibbert Lectures di argomento religioso, tenute quasi ogni anno a partire dal 1878 (inaugurate da F. Max Müller) e pubblicate, dal 1902, nel Hibbert Journal. Corsi di lezioni di carattere storico-religioso sono periodicamente organizzate dalla "Fondazione Olaus Petri" nell'università di Upsala.
In Italia i moderni studî sulle religioni tardarono ad affermarsi. In un primo periodo, che va dal 1870 fino al 1900, ebbero prevalentemente carattere "dilettantistico" (nel senso migliore della parola) o specialistico, con gli opposti difetti dell'insufficiente o dell'eccessiva specializzazione, rispettivamente in uomini di varia cultura e diversa tendenza filosofica, come G. Trezza (I miti indoeuropei, Le leggende italiche di Mars, in Studi critici, Verona 1878; Morfologia dei miti, in Nuovi saggi critici, ivi 1881; San Paolo, ivi 1882; Le religioni e la religione, ivi 1884), T. Vignoli (Mito e scienza, Milano 1879), G. Barzellotti (Davide Lazzaretti, Bologna 1884), A. Chiappelli (Studi di antica letteratura cristiana, Torino 1887; Nuove pagine sul cristianesimo antico, Firenze 1902), G. Negri (articoli Il cristianesimo nella storia, 1873 e La civiltà mesopotamica e la leggenda del diluvio universale, 1892; Giuliano l'Apostata, Milano 1901) e altri, e in valenti specialisti di varia competenza: orientalisti come A. De Gubernatis (Letture sopra la mitologia vedica, Firenze 1874; Mitologia comparata, Milano 1880) e M. Kerbaker (La scienza delle religioni, 1882), che divulgarono in Italia le dottrine della scuola di Max Müller, Carlo Puini, i cui Saggi di storia della religione (1882) si possono considerare come "il manuale di scienza delle religioni più completo, quanto allo schema, che allora si possedesse", F. Finzi che ci diede "la prima trattazione particolareggiata della religione babilonese e assira" (nella seconda parte [Mitologia] delle sue Ricerche per lo studio dell'antichità assira, Torino 1872), D. Castelli (Storia degli Israeliti secondo le fonti bibliche criticamente esposte, Firenze 1887-88), I. Guidi (v.); classicisti eome D. Comparetti (Edipo e la mitologia comparata, Pisa 1867; Laminette orfiche edite ed illustrate, Firenze 1910), e V. Puntoni (Studi di mitologia greca ed italica, I, Pisa 1884; Il mito e il canto di Lino, in Studi e docum. di st. e dir., VI, 1885; Sulla narrazione del mito di Prometeo nella Teogonia esiodea, in Mem. R. Accad. Torino, 1888, ecc.); medievalisti come F. Tocco (L'eresia nel Medioevo, Firenze 1884), A. Crivellucci (Storia delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, Bologna 1885-86 e 1907, voll. 3 fino all'origine del potere temporale), ecc.
Nella transizione da questo periodo al successivo B. Labanca, cultore di storia cristiana (Il Cristianesimo primitivo, Torino 1886; Il papato, ivi 1905), fu uno dei primi a sentire l'importanza della storia delle religioni come disciplina a sé (Prolegomeni alla storia comparativa delle religioni, in Coenobium, 1909). Nel secondo periodo, cioè negli anni dopo il 1900, sorse e gradatamente si affermò una vera e propria storiografia religiosa, prima più o meno direttamente ispirata dal movimento modernistico, poi sempre più autonoma e scevra d'interferenze extrascientifiche e sempre più orientata in senso storico, sebbene con diversi indirizzi.
Tra i cultori contemporanei di studî storico-religiosi, che hanno tenuto o tengono insegnamenti in università regie, ricorderemo U. Fracassini, S. Minocchi, U. Pestalozza, R. Pettazzoni, N. Turchi (storia delle religioni); E. Buonaiuti, A. Faggiotto, A. Omodeo, A. Pincherle, L. Salvatorelli (cristianesimo); A. Castellani, C. Formichi, P. E. Pavolini, L. Suali, G. Tucci (religioni dell'India e dell'Estremo Oriente); G. Furlani (religione babilonese e assira); U. Cassuto, I. Zolli (religione ebraica); M. Guidi, G. Levi Della Vida, C. A. Nallino (Islām); G. Farina (religione dell'Egitto antico).
In questi ultimissimi anni lo studio delle religioni si è imposto, anche in Italia, anche alla cultura cattolica.
Soppresse nelle università italiane le facoltà teologiche nel 1873, restò solo l'antica cattedra di storia della Chiesa nell'università di Napoli, tenuta dal 1885 al 1904 da Raffaele Mariano (v.). Il Labanca era professore di filosofia morale nell'università di Pisa quando nel 1886 fu autorizzato a tenere un corso di storia delle religioni in quella di Roma; l'autorizzazione gli fu rinnovata l'anno seguente per un corso di storia del cristianesimo, e così per gli anni successivi, finché nel 1892 fu stabilita nell'università di Roma la eattedra di storia del cristianesimo. Ancora nel 1909, a proposito di un libro inglese di L. H. Jordan su "The study of religion in the italian Universities" (contenente fra l'altro la traduzione dello scritto di B. Labanca, Difficoltà antiche e nuove degli studi religiosi in Italia, 1890), uno studioso belga delle religioni, E. Goblet d'Alviella, poteva scrivere che esso meglio si sarebbe dovuto intitolare "La mancanza degli studî religiosi nelle universitȧ italiane". Ma presto si ebbero le prime libere docenze in storia delle religioni e i primi insegnamenti ufficiali dati per incarico a Milano, Bologna, Firenze e Pisa. La prima cattedra stabile di storia delle religioni fu istituita nel 1923 nell'università di Roma; una seconda si avrà nell'università di Milano nel 1936. Nella università di Roma fu istituita nel 1926 una speciale "Scuola di studî storico-religiosi" di cui fanno parte insegnamenti di storia delle religioni, storia del cristianesimo, archeologia cristiana, istituzioni musulmane, ecc., e anche, dal 1931, una cattedra di "religioni e filosofie dell'India e dell'Estremo Oriente". Una cattedra di filosofia della religione è stata istituita (1934) nell'università cattolica di Milano, e un'altra di storia delle religioni si ha in Roma, nel Pont. Istituto Biblico.
I periodici di storia delle religioni (i primi, d'ispirazione più o meno modernistica, ebbero vita breve, alcuni addirittura effimera, specie dopo la condanna del modernismo) sono, in ordine di tempo: Studi religiosi, di Minocchi (Firenze 1901-1907), Vita religiosa del Minocchi (1908, solo quattro numeri), Il Rinnovamento (Milano 1907-1909), Rivista storico-critica delle scienze teologiche (Roma 1905-1910), Bollettino di letteratura critico-religiosa (ivi 1914-15), Rivista di scienza delle religioni (ivi 1916, due soli fascicoli), Bollettino di studi storico-religiosi (ivi 1921), Religio (ivi 1919-20), Gnosis: studi storici di religione e filosofia di V. Macchioro e A. Renda (Napoli 1921), Alle fonti delle religioni di C. Formichi e G. Tucci (Lanciano 1921-1923). Più vitale fu la Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi di A. Bonucci (Perugia 1920-1923). Nel 1925 furono fondati da C. Formichi, R. Pettazzoni, G. Tucci gli Studi e materiali di storia delle religioni, che nel 1927 divennero, sotto la direzione di R. Pettazzoni, l'organo della Scuola di studî storico-religiosi nell'università di Roma. Dal 1925 si pubblicano le Ricerche religiose di E. Buonaiuti, che nel 1934 presero il nome di Religio. Alla divulgazione della cultura religiosa provvidero specialmente la rivista Bilychnis: rivista mensile di studi religiosi (1911-1932) e il Progresso religioso di A. Puglisi (dal 1921).
Bibl.: E. Hardy, Zur Geschichte der vergleichenden Religionsforschung, in Archiv für Religionswissenschaft, IV (1901); J. Réville, Les phases succesives de l'histoire des religions, Parigi 1909; A. van Gennep, Religions, Moeurs et Légendes, s. 5ª, ivi 1914; L. Salvatorelli, Introduzione bibliografica alla scienza delle religioni, Roma 1914; O. Gruppe, Geschichte der klassischen Mythologie und Religionsgeschichte, Lipsia 1921; H. Pinard de la Boullaye, L'étude comparée des religions, voll. 2, Parigi 1922-25; R. Pettazzoni, Svolgimento e carattere della storia delle religioni, Bari 1924; E. Lehmann, Zur Geschichte der Religionsgeschichte, in Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, I, Tubinga 1925; R. Pettazzoni, Per la preistoria della storia delle religioni, in Studi e materiali di storia delle religioni, I (1925); C. Clemen, Die Anwendung der Psychoanalyse auf Mythologie und Religionsgeschichte, in Archiv für die gesamte Psychologie, LXI (1928); R. F. Merkel, Die ätteste holländische Religionsgeschiche in Nieuw Theologisch Tijdschrift (1933).
Per gli studî italiani: B. Labanca, Gli studi religiosi nella università di Roma, in L'Università, 1888; id., Difficoltà antiche e nuove degli studi religiosi, in Rivista di filosofia scientifica, 1890; L. H. Jordan-B. Labanca, The study of religion in the Italian Universities, Oxford 1909; L. H. Jordan, The study of religion in Italian Universities: a half-century survey, in The American Journal of Theology, XXIII (1919), p. 41 segg.; S. Minocchi, La scienza delle religioni nelle università italiane, in Rassegna contemporanea, 1909; id., L'insegnamento religioso nelle scuole italiane, in La cultura contemporanea, 1912; N. Turchi, Per la storia della cultura religiosa superiore in Italia, in La cultura contemporanea, 1911-12 (e in Saggi di storia delle religioni, Foligno 1924); R. Pettazzoni, Lo studio delle religioni in Italia, in Nuova Antologia, 1 maggio 1912; L. Salvatorelli, Gli studi religiosi in Italia e l'opera di Baldassare Labanca, in La cultura contemporanea, 1913 (e in Saggi di storia e politica religiosa, Città di Castello 1914).