Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Profetico anticipatore degli scenari dell’architettura degli ultimi 30 anni, Rem Koolhaas è una figura sui generis nella seconda metà del Novecento. Individualista, poliedrico, nietzschiano, Koolhaas appare infatti un riferimento per comprendere non solo l’attuale condizione dell’architettura, ma anche l’ambiguo ruolo del suo tradizionale apologeta, l’architetto. Nella complessa biografia dell’intellettuale olandese, scritti, progetti e opere realizzate costituiscono un vasto campionario di espressioni intorno al tema cruciale della sua ricerca: l’architettura in relazione alla dimensione metropolitana dei fenomeni urbani contemporanei.
Nato a Rotterdam nel 1944, Koolhaas all’inizio degli anni Sessanta lavora come giornalista presso il quotidiano olandese “Haagse Post”. Parallelamente si interessa di cinema avviandosi alla carriera di sceneggiatore e fondando, con altri, il gruppo “1, 2, 3, enz.” di cui restano alcuni cortometraggi e, nel 1969, l’ambizioso ma fallimentare lungometraggio La schiava bianca. Dalla formazione letteraria e cinematografica deriva l’interesse per la cultura urbana contemporanea e l’attitudine a registrarne la grande vitalità. Come già nei primi reportage anche nelle sceneggiature lo sguardo di Koolhaas si esercita nella descrizione minuziosa di una quotidianità apparentemente inessenziale, quasi surreale, che ne esalta proprio la banalità e l’immediatezza espressiva e rifiuta tanto le consuetudini più moralistiche che le tensioni ideologiche, ovvero le istanze di quella generazione del Sessantotto alla quale pure anagraficamente appartiene.
Proprio nel 1968 decide di dedicarsi agli studi di architettura iscrivendosi all’Architectural Association School di Londra, dove studia con Elia Zenghelis, con il quale avvia un proficuo sodalizio intellettuale che porta, tra gli altri, all’importante progetto teorico Exodus o i prigionieri volontari dell’architettura, del 1972. Qui la critica tanto agli esiti urbanistici del funzionalismo modernista che al mito neoavanguardista di un’utopia di massa, sfocia nella proposta di una visionaria, edonistica megastruttura – debitrice delle coeve ricerche del gruppo radicale italiano Superstudio – polemicamente sovrapposta al tessuto della metropoli londinese, come un’oasi dei desideri individuali ove gli abitanti della città siano liberi di riparare.
Ma la metropoli a cui guarda Koolhaas è soprattutto quella americana. Nel 1972 una borsa di studio Harkness gli consente un periodo di ricerca negli Stati Uniti. Alla Cornell Univesity di Ithaca insegna nel corso di Oswald Mathias Ungers, dal quale mutua l’importanza della città come orizzonte di riferimento obbligato per l’azione dell’architettura e la consapevolezza del ruolo della cultura del movimento moderno negli esiti dell’architettura più recente. All’Institute for Architecture and Urban Studies di New York, diretto da Peter Eisenman, prende in esame l’opera di Ivan Leonidov e dei costruttivisti russi, e soprattutto avvia la stesura di alcuni saggi che convergono nella pubblicazione di Delirious New York, una sorta di cronistoria critica delle vicende di Manhattan, che Koolhaas definisce “un manifesto retroattivo”, in grado cioè di dare a posteriori uno statuto teorico al grande laboratorio urbanistico e architettonico che la città è stata dall’inizio dell’Ottocento. I testi esplorano lo sviluppo della griglia della città, funzionalmente isotropa, e l’invenzione del grattacielo, macchina urbana che consente il massimo sfruttamento del suolo favorendo il “delirante” sviluppo verticale della città. Il libro, che esce nel 1978, suscita grande clamore proprio per la sua capacità di lasciare emergere il grande rimosso della tradizione modernista: la cultura della congestione e la selvaggia bellezza della metropoli del Novecento, figlia mai completamente riconosciuta dall’urbanistica più ortodossa. The Sparkling Metropolis (La metropoli scintillante) sarà infatti il titolo della mostra al Guggenheim Museum di New York che accompagna l’uscita del libro, presentando una serie di disegni realizzati dall’Office for Metropolitan Architecture (OMA, lo studio che Koolhaas fonda nel 1975 insieme a Elia Zenghelis e alle rispettive mogli, le pittrici Madelon Vriesendorp – alla quale si debbono gli acquarelli che illustrano il libro – e Zoe Zenghelis. Sono proprio i progetti ipotetici dell’OMA a costituire l’ultimo capitolo di Delirious New York e dunque la “conclusione immaginaria” della vicenda di Manhattan. Una conclusione che per Koolhaas diventa l’argomento a favore di una seconda stagione del manhattanismo, fase operativa in cui lo studio, dalle sedi di Londra prima e di Rotterdam dal 1980, avvia una stagione di interventi concreti in campo architettonico e urbanistico.
Dopo il successo al concorso per il Parlamento dell’Aja nel 1978, lo studio realizza alcuni progetti ad Amsterdam, Rotterdam e L’Aja, dimostrando la possibilità di un approccio coerentemente moderno all’interno dei tessuti storici delle città europee, in aperta polemica con la deriva postmodernista di quegli anni. Nel 1985, con concorso per il parco del XXI secolo nell’area della Villette a Parigi, OMA reinventa la nozione stessa di urbanistica attraverso un progetto concepito deliberatamente più come strategia che come design: “Laddove l’architettura propone sempre una soluzione palpabile e costruita abbiamo cercato, per parte nostra, di lavorare invece sull’organizzazione e sul programma per cercare nuove situazioni culturali ‘libere’ dall’architettura”. La lezione del manhattanismo è qui accolta proprio nel programma funzionale che viene organizzato senza il ricorso a una specifica formalizzazione architettonica attraverso una serie di fasce parallele tra loro indipendenti, che alludono alla sovrapposizione dei piani del grattacielo costituendo un tutto che trascende la sommatoria delle parti. Allo stesso tempo una griglia di elementi puntiformi di piccola scala e l’individuazione di alcuni edifici speciali costituiscono la controparte architettonica che tiene in tensione il programma “criticando” il primato della sua dimensione sociale. Nello stesso spirito vengono sviluppate, anch’esse senza seguito, le proposte per l’Expo di Parigi del 1989 e per il piano della ville nouvelle parigina Melun-Senart.
All’insegna di questo dualismo tra l’architettura e la sua dimensione programmatica, alla fine degli anni Ottanta, l’OMA – che Koolhaas, l’unico rimasto della formazione originaria, trasforma in una sorta di laboratorio sperimentale con un numero crescente di collaboratori più giovani – mette in atto una intensa ricerca progettuale alla scala della metropoli. Negli anni della nascita della nuova Europa, Koolhaas intravede un nuovo ruolo per l’architettura, simbolicamente rappresentato da quella che definisce la Bigness, ovvero la Grande Dimensione, una formula che aggiorna i temi sottesi alla tipologia del grattacielo teorizzando le nuove possibilità dell’architettura a partire dal funzionamento dei grandi edifici-contenitore della metropoli occidentale. Negli anni in cui si afferma la tendenza decostruttivista (alla quale lo stesso Koolhaas verrà all’inizio associato), progetti come la nuova Biblioteca di Francia a Parigi e il Grand Palais di Lille – una grande struttura ovoidale che ingloba un centro congressi, un auditorium e uno spazio fieristico –, si offrono all’opposto come “edifici del terzo tipo”, dove attraverso una sapiente economia formale, si indaga quel “regime di congestione” delle funzioni già riconosciuto nei grattacieli di Delirious New York.
Indipendenza della facciata dal “contenuto” dell’edificio, autonomia delle sue parti interne e una decisa indifferenza al contesto urbano, costituiscono alcuni dei punti teorici della Bigness che Koolhaas esplicita nel libro S, M, L, XL, pubblicato nel 1995. Il volume di oltre 1300 pagine raccoglie gli edifici e i progetti dell’OMA in 20 anni di attività, accompagnati dai saggi teorici di Koolhaas e archiviati per drastiche categorie dimensionali (Small, Medium, Large, Extra Large), a denunciare l’impossibilità dell’architettura di operare nella metropoli contemporanea controllandone lo sviluppo e la configurazione con la tradizionale verifica progressiva modernista “dal cucchiaio alla città”. Come in una sorta di rivista cinematica, i testi e le architetture sono immersi in un profluvio di materiali eteorgenei, organizzato dal grafico canadese Bruce Mau nello spirito di “una caduta libera nello spazio tipografico dell’immaginazione”. Tra i progetti appena completati spiccano la Kunsthal di Rotterdam e la Villa dall’Ava a Parigi, in cui la cifra compositiva dello studio raggiunge la maturità attraverso una sapiente reinterpretazione della promenade architecturale di Le Corbusier.
Alla fine degli anni Novanta, mentre si realizzano progetti come l’innovativa villa a Bordeaux, l’interesse di Koolhaas si sposta prepotentemente sui grandi fenomeni legati allo sviluppo globale delle società occidentali, osservandone gli effetti sulla condizione urbana del pianeta. Il tema, già anticipato dal saggio “La città generica” sul quale si chiudeva S, M, L, XL, affronta il senso e la necessità dell’architettura dopo l’architettura, ovvero il nuovo ruolo della disciplina una volta esaurito il compito tradizionale di dare forma e identità all’abitare. Koolhaas è qui animatore e figura di riferimento di alcuni progetti collettivi, i cui prodotti si situano a cavallo tra arte, architettura, sociologia urbana, comunicazione. Spicca il programma di ricerca Harvard Project on the City, organizzato all’interno dei corsi tenuti da Koolhaas ad Harvard, che studia prima il “grande balzo in avanti” della grande conurbazione sul delta del fiume Pearl, nella Cina meridionale, e successivamente indaga il proliferare dello junkspace, lo spazio-spazzatura anonimo alienante ma straordinariamente efficiente, degli aeroporti, delle hall d’albergo, delle sale congressi, e soprattutto delle infinite declinazioni dello shopping. Questo nuovo modo di guardare all’architettura che trascende ogni questione legata al modo tradizionale di intendere l’attività progettuale dell’architetto, culmina con l’ufficializzazione della nuova struttura professionale, gemella di OMA, AMO (Architecture Media Organization): un think tank tutto dedicato a questioni teoriche e “virtuali” legate all’identità dei committenti, in cui l’architettura, osservata come metafora di se stessa, cerca di recuperare quel terreno perso a vantaggio dell’informatica, della gestione, del marketing.
Mentre OMA continua il tradizionale mandato dell’architettura come disciplina del costruire, con AMO trionfa la descrizione ossessiva della nuova realtà post-urbana, raccontata, fotografata, graficizzata. Un bilancio del doppio registro dell’attività di Rem Koolhaas a cavallo del millennio è affidato alla mostra Content, vasta retrospettiva itinerante che esordisce nell’ottobre del 2003 alla Neue Staatsgalerie di Berlino. Ridimensionata la collaborazione con il marchio Prada dopo la realizzazione della controversa boutique di New York, completati gli importanti progetti per il campus dell’IIT a Chicago, la Biblioteca di Seattle e la nuova ambasciata olandese a Berlino, Koolhaas si assicura in Cina la più grande commessa mai ottenuta dallo studio: il grattacielo “circolare” per la televisione CCTV a Pechino. Alta 230 metri, nel suo esasperato feticismo formale la torre è una implicita risposta alla fine del grattacielo simbolicamente sancita dall’attentato alle Twin Towers di New York l’11 settembre 2001. Gli automatismi programmatici della tipologia studiata da Koolhaas ai suoi esordi lasciano il posto all’esaltazione del rapporto tra rivestimento dell’edificio e skyline, trasformandone la sagoma in uno dei loghi più sfruttati nel ricchissimo merchandising della mostra e icona aggressiva del libro-catalogo che l’accompagna.
A fronte della perdita di identità e di status imposta all’architetto dalla instabilità crescente del mercato e delle sue regole, Koolhaas alla fine del Novecento conferma il ruolo di colui che accetta i codici espressivi attraverso i quali si esprime la società senza nessun tentativo di opporre a essa la minima frizione culturale ma, anzi, interpretandone sempre più provocatoriamente le ansie e le ambizioni. In fondo coerente all’esortazione corbusiana “architettura o rivoluzione”, per Koolhaas, l’architettura, lungi dal cambiare il mondo, ne deve piuttosto inverare la dimensione più radicale e progressiva, “sbarazzandosi – come recita la motivazione del premio Pritzker, assegnatogli nel 2000 – di tutti quei moralismi fuorvianti che l’hanno afflitta e debilitata durante tutto il XX secolo”.