PAGNOTTA, Remigio
PAGNOTTA, Remigio. – Nacque ad Avellino il 29 settembre 1869, da Domenico, orologiaio, e da Ortensia Capaldo.
Ultimo di tre figli, rimase orfano di padre quando aveva appena tre anni. I parenti paterni offrirono aiuto e ospitalità alla famiglia, che andò a vivere sotto lo stesso tetto con la nonna Adelaide Caputi e i quattro zii, tutti celibi.
Nonostante un’infanzia segnata da numerosi e improvvisi lutti familiari, con la morte tra il 1881 e il 1882 di due zii e del fratello maggiore Carmine, Pagnotta riuscì tuttavia a compiere gli studi classici – grazie all’iniziale sostegno economico dello zio Vincenzo, anch’egli orologiaio – sino a conseguire il diploma di professore di matematica. Insegnò quella materia nel R. liceo Colletta di Avellino, fino a quando ottenne il posto di vicesegretario nell’amministrazione delle poste e dei telegrafi. Dopo appena sei mesi, però, mostrando un’indole inquieta e ribelle che già gli aveva alienato il sostegno economico della famiglia, si dimise da tale incarico, proseguendo gli studi in giurisprudenza, senza tuttavia laurearsi, e dedicandosi alla politica e all’attività giornalistica. Insieme a Ferdinando Cianciulli di Montella fu, agli inizi del Novecento, l’esponente di spicco del socialismo irpino.
Analogamente a molti compagni di fede meridionali, si nutrì di un pensiero abbastanza eclettico, poggiante su un ampio sostrato di cultura positivistica, che ebbe nell’anticlericalismo, nel massimalismo e nel bloccardismo i connotati più appariscenti.
Negli anni precedenti lo scoppio della Grande Guerra Pagnotta fu particolarmente attivo sul piano politico-amministrativo. Consigliere comunale del capoluogo irpino nel 1902, l’anno successivo fu eletto sindaco della città, a capo di una coalizione formata con i radicali sotto l’egida dell’Unione dei partiti popolari, raggruppamento costituito in Italia dal lombardo Felice Cavallotti all’indomani delle repressioni sanguinose del maggio 1898.
La conquista del Comune fu il frutto di una martellante campagna moralizzatrice della vita politica locale i cui esiti si inscrivevano nel clima più generale di lotta al malcostume politico nel Mezzogiorno avviata dall’inchiesta Saredo (dal nome del senatore ligure, Giuseppe Saredo che sul finire del 1900 ebbe l’incarico di compiere un’indagine a Napoli e provincia su gli andamenti dell’amministrazione pubblica) e proseguita ad Avellino con il decreto di scioglimento del consiglio comunale per gravi irregolarità amministrative accertate dall’inchiesta dell’ispettore ministeriale Ettore Gajeri del 1902.
Pagnotta ricoprì la carica di sindaco dal marzo 1903 al dicembre 1904 partecipando, in quella veste, anche alla costituzione dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), e facendo parte fino al 1906 del direttivo, in posizione di minoranza. L’impegno amministrativo fu una esperienza di breve durata, minata dalla gravità della situazione finanziaria ereditata dalla precedente gestione ma anche dalle rigidità ideologiche della componente socialista in seno al consiglio comunale. A ruota di tale fallimento si consumò anche l’alleanza con i radicali, che spinse i socialisti irpini su posizioni sempre più massimaliste e di disimpegno nel governo municipale. Pagnotta fu il principale ispiratore di queste posizioni, rilanciandole anche attraverso un’intensa attività giornalistica, prima dalle pagine dell’organo del Partito socialista italiano (PSI), l’Avanti e, poi, nel 1910-11, come direttore del periodico L’Irpinia nuova.
Spirito fondamentalmente libero e insofferente, visse la sua militanza in modo autonomo, definendosi, su un giornale locale, «un socialista senza aggettivi» (La Propaganda, 5 novembre 1903). Questo atteggiamento lo indusse a interpretare in modo radicale gli orientamenti emersi nel PSI sulla neutralità nel primo conflitto mondiale, fino a sostenere una posizione apertamente pacifista.
Chiusa con la guerra l’esperienza politica, pur senza mai rinnegare la sua fede socialista, si dedicò a un’attività di intermediario finanziario. Nata in sordina, quasi come un naturale prolungamento del suo spirito di servizio, tale attività si tramutò, nel 1921, in un vero e proprio lavoro con la registrazione come cambiavalute alla Camera di commercio di Avellino. Gli affari, accompagnati da una crescente notorietà, guadagnata soprattutto in occasione del fallimento della locale Banca di Sconto – circostanza nella quale aveva assistito con successo molti clienti della filiale avellinese dell’istituto – si dispiegarono su una ampia gamma di operazioni, da quelle di cambio, all’acquisto, vendita, conversione di titoli pubblici e privati, alle operazioni di riporto e anticipazioni su titoli.
Nella temperie monetaria e finanziaria del primo dopoguerra, segnata da forte instabilità dei cambi e debolezza dei conti pubblici, la finanza privata e i grandi gruppi industriali arricchitisi durante gli anni del conflitto si diedero a un’intensa attività speculativa, tangibile nell’aggressiva politica di espansione dei principali istituti nazionali di credito, non contrastata efficacemente dalla Banca d’Italia. Lo stesso Mezzogiorno fu contagiato dalla febbre bancaria e non rimase estraneo ai pericolosi giochi della finanza, trovando nei ceti mercantili, arricchitisi nel periodo bellico, e nelle piccole e grandi fortune prodotte dall’emigrazione interlocutori interessati, per quanto sprovveduti. In questo clima, Pagnotta si impose come un affidabile ed eclettico intermediario finanziario, in virtù non solo della riconosciuta integrità morale e della notorietà acquisita nel corso della sua militanza politica ma anche della fama di geniale e fortunato interprete dei complessi meccanismi della finanza.
Trascinati dalla prospettiva di facile arricchimento, intorno a Pagnotta si raccolsero schiere di negozianti, professionisti, impiegati, e giù nella scala sociale, di artigiani, operai, donne. Della generosità del cambiavalute e della disponibilità ad assecondarli approfittò, in particolare, una ristretta fascia di negozianti cittadini con interessi estesi dai traffici mercantili all’edilizia, a lui legati da antica amicizia e spesso da fede politica, che lo coinvolsero e se ne servirono in una sempre più incontrollata attività finanziaria. Questi personaggi, bollati dalla stampa più ostile alle gesta del cambiavalute come la «banda Pagnotta», finirono per snaturare le funzioni del già eclettico intermediario, proponendolo come una sorte di personal banker a servizio dei diversi ed esosi interessi del suo entourage. Incapace di porre un argine alle richieste crescenti e pressanti dei suoi amici, Pagnotta si trovò al centro di un formidabile e frenetico circuito di denaro nel quale di volta di in volta figurò come accettante, avallante, prenditore di cambiali; ricorse ora all’uno ora all’altro amico, creò effetti, li rinnovò trasformandoli in altri di nuova creazione.
L’efficace immagine di una «banca ambulante», richiamata dalla cronaca dell’epoca per descrivere la sua incessante e informale attività finanziaria, ne riassume l’evoluzione ed il profilo di insider lending in grado di muoversi con agilità tra i diversi livelli del mercato del denaro e di superare il diaframma che, nonostante l’ampliamento dei servizi bancari, ancora separava la società locale dalle moderne istituzione del credito.
La sponda di una così poliedrica attività, infatti, fu offerta da un sistema bancario ben disposto a fornire al cambiavalute avellinese i mezzi necessari per sostenere le sue diverse e sempre più azzardate operazioni. Sfruttando, nel corso della prima metà degli anni Venti, il carattere sregolato delle attività bancarie, Pagnotta, quantunque privo di garanzie patrimoniali, fu ammesso facilmente al credito, accollandosi però costi assai onerosi per le operazioni a breve, cui faceva sempre più frequentemente ricorso, per tessere l’incredibile ragnatela dei suoi rapporti creditizi. Si trattava di una condizione insostenibile, favorita semplicemente dall’anarchia del mercato monetario.
La fragilità dell’impianto sulla quale era surrettiziamente cresciuta la fama di Pagnotta come genio della finanza esplose nel corso del 1925, in concomitanza con il cambiamento della politica monetaria e il ritorno all’ortodossia finanziaria, con i decreti del ministro Alberto De Stefani contro la speculazione di borsa, la reintroduzione dei controlli sui cambi e l’aumento del tasso di sconto. Alla fine dello stesso anno, Pagnotta consegnandosi alla giustizia, concluse la sua fulminante carriera di agente finanziario. Per lui, oltre alle porte della galera per bancarotta, si aprì un interminabile e complicato contenzioso fallimentare, aggravato dalla iniziale impossibilità di stabilire compiutamente l’ammontare effettivo della massa debitoria per l’assenza di qualsiasi documentazione contabile prodotta dal fallito. Alla fine l’entità del fallimento poté essere accertata in oltre 5 milioni di lire, a fronte di un montante di crediti iniziali di almeno il doppio. Condannato a sei anni di reclusione uscì nel 1931, segnato nel fisico e nel morale. Mai sposato, si trasferì dalla sorella a Salerno.
Qui morì il 14 luglio 1940, in totale solitudine.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero Interno, Dir. Gen. Pubblica Sicurezza, Casellario politico centrale, R. P., f. 79999; Arch. di Stato di Avellino, Tribunale Civile, Fallimento P. R., 1925, b. 3319; Arch. di Stato di Napoli, Corte di Appello, Sez. Penale VIII, Sentenzacontro P. R., 1931, n. 263. G. Moricola, Il cambiavalute in rosso. Uomini ed affari ad Avellino tra dopoguerra e fascismo, Milano 2011; Id., L’uomo che sapeva leggere i listini. Relazioni creditizie e affari ad Avellino negli anni Venti del Novecento, in Quaderni storici, XLVI (2011), 2, pp. 555-576.