CHALLANT, René de
Figlio unico di Philibert quarto conte di Challant e di Luisa d'Arberg, nacque in Val d'Aosta alla fine del 1503 o all'inizio dell'anno seguente. Nel 1518, alla morte del padre, gli succedette nei considerevoli beni degli Challant del ramo d'Aymaville. Prese pure immediatamente il suo posto alla corte di Savoia come cavaliere dell'Ordine del Collare, consigliere e ciambellano del duca. L'anno successivo, alla morte di sua madre, venne investito della baronia di Bauffremont in Lorena e della signoria di Valangin, principato territoriale vicino a Neuchâtel.
Il ruolo dello Ch. alla corte e negli Stati sabaudi fu nello stesso tempo importante e complesso, poiché egli ricoprì cariche militari, politiche e diplomatiche, pur sempre conservando una posizione preminente in Val d'Aosta. Fu iniziato molto giovane alle fatiche della vita militare. Era succeduto al padre come castellano di Bard, una piazzaforte che dà accesso alla Valle d'Aosta, ed esercitava realmente queste funzioni fin dal 1524. Fatto prigioniero nel febbraio 1525 a Pavia ove combatté a fianco dei Francesi, dovette impegnare il suo feudo di Bauffremont per riacquistare la libertà. Ma fu dopo la sua nomina a maresciallo di Savoia, ottenuta il 6 genn. 1528, che si affermò come uno dei primi personaggi dello Stato sabaudo.
Questa designazione fu fatta previo gradimento del re di Francia consultato dal duca Carlo II, ed è difficile pensare che vi avessero contribuito solo la nascita e il patrimonio dello Ch.; le sue azioni nella campagna d'Italia, i comandi già esercitati, particolarmente a Vercelli nel 1526 quando gli eserciti imperiali percorrevano il Piemonte, dovettero confermare il suo talento militare tanto da giustificare tale favore.
La posizione dello Ch. alla corte fu d'altra parte rafforzata dal suo secondo matrimonio, nel gennaio 1528, con Mencia di Portogallo nipote della duchessa Beatrice, e dalla sua nomina a luogotenente generale nel settembre del 1529, onore, quest'ultimo, che gli fu elargito in previsione dell'assenza del duca che doveva recarsi a Bologna per l'incoronazione dell'imperatore. Lo Ch. non ebbe occasione di esercitare la luogotenenza se non dopo la morte di Carlo II; bisogna però notare che da quel momento egli agì come luogotenente generale di Savoia ogni volta che il duca si trovasse in Piemonte, per lo meno fino al 1536. Si trovò dunque ben presto alle prese col problema di Ginevra.
Nel 1526 la città si era unita con un patto di concittadinanza a Berna e Friburgo, costituendo con ciò una minaccia alla giurisdizione temporale del vescovo e ai tradizionali diritti della casa Savoia. Questa diminuzione dell'influenza sabauda si faceva sentire anche nel vicino Paese di Vaud, il cui governatore era Amedeo di Genève-Lullin, cugino dello Ch., uno dei più importanti protagonisti di tutti i negoziati che si tennero dal 1529 al 1536 e anche oltre fra gli Svizzeri e la corte di Savoia. Lo Ch. era in una posizione particolarmente favorevole in quanto signore di Valangin e anche per la sua conoscenza della lingua tedesca.
La questione di Ginevra era sempre al centro di tutti i negoziati con gli Svizzeri. La posizione dello Ch., che certamente ben conosceva i suoi interlocutori, non cambiò mai: sapendo della potenza militare di Berna, cercò costantemente una soluzione negoziata.
Il primo obbiettivo da raggiungere era quello di isolare Ginevra, militarmente e politicamente, convincendo Berna e Friburgo, d'altronde alleate al duca di Savoia, a rinunciare al giuramento di concittadinanza. L'altro punto consisteva nel far riconoscere dai Cantoni i diritti del vescovo e del duca di Savoia su Ginevra.
Lo Ch. non trascurò alcun mezzo per raggiungere i suoi fini e seppe convincere Carlo II a comperare largamente dei partigiani. Sfruttò anche con grande abilità i dissensi che non tardarono a sorgere tra Berna e Friburgo a causa del diffondersi della Riforma. Malgrado la sua scarsa fiducia in un'azione militare che avrebbe potuto privare i Savoiardi dell'alleanza dei Bernesi, la sua volontà di negoziare la questione ginevrina cozzò contro il problema religioso: pur opponendosi, per timore di indisporre i Bernesi, alla violenta repressione praticata da Amedeo di Genève-Lullin, lo Ch. rifiutò sempre di ammettere la benché minima possibilità di autorizzare la predicazione riformata, non soltanto in Savoia, ma anche a Ginevra e nel Paese di Vaud. E per i Bernesi questa libertà costituiva il punto di partenza di ogni intesa a proposito di Ginevra.
Nelle sue grandi linee, poiché non ci è possibile qui seguirla nei dettagli, l'azione dello Ch. nei confronti di Berna, Friburgo e dei Cantoni ci può apparire un po' esitante o piuttosto conciliante e infatti egli non riuscì a persuadere né le due città né i Confederati, pur essendovi stato qualche volta vicino, ad assumere misure severe contro Ginevra e il giuramento di concittadinanza. Il formale riconoscimento dei diritti del vescovo e del duca, ottenuto grazie all'arbitrato del conte di Gruyère nell'ottobre del 1529, urtò contro la tenace opposizione di Ginevra. Il compito dello Ch. non fu certo facilitato dall'atteggiamento del vescovo Pierre de la Baume il quale, un anno dopo, fu l'anima di un colpo di mano sulla città: il fallimento di questo tentativo complicò seriamente gli affari del duca di Savoia, che non riuscì a convincere il vescovo a riconoscere pubblicamente la sua responsabilità. Un po' per guadagnare tempo e un po' per evitare rappresaglie, lo Ch. accettò, nel corso di una conferenza tenutasi a Saint-Julien presso Ginevra nella quale si trovarono riuniti i rappresentanti dei Cantoni, i Ginevrini e i Savoiardi, un'ipoteca sul Paese di Vaud come contropartita all'assicurazione della rinuncia alla concittadinanza nel caso che uno degli avversari avesse violato la tregua.
Questa decisione, la cui accettazione fu rimproverata allo Ch., era un'ulteriore manifestazione della crescente cattiva volontà dei Cantoni nei confronti del duca di Savoia: nella Dieta che tennero a Payerne, alla fine di quello stesso anno 1531, lo condannarono a pagare 21.000 scudi per i danni causati a Ginevra. Carlo II, che era già gravemente indebitato con gli Svizzeri, raccomandò allo Ch. di ottenergli una dilazione e quando il debito fu finalmente saldato, nel maggio 1533, cercò, ma invano, di fare annullare l'ipoteca sul Paese di Vaud. La ripresa dei negoziati con Friburgo nel 1531, con Berna nel 1534 e la speranza di vedere riconosciuti i diritti del duca in seguito alla sentenza favorevole di una Dieta dei Cantoni a Lucerna, pur ridando fiato ai rappresentanti delle parti, non condusse a niente.
Con l'ingresso delle truppe bernesi a Ginevra nel febbraio del 1536, la conquista del Paese di Vaud e l'occupazione del Chiablese, si voltò pagina nella storia delle relazioni fra la Savoia e gli Svizzeri e il ruolo dello Ch. ne fu modificato pur non cessando egli mai di presentarsi come indispensabile mediatore fra essi e il duca.
Non si può disconoscere allo Ch. una sicura conoscenza degli affari ginevrini in relazione a Berna e ai Cantoni e una non meno sicura abilità nell'usare tutti i mezzi suscettibili di aiutare il gioco sabaudo; poiché risiedeva la maggior parte del tempo a Chambéry, lo Ch. costituiva il centro attivo delle informazioni e degli intrighi orditi dagli agenti ducali. Questa conoscenza e la duttilità che egli manifestò avevano però dei gravi limiti: la sua assoluta intransigenza sulla questione religiosa derivata da una concezione autoritaria del potere ducale e la tendenza a sottovalutare le ambizioni dell'avversario, in particolare dei Bernesi, dei quali pur non ignorava né la forza né gli appetiti, lo portarono a credere per lungo tempo che fosse possibile attizzare i contrasti fra le città e fra i Cantoni sulla questione di Ginevra. Questa illusione non finì neppure nel 1536 e lo Ch. fu senza dubbio uno di coloro che maggiormente, durante il regno di Emanuele Filiberto, accarezzarono il sogno di una rivincita sabauda contro Ginevra.
Nel tempo in cui si occupava degli affari svizzeri, lo Ch. fa anche incaricato di missioni diplomatiche presso la corte di Francia, per rassicurare Francesco I sulle reali intenzioni del viaggio di Carlo II a Bologna nel 1530 al fine di incontrarvi l'imperatore, o, nel gennaio 1536, per tranquillizzare il re timoroso di un nuovo colpo di mano sabaudo su Ginevra. Ma non era più tempo di negoziati, e la Savoia invasa dai Bernesi e dai Vallesiani richiedeva tutta l'attenzione del maresciallo. Tutti i tentativi compiuti dallo Ch. non arrestarono però l'avanzata nemica e soltanto l'intervento della corte di Francia convinse gli Svizzeri a ritirarsi, conservando peraltro tutte le conquiste fatte nel Paese di Vaud. Né lo Ch. ebbe maggior successo quando le armate di Francesco I invasero la Savoia.
Il suo atteggiamento, a dire il vero, non fu molto fermo: consigliò di abbandonare Bourg-en-Bresse e di evacuare Chambéry, mentre cercava di negoziare col conte di Saint-Pol, governatore del Delfinato, una pace separata, che fu poi sconfessata da Carlo II. Lo Ch. allora varcò le Alpi. Come governatore della Valle d'Aosta, carica nella quale era succeduto al padre, si preoccupò di trovarvi i mezzi finanziari e strategici per contenere l'avanzata dei Francesi che erano già alle porte della Tarantasia e dei Vallesiani che minacciavano di scendere dal Gran San Bernardo. Ma, a dispetto delle sue prerogative, trovò una sorda opposizione alla sua autorità di governatore: i tre stati della Valle, che si riunirono spesso ad Aosta durante quel tragico anno, gli fecero chiaramente capire (lettera del 6 sett. 1536) che non erano disposti ad obbedirgli ciecamente, col pretesto che la sua autorità era minore di quella goduta da suo padre. L'avvenimento saliente di questo periodo, il patto di neutralità del ducato d'Aosta, che restava tuttavia ligio al duca di Savoia, non sembra tuttavia dovuto alla sua iniziativa ma piuttosto a quella del vescovo Gazzino. Malgrado queste difficoltà, loCh. riuscì ad assicurare militarmente una certa precaria tranquillità alla Valle, sottratta ai Francesi e agli Imperiali.
Dopo la quasi totale dissoluzione dello Stato sabaudo lo Ch. vide le sue responsabilità di molto diminuite, nella misura in cui le località rimaste in mano al duca erano controllate da guarnigioni spagnole. Continuò tuttavia a impiegare i suoi buoni uffici a favore di Carlo II, che lo utilizzò qualche volta come ambasciatore presso l'imperatore o presso funzionari imperiali. Ma lo Ch. ormai divideva gran parte del suo tempo tra l'amministrazione dei suoi possedimenti di Bauffremont e di Valangin e quella delle sue terre e dei suoi castelli di Val d'Aosta. Il "Conseil des commis", specie di commissione permanente dei tre stati, istituita nel febbraio del 1536, lo contò sempre tra i suoi membri. Alle frequenti riunioni dell'Assemblea generale degli stati, egli rappresentava il duca e gli interessi della nobiltà e non ebbe mai timore di usare la maniera forte per contrastare gli oppositori.
Fedele alla casa Savoia, lo Ch. mantenne sempre strette relazioni con Emanuele Filiberto e fu lui a consigliare Carlo II di mandare il giovane alla corte di Carlo V, perché vi fosse costantemente un rappresentante riconosciuto degli interessi sabaudi. Dal 1553, si trasferì a Vercelli, residenza abituale di Carlo II. La morte del duca (il 17 ag. 1553) fu per lo Ch. l'occasione per esercitare in pieno i suoi poteri di luogotenente generale su quanto restava degli Stati sabaudi, mostrandosi tanto più autoritario in quanto sospettava che la sua, autorità fosse misconosciuta da molti. Ma questa sua funzione doveva bruscamente aver termine: il 18 novembre il maresciallo di Brissac entrò di sorpresa a Vercelli, s'impadronì di quel che restava del tesoro ducale e fece prigioniero lo Ch. e tutta la sua famiglia. Lo Ch. fu trasferito a Torino nel castello del Valentino e subì una prigionia di quasi due anni, nel corso della quale, mentre sua moglie energicamente impediva l'ingresso delle guarnigioni imperiali nei suoi castelli in Val d'Aosta, non cessò di escogitare ogni sorta di mezzi per uscire al minor prezzo da quella situazione.
Usò prima gli argomenti giuridici e contestò la validità della sua detenzione in quanto cittadino neutrale della Val d'Aosta e delle Leghe svizzere. Avendo la corte di Francia respinto questi argomenti, e dopo un vano tentativo di evasione, cercò salvezza in una intesa diretta fra il re di Francia e il duca di Savoia, parallelamente alle conferenze tenutesi nel maggio-giugno 1555 a Marcq fra i rappresentanti di Carlo V e quelli di Enrico II. Le proposte dello Ch., che aveva avuto un abboccamento con un segretario del maresciallo di Brissac, erano di neutralizzare gli Stati sabaudi restituiti al loro legittimo signore, con la garanzia del rispetto della neutralità da parte dei Cantoni svizzeri e degli stati generali di Savoia. Anche se l'atteggiamento di Emanuele Filiberto, che si era trincerato dentro Vercelli, poteva dar adito a qualche speranza, dato che già pensava ad un matrimonio con Margherita, sorella di Enrico II, per riavvicinarsi al re di Francia, il mutamento di posizione del duca fece perdere allo Ch. tutte le speranze di riacquistare la sua libertà grazie ad una pace negoziata, e dovette rassegnarsi a pagare un riscatto di 30.000 scudi d'oro: questa cifra ci dà un'idea del suo patrimonio, considerato che il connestabile di Montmorency, omologo francese dello Ch. e l'uomo più ricco del regno, fatto prigioniero a San Quintino da Emanuele Filiberto nel 1558, si vide richiedere 300.000 scudi.Riacquistata la libertà, lo Ch. ritornò in Val d'Aosta, dove rimaneva difflicilemantenere la neutralità, e profittando di un viaggio per sistemare i suoi affari a Valangin e a Bauffremont, cercò di incontrare i rappresentanti di Maria Tudor e di Carlo V per sollecitare il loro appoggio. A Bruxelles, incontrò Emanuele Filiberto e si preoccupò soprattutto di nottenere la luogotenenza generale degli stati, che durante la sua prigionia era stata affidata a Giovanni Amedeo di Valperga dei conti di Masino, col quale aveva avuto un dissidio durante il soggiorno a Vercelli nel 1553.
Lo Ch. conobbe un ultimo momento di gloria dopo il trattato di Cateau-Cambrésis. Si trovava al fianco di Emanuele Filiberto il giorno in cui questi lasciò i Paesi Bassi e gli confermò il suo titolo di luogotenente generale, il 5 giugno 1559. Assistette poi al matrimonio del duca con Margherita di Valois, alla presenza del re moribondo (8 luglio). Lo stesso giorno Emanuele Filiberto lo incaricò di ricevere il giuramento dei suoi sudditi nelle province recuperate al di là delle Alpi, il 12 agosto lo nominò governatore della Savoia e della Bresse e il 1º dicembre lo fece entrare nel Consiglio. Tutti questi riconoscimenti erano il frutto di una lunga intimità del nuovo duca con lo Ch., che sembrò aver recuperato tutte le cariche che aveva ricoperto prima dei disastri del 1536. Ai primi di agosto del 1559 era a Chambéry per ricevere solennemente il ducato a nome di Emanuele Filiberto e il 12 dello stesso mese pubblicò l'editto provvisorio che istituiva il Senato della Savoia, al posto del Consiglio residente di Chambéry che era stato rimpiazzato dal Parlamento di Chambéry durante l'occupazione francese. Si occupò anche delle fortificazioni delle piazze sabaude, ma la sua attività si limitò sempre più agli affari della Val d'Aosta e alle relazioni con gli Svizzeri. Nel 1557 ripresero le trattative con Berna, città dove conservava molte amicizie. Nel 1562 si giunse ad una Dieta dei Cantoni cattolici, a Nyon. Lo Ch., in quanto rappresentante di Emanuele Filiberto, fu incaricato di stipulare un'alleanza, pur cercando di trascinare Berna contro Ginevra. Il trattato di Losanna del 1564 pose provvisoriamente termine alle ambizioni del duca Emanuele Filiberto.
Pare che lo Ch. abbia trascorso gli ultimi anni nei suoi possedimenti di Bresse. Nel 1522 aveva contratto un primo matrimonio con una ricca ereditiera del Monferrato, Bianca Maria Gaspardone, vedova dalle prime nozze con Ermes Visconti, morto sul patibolo a Milano nel 1519. La giovane donna abbandonò poi lo Ch. per recarsi a Pavia e a Milano, dove si rese responsabile dell'assassinio di un ex amante, Ardizino Valperga dei conti di Masino: condannata a morte, fu decapitata a Milano il 20 ott. 1526. È entrata nella letteratura romantica come "contessa di Challant". Lo Ch. non fece nulla per strapparla alla morte e rifiutò anche l'offerta di aiuto di Carlo II, ma andò fino in fondo per rivendicare l'eredità della defunta.
Dal secondo matrimonio con Mencia del Portogallo ebbe due figlie: in favore della seconda, Isabella (1531-1596), sposata al nipote del cardinale Madruzzo, ottenne nel 1556 da Emanuele Filiberto patenti che lo autorizzavano a nominarla sua erede, contravvenendo alla consuetudine della Val d'Aosta e in particolare degli Challant, che escludeva le femmine dalla successione nei feudi. Dopo la morte di Mencia (1558) lo Ch. si sposò nuovamente con Marie, figlia di Jean de la Palud de Varambon, che morì nel 1563, e poi con Peronette, figlia di Charles de la Chambre, matrimoni dai quali non ebbe discendenti.
Erede di un grande nome degli Stati sabaudi, assicuratosi fin da giovane un'ampia autorità, lo Ch. rimase per tutta la vita il rappresentante di un ceto aristocratico la cui costante preoccupazione fu di mantenere la propria preponderanza nel governo, avversando decisamente qualunque innovazione politica o religiosa. La sua influenza fu il risultato della costante preoccupazione di affermare la sua autorità, più che di una reale abilità politica. Per questo il personaggio ci risulta venato di pusillanimità, spesso troppo preoccupato dei suoi personali interessi, come durante la prigionia, o al momento dei negoziati con i Bernesi, ai quali era interessato a causa dei suoi possedimenti di Valangin. In questo lo Ch. è uno degli ultimi esponenti dell'antico feudalesimo nei vecchi Stati sabaudi, che per diritto di nascita potevano pretendere di essere i consiglieri naturali del principe.
Lo Ch. morì ad Ambronay (ora dipartimento dell'Ain) l'11 luglio 1565. Sepolto in un primo tempo nell'abbazia di Saint-Sulpice, le sue spoglie furono poi trasportate ad Aosta nella chiesa, ora distrutta, di S. Francesco.
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