Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dal 1971 con l’agenzia Piano&Rogers, dal 1977 al 1993 con Peter Rice nell’Atelier Piano&Rice, e poi col Renzo Piano Building Workshop ha realizzato in ogni parte del mondo la sua visione di un’architettura flessibile e leggera, sostenuta da una continua sperimentazione tecnologica. Lo guidano una coerente aspirazione ad adeguarsi ai luoghi, la volontà di integrare un patrimonio condiviso di forme e l’intenzione di conciliare espressione e necessità nei procedimenti costruttivi. La sua produzione ha raggiunto esiti che sono tanto complessi e articolati quanto vari e diseguali. Si è confrontato con la grande scala e più compiutamente con l’architettura dei musei, di cui è un maestro indiscusso. Dal 1994 è ambasciatore UNESCO per l’architettura.
Renzo Piano è oggi il più celebre architetto italiano vivente, l’unico dopo Aldo Rossi ad aver ricevuto, per l’insieme dei suoi lavori, il Premio Pritzker nel 1998. Nato a Genova nel 1937, Piano studia tra il 1959 e il 1964 alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano dove ha per maestri Ernesto Nathan Rogers e Franco Albini, del quale frequenta lo studio. Subito dopo la laurea collabora per due anni con Marco Zanuso. La confidenza con gli aspetti costruttivi, che gli deriva dall’essere cresciuto in una famiglia di costruttori, e la ricerca di soluzioni tecnologicamente innovative, che tra il 1965-1970 lo portano ad avvicinarsi a Londra all’esperto di strutture spaziali Zygmunt S. Makowsky, si concretizzano nei primi studi sperimentali sulle strutture a guscio come quella presentata alla XIV Triennale di Milano del 1967. A queste prime prove sulle strutture leggere, esercizi di una sperimentazione quasi artigianale ispirata al suo amico e maestro Jean Prouvé e pubblicate su “Casabella” e “Domus”, segue la collaborazione con Louis I. Kahn per il progetto della fabbrica Olivetti-Underwood di Harrisburg in Pennsylvania (1968-1969).
Nel 1971 Piano si aggiudica, assieme a Richard Rogers, il concorso per la progettazione del nuovo Centre national d’art et de culture Georges Pompidou a Parigi. Questa esibizione della tecnologia ironica e provocatoria, scelta tra 681 progetti, e subito eletta al rango di opera-culto e simbolo modernista, ha legato lungamente il nome di Piano alla cultura dell’high-tech. Ma i percorsi meccanizzati, visibili come organi estroflessi, non sono che la parodia delle soluzioni tecnologiche, che in tutto il lavoro di Piano saranno invece tanto più ricercate quanto più nascoste. Alla grande macchina urbana per la cultura di massa, nata con l’intenzione di demistificare l’idea tradizionale di museo come luogo elitario, Piano deve, paradossalmente, i nuovi incarichi per musei che gli verranno affidati da questo momento in poi quasi esclusivamente da una committenza privata internazionale raffinata ed esigente.
Per consentire una contemplazione delle opere d’arte quieta e silenziosa Piano crea spazi rarefatti; mai neutri, per il timore di entrare in competizione con le opere esposte; mai enfatici, per la preoccupazione contraria. A partire dal Museo Menil per la collezione di arte primitiva e moderna a Houston (1982-1986), concepito come un village museum, la soluzione del problema dell’illuminazione naturale, e quindi della copertura delle sale espositive, diventa una caratteristica distintiva dei suoi spazi museali, in cui scelte tecnologiche sofisticate contribuiscono a definire la topografia dello spazio. In questo caso, ad esempio, una “foglia” in ferrocemento ripetuta per 300 volte, serve a filtrare e rifrangere la luce sulle opere che vengono esposte a rotazione, in uno spazio unico, flessibile (perché suddiviso solo da tramezzi mobili), le cui pareti sono semplicemente tavolati su un’ossatura metallica, come nella edilizia coloniale. Nel Padiglione Cy Twombly sempre a Houston, realizzato pochi anni dopo (1993-1995), adopera invece un’illuminazione tenue – più adatta per una collezione permanente – filtrata da una copertura sollevata attraverso sottili montanti metallici sui muri esterni rivestiti in blocchetti di cemento color ocra. Come nell’Atelier Brancusi a Parigi (1992-1996), nel Museo della Fondazione Beyeler a Basilea (1992-1997), costruito per 125 eccezionali pezzi, di cui Piano realizza i modelli in scala 1:10 in fase di progetto, torna l’antinomia tra un tetto fluttuante in vetro e acciaio e i muri esterni saldamente ancorati a terra, rivestiti – a Basilea – con una pietra rossa argentina che ricorda l’arenaria della cattedrale cittadina. L’impianto geometrico rettangolare ha quattro setti murari della stessa lunghezza che corrono paralleli al muro di recinzione; la copertura crea condizioni di luce ideali, attraverso una struttura trasparente a pensilina, che si spinge oltre il perimetro dei muri, articolata con schermi a parasole al di sopra del tetto e persiane mobili di ventilazione sottostanti.
Ancora su commissione di un collezionista privato, il Nasher Sculpure Center a Dallas (1999-2003), concepito come un giardino di sculture, in cui alti muri in travertino ancorano la copertura voltata in acciaio bianco della galleria: ha dimensioni contenute ed è estraneo alla congestione dell’ambiente cittadino che lo circonda, quasi si trattasse di uno scavo archeologico. I musei realizzati da Piano sembrano essere tutti la dimostrazione di un approccio flessibile e di un metodo di lavoro che non ama disperdere i suoi risultati e che raffina le soluzioni studiate fino alla loro applicazione; di uno stile inteso non come ripetizione di un gesto architettonico, ma piuttosto come accumulo di conoscenza. Eppure la vastissima produzione architettonica di Piano appare frammentata, deliberatamente intenzionata a sfuggire a una riconoscibilità, forse avvertita come limite; varia nell’uso di forme, di materiali e strutture anche all’interno della medesima destinazione d’uso. Pur non sottraendosi alla riflessione teorica come fondamento concreto del progetto, Piano sembra volerla dissimulare dietro regole e princìpi che nascono dalle situazioni specifiche e dalle tradizioni locali, ma soprattutto dal contesto geografico inteso come generatore di forme.
Così per il museo di storia naturale della California Academy of Sciences (iniziato nel 2000), a San Francisco, Piano progetta un complesso di edifici bassi, coperto da un manto vegetale che ricorda una sagoma di colline verdi rivestite dalla flora tipica della California, con un criterio di mimetizzazione non dissimile da quello adoperato per il Zentrum Paul Klee inaugurato a Berna nel 2005. Concepisce il museo svizzero “come un frammento di land art”, come “un sussulto controllato nel terreno”, e progetta tre colline artificiali, perpendicolari all’asse dell’autostrada; nasconde nella collina artificiale centrale una sala espositiva di 1700 metri quadrati che ospiterà in tempi alterni circa 300 opere selezionate della collezione. Le coperture sono aiuole: l’erba coprirà le volte dei tre rilievi artificiali del museo in prossimità dei versanti delle colline in modo che anche l’aspetto delle grandi travi d’acciaio grigio, più vicine al prospetto vetrato, muti col variare delle stagioni. Analogamente nell’Arena polifunzionale (1995, non realizzata) per Saitama in Giappone, Piano immagina una collina artificiale, un corrugamento del suolo tra due linee ferroviarie con una copertura verde in rame.
Nel Workshop a Punta Nave a Genova (1989-1991) i moduli vetrati come serre digradano seguendo i terrazzamenti della collina di Pegli, come se il suggerimento venisse dalla stessa morfologia del terreno, assecondante un certo sentimentalismo che ha le memoria del genius loci come fonte di ispirazione.
L’orografia del paesaggio esistente guida anche il progetto dell’Auditorium Parco della Musica di Roma (1994-2002), dove tre sale concerti (da 700, 1200 e 2700 posti) abbracciano a semicerchio una piazza rivolta verso il Villaggio Olimpico, organizzata in parte come anfiteatro, capace di ospitare 3000 persone per rappresentazioni all’aperto. Fissando come altezza massima delle tre grandi sale la sommità del Palazzetto dello Sport, Piano ricompone la frattura esistente tra le propaggini inferiori della collina di Villa Glori e dei Parioli e la pianura fluviale su cui sorge il Villaggio Olimpico.
Ma con il loro aspetto biomorfo le tre casse musicali sono l’incarnazione di un altro atteggiamento progettuale di Piano, quello che lascia segni assertivi, forme scultoree. Se Nemo, il Centro nazionale per la Scienza e la Tecnologia nel porto di Amsterdam (1992-1997), è una nave incagliata e fuori scala la cui prua si inarca d’improvviso, proprio dove la strada imbocca la curva in ripida discesa del tunnel sottomarino che passa sotto lo Oosterdok, il progetto per il complesso polifunzionale all’interporto di Nola (1995) è invece un “vulcano buono”, una grande collina artificiale che arriva a superare i 40 metri di altezza. Nella grande ala spiegata dell’aeroporto di Kansai (1988-1994) in Giappone, vera esplosione figurativa consentita dalla tecnologia più avanzata, non c’è neppure il bisogno di trovare giustificazione nel contesto, nell’ambiente circostante, perché il segno, puro come un calligramma, come una scultura di Brancusi, poggia su un’isola artificiale di 511 ettari in mezzo al mare. E per il terminal aeroportuale Piano trasgredisce anche il proprio consueto disinteresse per i componenti standardizzati adoperando 82 mila pannelli in acciaio inossidabile tutti assolutamente identici.
Ascolto dei luoghi e invenzione creativa si accordano più felicemente quando, come nel Centro Jean-Marie Tjibaou a Nouméa in Nuova Caledonia (1991-1998), Piano è chiamato a dare forma e potenza simbolica a uno spazio come rappresentazione di una civiltà, senza la retorica del multiculturalismo. Dieci capanne che volgono il dorso agli alisei sono disposte lungo un percorso curvilineo: esse appaiono come conchiglie a doppio guscio e, divise in tre nuclei, ospitano tra l’altro un anfiteatro, una biblioteca, una mediateca, spazi espositivi diversi e una serie di laboratori didattici. La scelta dei materiali e il disegno alludono alle costruzioni tradizionali, ma consapevoli della loro alterità, le capanne di Piano non sono né effimere, né precarie. Il cerchio esterno e quello interno delle costole verticali in laminato di legno si sollevano senza toccarsi – quelle più interne salgono diritte senza incurvarsi a reggere il tetto – e risuonano con la ventilazione aggiungendo un altro valore a quella “immaterialità” che Piano cerca di raggiungere.
Concepiti come oggetti scultorei sono anche la torre per la Maison Hermès nel quartiere Ginza a Tokyo (1998-2000), una gigantesca lanterna di 15 piani col suo rivestimento in pavés di vetrocemento completamente separato dal parallelepipedo dello scheletro portante, e Aurora Place a Sydney (1996-2000), che ambisce a fare da vela principale dell’Opera House di Utzon; la sua pelle incurvata in agglomerato di vetro dissolve i bordi estendendosi oltre i confini del volume dell’edificio residenziale su 17 piani e della torre per uffici alta 200 metri, collegate tra loro attraverso una grande piazza coperta. Pura forma è inoltre la London Bridge Tower (iniziata nel 2000), una scheggia di vetro conficcata sulla riva sud del Tamigi che, pur nascendo da un’idea di città sostenibile, equilibrata ecologicamente, diventerà, con i suoi 310 metri, il più alto edificio d’Europa. La torre KPN Telecom a Rotterdam (1997-2000) se ne sta infine instabile e fratturata sulla riva del fiume Maas, costituita da un nucleo centrale verticale e da due parti adiacenti, ma con la facciata principale a tabellone elettronico che si inclina con lo stesso angolo dei cavi di ancoraggio del ponte Erasmus di Ben van Berkel.
Nella realizzazione di edifici alti, l’unica costante sembra essere per Piano il rifiuto del prisma ermetico, delle chiusure e dell’uso ripetitivo dei componenti, nella ricerca di una immaterialità fatta di luminosità e della trasparenza del vetro come della telecomunicazione. Pareti a cortina staccate, per la ventilazione naturale come già nella Cité Internationale di Lione (1991-1995) e nella Torre Debis a Berlino in Potsdamer Platz (1992-1997), diventano nel progetto per l’edificio del New York Times a Manhattan (2000) una intermittente maglia di circa 250 mila barre di ceramica bianca che proteggono la pelle di vetro retrostante per i 52 piani, formando una serie di schermi, sospesi a una distanza di mezzo metro dal muro perimetrale, in modo da permettere anche dalla strada la visione all’interno dell’edificio.
La vera leggerezza Piano sembra tuttavia raggiungerla quando lavora per sottrazione: nell’Auditorium Niccolò Paganini a Parma (1997-2001) utilizzando solo i lati lunghi delle pareti perimetrali della vecchia scatola dello zuccherificio Eridania, realizza una preziosa e poetica boite à musique trasparente. E perfeziona con questo “quasi nulla” fatto di minimi spessori delle lastre di vetro e perfetto calcolo della diffusione dei suoni un lavoro mai interrotto cominciato nel 1983 con l’arca di legno per l’esecuzione del Prometeo di Luigi Nono nella chiesa di San Lorenzo a Venezia. Perché, se – come scrive Piano – “l’architetto è una specie di piccolo padreterno che ricrea l’ambiente”, egli è anche “un materializzatore di sogni”. Muovendosi ancora e continuamente tra le regole che egli stesso si impone e la loro violazione, Piano ha continuato a lavorare a un numero eccezionale di progetti: solo in America all’ampliamento dell’Art Institute di Chicago, dell’Harvard University Art Museum, della facoltà di legge della Michigan University a Ann Arbor, a un articolato piano di riassetto per il Los Angeles County Museum of Art, e a New York all’espansione del Whitney Museum, oltre che alla Morgan Library e al campus della Columbia University.