replicazione
. Designa la ripetizione di una parola o di una locuzione, senza lo studio di una particolare collocazione, come avviene nel caso dell'anafora, della conversio, dell'anadiplosi, o la ricerca di una variante tale da generare il bisticcio, come nel caso della paronomasia. Impiegata largamente da D. (e tuttavia non nella stessa misura di forme più artificiose come l'anafora e la paronomasia), secondo la tradizione della prosa medievale e del linguaggio biblico, essa s'incontra soprattutto nella sua prosa volgare e latina e nella Commedia. Ben più rara è invece la r. nella lirica dantesca, dove, a parte qualche esempio felice (cfr. il funesto presentimento di morte per due volte nella Vita Nuova affidato a questo schema: moia, moia, XV 5 e 8; Morra' ti, morra' ti, XXIII 22 42; e inoltre in Rime LXVII 14-15 la r. di pace in relazione col ritmo espressivo dei versi: " Nostro lume porta pace "! / " Noi darem pace al core... "), pare che lo schema venga piuttosto evitato in favore di altri artifici che sono intesi piuttosto a creare la varietà.
Nella prosa l'impiego della r. è notevole, ma particolarmente significativo nel volgare, sia perché nel latino essa si risolve più spesso nel poliptoto, ossia nella ripetizione dello stesso vocabolo nelle forme diverse date dalla flessione, sia perché essa sembra assumere una parte rilevante nella tecnica compositiva della nuova prosa volgare. In realtà nella Vita Nuova l'uso di ripetere a breve distanza la medesima parola è potuto sembrare il segno di un'arte non ancora affinata, mentre l'insistenza su alcuni termini, che divengono addirittura ‛ chiave ' nell'ambito di un capitolo, fa parte dell'atmosfera allusiva in cui si sviluppa questa prosa. A prescindere dalle numerose paronomasie, che nascono dalle medesime ragioni, un esempio tipico di r. è il parea lungo tutto il cap. III, cui si aggiunge quella di parole nel cap. XVIII (e per questo si vedano anche i vv. 10 e 12 dell'ultimo sonetto [cap. XLI]: sì parla sottile / ... So io che parla). In effetti nel libello giovanile la tessitura del racconto è sovente affidata a tale forma elementare di collegamento, come può constatarsi nella r. di certi nessi temporali (in quel punto), o di certi verbi quali ‛ dire ', ‛ parere ', ‛ vedere '.
Anche nel Convivio la r., quantunque ridotta nell'impiego, assolve a una sua importante funzione, questa volta soprattutto didascalica, per cui se in III IX 4 ss. compare ad es. con una certa frequenza l'avverbio propriamente (e valga come unico esempio accanto alla r. frequente delle parole che costituiscono via via il tema del ragionamento), gli è che lo scrittore si sente impegnato nella dimostrazione di sottili norme di natura scientifica e invita il lettore a riflettere sulla sostanza di alcune verità.
Nella Commedia è ben più rilevante il valore espressivo e la varietà degli esiti della replicazione. A parte i vidi, che si susseguono talora entro lo schema dell'anafora, talora in posizione più varia in If IV 121 ss., sottolineando lo stupore sollevato dai numerosi incontri, e i drammatici versi di If V, in cui la r. di leggemmo (vv. 133 e 138) al primo e all'ultimo verso delle due terzine conclusive del racconto, quasi in una disposizione antitetica, evidenzia l'inizio e la rapida fine della vicenda, la r. viene felicemente impiegata per accompagnare il tono patetico e affettuoso.
Si veda If IV 46 (Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore), dove si aggiunge la ripetizione, variata, del vocativo; Pg XXVII 22 (Ricorditi, ricorditi!), che contiene il tono ammonitore del maestro; XXX 56 (non pianger anco, non piangere ancora), che non manca, per tutto il contesto, di una certa asprezza. Talora la r. può far risaltare l'ironia, come in XX 65 ss.
Particolare menzione merita la r. degli aggettivi, più comunemente denominata duplicazione, intesa a rendere il superlativo dell'aggettivo stesso, ma con un esito più tenue ed espressivo. Generalmente l'aggettivo così ripetuto viene collocato in rima: prendendo la campagna lento lento (Pg XXVIII 5), e nello stesso canto avvenga che si mova bruna bruna (v. 31); gissen vago vago (XXXII 135).
Nel Fiore la r., non frequente, si colloca fra l'uso ben più significativo della paronomasia e del bisticcio. Nel sonetto CLXXXVI la licenziosità del tema viene sottolineata nel primo verso con una duplicazione di tono popolare in braccio in braccio. Altrove la r. potrà essere un elemento del parallelismo: Quando 'l cattivo, che sarà 'ncarcato, / la cui pensea non serà verace (CLXXXII 1-2). Nel Detto la ricerca della r. viene assolutamente respinta dal prevalente impiego della paronomasia e della rima equivoca.
Bibl. - G. Lisio, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A., Bologna 1902, 140-150; A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana, Roma 1943, 95 ss.; E.R. Curtius, Gesammelte aufsatze zur romanischen Philologie, Monaco 1960, 333 ss.