REPORTAGE
Il termine francese reportage indica, nell'accezione comune, un genere fotografico che fornisce informazioni e si occupa d'indagare e documentare vari aspetti della realtà, sostituendo alla parola scritta la sola forza comunicativa delle immagini, in genere collegate secondo un'organizzazione di idee espressiva di una visione personale dell'autore sull'argomento trattato, sia esso un fatto di cronaca o una ricerca a più ampio respiro su un tema qualunque. L'elemento caratterizzante il r. è quindi la concatenazione di più immagini, riprese singolarmente in maniera analitica, e assemblate al fine di costruire un discorso unitario e sintetico; si tratta di un processo comunicativo che utilizza una grammatica e una sintassi esattamente come il linguaggio parlato o scritto, e come quest'ultimo ha suoi precisi codici e regole dettati dalla tradizione, dall'uso e dalla fruizione.
Si può a buon diritto parlare nel caso del r. di una semantica delle immagini e di una semiologia della comunicazione in quanto gli elementi interni a esso possono essere analizzati sia dal punto di vista semantico, cioè nel loro rapporto col referente, sia da quello sintattico, cioè nel loro rapporto reciproco, sia da quello pragmatico, cioè nel loro rapporto con chi ne fa uso. Ciascuno di questi momenti concorre con la propria storia e le proprie capacità di impatto comunicativo alla formulazione del linguaggio finale del r., determinando significanti e significati che come in ogni altro linguaggio si evolvono e mutano nel tempo in relazione alla dialettica storica interna al linguaggio stesso. Il fotografo, in quanto soggetto attivo del processo comunicativo, è al tempo stesso portatore di una sua personale memoria dalla cultura di cui è erede, e di una proposta linguistica determinata dal suo referente, con il quale ha insieme un rapporto di sudditanza dovuto alla necessità di trovare una base comune di comunicazione e un rapporto di egemonia dovuto al fatto che egli si trova nella posizione di testimone dell'evento narrato e quindi unico responsabile della sua interpretazione attraverso la scelta del fotema significativo. Inoltre si deve tener presente il condizionamento dato dalla destinazione d'uso del r., se cioè dovrà essere diffuso attraverso la stampa su settimanali e mensili, ciascuno con un proprio pubblico dalla specifica cultura, o attraverso la pubblicazione in libro, che ha, ovviamente, una diversa fruizione e funzione. In entrambi i casi tuttavia la destinazione assume un'importanza particolare ai fini del linguaggio adottato dal fotografo, che sa di dover fare i conti con la futura impaginazione e qualità della stampa e quindi opera con una specie di condizionamento a priori del proprio lavoro.
Da queste premesse scaturisce la considerazione che il r. costituisce la vocazione per eccellenza della fotografia stessa. Se, infatti, la singola immagine fotografica finisce spesso per costituirsi come un insieme di segni legati anche alla tradizione pittorica, con la quale ha in comune tutti i problemi connessi alla percezione, il r. si caratterizza per la sua novità, anche se la pittura nella sua storia sporadicamente ne aveva anticipato la necessità, e per la sua specificità, che a molti apparve e appare tuttora come la funzione più adeguata e coerente per esprimere le possibilità del mezzo fotografico.
Non è quindi casuale che sin dai suoi albori la fotografia abbia praticato accanto alla singola istantanea il r.; basti ricordare le Excursions daguerriennes di M. du Camp, le immagini dei pescatori di New Haven di D.O. Hill e R. Adamson o la Guerra di Crimea di R. Fenton, come primi esempi, cui seguiranno la guerra civile americana di M.B. Brady e A. Gardner, la Comune di Parigi o i quartieri poveri di Glasgow di T. Annan e la Street Life di P. Martin, fino alle inchieste newyorkesi di L.W. Hine e J.A. Riis o gli indiani di E.S. Curtis e via dicendo, passando attraverso tutte le fasi dei miglioramenti della tecnica fotografica e di quella della stampa, dall'invenzione del retino al rotocalco. Nel periodo compreso tra le due guerre si consolidano le tendenze del r., con la presenza di figure di grandissimo rilievo come E. Salomon, M. Bourke-White e Brassaï, ed esperienze fondamentali come quella della FSA (Farm Security Administration, per la quale tra il 1935 e il 1943 fotografi come D. Lange, A. Rothstein, R. Lee ripresero oltre 270.000 negativi conservati nella Library of Congress di Washington). Nascono le testate che giocheranno un ruolo determinante nello sviluppo del linguaggio giornalistico fotografico, come Münchener Illustrierte Presse (1923), Vu (1928) e soprattutto Life (1936), subito seguita da Look (1937), Picture Post a Londra, Match a Parigi (1938) e in Italia Tempo, diretto da A. Mondadori (1939).
La seconda guerra mondiale segna uno spartiacque nel mondo dell'informazione di massa; la ripresa impetuosa in tutti i campi dell'economia investe anche il mondo dell'informazione con l'incremento del numero delle testate e delle rispettive tirature. Molte delle nuove testate nascono o dalla trasformazione di riviste già esistenti (come Signal che diventa Paris-Match) o da fondazioni ex novo, seguendo il modello ormai canonico della fortunata e intelligente formula di Life. In questo scenario si assiste al grande sviluppo delle agenzie che, già presenti da tempo come la Keystone di Parigi, nata nel 1920 e la Dephot di Berlino fondata nel 1928, svolgono una funzione determinante di intermediarie tra riviste, fotografi, luoghi di progettazione e organizzazione del r., per la diffusione del lavoro dei fotografi e soprattutto per un controllo e una garanzia della qualità delle immagini messe in circolazione. A Parigi nel 1947 alcuni fotografi decisero di unirsi in cooperativa per sottrarsi a pressioni di ogni genere e difendersi dalle manipolazioni del loro lavoro e fondarono l'agenzia Magnum, destinata a divenire un punto di riferimento fondamentale per i fotoreporter di tutto il mondo. I soci fondatori della Magnum furono R. Capa, H. Cartier-Bresson, D. ''Chim'' Seymour e G. Rodger, che erano tutti fotografi già noti e avevano alle spalle un'attività di grande spessore qualitativo.
R. Capa (pseud. di A. Friedmann, n. nel 1913 a Budapest), si era trasferito a Berlino nel 1931, dove aveva collaborato con l'agenzia Dephot; nel 1933 a causa delle persecuzioni razziali si rifugiò a Parigi dove conobbe Cartier Bresson e ''Chim'' Seymour, con cui divise la camera oscura; nel 1936 durante la guerra civile spagnola realizzò il famoso r. dalla parte repubblicana, del quale fa parte la celeberrima foto del soldato che cade colpito, divenuta quasi il simbolo del lavoro del fotografo di guerra; successivamente Capa andò in Cina e durante la seconda guerra mondiale lavorò come inviato di Life, partecipando allo sbarco in Normandia di cui diede immagini di intensa concitazione e drammaticità, col contributo involontario di un errore di laboratorio. Conscio del fatto che campo privilegiato del suo operare era la guerra, pur augurandosi sempre di esser testimone dell'ultima, fu in prima fila là dove gli scontri erano più cruenti con una partecipazione totale, come in Israele e in Indocina, dove trovò la morte nel 1954 saltando su una mina. Anche questa sua prematura e tragica morte ha contribuito a creare intorno alla sua figura di fotoreporter di guerra un alone di mito che ha fortemente segnato il lavoro della generazione seguente di fotografi.
G. Rodger (n. 1908), dopo un'intensa attività di reporter di guerra (1939-45) si ritirò in Africa, nelle regioni del Sudan documentando con un taglio vigoroso la vita delle genti Nuba nelle immagini raccolte in un libro pubblicato a Parigi nel 1955 (Le village des Noubas). Curiosamente nelle stesse zone e negli stessi tempi operò anche la fotografa L. Riefensthal, divenuta famosa con la regia del film Olimpia (1936-38), apologia del nazismo non priva di qualità estetiche, con la quale si era procurata l'etichetta di fotografa di regime; la Riefensthal pubblicò il frutto del suo lavoro in una serie di libri che ebbero una certa notorietà come Die Nuba (1973) o Die Nuba von Kau (1976), in cui mostra una tenace continuità con il rigoroso e a volte stucchevole e retorico formalismo che già caratterizzava il suo lavoro di regista.
D. ''Chim'' Seymour (n. a Varsavia nel 1911) si distinse per i suoi servizi sulla guerra di Spagna, in cui il suo interesse documentario lo spinse a dare una visione globale della realtà della guerra, coinvolgendo donne e soprattutto bambini. Al tema dell'infanzia Seymour volse il suo sguardo con una particolare dedizione e affettuosità, culminate nella serie del 1948 Children of Europe, interpretata anche come tributo dell'autore alla sua mancata paternità. Anch'egli, come Capa, fu vittima di guerra nel 1956, a Suez.
Certamente il più noto e illustre componente del gruppo fondatore della Magnum è stato H. Cartier-Bresson (1908), la cui attività ha coperto un arco di tempo ampio, dagli anni Trenta ai nostri giorni: si dedicò alla fotografia dal 1931, dopo un apprendistato di pittura presso lo studio di A. Lothe. Durante la seconda guerra mondiale venne imprigionato dai Tedeschi, ma riuscì a fuggire e, unitosi alla resistenza clandestina, realizzò immagini di fedele e commossa partecipazione alla liberazione di Parigi. Nel suo primo libro, Images à la sauvette (1952), esprime per la prima volta il credo fotografico del ''momento decisivo'', formula con la quale intendeva la capacità di cogliere quell'istante particolare e significativo, in cui tutti gli elementi della futura immagine si trovano al posto giusto sul piano della composizione e del significato, e che da solo è capace di sintetizzare un determinato evento. Apparentemente questo è in contraddizione con lo stesso concetto di r., ma per Cartier-Bresson il r. non è la rappresentazione analitica della realtà, bensì la somma dei momenti che, nell'infinita fenomenologia di essa, ricostruiscono la realtà stessa in concatenazioni analogiche, piene di quello spessore del vissuto che sconvolge la banalità dell'evento. Per essere in grado di compiere questa operazione bisogna avere la coscienza dell'evento, capirne l'interna struttura, in modo da essere pronti ad anticipare il suo svolgimento e saper cogliere l'attimo decisivo, senza farsi sorprendere e travolgere dal flusso degli avvenimenti. Il compito quindi del fotografo è osservare la realtà per mezzo della macchina fotografica isolando e fissando un frammento di accadimento senza alcuna manipolazione né in fase di ripresa né in quella di laboratorio. Sul luogo della ripresa, poiché la sua presenza non deve in alcun modo influenzare l'avvenimento, il fotografo deve porre molta cura nell'immergersi nella realtà senza essere notato o, ancora peggio, considerato un intruso; da qui grande attenzione alla tecnica: niente flash, macchina fotografica meno appariscente possibile, sensibilità della pellicola in funzione della luce ambientale e soprattutto massima discrezione nei movimenti con movenze al limite del balletto. Dopo la fondazione della Magnum, Cartier-Bresson viaggiò per tre anni in Oriente visitando India, Birmania, Pakistan, Cina e Indonesia. Nel 1954 fu il primo fotografo occidentale ammesso in URSS dopo il ''disgelo''; successivamente si recò a Cuba e in Messico, e in seguito di nuovo in India e Giappone. Visse così da grande protagonista la stagione d'oro del r. alla quale contribuì in maniera determinante, anche nel creare il mito del reporter. Della sua vasta produzione vanno ricordati almeno Les danses à Bali con introduzione di A. Artaud (1954), Les Européens (1955), Moscou, vu par H. Cartier-Bresson (1955) e China (1964).
Intorno ai padri fondatori la Magnum accolse altri fotografi, tutti dotati di notevoli personalità, che incrementarono il prestigio dell'agenzia; tra tutti spiccano nei primi tempi le personalità di W. Bischof e E. Haas. Bischof (n. nel 1916 a Zurigo, dove frequentò la scuola di arti e mestieri), si era fatto notare con servizi realizzati in Francia, Olanda e Germania, in cui documentava le conseguenze della guerra sugli uomini, e con un superbo r., eseguito per Life, sui giochi olimpici invernali di Saint Moritz (1948). Nel 1949 entrò a far parte della Magnum e da allora girò il mondo realizzando servizi fotografici su commissione, tra i quali il più noto è quello sulla fame in India; nel 1951 trascorse un anno intero in Giappone e da questa esperienza nacque il libro Japan (1954). Nel 1954 mentre si trovava sulle Ande peruviane morì in un incidente d'auto lasciando incompiuta la realizzazione del libro Indiens pas morts/Incas to Indians (1954), poi terminato da R. Frank e P. Verger. La sua produzione è caratterizzata da un'accurata ricerca formale, che gli ha attirato anche la critica di calligrafico e di patinato.
E. Haas (n. a Vienna nel 1921), realizzò un intenso e partecipe r. sul ritorno dei prigionieri in Austria, pubblicato da Heute e Life. Nel 1950 entrò a far parte della Magnum; la sua attività si concretizzò in servizi come Beauty in a brutal art, sulla corrida (1957), Norwegian fiords e Wonderful West (1960) − in cui lo studio accurato delle luci e soprattutto del colore, impiegato con una spiccata sensibilità, denuncia echi di un certo pittorialismo − e nella organizzazione di mostre come The world as seen by Magnum photographers (1960), presentata in varie città americane ed europee, oltre che in Giappone. Nel 1962 il Museum of Modern Art di New York espose una grande rassegna del suo lavoro e in quella occasione J. Szarkovski, direttore del dipartimento della fotografia del museo sintetizzò il carattere essenziale della sua opera: "Nessuno ha mai espresso con maggiore forza la pura gioia fisica del vedere".
Tra gli altri professionisti che si aggregarono alla Magnum vanno ricordati E. Lessing, I. Morath e M. Riboud, che realizzarono anche lavori collettivi quali Generation X, People are people, The world over e Mondes des femmes.
Un fotografo che ha lasciato un'impronta profonda nel r. è senza dubbio W.E. Smith (n. nel 1918 nel Kansas). Dopo un breve tirocinio presso il New York Institute of Photography, iniziò a lavorare dapprima con Newsweek e poi con le più note testate tra cui Life. Durante la guerra fu corrispondente nel Pacifico meridionale e dopo molte missioni nel 1945 fu ferito gravemente. Dopo una lunga convalescenza entrò nella redazione di Life, svolgendovi dal 1947 al 1954 un'intensa attività creativa; i suoi r. più noti di quel periodo sono: Country doctor (1948), Spanish village (1951), Chaplin at work (1952), e A man of mercy (1954). Nel 1954 si licenziò da Life per protesta contro il trattamento riservato dall'editore alle sue fotografie di A. Schweitzer.
Nel 1956 Smith aderì alla Magnum, che in seguito lasciò per divenire free-lance. In questo periodo diede vita al progetto Pittsburgh, per il quale scattò circa 10.000 negativi, che solo in minima parte furono pubblicati in Photography Annual col titolo di Labyrinthian walk (1958), e poi nel volume Pittsburgh. The story of an American city (1964). Seguirono anni di collaborazioni con università, associazioni e riviste, molto intensi dal punto di vista dei contatti professionali. Nel 1972 trascorse diversi mesi nel villaggio di pescatori giapponesi di Minamata, colpiti da avvelenamento da mercurio per inquinamento industriale, realizzando un r. che sollevò grande emozione in tutto il mondo; il suo lavoro attirò l'attenzione sul piccolo villaggio al punto che quel tipo di avvelenamento e le sue conseguenze furono definite ''morbo di Minamata''. Smith morì nel 1978. La sua opera è caratterizzata da un senso molto profondo della missione del fotografo: ogni fotografia dovrebbe sviluppare una maggiore partecipazione dell'uomo alla sorte dei suoi simili, attraverso la denuncia dell'ingiustizia; "ogni volta che scatto, è un grido di condanna" disse Smith a proposito del suo credo fotografico, sintesi dell'afflato umanitario che permea tutta la sua produzione.
Di altro genere è l'impatto che nello stesso periodo ha il lavoro di R. Frank (n. a Zurigo nel 1924). Emigrato negli USA nel 1947, fu notato da A. Brodovitch, noto direttore artistico di Harper's Bazaar, che lo avviò alla fotografia pubblicitaria. Nel 1956, primo non statunitense, ebbe il premio Guggenheim, grazie al quale poté viaggiare dappertutto negli USA. Da questa esperienza nacque il libro Les Americains, che fu edito a Parigi da Delpire (1958), in quanto nessun editore americano aveva voluto assumersi la responsabilità di pubblicarlo; il libro era infatti giudicato ideologicamente di sinistra, perché ritenuto un attacco all'ottimismo americano di quegli anni. In realtà il lavoro di Frank scava la società statunitense nella sua quotidianità più dozzinale, in un'ingannevolmente casualità. Vi si avverte l'influenza della Beat generation, il cui profeta J. Kerouac (autore dell'introduzione all'edizione americana del 1959) disse: "Dopo aver visto queste immagini si finisce per non sapere più se un juke-box non è più triste di una bara. A R. Frank io invio questo messaggio: tu hai l'occhio". Le immagini di un'America provinciale e sciatta sono in realtà frutto di una grande perizia tecnica e di una lunga consuetudine con la camera oscura; le inquadrature sono organizzate in modo da spiazzare spesso l'osservatore, con l'uso ricorrente di primi piani sfocati, usati come quinte, o con effetti di sovraimpressione dovuti alla presenza di riflessi su vetri o specchi, che a volte diventano quadro nel quadro, mostrando il soggetto attraverso finestre di palazzi o di automobili. Negli anni seguenti l'attenzione di Frank fu attratta dal cinema e solo da poco egli sembra essere tornato alla fotografia. La sua influenza è stata fondamentale per le generazioni successive di fotografi di r., in particolare per i due grandi epigoni L. Friedlander e G. Winogrand e in diverso modo per D. Arbus.
Sempre negli anni Cinquanta, a sottolineare la fioritura di quel periodo, altre figure notevoli contribuirono ad arricchire il panorama del r.; tra loro spiccano W. Ronis, W. Klein e E. Boubat.
W. Ronis (n. nel 1910 a Parigi), figlio di un modesto fotografo, iniziò precocemente a fotografare, soprattutto dopo un incontro con ''Chim'' Seymour: dopo la guerra riprese a lavorare come free-lance ed entrò a far parte del Groupe des XV con i quali espose in numerose collettive. Successivamente lavorò per l'agenzia Rapho, per la quale scattò sempre nuove fotografie di Parigi, e si dedicò anche all'insegnamento. Nel 1957 vinse la medaglia d'oro alla Biennale di Venezia. Il frutto di molti anni di attività fu esposto nel 1967 in una mostra presentata in varie città europee e americane, dal titolo Mon Paris. Il contributo di Ronis alla crescita del r. come genere è dato principalmente dalla importanza che egli annette al ''punto di vista''. Se nel campo dell'istantanea la composizione sembra essere un dato assolutamente acquisito, nel campo del r., con la sua successione di immagini che definiscono un rapporto spazio-temporale, si richiede la padronanza di una visione geometricamente prospettica che leghi in una totalità la sequenza, e questa non può che essere determinata da un preciso ''punto di osservazione''. Compito del fotografo è di rapportarsi alla situazione di ripresa, stabilire con sensibilità il luogo migliore da cui scattare e solo dopo ciò definire l'angolo di ripresa e l'obiettivo adatto. Inquadrare significa allo stesso tempo includere ed escludere, e quindi per determinare con efficacia il risultato bisogna avere il senso giusto della posizione del fotografo rispetto al soggetto.
W. Klein (n. a New York nel 1928) nel dopoguerra si trasferì a Parigi dove lavorò nell'atelier di F. Léger. Dal suo incontro con la fotografia nacquero in sequenza rapida i libri: New York (1956), con il quale vinse il premio Nadar, Rome (1958) con testi di P.P. Pasolini, Moscow (1964) e Tokyo (1964). Personalità complessa, in bilico tra pittura, fotografia e cinema, Klein dichiara di voler "fare fotografie incomprensibili quanto lo è la vita", in sintonia forse con Frank; ma mentre quest'ultimo sembra non curare la forma, Klein indulge in esagerazioni visuali, con l'uso a volte di grandangoli eccessivi, che dilatando le figure, soprattutto i primi piani, alterano il rapporto spaziale costruendo composizioni arbitrarie che però meglio definiscono stati d'animo angosciosi e inquietudini, frutto del caos della vita. Una particolare cura e attenzione viene data anche ai contrasti del bianco e nero, sempre vigorosi, e alla impaginazione finale del libro che Klein cura personalmente, ritenendola, non a torto, parte integrante del suo lavoro, capace di tradurre con i suoi tagli e con gli accostamenti una gerarchia dei valori di lettura, che risultano indispensabili al risultato finale.
E. Boubat (n. a Parigi nel 1923) si dedicò alla fotografia nel dopoguerra riprendendo, dietro l'esempio di E. Atget e di Brassaï, la vita quotidiana per le vie di Parigi. Incontrò Frank e Smith e nel 1951 eseguì il suo primo servizio fotografico Les artisans de Paris; dal suo esordio viaggiò in tutto il mondo pubblicando servizi su riviste come Infinity, Camera e Réalités. Nel 1957 pubblicò a Tokyo Ode Maritime con commento di B. George, al quale seguirono molte altre pubblicazioni a testimonianza di una attività intensa, ma mai nevrotica. Il suo carattere solare, aperto e fiducioso non lo ha mai abbandonato nell'approccio con i più disparati modelli e situazioni di ripresa (questo tratto fondamentale della sua poetica gli è riconosciuto anche da una celebre poesia dedicatagli da J. Prevert) e la sua visione della realtà è sempre in bilico tra innocente stupore e profonda conoscenza; del suo lavoro dice: "La fotografia è un sapiente e armonico gioco di tempo, luce e ombra. Io amo il gioco", o "Il fotografo si annulla davanti al suo modello", quasi una parafrasi dei suoi inconfessati maestri, A. Kertész e J. Lartigue.
Negli anni Sessanta si assiste alla definitiva consacrazione della fotografia, grazie anche alle novità nel campo dell'attrezzatura e dei materiali sensibili che consentono nuove applicazioni e ricerche di linguaggio, e contemporaneamente ai primi segni di decadenza, dovuti all'incalzare di nuove tecnologie della comunicazione, prima di tutto la televisione, che soppianta progressivamente la fotografia proprio sul terreno del r., portando a una saturazione di immagini provenienti da ogni parte del mondo in tempo reale. Tuttavia in questi anni troviamo ancora notevoli esempi di r. che le grandi testate internazionali pubblicano con una certa continuità, raggiungendo livelli non inferiori a quelli del decennio precedente. Un esempio significativo è dato dal servizio di B. Brake (1927-1988) ripreso in India e intitolato Monsoon (1960): il suo interesse è dato sia dal linguaggio del fotografo che dalle quattro impaginazioni che ebbe nelle varie testate che lo pubblicarono, Life negli USA, Paris-Match in Francia, Queen in Gran Bretagna ed Epoca in Italia; nel 1965 al Museum of Modern Art di New York vennero esposte tutte e quattro insieme, e apparve evidente il ruolo decisivo che l'impaginazione svolge nel valorizzare le singole foto, scelte tra le circa 500 scattate da Brake, e nel significato finale che si può dare a un servizio. La manipolazione del significato non altera comunque la qualità complessiva del lavoro, che mostra un certo ritorno ai puri elementi pittorici, recuperando forma e colore a valori estetizzanti, riducendo la prevalenza dei valori intellettuali a vantaggio della restituzione di una particolare atmosfera che lega insieme, a prescindere dall'ordine in cui sono disposte, tutte le immagini.
Certamente la personalità più rilevante degli anni Sessanta, malgrado una recente revisione critica del suo lavoro, che tende a riconsiderarne alcuni degli aspetti, come la poetica di derelitti, è stata D. Arbus (n. a New York nel 1923 e morta suicida nel 1971). Dopo un periodo di lavoro commerciale, nel 1959 incontrò L. Model sotto la cui guida iniziò un nuovo modo di usare la fotografia, accostandosi alle tematiche sociali con uno spirito definito da alcuni espressionista. Più che la forma dell'espressionismo, D. Arbus sembra aver assimilato la volontà di andare oltre le forme apparenti, cercando di indagare i segreti dell'animo umano soprattutto in quegli individui che sono al margine della società. Nel 1962, ormai trentanovenne, ottenne la sua prima borsa Guggenheim e iniziò a fotografare i luoghi comuni, la realtà scontata, le deviazioni e i capricci della natura, con uno sguardo insieme penetrante e candido e con una tenacia ferrea. La qualità del suo lavoro le permise di ottenere il rinnovo nel 1966 della borsa Guggenheim e il Museum of Modern Art di New York espose le sue fotografie in una collettiva con L. Friedlander e G. Winogrand. L'aspetto più immediato delle fotografie di Arbus è dato dalla capacità di sorprendere, rendendo le cose familiari inattese e bizzarre e le cose bizzarre inaspettatamente familiari. Del resto ella stessa definì la sua propensione per il mondo dei freaks così: "La maggior parte della gente passa la sua vita nel timore di esperienze traumatiche. I freaks il loro trauma ce l'hanno dalla nascita. Nella vita hanno già superato la prova. Sono degli aristocratici".
Intorno al 1968 una nuova generazione di fotografi s'affacciò nel mondo del r., sull'onda degli avvenimenti sociali e della guerra del Vietnam; nello stesso anno a Parigi G. Caron fondò l'agenzia Gamma e fece conoscere le sue fotografie sul maggio francese e sulla guerra del Vietnam, dove avrebbe trovato la morte nel 1970. La nuova formula su cui tutti questi nuovi operatori si cimentarono è la ripresa ''dal di dentro'', effettuata grazie all'uso dei grandangolari. Spesso essi rischiavano la vita, come M. Laurent, premio Pulitzer nel 1972, che morì nello stesso anno in Vietnam, o R. Depardon e M.-L. de Decker che realizzarono uno straordinario r. sulla ribellione dei Tubu nel Ciad (Tchad: Images de guerre, 1978). Le motivazioni sociali e politiche animavano anche il lavoro di M. Franck, R. Kalvar e G. Le Querrec, che nel 1972 fondarono l'agenzia Viva.
Intanto molte grandi riviste illustrate che avevano fatto la storia del r. chiusero; la perdita più dolorosa fu Life che cessò le pubblicazioni nel 1972. Il lavoro del fotografo fu costretto a rinnovarsi e ad ampliare i propri orizzonti. Così al fianco di nomi quali quello di D. Mc Cullin, che continuava nel solco della tradizione, apparvero figure di paesi nuovi per la fotografia; è il caso dell'israeliano M. Bar-Am, del sudafricano P. Magubane e del cecoslovacco J. Koudelka.
D. Mc Cullin (n. a Londra nel 1935), che già negli anni Sessanta si era distinto con un servizio per The Observer sulla guerra civile a Cipro, nel 1970 venne ferito in Cambogia mentre lavorava per The Sunday Times Magazine. Nel 1971 venne pubblicato il suo primo libro: The destruction business, in cui è raccolto il materiale ripreso a Cipro, nel Biafra e nel Vietnam. Le sue fotografie "portarono al fronte il pubblico occidentale e mostrarono la sporca guerra, anzi la più sporca delle guerre" (New York Times, marzo 1968), anche se proprio per raggiungere questo scopo l'autore indulgeva troppo spesso nel pietismo, cogliendo soprattutto gli attimi di debolezza del soggetto. Tuttavia questa critica non inficiava la validità complessiva del lavoro, che ha rappresentato un punto di maturazione delle coscienze del mondo occidentale contro tutti gli orrori e dolori della guerra.
L'opera di M. Bar-Am (n. 1930) è totalmente legata alle vicende della costruzione dello stato di Israele e delle sue guerre. Più articolata è la vicenda personale e professionale di P. Magubane (n. presso Johannesburg nel 1932): negli anni Sessanta svolse attività di free-lance nei pochi periodi in cui non era in carcere o al confino. Solo negli anni Settanta riuscì a esprimere le sue capacità fotografiche, documentando con grande incisività e forte drammaticità le vicende del suo paese; il suo lavoro assume una specifica valenza se si considera che egli, fotografo di colore, lavorava all'interno della società dell'apartheid, e rivendicava l'orgoglio di questa sua condizione, dichiarando: "Fu attraverso gli occhi, il coraggio e la penna dei neri che il mondo intero poté vedere Soweto in fiamma". Nel 1978 uscirono contemporaneamente tre suoi libri che raccolgono la sua produzione più significativa: Magubane's South Africa, Black as I am e Soweto; l'anno successivo Soweto speaks.
J. Koudelka (n. in Moravia nel 1938) quando si trasferì a Londra nel 1970 era quasi sconosciuto, anche se aveva già lavorato a Praga come fotografo di teatro e si era guadagnato per questa sua attività il premio dell'Unione Artisti Cecoslovacchi. Laureato in ingegneria aeronautica, si interessò di fotografia sin dai primi anni Sessanta volgendo la sua attenzione al teatro e agli zingari, che furono il suo tema preferito per un lungo periodo. La sua formazione culturale non poté non risentire del clima e dell'ambiente entro cui era maturato, portandosi dietro come una sorta di retaggio residuale il gusto compositivo e l'attenzione al reale inteso come sociale, così come una ricca cultura figurativa boema trasmetteva per via naturale; nello specifico fotografico in quegli anni a Praga la grande figura di catalizzatrice e di scopritrice di talenti era A. Farova, che attraverso la rivista Fotografia faceva conoscere e metteva in contatto le esperienze più importanti della fotografia in Cecoslovacchia e fuori. Koudelka conobbe M. Kundera, M. Forman, O. Kreica e C. Menzel e da questo clima stimolante venne indotto ad abbandonare il suo lavoro di ingegnere per quello di fotografo; intanto aveva cominciato a fotografare gli zingari, tema che lo affascinava sin dall'infanzia e al quale si accostava con molteplici motivazioni; era incuriosito dalla diversità e attratto dalla loro cultura, soprattutto musicale (del resto fece il suo primo viaggio a Londra proprio come suonatore di zampogna in un complesso folkloristico), ma anche dal loro rapporto con la vita e la natura. Dopo la primavera di Praga e i fatti che ne seguirono, si trasferì a Londra e un anno dopo cominciò a lavorare come free-lance nella Magnum. Pubblicò nel 1975 il libro Gypsies (ripubblicato a Parigi con il titolo Gitans: la fin du voyage, 1977), in cui dispiega tutta la poetica sviluppata in un lungo arco di tempo. Le immagini, dalle quali traspare l'insegnamento di Kertész e Cartier-Bresson, sono di una semplicità così palese da risultare a volte intellettualistiche; la composizione risente dell'uso del grandangolo, secondo la voga del tempo, con primi piani fortemente decentrati e il soggetto scolasticamente collocato nel punto forza dell'immagine. Spesso usa anche punti di vista ribassati per far risaltare le figure dei protagonisti e accentuare l'effetto di fuga delle prospettive. Il bianconero ha forti contrasti e grana evidente, quasi a suggerire un disfacimento dell'immagine stessa, nella forma come nel contenuto, e questo, unito alla personalità stessa del fotografo, ha creato intorno a Koudelka un alone di leggenda, da artista romantico o maledetto. Tutto in lui e intorno a lui sembra precario, erratico, e le sue immagini non fanno che testimoniare questa situazione indefinita.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, sulla spinta dell'impressionante sviluppo dell'industria fotografica giapponese, si incominciarono a conoscere anche i grandi fotografi di questo paese, che già si imponeva nel cinema con Y. Ozu e A. Kurosawa. Tra quelli che dediti al r. riuscirono ad affermarsi anche in Occidente, un posto preminente ha H. Hamaya, erede degli allora sconosciuti I. Kimura (1901-1974) e K. Domon (n. 1909), che avevano documentato il Giappone distrutto dalla guerra e la sua rinascita. Hamaya (n. a Tokyo nel 1915) nel dopoguerra aveva ripreso il Giappone nelle sue bellezze naturali, con una sensibilità tutta orientale, nel taglio e nel colore, da ricordare K. Hokusai. Entrato nel 1960 nella Magnum, viaggiò in tutto il mondo, e negli anni Settanta raccolse il suo lavoro in diverse pubblicazioni: American America (1971); Mount Fuji: a lone peak (1978); Summer shots. Antarctic peninsula (1979), in cui rivela il suo grande afflato naturalistico, la sua specificità orientale, quasi un approccio Zen alla natura, e la sua capacità di scoprire attraverso la natura l'uomo. Le immagini sono di una sobrietà minimale e l'impatto sul mondo della fotografia occidentale fu come una improvvisa folgorazione verso un mondo, quello giapponese, allora quasi sconosciuto.
La crisi del r. agli inizi degli anni Settanta sembrava ormai avviata verso la zona di non ritorno, malgrado i lodevoli e ottimistici sforzi di alcuni come R. Gibson (n. 1939) che nel 1969 fondò a New York una casa editrice, la Lustrum Press, specializzata in edizioni di fotografia. Tuttavia i fotografi continuavano la loro strada, sospinti da un grande senso di responsabilità nei confronti della società opulenta, che criticavano ancor più della guerra, vedendo nella città e nella sua tetra stupidità il naturale proscenio di essa. Contro questo atteggiamento, divenuto ben presto luogo comune, va ricordato lo splendido lavoro di B. Davidson (n. 1933), East 100th Street (1970), che mostra il quartiere portoricano senza il pittoresco della miseria e l'estetica dell'emarginato, ma con la dignità e l'umanità di chi ha coscienza della propria situazione; un vecchio nero da lui ritratto gli dice: "Tu questo lo chiami un ghetto. Io invece lo chiamo casa mia".
Negli anni Ottanta, mentre si affievoliscono le spinte sia verso il sociale sia verso il personale, poche sono le voci che in qualche modo si fanno sentire nel campo del r.; tra loro si distinguono per motivi diversi l'indiano R. Rai e il brasiliano S. Salgado. Rai (n. nel Pañjab nel 1942), membro della Magnum, ha pubblicato parecchi libri sull'India, di cui il più significativo è forse Dreams of India (1988): senza ricerca di facili effetti, che il tema esotico immancabilmente induce nei fotografi occidentali, mostra un'India quotidiana, ricca di spontanee suggestioni e di indecifrabili contraddizioni, in cui il colore gioca un ruolo determinante anche quando è intenzionalmente assente. S. Salgado (n. 1942), lavora per l'agenzia Gamma e si muove nella tradizione della fotografia di impegno sociale, ''concerned'' come viene definita in inglese, mostrandoci la gente umile dell'America centrale e meridionale, senza compiacimenti estetici, anche se sempre con un certo rigore formale, fino alle drammatiche immagini dei garimpeiros, i cercatori d'oro dell'Amazzonia, colti in una moltitudine caotica da bolgia dantesca. Sono immagini di forte impatto, costruite con sapienza formale, in uno splendido bianconero che sottolinea la tensione della situazione; ridanno una certa linfa al r. fotografico contro lo strapotere delle immagini televisive.
Il reportage in Italia. - La situazione della fotografia di r. in Italia all'indomani della seconda guerra mondiale è stata caratterizzata da una certa confusione generale in cui sono individuabili due tendenze principali, in sintonia con gli orientamenti politici del momento: da una parte la necessità di superare la retorica delle immagini ufficiali del regime fascista che in Italia era stata particolarmente pesante e gretta, cercando, non diversamente da quanto facevano gli autori cinematografici, di indagare la realtà sociale ed economica del momento seguendo i modelli, a volte solo immaginati, della grande stampa internazionale; dall'altra lo sviluppo di una nuova forma di stampa a carattere popolare, che per soddisfare un pubblico non certo letterato, ma ansioso di uscire dal chiuso della propria grama situazione, di evadere come si diceva allora, richiedeva un tipo di immagine oscillante tra il grand-guignol cronachistico e il romanzo rosa, erede della tradizione narrativa alla Carolina Invernizio o Guido da Verona, che aveva trovato nel cinema dei telefoni bianchi la sua espressione di regime. In questo contesto, particolarmente significativa fu l'attività di fotografo e di organizzatore di V. Carrese, fondatore e animatore della Publifoto, agenzia di attualità ancora oggi attiva, che con spirito di iniziativa del tutto originale rispetto al recente passato ci ha lasciato le testimonianze più autentiche della cronaca, soprattutto nera, degli anni del primo dopoguerra, che rendono l'atmosfera del momento molto più incisivamente di tanti resoconti scritti. Di più ampio respiro sociale è l'attività svolta negli stessi anni da F. Patellani (1911-1977) che aveva intrapreso la carriera di fotografo nel 1939, collaborando con Il Tempo e realizzando i suoi primi fototesti. Di ritorno dalla guerra collaborò con gli architetti Pagano e Bo con i quali documentò i disastri prodotti dalla guerra nel Sud; alla riapertura de Il Tempo ne divenne inviato e seguì in questa veste la ricostruzione fino al 1950, quando da free-lance collaborò con le nuove testate nel frattempo nate in Italia. Per tutti gli anni Cinquanta viaggiò in tutto il mondo realizzando un archivio di circa 700.000 immagini. Il suo contributo alla sprovincializzazione della fotografia italiana è stato determinante; i suoi referenti sono soprattutto i fotografi della Magnum, dai quali attinse gli elementi formali e la scioltezza compositiva, nonché il gusto dell'indagine curiosa e attenta aliena dal pittoresco.
Agli inizi degli anni Cinquanta nacquero sulla scorta dell'esperienza statunitense di Life e Time numerose testate come L'Europeo, Il Mondo, Epoca, ecc., che hanno funzionato da stimolo e da spazio per il lavoro di una ricca generazione di fotografi, segnando il momento più alto del r. in Italia. In particolare, si ricordano per il carattere particolarmente efficace del loro lavoro E. Sellerio, M. De Biasi, F. Pinna.
E. Sellerio (n. a Palermo nel 1924), laureato in giurisprudenza, ha svolto il suo lavoro di fotografo prevalentemente in Sicilia documentando con acume e sensibilità poetica la vita delle genti umili nella loro quotidianità. In anni recenti una scelta delle sue migliori immagini è stata raccolta nel libro Inventario siciliano (1977), che costituisce in qualche modo la summa del suo lavoro e in cui non è difficile riscontrare la matrice di quel particolare filone della fotografia italiana che è stata ed è la Sicilia; come suoi eredi possono essere riconosciuti infatti F. Scianna (n. 1943) e più recentemente G. Leone (n. 1936). Nel 1969 Sellerio fondò con la moglie E. Giorgianni la casa editrice Sellerio di Palermo e ridusse sempre più la sua attività di fotografo.
M. De Biasi (n. in provincia di Belluno nel 1923), divenuto fotografo per caso sul finire della guerra, è autore di importanti r. degli anni Cinquanta e Sessanta; memorabile la sua testimonianza della rivolta ungherese del 1956, in cui restò ferito, che segnò un certo modo nuovo di fare giornalismo fotografico in Italia. Le sue immagini si iscrivono nella tradizione della fotografia di guerra del migliore fotogiornalismo mondiale, con particolare riferimento agli autori americani che in questo campo vantavano una lunga e consolidata esperienza, con in più un connotato di umana pietà e di partecipazione emotiva che le fa vibrare in un modo tutto mediterraneo.
Un posto del tutto diverso ha nell'orizzonte del r. degli anni Cinquanta in Italia il lavoro di F. Pinna (n. in Sardegna nel 1925), che, dopo esperienze nella periferia romana dove fotografava l'emarginazione e la prostituzione del ghetto del Mandrione, sin dal 1952 iniziò un rapporto stretto, assieme ad altri fotografi tra cui A. Gilardi, con l'antropologo E. De Martino. Da questa collaborazione nacquero importanti libri quali Sud e magia e La terra del rimorso che furono poi fonte d'ispirazione per la generazione successiva: negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta avrebbero rivolto la loro attenzione ai fenomeni antropologici fotografi come G. Morandi (n. 1937) o L. Mazzacane (n. 1942), sotto l'impulso dato a queste ricerche da studiosi come G. Bosio. Il r. etnografico, così caratteristico della cultura italiana, pur definito in maniera precisa dalle sue finalità, non limitò le capacità espressive di Pinna, che anzi riuscì a svincolarsi dai lacci dell'oggettività scientifica attraverso un linguaggio asciutto e consapevole, come testimonia la lunga antologica a lui dedicata nel 1977, un anno prima della sua morte, dal significativo titolo di Lungo viaggio nelle terre del silenzio.
Negli anni Sessanta e fino alla metà degli anni Settanta si assiste alla grande stagione del fotoreportage italiano, assecondata da un crescente interesse delle riviste del settore che proliferarono fino ad arrivare a un certo momento a più di una quindicina di testate mensili e perfino per un breve periodo a un quindicinale. In questi anni troviamo fotografi come R. Cagnoni, P. Merisio, G. Lotti, C. Garrubba, L. D'Alessandro, M. Cresci, G. Berengo Gardin e altri ancora.
R. Cagnoni (n. presso Lucca nel 1935) trasferitosi a Londra negli anni Cinquanta, dopo un periodo di lavoro come collaboratore di riviste italiane, è ricordato soprattutto per il servizio sulla guerra nel Biafra nel 1968-69 per il quale ha ricevuto il premio Overseas Press del 1969; lavorò anche in Vietnam e nel Bangla Desh sempre fedele a un sincero rigore formale, che dà il senso profondo delle sue immagini. Altro giramondo attivissimo è stato C. Garrubba (n. a Napoli nel 1923); dopo un periodo di lavoro nei giornali della CGIL si è dedicato interamente al r.: dei molti suoi lavori vanno ricordati almeno Lazzaro alla tua porta (1967), in collaborazione con C. Cascio e I cinesi (1969). Altro napoletano di grande presenza nella fotografia italiana è L. D'Alessandro (n. 1933), che dopo l'esperienza nella redazione napoletana dell'Unità si dedicò per tre anni a documentare l'ospedale psichiatrico di Materdomini di Nocera Superiore con la consulenza dello psichiatra S. Piro; da questo interesse nacque il libro Gli esclusi (1969), che ha dato inizio a una felice stagione di interesse civile per molti fotografi che si sono rivolti soprattutto ai rinnovamenti portati avanti nel campo psichiatrico sotto la guida di F. Basaglia; tra le loro opere non si può non citare Morire di classe (1969) di C. Cerati e G. Berengo Gardin. P. Merisio e M. Cresci invece svolgono la loro attività in una continua e metodica rilevazione ambientale e culturale di determinate aree da loro scelte per motivi di affinità; il loro lavoro si volge più che a delineare motivi contingenti nell'universo delle culture subalterne a evocare tipologie e archetipi fuori dal tempo e a ritrovare radici ancestrali: di P. Merisio (n. presso Bergamo nel 1931) si ricorda soprattutto Terra di Bergamo del 1968; di M. Cresci (n. a Chiavari nel 1942), trasferitosi a Matera, sua terra d'elezione, nel 1972, si ricordano Matera, immagini e documenti (1975) e La terra inquieta (1981). G. Lotti (n. a Milano nel 1937) ha lavorato dal 1964 al settimanale Epoca e ha condotto una ricerca personale sull'inquinamento raccolta nel volume Venezia muore (1968); la sua foto più celebre è il ritratto del leader cinese Ciu En Lai del 1973, che gli fruttò nel 1982 la citazione nel dizionario degli uomini più famosi edito in Cina. G. Berengo Gardin (n. a S. Margherita Ligure nel 1930) iniziò a fotografare professionalmente negli anni Cinquanta, collaborando al Borghese e al Mondo; nel 1970 pubblicò un primo libro il cui titolo L'occhio come mestiere ben sintetizza il suo impegno dichiarato: "...con le mie fotografie cerco solo di offrire al soggetto l'opportunità di raccontarsi per quello che è"; dall'incontro con C. Zavattini nacquero due libri: il primo sui pittori naïf e il secondo, del 1976, sulla rivisitazione del paese di Luzzara vent'anni dopo il lavoro di P. Strand; Un paese vent'anni dopo si presenta più che come un confronto col mitico Strand, come la continuazione di un discorso interrotto, con la mediazione dell'affabulatore Zavattini che cuce tra loro lingue sottilmente diverse, dall'epica del quotidiano al quotidiano puro e semplice.
Gli anni Ottanta hanno visto il crescente declino del r. fotografico soprattutto a causa della televisione; hanno chiuso molte testate e si sono ristretti così gli spazi per i fotografi. Sopravvivono pochi importanti nomi tra i quali basta menzionare il siciliano F. Scianna, che ha iniziato la sua attività con Feste religiose in Sicilia (1965) con un saggio introduttivo di L. Sciascia. Trasferitosi a Milano nel 1967 per lavorare all'Europeo, ha collaborato con antropologi per documentare aspetti del mondo popolare che ha raccolto poi in pubblicazioni come Il glorioso Alberto, con un saggio di A. Rossi (1971), e I Siciliani (1977), col testo di L. Sciascia. Dal 1982 è entrato a far parte della Magnum; gira il mondo e ha pubblicato nel 1988 Kami sulla condizione dei minatori delle Ande boliviane. Il suo contributo al linguaggio del fotoreportage è di grande livello, coniugando il gusto compositivo con un carattere impulsivo che lo porta ad aggredire il soggetto fin quasi al contatto fisico. Il suo bianconero contrastato e spesso con la grana ben marcata si presta a un tipo di foto di denuncia di cui l'autore vuole sempre dichiarare la paternità. Vedi tav. f.t.
Bibl.: Oltre alle opere citate nella bibl. di fotografia e linguaggi visivi in questa Appendice, v. P. Racanicchi, P. Donzelli, Critica e storia della fotografia, 2 voll., Milano 1963; The concerned photographers, a cura di C. Capa, 2 voll., New York 1968-72; I. Szarkowski, Looking at photographs, ivi 1973; S. Sontag, On photography, ivi 1973; F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Napoli 1974; R. Lindekens, Semiotica della fotografia, trad. it., ivi 1978; AA.VV., La ricerca, Milano 1979; AA.VV., This is Magnum, Tokyo 1979; Photography: Essays and images, a cura di B. Newhall, New York 1980; A.C. Quintavalle, Messa a fuoco, Milano 1983; J. Green, American photography. A critical history from 1945 to the present, New York 1984; AA.VV., The fifties: photographs of America, ivi 1985; P. Turner, American images, photography 1945-1980, ivi 1985; A. De Paz, L'occhio della modernità, Bologna 1987; Through the looking glass, a cura di G. Badger e J. Benton-Harris, Londra 1989; AA.VV., In our time: the world as seen by Magnum photographers, Milano 1989; A l'est de Magnum 1945-1990, Quarante-cinq ans de reportage derrière le rideau de fer, Parigi 1991; P. Bertelli, Della fotografia trasgressiva, Piombino 1992; A. De Paz, La fotografia come simbolo del mondo, Bologna 1993.
Riviste specializzate: British Journal of Photography; Camera International; Fotografia; Camera Arts; Zoom; Fotologia.