repressione finanziaria
Fissazione di limiti alla crescita del credito all’economia. In un regime di r. f. lo Stato decide chi deve concedere credito, a chi e a che prezzo, creando distorsioni nei criteri di mercato circa l’allocazione (➔) ottimale delle risorse. Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale e fino alla liberalizzazione nei movimenti di capitale alla fine degli anni 1980, la r. f. si è realizzata in molti Paesi avanzati, tra cui l’Italia, per impedire che eccessi nella sua erogazione si traducessero, tramite una maggiore domanda aggregata (➔), in disavanzi della bilancia dei pagamenti (➔). Il credito erogato veniva poi allocato con criteri ispirati o imposti dallo Stato o dalla banca centrale. L’isolamento dalle condizioni monetarie prevalenti all’estero, conseguito per mezzo della fissazione amministrativa dei tassi d’interesse e di vincoli ai movimenti di capitale (➔ trasferimento; liberalizzazione), permetteva di mantenere i tassi d’interesse nominali interni a un livello inferiore rispetto a quelli esteri e, quindi, di finanziare con carattere di priorità la spesa pubblica e quella privata, selezionata sulla base di un qualche criterio di scelta del decisore pubblico. Tassi d’interesse nominali inferiori a quelli prevalenti all’estero, se associati a un’inflazione elevata e inattesa (➔ inflazione), potevano anche consentire di ridurre l’onere reale del debito per lo Stato e le imprese, con una ridistribuzione (➔) a scapito delle famiglie risparmiatrici.