Vedi Repubblica Centrafricana dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2016
La Repubblica Centrafricana (RCA), situata nel cuore del continente nero, è uno stato indipendente dal 1960. Il paese è potenzialmente florido, ricco di corsi fluviali, foreste, biodiversità e riserve minerarie (tra cui diamanti, oro, uranio, rame e ferro). Nonostante ciò, la Repubblica Centrafricana non ha mai intrapreso un reale percorso democratico e di sviluppo economico, declinando così in una condizione di povertà, scarsa alfabetizzazione, problemi sanitari e instabilità sociale. I momenti di crescita politica, economica e civile dall’indipendenza ad oggi possono considerarsi, dunque, brevi segmenti di un lungo continuum di dittature e guerre intestine. Le cause e gli effetti di tale realtà possono rintracciarsi in una struttura statale debole e piagata dalla corruzione, nella deriva del sistema di sicurezza e di giustizia, nella mancanza di garanzie democratiche, nel proliferare dei conflitti civili armati e, infine, nei fragili equilibri del contesto regionale. Anche i paesi confinanti – Ciad, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo e Camerun – versano, infatti, in condizioni politiche difficili e spesso interferiscono, in modo decisivo, sulle sorti dei ricorrenti conflitti politici che scaturiscono nella regione. Il proliferare di formazioni armate ribelli costituisce un ulteriore fattore di destabilizzazione delle zone transfrontaliere.
Dopo tre tumultuosi decenni di malgoverno – per lo più da parte di organi militari –, un governo civile fu finalmente istituito nel 1993, ma durò soltanto per un decennio. Nel marzo 2003, il governo di Ange-Félix Patassé fu rovesciato dal colpo di stato condotto dal generale François Bozizé, giovandosi dell’appoggio del presidente ciadiano Idriss Deby Itno, interessato a rendere sicuro il confine con la Repubblica Centrafricana per proteggere l’oleodotto che trasporta greggio dal Ciad meridionale al Camerun. In passato, le relazioni tra i due paesi sono state altalenanti a causa dell’instabilità dei confini generata dalle azioni dei gruppi armati ribelli e dalle operazioni antiterrorismo di N’Djamena in territorio centrafricano. Il governo di transizione guidato da Bozizé è stato inizialmente condannato dall’Unione Africana e dalle Nazioni Unite, che hanno riconosciuto la sua leadership solo nel 2005, quando vinse le elezioni presidenziali e le legislative con il partito Convergence nationale ‘Kwa Na Kwa’. La Francia, che per il suo passato coloniale ha da sempre un particolare ascendente sulla Repubblica Centrafricana, aveva invece accettato subito l’ascesa di Bozizé. Nel 2006 era intervenuta nel conflitto interno contro le forze ribelli stanziate nel nordest, offrendo sostegno logistico all’esercito centrafricano, fino all’accordo tra governo e guerriglieri firmato nel 2007 grazie alla mediazione della Libia. Il governo francese è stato anche il principale promotore dell’operazione EUFOR Ciad-car, avviata nel 2008 e poi sostituita dalla missione di peacekeeping delle Nazioni Unite MINURCAT, finalizzata a promuovere la pace nella regione di confine tra Ciad e Repubblica Centrafricana, permettere agli operatori umanitari di soccorrere le migliaia di sfollati sudanesi scampati alla guerra del Darfur e proteggere i civili da possibili ritorsioni dell’esercito sudanese. Attualmente, sono quasi 30.000 i rifugiati in Repubblica Centrafricana e circa 160.000 i rifugiati centrafricani all’estero. Con l’avvio di accordi bilaterali tra il Sudan e i paesi confinanti, le Nazioni Unite hanno deciso di ritirare le proprie truppe, sancendo la fine della missione (31 dicembre 2010); ciononostante la situazione tra Khartoum e Bangui rimane tesa. L’intervento della MINURCAT e la riconciliazione con il Front démocratique du peuple centrafricain (FDPC) ha anche permesso di avviare un processo di reinserimento degli ex ribelli nel sistema politico, compiutosi nel gennaio 2009 con un governo di unità nazionale.
Anche quest’ultimo governo centrafricano, che era stato riconfermato alle elezioni del 2011, ha avuto durata decennale e Bozizé, da artefice, è diventato vittima di un nuovo atto di forza. Michel Djotodia, un uomo politico e militare, musulmano convertito, appartenente all’Unione delle forze democratiche per l’unità (UFDR), beneficiando del sostegno di una coalizione di gruppi armati, chiamata Séléka – che aveva conquistato un proprio predominio sul paese già nel 2012 –, si è messo a capo della rivolta e il 24 marzo 2013 si è autoproclamato presidente della Repubblica Centrafricana, divenendo il primo presidente musulmano del paese. Con la costituzione di un Consiglio nazionale di transizione (CNt), Djotodia è stato chiamato a guidare il paese per 18 mesi. L’AU ha così sospeso il paese dal consesso regionale. I Séléka hanno avuto il sostegno informale di Déby: infatti, nonostante il presidente ciadiano abbia affermato fin da subito di volersi impegnare per la stabilizzazione del paese, di fatto ha permesso l’infiltrazione di combattenti ciadiani nel territorio di
Bangui (ordinando ai soldati di N’Djamena impegnati nella MICOPAX – la missione per il consolidamento della pace nel paese guidata dall’ECCAS – di non intervenire), e sembra avere assecondato il traffico di armi transfrontaliero, continuando così ad essere uno dei maggiori artefici del destino dello stato centrafricano. I Séléka, durante la loro avanzata, hanno commesso violenze ed esazioni, la cu gravità ha scosso la comunità internazionale, che ha esortato il presidente a intervenire. In settembre 2013, Djotodia ha sciolto unilateralmente il movimento dei Séléka, nel tentativo di ovviare alla sua incapacità di controllare il gruppo ribelle. Questa decisione non ha arrestato violenze e soprusi sulla popolazione civile, e anzi, ha esasperato la frammentazione della già fragile catena di comando del movimento, causando una situazione di pressoché totale impunità. I Séléka hanno preso di mira i cristiani del paese, commettendo esecuzioni cruente di civili e bruciando abitazioni e luoghi di culto. La connotazione religiosa della coalizione ribelle è spiegata dal fatto che i Séléka, oltre ad ospitare fra le loro fila jihadisti provenienti dagli stati vicini, hanno reclutato fra le province musulmane del nord, cioè quelle più colpite da disoccupazione, povertà e reiterata marginalizzazione fin dai primi anni di governo di François Bozizé, che, infatti, si era già scontrato precedentemente con la ribellione settentrionale, potendo contare, nel 2006-207, sul sostegno militare francese. Il reclutamento, anche forzato, in aree marginalizzate ha portato alla presenza di circa 5000 bambini e ragazzi soldato.
L’emergere di una pericolosa frattura religiosa fra cristiani (e animisti) e musulmani, di difficile ricomposizione nel lungo periodo, è stata una conseguenza, più che la causa, del conflitto: al contrario della difficoltà di convivenza fra le comunità che caratterizza la Nigeria, nel caso del Centrafrica la maggioranza cristiana e la minoranza musulmana hanno coesistito piuttosto pacificamente. I movimenti ribelli preesistenti avevano istanze rivendicative riconducibili alla discriminazione economica, più che autenticamente religiose. Gli insorti del movimento Séléka si sono invece connotati come musulmani, impiegando la stessa violenza dei gruppi jihadisti saheliani, e sono stati quindi identificati dalle popolazioni del sud alla stregua di invasori stranieri. Le esazioni e i crimini perpetrati sulla popolazione civile, anche in nome dell’islam, hanno portato alla creazione di milizie di autodifesa cristiane (anti-balaka, gli ‘anti-machete’), che si sono unite agli ex soldati fedeli a Bozizé, allo scopo di contrastare l’azione dei Séléka. Gli atti degli anti-balaka non sono stati meno cruenti di quelli dei ribelli, portando ad una escalation di violenza intercomunitaria accompagnata da saccheggi di esercizi commerciali e abitazioni e uccisioni di massa, come dimostrato dalla recente scoperta di fosse comunitarie in zone remote. Alcune personalità internazionali di rilievo, politici e attivisti dei diritti umani, hanno pertanto parlato di un vero e proprio genocidio in corso.
Gli scontri interreligiosi hanno generato quasi un milione di rifugiati interni, che si sommano ai circa 200.000 che hanno ripiegato nei campi profughi in Congo Kinshasa, Ciad e Camerun, rendendo concreto il rischio dell’insufficienza dell’approvvigionamento alimentare. La forza multinazionale in Africa Centrale (FOMAC) non è riuscita a favorire il disarmo dei Séléka. Dopo un attacco della capitale Bangui operato dalle milizie anti-balaka e che ha provocato 130 morti, nel dicembre 2013 le Nazioni Unite hanno autorizzato l’istituzione della Mission internationale de soutien à la Centrafrique (MISCA) sostenuta dall’AU, e dalla durata di un anno. Sempre all’inizio di dicembre 2013, François Hollande ha unilateralmente deciso di intervenire militarmente
nel paese, con un contingente di 1600 soldati che hanno avuto mandato di affiancare la MISCA nelle operazioni di peacekeeping, acquartieramento dei ribelli, disarmo e stabilizzazione. La missione dell’esercito francese Sangaris è stata successivamente autorizzata dalle Nazioni Unite. I contingenti internazionali hanno tuttavia avuto difficoltà a frenare gli scontri intercomunitari, e, a seguito di un nuovo appello delle UN, in gennaio 2014 l’EU ha promesso l’invio di 500 soldati. Tuttavia la trasformazione di MISCA in MINUSCA non ha ancora avuto luogo, causa la difficoltà di reperimento delle risorse adeguate. Alcuni militari ciadiani appartenenti alla MISCA e probabilmente conniventi con la ribellione sono stati accusati di avere commesso violazioni dei diritti umani.
In gennaio il presidente Djotodia, abbandonato dai sostenitori francesi e ciadiani, è stato costretto a dimettersi. Supportato dall’ECCAS, il CNT ha provveduto all’elezione di un nuovo presidente. Catherine Samba-Panza, sindaco di Bangui, è diventata il nuovo capo di stato e ha prestato giuramento alla presenza di Laurent Fabius, ministro degli esteri francese. Le violenze non si sono comunque arrestate. Le Nazioni Unite hanno istituito una commissione d’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani commesse nella Repubblica Centrafricana. Si teme che il paese possa precipitare nella condizione di stato fallito.
Il disordine che caratterizza la Repubblica Centrafricana dalla sua indipendenza ha impedito l’attuazione di qualsiasi piano di sviluppo e i continui scontri tra fazioni fedeli al governo e avversari costituiscono un peso per una rivitalizzazione economica. Nel 2009 il Fondo monetario internazionale ha lavorato a stretto contatto con il governo per istituire un programma di riforme ma, sebbene qualche miglioramento sia stato apportato nella trasparenza del bilancio, rimangono altri ingenti problemi da superare. Lo sviluppo economico del paese è limitato innanzitutto dalla sua posizione geografica senza sbocchi sul mare e da debolezze strutturali del proprio sistema, quali: carenti infrastrutture di trasporto, una forza lavoro in gran parte non qualificata e un retaggio di inadeguate politiche macroeconomiche. L’economia resta quindi prevalentemente basata su un’agricoltura di sussistenza e su attività che sfuggono alla contabilità nazionale: è diffusa, infatti, la pratica dell’esportazione e del commercio individuale di materie prime, soprattutto diamanti. Si stima così che l’economia informale della Repubblica Centrafricana sia percentualmente maggiore di molte altre economie formali di altri paesi limitrofi.
Il paese registra uno dei tassi di povertà più alti al mondo e preoccupanti tassi di mortalità e di crescita della popolazione pesantemente compromessi dall’incidenza del virus dell’HIV nell’intera regione.
I maggiori partner commerciali sono Corea del Sud, Paesi Bassi e Francia per ciò che riguarda le importazioni, mentre i maggiori mercati di esportazione sono il Belgio e la Cina.
Da quando François Bozizé ha conquistato il potere nel 2003, nel nord della Repubblica Centrafricana si sono concentrate alcune forze ribelli che combattevano il governo centrale di Bangui, cercando di sostituirsi a esso. Nonostante queste fazioni in passato si fossero scontrate tra loro, dal 2007 si sono unite nella coalizione Séléka (nella lingua locale Sango significa ‘alleanza’), che comprendeva diversi gruppi, fra cui UFDR (Union des forces démocratiques pour le rassemblement), CPJP (Convention des patriotes pour la justice et la paix), FDPC (le Front démocratique du peuple centrafricain) e CPSK (Convention patriotique pour la sauvegarde du Kodro). La coalizione si formò come atto di ribellione nei confronti di Bozizé, accusato di non avere rispettato un accordo di pace siglato nel 2007 tra ribelli e governo, in base al quale i combattenti che avessero deposto le armi avrebbero ricevuto un indennizzo in denaro. Col tempo, ai gruppi fondanti l’alleanza se ne aggiunsero altri e Séléka si trasformò in un’aggregazione destrutturata, che s’ingrandiva sempre più man mano che l’obiettivo di rovesciare Bozizé si faceva tangibile; infatti nel momento in cui i Séléka cominciarono l’offensiva, infiltrazioni di combattenti ciadiani e sudanesi ingrossarono le fila del movimento, dando al gruppo una connotazione islamista e jihadista, che si è riflettuta in violenze perpetrate a danno dei cristiani. Il movimento dei Séléka ha così acquisito una proiezione regionale e non più locale, divenendo una federazione di gruppi armati con connessioni internazionali caratterizzata da una fragile e dispersa catena di comando, poco riconosciuta da parte dei cittadini centrafricani, che dubitano sulla stessa origine dei combattenti.