La collocazione della Repubblica Democratica del Congo (Rdc o Congo-Kinshasa), al centro dell’Africa, e su un territorio ricchissimo di materie prime, ha fatto del paese un attore cruciale per l’equilibrio dell’intera regione già prima dell’indipendenza, ottenuta nel 1960 dal Belgio. Dopo essere stato uno dei principali alleati degli Stati Uniti per tutta la Guerra fredda, l’ex Zaire di Mobutu Sese Seko – che aveva così ribattezzato il paese nel 1972 nella sua campagna per l’‘autenticità’ africana – è diventato il fulcro di una crisi di rilevanza internazionale che ha destabilizzato tutta la regione dei Grandi Laghi.
La Repubblica Democratica del Congo è l’undicesimo stato per estensione a livello mondiale e il secondo paese più grande dell’Africa dopo l’Algeria. Il rapporto conflittuale tra governo centrale e istituzioni regionali, che continua ad alimentare la tensione nel paese, si è sovrapposto agli interessi di attori statuali e formazioni militari per l’accesso alle ingenti risorse del paese e il controllo del territorio.
Negli anni Sessanta la tentata secessione del Katanga fu il preludio agli squilibri che sarebbero successivamente emersi. Patrice Lumumba, protagonista del movimento di liberazione e primo ministro del Congo indipendente, durante la sua attività politica però la causa dell’unità del paese in chiave antimperialista e panafricana, ma fu spodestato da Mobutu SeseSeko, che conquistò il potere on un colpo di stato sostenuto dalle potenze occidentali, e successivamente ucciso. Dopo essere stato formalmente sfiduciato nel 1993 dai suoi principali alleati internazionali, Mobutu fu definitivamente sconfitto e costretto a riparare in Marocco nel 1997 dall’avanzata della rivolta armata dell’Alliance des forces démocratiques pour la libération du Congo-Zaïre (Afdl) capeggiata da Laurent-Désiré Kabila. La guerra riesplose quando il nuovo presidente Kabila, dopo aver concentrato tutti i poteri nelle proprie mani e ribattezzato il paese Repubblica Democratica del Congo, tentò di espellere i contingenti militari di Ruanda e Uganda che lo avevano sostenuto contro Mobutu. Il conflitto che ne seguì coinvolse diversi stati dell’Africa centrale e australe, in una progressiva internazionalizzazione. Il dispiegamento nel 1999 di una forza di interposizione delle Nazioni Unite e il coinvolgimento dell’Unione Europea non sono bastati a garantire la stabilità.
A partire dal 2002-03 il Congo ha intrapreso un processo di pacificazione sotto la guida del nuovo presidente Joseph Kabila, che successe al padre assassinato per mano di una guardia del corpo il 16 gennaio 2001. Il 18 febbraio 2006 è stata promulgata la nuova Costituzione, con un assetto istituzionale ispirato al semipresidenzialismo francese. In aperto contrasto al centralismo dell’era di Mobutu, il nuovo assetto territoriale del paese è stato improntato al decentramento amministrativo, con l’istituzione di dieci province (suddivise in 41 distretti) e una città (la megalopoli Kinshasa). Nelle elezioni del 2006, le prime della storia ritenute credibili dagli osservatori internazionali, nonostante gli scontri fra i seguaci di Kabila e dello sfidante Jean-Pierre Bemba a Kinshasa, il popolo congolese ha confermato il presidente uscente alla guida del paese. È invece risultato sconfitto il Mouvement de libération du Congo (Mlc) di Bemba, che è sotto processo alla Corte penale internazionale dell’Aia per crimini di guerra commessi nella Repubblica Centrafricana. Kabila è stato riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2011, contestate dall’opposizione di Étienne Tshisekedi, politico di lungo corso, e dalla società civile. Gli osservatori internazionali, a partire dal rappresentante speciale delle Nazioni Unite Roger Meece, hanno dichiarato che le elezioni sono state caratterizzate da numerose irregolarità.
Il governo di Kabila è sempre più criticato come un regime a tendenze fortemente autoritarie. Nel 2013, anche a causa del protrarsi del conflitto nell’est del paese, Kabila ha convocato una Conferenza di concertazione nazionale, boicottata da alcuni importanti partiti dell’opposizione e a cui hanno preso parte anche organizzazioni della società civile. Sebbene lo scopo sarebbe dovuto essere l’individuazione di politiche condivise nel campo della salute, dell’educazione, della cultura e dell’economia, i risultati sono stati giudicati pressoché irrilevanti.
L’estrema porosità delle frontiere, la fragilità dello stato centrale, l’ingente presenza di risorse naturali e minerali preziosi e ricercati, hanno favorito la riproduzione di situazioni di conflitto endemiche e supportate da attori esterni, in un circolo vizioso in cui cause e conseguenze paiono talvolta indistinguibili. L’ultima guerra in ordine di tempo è stato il conflitto che ha opposto i ribelli dell’M23 e l’esercito regolare congolese, sostenuto dai Caschi blu, dal 2012 al 2013 nei pressi di Goma, in Nord Kivu. Nel 2013, ad Addis Abeba, undici paesi, fra cui Ruanda e Uganda, hanno firmato un accordo per la non ingerenza e il sostegno degli sforzi di pacificazione nel Nord e nel Sud Kivu. L’accordo rimane in attesa di essere davvero messo in pratica.
Con una popolazione stimata in circa 67 milioni di abitanti, il Congo conta più di 250 etnie. I gruppi più importanti (Luba, Kongo, Mongo, Azande e Lunda) non superano i tre milioni di persone ciascuno, non avendo così una maggioranza a livello nazionale, anche se ognuno rappresenta il gruppo predominante in una regione. Oltre al francese, sono idiomi ufficialmente riconosciuti il lingala, il kikongo, lo tshiluba e lo swahili, i più diffusi tra le oltre 700 lingue presenti nel paese. Il francese è rimasta la lingua utilizzata dalle istituzioni e nell’istruzione superiore. Un terzo della popolazione è analfabeta, mentre solo un sesto ha ricevuto un’istruzione secondaria e meno dell’1% ha conseguito una laurea. Il 70% dei congolesi si professa almeno nominalmente cristiano, di cui il 50% cattolico e il restante 20% protestante. Più del 10% appartiene alle diverse Chiese indipendenti africane, tra le quali la più importante è quella kimbanguista, fondata sugli insegnamenti millenaristici e antieuropei di Simon Kimbangu, legalmente riconosciuta nel 1959. Un altro 10%, composto anche dalle comunità degli indiani e dei libanesi presenti sul territorio da più generazioni, è di confessione musulmana, mentre la restante parte della popolazione pratica riti tradizionali che nel corso dei secoli hanno assunto caratteri fortemente sincretici con le religioni del Libro.
I diritti umani, civili e politici sono gravemente disattesi e le violenze cicliche a cui è soggetto il paese espongono i cittadini al rischio di arresti arbitrari, abusi, sfruttamento e schiavitù, stupri, esazioni, lavori forzati. Alto è inoltre il numero dei bambini e dei ragazzi soldato. L’impunità per i crimini è molto diffusa e, nel caso delle violenze sessuali, genera un drammatico meccanismo di depenalizzazione di questo comportamento criminale, al quale il governo cerca molto faticosamente di porre rimedio. L’estrema povertà dà luogo a situazioni di forte disagio sociale che si traducono, soprattutto in area urbana, in fenomeni estremamente gravi come accuse di stregoneria e abbandono minorile. Nonostante gli investimenti, gli aiuti internazionali e la presenza sul territorio di un vasto numero di organizzazioni umanitarie, la speranza di vita dei cittadini congolesi è di soli 48 anni, e il Congo è il penultimo paese per indice di sviluppo umano.
Dal 2012 l’Unhcr ha stimato un numero di rifugiati interni pari a 2,2 milioni di persone, e 400.000 congolesi risiedono in altri stati. Il reinsediamento degli sfollati costituisce una delle maggiori sfide per la stabilità del paese. Data l’instabilità regionale, il Congo è anche terra d’asilo: si contano almeno 153.000 rifugiati. A est si tratta in maggioranza di cittadini ugandesi e rwandesi, mentre ad ovest sono soprattutto gli angolani a varcare il confine in cerca di occupazione. La crisi in Repubblica Centrafricana ha anche provocato un afflusso di profughi verso la regione dell’Equatore. I rifugiati sono spesso oggetto di tensioni politiche, quando non utilizzati come vero e proprio strumento di pressione per le relazioni internazionali: ciclicamente Congo e Angola provvedono a espulsioni e rimpatri. Uno dei maggiori contenziosi con il Ruanda è legato alla presenza di Hutu Interahamwe, i perpetratori del genocidio, che avrebbero trovato rifugio nell’est del paese durante l’esodo di massa degli Hutu dopo la presa del potere del presidente tutsi Kagame.
Nonostante le grandi ricchezze naturali (oro, diamanti, rame, cobalto, uranio, radio, coltan, cromo, bauxite, cassiterite e altri minerali preziosi, oltre al petrolio), il Congo rimane uno dei paesi più poveri al mondo, fortemente dipendente dagli aiuti internazionali. L’agricoltura, in particolare quella di piantagione (caffè, olio di palma, gomma, cotone, zucchero, tè e cacao), rappresenta il settore percentualmente più importante nella composizione del pil.
L’industria rimane sotto la soglia dei 25 punti percentuali ed è sottosviluppata rispetto alle potenzialità del paese, in particolare nel settore minerario e idroelettrico. I servizi e le infrastrutture hanno registrato dei miglioramenti, anche grazie agli investimenti e agli aiuti internazionali e cinesi, ma sono ancora inadeguati. L’economia informale è largamente diffusa, facilitata anche dalla debolezza delle istituzioni statali.
A partire dal 2001 il governo di Joseph Kabila ha intrapreso, sotto la supervisione del Fondo monetario internazionale, una serie di riforme intese a stabilizzare le più importanti variabili macroeconomiche, riducendo l’esorbitante debito estero e puntando sullo sviluppo di infrastrutture, salute, istruzione, occupazione ed edilizia residenziale. I progressi sono stati ostacolati soprattutto dall’instabilità e dalla corruzione dilagante, cui si è andata a sovrapporre la recente crisi economica e finanziaria internazionale. Dopo il picco negativo del 2008-09 gli indicatori macroeconomici hanno segnato una lenta ripresa, anche se gli investimenti restano al di sotto dell’enorme potenziale del paese, a causa di variabili di rischio decisamente troppo elevate. Nonostante gli innumerevoli ostacoli, il pil del Congo cresce a un tasso del 6% annuo, anche se questo non si traduce in un benessere equamente distribuito.
L’estrazione illecita e il traffico illegale di materie prime, nonché l’insicurezza che spinge alla chiusura di alcuni siti, privano il paese di importanti risorse e alimentano i numerosi gruppi armati.
La trasformazione nel maggio 2010 della Mission de l’Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo (Monuc) in Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo (Monusco) ha registrato il passaggio da una logica di peacekeeping ad una di stabilizzazione politica, conferendo alla Monusco anche un mandato di peace enforcing, attivato nel 2012 per contrastare l’ascesa dell’M23. L’esercito regolare congolese è fortemente destrutturato, nonostante il supporto che le organizzazioni internazionali offrano in termini di riorganizzazione e addestramento delle truppe.
Nel 2012, il colonnello Sultani Makenga si è ammutinato, lamentando il mancato rispetto degli accordi sulla reintegrazione del 2009 e dando vita al Mouvement 23 Mars (M23), una forza composta da ex miliziani, in maggioranza Tutsi, che erano stati precedentemente reinseriti nell’esercito regolare. Un rapporto stilato dalla Nazioni Unite ha evidenziato come il gruppo ribelle sia stato sostenuto dal Ruanda, anche come reazione alla presenza, in territorio congolese, delle Forces démocratiques de libération du Ruanda (FDLR), un movimento che si oppone al governo del presidente Kagame e che fino al 2013 non era mai stato effettivamente perseguito dall’esercito regolare di Kinshasa. Di fronte al reale pericolo rappresentato dalla forza dell’M23, il mandato della MONUSCO è stato rafforzato, contemplando per la prima volta anche la risposta al fuoco. Le forze congiunte dei Caschi blu e dell’esercito regolare congolese sono riuscite a neutralizzare il movimento solo alla fine 2013, quando, parallelamente alla controffensiva militare, negoziati per la pace si sono aperti a Kampala. I negoziati, che hanno visto l’impegno del presidente ugandese Museweni e una certa implicazione del governo ruandese, si sono protratti per mesi, fino alla Dichiarazione di Nairobi. Mentre Makenga è rifugiato in località ignota, permangono dubbi sulla volontà di Kampala di consegnare i ribelli in fuga al governo di Kinshasa. Sconfitto a fatica l’M23, l’esercito congiunto sta intraprendendo azioni contro le FDLR. Nel Congo orientale rimangono tuttavia attivi altri movimenti: gli ADF-Nalu, filo ugandesi e di matrice islamista, vari gruppi Mai-Mai, cioè formazioni di diversa matrice e fra loro avversarie, la cui generale denominazione ‘Mai-Mai’ fa riferimento a combattenti che insorsero contro i colonizzatori, l’FRPI, attivo in Ituri, i Raia Mutomboki, sorti in contrapposizione alle FDLR.