Vedi Corea, Repubblica di dell'anno: 2012 - 2013 - 2015 - 2016
Sebbene la Corea del Sud sia universalmente riconosciuta come una democrazia consolidata, per alcuni decenni dopo la Guerra di Corea (1950-53) alla sua guida si sono susseguiti dei leader politici impadronitisi del potere con mezzi e in circostanze poco democratici. A partire dal 1961, la Corea cadde preda dei militari, che acquisirono il potere attraverso un colpo di stato e lo mantennero, in diverse ‘incarnazioni’, per un quarto di secolo, dedicando il loro impegno alla crescita economica del paese ma calpestando a più riprese i diritti della cittadinanza. Nel 1987, sotto la spinta delle manifestazioni sociali guidate dal movimento pro-democratico, il regime autoritario venne sconfitto e si poté infine instaurare un regime democratico nel paese.
Per ironia della sorte, il primo presidente del nuovo corso democratico del paese non fu altri se non l’ex generale Roh Tae-Woo, la cui elezione segnava quindi una sorta di continuità con il vecchio regime autoritario, pur in assenza di caratteristiche di autoritarismo. Per assistere all’elezione del primo presidente civile e senza alcun passato militare si dovette aspettare il 1993, con l’elezione di Kim Young-Sam. Uno degli esponenti politici di maggior rilievo che la Corea del Sud abbia avuto è stato Kim Dae-Jung, il quale, oltre a dover affrontare la crisi economica che si abbatté violentemente sul paese nel 1997, cercò di gestire in maniera profondamente diversa dalle amministrazioni precedenti il rapporto con la Corea del Nord. Una sua storica visita a Pyeongyang, caratterizzata dall’incontro col leader nordcoreano Kim Jong-Il, nel 2000, gli valse l’assegnazione del Premio Nobel per la pace. Questa attitudine al dialogo con il vicino regime di Pyeongyang ha caratterizzato anche la successiva amministrazione sudcoreana guidata dal progressista Roh Moo-hyun, anch’egli recatosi in visita in Corea del Nord sul finire del suo mandato, nel 2007. Da questo approccio ha preso le distanze l’ex presidente sudcoreano Lee Myung-bak, in carica dal 2008 al 2012, il quale ha deciso di sposare una linea di maggiore fermezza nei confronti della Corea del Nord.
La Corea del Sud è una repubblica presidenziale in cui il presidente è il capo dello stato, oltre che comandante in capo delle forze armate. Egli viene eletto a suffragio universale diretto per un unico mandato di durata quinquennale. Il primo ministro viene nominato dal presidente della repubblica e ‘approvato’ dal parlamento, l’Assemblea nazionale. Il presidente ha anche il potere di nominare i ministri. L’Assemblea nazionale, il ramo legislativo, ha 299 membri, eletti per un periodo di quattro anni: di questi 243 sono eletti in collegi uninominali maggioritari, mentre 56 col sistema proporzionale.
Con una popolazione totale di poco inferiore ai 50 milioni di persone, la Corea del Sud può essere considerato un paese demograficamente rilevante, anche se il suo tasso di crescita demografica è particolarmente basso (0,7 dato Cia World Factbook stima 2011) e tendente allo zero (ciò avverrà tra il 2020 e il 2025 secondo il World Population Prospects: The 2008 Revision). Quest’ultimo dato assume un significato ancor più preoccupante se messo in relazione al cambiamento della struttura della popolazione: la Corea del Sud si contraddistingue per avere un tasso di fecondità tra i più bassi al mondo (1,22) e un’aspettativa di vita tra le più alte. La combinazione di questi due fattori determina un progressivo invecchiamento della popolazione che sta assumendo contorni preoccupanti.
Già nel 2000, la Corea del Sud è entrata a far parte del novero dei paesi tecnicamente ‘vecchi’, in cui l’11,5% della popolazione totale ha più di 65 anni; se la situazione non dovesse modificarsi, questa percentuale di anziani aumenterà fino a raggiungere il 20% della popolazione totale nel 2026, spingendo la Corea a diventare uno dei paesi più vecchi in assoluto nel 2050.
Come accade altrove, in Corea l’immigrazione non sembra in grado di correggere nell’immediato questa stortura, dato che il numero di immigrati presenti nel paese, nonostante sia cresciuto, rimane ancora modesto. Molti stranieri tendono a risiedere solo temporaneamente in Corea anche a causa della forte omogeneità etnica e culturale del paese. Per un’ampia parte della popolazione coreana, soprattutto quella più anziana, l’idea di una nazione multietnica o multirazziale – come gli Stati Uniti – rimane ancora molto lontana. Tra gli stranieri presenti i cinesi costituiscono la comunità più nutrita. L’emigrazione è invece un fenomeno ben conosciuto, sviluppatosi soprattutto durante il periodo della colonizzazione nipponica (1910-45); i paesi maggiormente interessati dall’emigrazione sudcoreana sono stati la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone e le ex repubbliche sovietiche.
Da notare è anche la densità della popolazione, una delle più alte del mondo, pari a circa 513,6 persone per chilometro quadrato. Più dell’80% della popolazione sudcoreana vive nelle aree urbane, con una fortissima concentrazione nella zona della capitale: questa è la conseguenza dei processi di rapida industrializzazione e urbanizzazione della nazione negli anni Sessanta e Settanta.
La Corea del Sud ha assegnato un’importanza notevole all’istruzione, tanto che il tasso di alfabetizzazione ha ormai raggiunto il 99%.
I diritti umani dei cittadini sudcoreani vengono generalmente rispettati. Nonostante ciò, la persistenza della controversa ‘Legge di sicurezza nazionale’, introdotta nel 1948 con l’obiettivo ufficiale di opporsi a qualunque azione volta a danneggiare la sicurezza nazionale, ha messo in dubbio la concreta libertà di espressione e di stampa nel paese, come denunciato da alcune organizzazioni per i diritti umani. Nonostante la ferrea applicazione della Legge sia andata scemando, alcune centinaia di persone l’anno vengono perseguite a causa della loro reale o presunta ‘simpatia’ nei confronti della Corea del Nord. La nebulosità nell’applicazione della Legge di sicurezza nazionale ha più volte permesso alle autorità ampi poteri di arresto, detenzione e imprigionamento di persone che avevano compiuto azioni considerate come potenzialmente pericolose nei confronti della sicurezza nazionale. Periodicamente vengono segnalati anche casi di abuso fisico e verbale da parte della polizia nei confronti dei detenuti, in particolare se fermati in seguito a manifestazioni di ordine politico.
L’incidenza della violenza domestica rimane ancora estremamente alta, così come le molestie sessuali. Del resto, la sperequazione salariale tra uomini e donne è una pratica ancora molto diffusa e comune. A causa della forte omogeneità etnica del paese, è ancora particolarmente difficile per le minoranze integrarsi pienamente.
Nonostante la legge persegua duramente la tratta di esseri umani vi sono episodi di questo tipo che coinvolgono nella gran parte dei casi donne e bambini, condotti nel paese soprattutto per essere sfruttati sessualmente.
Nessuna esecuzione è stata condotta nel paese dal dicembre 1997; più di 50 persone si trovano ancora nel braccio della morte, nonostante siano state più volte avanzate in Parlamento delle proposte di abolizione della pena capitale.
L’economia sudcoreana ha subito una profondissima trasformazione dopo la fine della Guerra di Corea. Da quel conflitto il paese uscì devastato, rimanendo in condizioni di estrema povertà fino all’inizio degli anni Sessanta.
In quel periodo il pil pro-capite era pari a circa 82 dollari americani, paragonabile quindi a quello dei più poveri e arretrati paesi africani e asiatici. Nel corso degli anni Sessanta il paese fu radicalmente trasformato grazie al perseguimento, da parte dei regimi militari, di politiche di crescita, modernizzazione e industrializzazione, da realizzare attraverso la strategia delle esportazioni e degli aiuti statali alle imprese. In breve la Corea ha raggiunto dei livelli di crescita considerevoli e da nazione prevalentemente agricola è andata assumendo progressivamente le fattezze che oggi conosciamo: il paese con il più alto tasso di accessi alla rete internet, leader nella produzione di semiconduttori e innovatore mondiale nell’elettronica di consumo.
La rapida crescita della Corea, tuttavia, dopo aver continuato in maniera stabile per la prima metà degli anni Novanta, ha cominciato a evidenziare alcune debolezze con la crisi economica del 1997-98: in particolare, il pronunciato rapporto tra debito e capitale di rischio e un massiccio ricorso a prestiti esteri di breve termine hanno minato la tenuta del sistema di sviluppo sudcoreano. Alla fine del 1997, complici la bancarotta di alcuni tra i principali gruppi industriali del paese e la fuga degli investitori stranieri, il paese si trovò costretto per evitare un tracollo economico a fare ricorso all’aiuto del Fondo monetario internazionale, che erogò alla Corea un prestito di ben 57 miliardi di dollari. Una serie di precise misure adottate dal governo sudcoreano rese possibile il contenimento dei problemi finanziari del paese, ma la ‘guarigione’ dalle ferite inferte dalla crisi può essere attribuita principalmente alla ristrutturazione operata nel mercato del lavoro e alle misure introdotte dalla nuova amministrazione, volte ad attrarre investimenti stranieri. Nei primi quattro mesi del 1999 il pil aumentò del 5,4%; la crescita sostenuta, combinata con la pressione deflazionistica sulla valuta, condusse a una crescita annuale del 10,5%. La crisi poteva dirsi quindi fondamentalmente riassorbita verso la fine del 1999 e il prestito del Fondo monetario internazionale estinto di lì a poco.
Dopo il duro colpo d’arresto rappresentato dalla crisi, l’economia coreana ha ripreso a crescere velocemente, come dimostra l’aumento del pil nel 2000 di oltre il 9%. Negli anni seguenti, tuttavia, le oscillazioni economiche hanno ripreso a farsi sentire, come conseguenza della recessione globale, della difficoltà nelle esportazioni e nel rallentamento delle riforme economiche e finanziarie. Negli ultimi anni, comunque, il tasso di crescita si è attestato intorno al 3-4%.
Malgrado la Corea del Sud sia stata investita pesantemente anche dalla recente crisi economica globale, questa volta la risposta è stata pronta: la recessione è stata evitata grazie a delle tempestive misure di stimolo dell’economia e al forte consumo di prodotti interni, che ha compensato in qualche maniera la forte riduzione nel settore delle esportazioni.
La Corea del Sud può contare su modestissime risorse energetiche interne, configurandosi quindi come uno dei principali importatori di energia al mondo.
Di fondamentale importanza è il petrolio, di cui la Corea è il quinto maggior importatore al mondo, nonché decimo consumatore assoluto. Nel 2011 il consumo di petrolio ha raggiunto i 2,3 milioni di barili al giorno. La gran parte del petrolio utilizzato proviene dalla regione del Golfo Persico, principalmente dagli Emirati Arabi Uniti. La forte dipendenza della Corea dall’importazione di petrolio ha condotto alla diversificazione della fornitura tramite l’adozione di una strategia a breve termine e di una a lungo termine. Da un lato, infatti, la Corea ha sviluppato una riserva petrolifera strategica, pari a 90 giorni circa di fornitura, gestita dall’ente nazionale per il petrolio (Korea National Oil Corporation, Knoc): tale riserva si renderebbe necessaria in caso di improvvise interruzioni nella disponibilità di petrolio. Dall’altro lato, in una strategia di lungo termine, la stessa Knoc – così come altre società private – ha cominciato a dedicarsi all’esplorazione di possibili siti di approvvigionamento, scandagliando il sottofondo marino in prossimità della costa, largamente inesplorato, e partecipando attivamente ad alcuni progetti pilota in varie aree del pianeta. La Corea è anche la sesta potenza mondiale per volume di raffinamento del greggio: 2,7 milioni di barili al giorno vengono raffinati nei sei impianti principali del paese.
Oltre al petrolio, il paese importa anche notevoli quantità di gas naturale liquefatto, principalmente dal Qatar, e di carbone. La crescente richiesta di energia elettrica viene invece soddisfatta attraverso una combinazione di energia termica, nucleare e idroelettrica. Come firmataria del Protocollo di Kyoto la Corea del Sud si è presa l’impegno di ridurre le emissioni di carbone dotandosi di 12 nuovi impianti nucleari prima del 2015.
Data la fortissima sovrappopolazione, l’inquinamento atmosferico ha finito per diventare un problema rilevantissimo nelle aree urbane. Per questo motivo, e per provare in qualche modo a sottrarsi al giogo delle importazioni di petrolio, il governo sudcoreano ha deciso a metà del 2008 di favorire gli investimenti in fonti di energia rinnovabile. Il ministero dell’economia ha dichiarato di voler spendere delle ingenti somme di denaro in tecnologie e progetti riguardanti l’energia solare, eolica e i biocarburanti.
Con una spesa pari a più di 27 miliardi di dollari americani – pari a poco meno del 3% del pil – la Corea del Sud è uno dei primi 15 paesi al mondo per spese militari. Un tale gravoso impegno finanziario è ovviamente determinato dalla situazione di particolare instabilità della penisola. Le forze armate sudcoreane possono contare su circa 660.000 unità in servizio (di cui gran parte personale dell’esercito), e su 4,5 milioni di riservisti. Il servizio militare, particolarmente impegnativo, è tuttora obbligatorio al compimento del 18° anno d’età e ha una durata variabile a seconda della forza armata in cui lo si presta, ma comunque compreso tra i 22 e i 25 mesi di leva. Alla leva sono ammesse anche le donne, a partire dal 1950, ma solo in determinate specialità. Le dotazioni militari sono numerose e tecnologicamente all’avanguardia.
La principale relazione militare che i sudcoreani intrattengono è quella con gli statunitensi, che continuano, sin dal 1945, a mantenere nel paese un loro contingente composto da 27-29.000 soldati. Dalla fine della Guerra di Corea gli americani si sono in qualche maniera presi la responsabilità di assicurare la sicurezza della Corea del Sud contro eventuali attacchi esterni. È necessario sottolineare, peraltro, come la posizione geografica e geo-strategica del paese renda difficilmente ipotizzabile una smobilitazione da parte degli statunitensi. A partire dal 1978 il Comando congiunto delle forze della Repubblica di Corea e degli Stati Uniti (Rok-Us Cfc) ha assunto la responsabilità di difesa dei confini sudcoreani. Il Cfc, comandato da un generale statunitense e da un vice sudcoreano, detiene il controllo operativo su più di 600.000 soldati sud-coreani e americani e ha il compito di dirigere le esercitazioni congiunte che i due paesi attuano periodicamente. Queste esercitazioni, oltre che come normale training per le truppe coinvolte, servono anche come deterrente nei confronti dei nordcoreani.
Proprio i nordcoreani vengono considerati dal governo del sud come la principale minaccia alla stabilità della penisola. La Corea del Nord, infatti, può contare su una disponibilità sconfinata di mezzi e uomini dal punto di vista militare. Oltretutto, negli ultimi anni si è notato che più della metà delle forze armate nordcoreane staziona nel breve tratto compreso tra la Zona smilitarizzata al 38° parallelo e la capitale Pyeongyang. La pericolosità di tale situazione è concreta, anche a causa del possesso di armi nucleari da parte dei nordcoreani. La difficoltà di predizione delle azioni nordcoreane è comunque data da una lunga serie di fattori che non aiutano a ridurre la tensione nella penisola, come la mancanza di informazioni certe e affidabili sul regime nordcoreano e i periodici cambiamenti di atteggiamento da parte degli Stati Uniti nei riguardi di Pyeongyang.
Il successo di Kim Dae-Jung alle elezioni presidenziali del 1998 sancì l’inizio di un decennio ‘progressista’ in Corea del Sud, determinando anche l’avvio di un nuovo tipo di approccio nei confronti del vicino nordcoreano. Questo nuovo approccio, denominato ‘Sunshine Policy’, faceva leva su tre principi: nessuna provocazione militare da parte dei nordcoreani sarebbe stata tollerata; il sud non avrebbe tentato di assorbire il nord in alcun modo; il sud avrebbe cercato attivamente la cooperazione col nord. Questi principi volevano rassicurare Pyeongyang della mancanza di qualunque volontà di assorbimento o di minaccia al regime da parte di Seoul: l’obiettivo ultimo era costruire le basi per una pacifica coesistenza e non il cambiamento di regime o la riunificazione immediata. La ‘Sunshine Policy’ rappresentava un metodo totalmente differente dai decenni di contesa diplomatica a somma zero tra nord e sud. Questo approccio raccolse anche dei risultati molto concreti, come la creazione di un progetto turistico congiunto sul Monte Kumgang, nella Corea del Nord vicino al 38° parallelo, o la ricongiunzione dei binari tra le due Coree. L’apice della ‘Sunshine Policy’ fu rappresentato dallo storico summit del giugno 2000 in occasione del quale il presidente Kim Dae-Jung si recò a Pyeongyang per incontrare il leader nordcoreano Kim Jong-Il, un avvenimento mai accaduto a livello di capi di stato dalla fondazione dei due paesi. Il comunicato congiunto, elaborato nel corso del meeting, riaffermò gli obiettivi di una riunificazione pacifica, proponendo al contempo incontri sempre più frequenti tra i membri delle famiglie divise dalla rottura dei rapporti tra i due stati. Dal punto di vista simbolico, con l’abbraccio finale tra i due leader il meeting ebbe un impatto dirompente nella penisola, contribuendo in larga parte a modificare la concezione profondamente negativa che molti sudcoreani avevano della Corea del Nord. L’iniziativa valse il conferimento del Premio Nobel per la pace a Kim Dae-Jung nel 2000.
Qualche anno dopo si diffuse la notizia secondo cui il governo sudcoreano aveva in qualche modo facilitato lo storico incontro tra i leader attraverso il pagamento di una cospicua somma di denaro ai nordcoreani; nondimeno la ‘Sunshine Policy’ continuò a riscuotere una grande popolarità, soprattutto tra le fasce più giovani della cittadinanza coreana.
Durante il successivo periodo di presidenza di Roh Moo-hyun la ‘Sunshine Policy’ continuò a far sentire i propri effetti. In termini di cooperazione si dette vita all’interessante progetto del Parco industriale di Kaesong, un complesso logisticamente in territorio nordcoreano, per il quale la Corea del Sud investì nel 2005 l’equivalente di 325 milioni di dollari come aiuti ai nordcoreani. Nell’ottobre del 2007, Roh Moo-hyun ripercorse la strada del suo predecessore, recandosi in visita a Pyeongyang.
Le critiche più feroci all’approccio della ‘Sunshine Policy’ nell’opinione pubblica hanno ruotato soprattutto attorno alla mancata interruzione delle provocazioni militari da parte dei nordcoreani e alle incomprensioni che tale approccio rischiava di creare nelle relazioni tra Washington e Seoul.
Il successivo presidente sudcoreano, Lee Myung-bak, eletto nel 2008, ha assunto una posizione moto più rigida nei confronti della Corea del Nord, affossando di fatto la ‘Sunshine Policy’.
Nonostante il programma nucleare nordcoreano desti molta preoccupazione nei policy-makers sudcoreani, esso non è l’unica variabile da tenere sotto controllo. Negli ultimi anni, soprattutto dopo la morte di Kim Jong-Il, il regime nordcoreano ha dato preoccupanti segnali di instabilità. In molti si chiedono cosa succederebbe se il regime collassasse: ciò potrebbe condurre a una riunificazione delle due Coree e alla necessità di procedere alla ricostruzione di un paese significa-tivamente arretrato, dal punto di vista economico, sociale e infrastrutturale come la Corea del Nord. Potrebbero quindi verificarsi almeno tre scenari plausibili: una riunificazione fluida sul modello tedesco; una caratterizzata da estrema violenza; e un misto delle due ipotesi, sul modello della transizione sperimentata da alcuni paesi ex comunisti in Europa. Qualsiasi di queste soluzioni implicherebbe un costo rilevante per i sudcoreani, considerata l’estrema condizione di povertà in cui versa la Corea del Nord. Rimettere in sesto l’economia di quel paese richiederebbe investimenti astronomici da molteplici punti di vista. Il modello tedesco, al quale spesso si fa menzione nella disamina del caso coreano, richiederebbe un impegno proibitivo per i sudcoreani: le condizioni di partenza sono troppo dissimili. Malgrado gli oltre 2 trilioni di dollari che la Germania Federale ha pagato per la riunificazione in due decenni, l’avvio non fu particolarmente traumatico per Bonn. La popolazione della Germania Est era solo un quarto di quella della Germania Ovest e nel 1989 il reddito pro-capite dei cittadini dell’est era equivalente a un terzo di quello dei cittadini dell’ovest. Non bisogna dimenticare, inoltre, che tra le due Germanie esistevano solidi canali commerciali.
La situazione tra le due Coree è estremamente diversa: il reddito pro-capite della Corea del Nord è meno del 5% di quello della Corea del Sud; la popolazione totale nordcoreana è più o meno la metà di quella sudcoreana; e le relazioni commerciali tra i due paesi, nonostante siano migliorate, sono sempre altamente sensibili ai ribaltamenti politici e diplomatici. A queste condizioni di partenza una riunificazione sarebbe impensabile perché troppo impegnativa dal punto di vista finanziario per i sudcoreani. Numerose e tra loro enormemente diverse sono le stime fiorite in questi anni con riferimento ai costi dell’eventuale riunificazione: per semplicità diciamo che queste stime si muovono all’interno di un ipotetico range che va da 400 miliardi a 3,6 trilioni di dollari americani necessari per una gestione pacifica della riunificazione. Tali stime, però, non tengono nella debita considerazione il fatto che l’unificazione non si limiterebbe a comportare dei costi di investimento, ma chiamerebbe in causa delle voci ulteriori, come il sostegno umanitario, la stabilizzazione economica, la sostituzione del regime, la rieducazione politica dei cittadini, il job training, la ristrutturazione amministrativa e burocratica, l’integrazione sociale, solo per citarne alcune. Queste ultime voci sono molto più indeterminate dei costi di investimento e potrebbero incidere pesantemente se dovessero accumularsi negli anni. Una delle soluzioni più interessanti finora avanzate è quella di porsi come obiettivo il raddoppiamento del pil nordcoreano: ciò potrebbe costituire una soluzione interessante e realmente perseguibile. In questa maniera si migliorerebbero le condizioni dei cittadini nordcoreani, permettendo loro di contribuire allo sviluppo del proprio territorio e mettendo al contempo la Corea del Sud al riparo da un afflusso biblico di fuggiaschi. Ad ogni buon conto, le spese necessarie per favorire la riunificazione non dovrebbero ricadere esclusivamente sulle spalle dei sudcoreani, ma piuttosto essere spalmate su una serie di attori istituzionali internazionali, che trarrebbero giovamento dalla riunificazione della penisola per la sicurezza e la stabilità della regione asiatica, oltre che per nuove opportunità di commercio e investimento.
Dimostrando di aver imparato perfettamente la lezione della crisi economica del 1997-98, a causa della quale il paese rischiò il tracollo, la Corea del Sud si è ripresa velocemente – prima di chiunque altro al mondo – dalla recessione globale del 2008.
Come del resto tutti i paesi industrializzati, anche la Corea ha sofferto di una forte recessione: la crescita è entrata in una spirale negativa, e molti settori importanti dell’economia sudcoreana hanno avuto un lungo periodo di flessione. Le esportazioni di automobili e semiconduttori, due pilastri dell’economia nazionale coreana, sono crollati del 55,9% e 46,9% rispettivamente.
Tuttavia, la ripresa economica del paese nel 2010 è stata sensazionale: il pil è cresciuto del 6,1%, l’aumento più significativo dal 2002. Questa crescita è stata trainata in particolar modo dalle esportazioni, in forte espansione, dalla domanda interna e dagli investimenti industriali. Nel primo trimestre le esportazioni sono aumentate del 36,2%, se paragonate allo stesso periodo dell’anno precedente; sostenuti dal clima di fiducia che percorre il paese, i consumi interni si sono ripresi, diventando una colonna portante della crescita. Anche gli investimenti sono aumentati, veicolati dal comparto automobilistico e tecnologico, del 24,2% rispetto all’anno precedente. Il mercato del lavoro, entrato in depressione all’inizio della crisi, ha mostrato segnali di ampio miglioramento: il tasso di disoccupazione, del 5% fino a gennaio 2010, è sceso al 3,2% a maggio, mentre il numero di neoassunti in aprile era di 586.000 unità.
Il boom economico sembra però essersi interrotto già nel 2011: il tasso di crescita del pil è tornato al 3,6%, mentre il tasso di disoccupazione si attesta sul 3,4%. La Corea ha risentito in particolare di quattro ordini di problemi: l’inflazione, le fluttuazioni valutarie, la crescente competizione delle economie avanzate e i conflitti geopolitici. In primo luogo, la Corea ha dovuto affrontare una situazione di crescente inflazione causata da politiche creditizie troppo permissive. L’inflazione ha portato a un ribasso nei consumi, in quanto il risparmio molto contenuto ha lasciato poco spazio di manovra contro l’aumento generalizzato dei prezzi. La fluttuazione della moneta ha rappresentato un altro ostacolo sulla strada del pieno recupero: dall’indebolimento del dollaro, e dal conseguente rafforzamento del won coreano, è risultata un’erosione della competitività delle esportazioni. In aggiunta, le grandi compagnie dei paesi a economia avanzata, colpite duramente dalla crisi, hanno compiuto delle incursioni nei mercati emergenti, intensificando la competizione. Infine, l’atteggiamento nordcoreano costituisce sicuramente un costo rilevante per l’economia sudcoreana, non fosse altro perché rappresenta un’incognita continua.
In definitiva, nonostante l’economia coreana abbia reagito in maniera estremamente positiva alle sollecitazioni avanzate dalla crisi globale, le prospettive rimangono del tutto incerte.
La Corea del Sud ha firmato già diversi accordi di libero scambio (Fta) con Cile, India, Singapore, Asean; se quello lungamente atteso con gli Stati Uniti non è ancora giunto alla fine del suo processo, quello con l’Unione Europea (Eu) è stato siglato il 6 ottobre 2010 a Bruxelles, facendo avanzare le relazioni bilaterali a ‘partnership strategica’. Questo accordo, i cui negoziati hanno avuto inizio nel maggio 2007, dovrebbe avere come conseguenze immediate l’abbassamento delle tariffe, la promozione del commercio e degli investimenti e la creazione di occupazione sia in Corea che nei 27 paesi dell’Eu. Questo specifico Fta, ratificato immediatamente prima del summit del G20 ospitato da Seoul, è il primo ratificato dall’Eu con un partner commerciale asiatico, dovrebbe favorire una crescita rilevante nel volume del commercio che i due attori intrattengono. È stato calcolato che grazie a questo accordo il pil di Seoul crescerà dello 0,56% all’anno per i prossimi dieci anni e che si creeranno 253.000 posti di lavoro, principalmente nel settore di servizi. Dopo 15 anni dalla ratifica il surplus commerciale della Corea del Sud con l’Eu aumenterà di circa 361 milioni di dollari l’anno, dal momento che le esportazioni dovrebbero crescere più delle importazioni dall’Eu. Il settore manifatturiero dovrebbe rappresentare il maggiore beneficiario di questo, con un aumento stimato pari a 395 milioni di dollari in esportazioni ogni anno per 15 anni; agricoltura e pesca saranno a rischio, a causa delle aumentate importazioni dall’Europa in questi settori. Il settore che ha posto più difficoltà nella fase di negoziazione è stato quello dell’automobile: i produttori europei ritenevano che la competizione dei sudcoreani in Europa avrebbe potuto essere pericolosa per loro. Tale scelta potrebbe invece rivelarsi vantaggiosa sia per la Corea, sia per l’Unione: i produttori sudcoreani potranno allargare il fronte delle loro esportazioni, mentre i consumatori avranno più scelta tra i veicoli importati dall’Eu. Le aziende coreane che hanno rapporti commerciali con l’Eu si aspettano molto da questo Fta, incluso l’aumento del volume del commercio, della cooperazione volta allo sviluppo tecnologico e degli investimenti europei. Come è risultato da recenti indagini, molte delle aziende coreane sono convinte che questo accordo porterà loro molti vantaggi e si sono dette disposte a disinvestire da altre parti del mondo per investire in Europa.