ROMANA, REPUBBLICA
Due sono le "repubbliche romane" dei tempi moderni; quella del 1799, sorta nella scia della rivoluzione francese, e quella del 1849, assai più importante, sia per gli avvenimenti in sé, sia per le ripercussioni di essi.
La Repubblica Romana del 1799. - La rivoluzione francese sorprese il governo romano intento a un programma di lavoro e di riforme. Dapprima disorientato, come i più tra i governi italiani, di fronte all'improvviso evento, la politica anticlericale di Parigi lo costrinse a considerare con altro occhio le cose. La proclamazione della costituzione civile del clero, che Pio VI non volle approvare (marzo 1791), e l'annessione di Avignone e del Contado alla Francia (settembre) resero difficili i rapporti tra Roma e Parigi. La propaganda degli agenti francesi, assecondata dagli elementi novatori romani, provocava reazioni da parte del popolo, fedele alla propria religione e al proprio sovrano, turbato dalle notizie che venivano di Francia. Evento grave l'assassinio, consumato il 13 gennaio 1793, di N. Hugon de Basseville (v.), che provocò minacce da parte della Convenzione e la cessazione definitiva d'ogni rapporto tra i due stati.
La calma apparente succeduta al tragico fatto veniva rotta l'anno dopo da agitazioni che rivelano qua e là l'esistenza di focolai rivoluzionarî, a Bologna, a Macerata e nella stessa Roma. Ivi, però, si stentava a credere a più gravi possibilità, tanto che Pio VI lasciava si trascinassero senza concludersi le iniziate trattative con Torino per una lega italiana. L'avvento di Bonaparte e la prima campagna d'Italia mutano di colpo la situazione. Inutilmente Roma, disarmata, proclama la propria neutralità. Le milizie vittoriose del Bonaparte entrano nello stato romano e applaudite e aiutate dai giacobini locali occupano l'Emilia e la Romagna. Un duro armistizio concluso il 23 giugno 1796 strappava le legazioni al pontefice, che scontava ora l'incerta politica seguita finora. Le assurde speranze d'una riscossa austriaca illusero Pio VI di poter rompere la tregua e ricacciare i Franco-cisalpini. Ma le sue milizie male affidate al Colli furono rotte a Castelbolognese, doloroso preludio ai gravi patti di Tolentino (19 febbraio 1797), che costringevano il pontefice a irrimediabili rinunce di principio e a umilianti tributi. Né la sanzionata perdita di Avignone, del Contado e delle Legazioni, né le nuove spoliazioni e cessioni garantivano la male acquistata pace. Infatti poco dopo Ancona insorgeva a repubblica e Senigallia e Pesaro la imitavano. I fermenti di disordine si preparavano a Roma stessa, ove l'uccisione dell'addetto militare francese Duphot (17 dicembre 1797) offriva al direttorio il pretesto per un nuovo intervento a danno del pontefice.
Respinta ogni offerta di trattative, il 9 febbraio 1798 il generale Berthier giungeva a nove miglia da Roma. Il governo deliberava di non resistere e all'indomani i Francesi occupavano Monte Mario e Castel Sant'Angelo. L' 11 guardie francesi vigilavano il Campidoglio e il Quirinale. Ma il popolo, contrariamente all'attesa, non insorgeva e guardava con scarso interesse lo spuntare di tre modesti alberi della libertà, attorno ai quali s'ebbe qualche piccolo tumulto e qualche innocua gazzarra di liberali. Con il pretesto di provvedere alla tutela dell'ordine, il Berthier fece allora disarmare la truppa pontificia, arrestare impiegati e funzionarî, prendere ostaggi e imporre taglie e sequestri. Ma per entrare in Roma volle prima una qualche azione popolare, spontanea o imposta che fosse. E allora il 15 febbraio i patrioti s'adunarono al Foro Boario alla presenza dei generali francesi Cervoni e Murat e fecero dichiarare decaduto con rogito notarile il governo temporale. Nacque allora la Repubblica Romana con ben sette consoli, che il Cervoni designò. Essi furono, liberali della vigilia, gli avvocati Riganti e Costantini, il duca Bonelli, il professore Pessuti, il causidico Bassi, i possidenti Maggi e Stampa, ed ebbero un segretario intelligente e deciso nella persona dell'ex-prete Bassal.
Sorse sul Campidoglio allora un nuovo albero della libertà, accanto al quale si spiegò il tricolore bianco, rosso e nero, e il Berthier si decise a fare, invitato, il suo solenne ingresso da Porta del Popolo (16 febbraio).
Belle le promesse nell'allocuzione del Berthier, fiorita di classiche memorie, ma dura la realtà di questo dominio straniero. Chiassate democratiche e forzate cerimonie religiose accompagnarono l'insediamento del consiglio consolare. Rinnovata l'amministrazione civile e giudiziaria, vennero preposti agli affari esteri Carlo Corona e agl'interni E. Q. Visconti, in realtà costretti all'obbedienza dei militari francesi.
Le nobili e ferme proteste di Pio VI, prigioniero nel Vaticano, di non poter rinunciare a una sovranità che gli veniva da Dio, né poterono impedire questi fatti, né gli risparmiarono l'esilio da Roma (20 febbraio). Il forzato esodo del pontefice, deprecato inutilmente dai consoli, esasperò il popolo, già irritato dalle impostegli mascherate repubblicane e preoccupato della grave crisi economica. Il 25 febbraio insorgeva tumultuoso il Trastevere al grido di "Viva Maria e viva Pio VI". I rioni della Regola e dei Monti seguivano, preludiando a più gravi moti insurrezionali nei Castelli Romani. Feroci gl'insorti nel difendersi; spietati i Francesi nel reprimere.
I cardinali vennero allontanati da Roma (e l'Albani e l'Antici rinunciarono alla pugna), i più compromessi tra i cittadini furono arrestati, la popolazione fu disarmata, la vigilanza nella città resa severissima, mentre le fucilazioni incessanti (24 in un sol giorno) diffondevano il terrore. La calma tornò così in Roma.
Intanto Ancona, costituitasi a repubblica il 17 novembre 1797, si univa a Roma, che s'accresceva anche del territorio umbro e si reggeva con una costituzione copiata sulla francese dell'anno III. La sostanza giacobina, rivestita di forme classiche, della nuova costituzione era solennemente consacrata nella festa del 20 marzo in piazza S. Pietro. Non direttori, ma consoli si chiamarono i cinque membri del potere esecutivo (Angelucci, De Mattheis, Panazzi, Reppi e Visconti), Tribunato i Giuniori (i Cinquecento di Francia), Senato i Seniori o Anziani. Ma in realtà dominarono commissarî e generali francesi, così a Roma come negli otto dipartimenti del Cimino, del Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Tevere, del Trasimeno e del Tronto.
Le spese per il corpo francese d'occupazione, le ladrerie del Masséna e d'altri capi maggiori e minori, le tasse, le esazioni e le taglie, lo svilimento del denaro, il disordine nell'amministrazione e il sovvertimento legislativo aggravarono le condizioni ed esasperarono il risentimento popolare. "Che tempo fa, Pasquino?" domandava l'anonima satira popolare. "Tempo da ladri" si faceva rispondere a Marforio. E contro gli stranieri ladri e violenti insorgevano Marino, Albano, Velletri, Terracina, Ferentino, Frosinone, provocando dure repressioni.
Di questo marasma, di questa inquietudine sperò potersi giovare Ferdinando IV di Napoli, il quale, stretti accordi con l'Austria, dalla quale si fece prestare un generale, il Mack, con la Russia, con l'Inghilterra e con la Turchia, s'avanzò, campione della fede e della legittimità, contro Roma giacobina, molto fidando nell'aiuto navale del Nelson. Roma, abbandonata dai pochi Francesi dello Championnet, fu presto occupata dalle sue tre colonne, festosamente accolte dalla popolazione. Ma il ritorno dello Championnet obbligò alla fuga il Borbone e restaurò la repubblica (14 dicembre). E i Francesi si vendicarono duramente delle violenze commesse a danno dei giacobini nel breve intermezzo borbonico.
Ma ormai davanti agli eserciti della coalizione austro-russa e all'"insorgenza" paesana crollavano le forze francesi in Italia. Cadeva la Repubblica Napoletana, effimera sorella della romana (1799), e la sua caduta non poteva non ripercuotersi su Roma, giacobina suo malgrado. Vittorie alleate e insorgenza contadina affrettarono la catastrofe. Il 29 settembre 1799 il Garnier cedeva Civitavecchia agl'Inglesi e Roma ai Napoletani, che all'indomani vi entravano, facili trionfatori, da Porta San Giovanni. Tornavano liberamente in patria i Francesi, mentre ai più compromessi tra i liberali romani si schiudevano le vie dell'esilio. Resisteva ancora eroicamente Ancona, che, però, cadeva il 13 novembre in mano agli Austriaci.
E con la caduta di Ancona spariva l'ultimo resto, dopo poco meno di due anni, della Repubblica Romana. Effimera creazione, certo, ma non inutile, ché il ricordo di quel che pur v'era di buono nei suoi istituti e nelle sue leggi, la scossa data all'ambiente vecchio e tradizionalista, l'eccitazione trasmessa al popolo non furono senza efficacia per l'avvenire.
La Repubblica Romana del 1849. - Il 15 novembre 1848, l'uccisione di Pellegrino Rossi (v.) fa precipitare la crisi latente.
Non più frenate, le passioni popolari prorompono in tumulti ed eccessi. Un ministero democratico Muzzarelli-Galletti (Antonio Rosmini ricusò l'offertagli presidenza) fu dalla piazza e dai circoli imposto al pontefice con un programma liberale e nazionale (16 novembre). Ma Pio IX, spaventato, fuggì il 24 a Gaeta, ove fu ospite di Ferdinando II e donde invocò l'aiuto straniero. Falliti i varî tentativi per far tornare il papa, Roma, senza sovrano, con un governo esautorato e un parlamento in agonia, appariva disorientata e incerta, incapace di prendere un atteggiamento reciso, di scegliere una strada.
Soluzione temporanea e di compromesso la nomina di una Giunta provvisoria di governo. Ma il dileguare d'ogni speranza di accordo con il papa e la pressione degli elementi radicali spinsero la Giunta a convocare, prima di sciogliersi, un'assemblea costituente, che, radunatasi il 5 febbraio 1849, all'alba del 9 proclamò decaduto di fatto e di diritto (e fu la terza volta in mezzo secolo) il potere temporale e proclamò la Repubblica Romana con a capo un comitato esecutivo di tre membri, Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti, figure onestamente mediocri.
Un più alto tono impresse al governo romano la venuta di Giuseppe Mazzini. Chiamato da un dispaccio cesariano di Goffredo Mameli ("Roma repubblica. Venite"), l'esule, eletto deputato alla Costituente, era entrato in Roma il 5 marzo e all'indomani veniva accolto trionfalmente dall'assemblea, alla quale egli subito parlava un linguaggio assai diverso da quello cui l'aveva avvezza la retorica dei Canino e degli Sterbini. E al nuovo linguaggio seguirono proposte efficaci e utili provvedimenti. Fino dal 16 marzo il Mazzini proponeva la nomina di una commissione di guerra per riordinare l'esercito e poco dopo l'invio di un corpo di 10.000 uomini in aiuto del Piemonte.
Al mutato spirito corrispose un sostanziale mutamento di governo. Il 19 marzo l'assemblea sostituiva al comitato esecutivo, impari al compito di fronte alle difficoltà interne, all'ambigua situazione internazionale e alla gravissima situazione economico-finanziaria, un triumvirato con illimitati poteri per la guerra d'indipendenza e per la salvezza della repubblica. Lo componevano il Mazzini, l'Armellini e Aurelio Saffi (v.), ma anima e vita del nuovo governo fu il primo, che cercò di realizzare in Roma le sue idee morali, politiche e sociali, prospettate nel proclama del 5 aprile, che è di netta ispirazione mazziniana. E molte nobili e utili riforme furono operate e molte idee lanciate, le quali, se le circostanze non fossero state avverse, avrebbero potuto dare gran frutto. Ma le gravi difficoltà interne erano accresciute dall'intemperanza degli estremisti, dallo spirito di violenza e di fazione sempre rinascente, dagli eccessi repubblicani nelle Marche, dal "brigantaggio" reazionario nell'Ascolano. A tutto pensava, a tutto cercava di provvedere, febbrilmente operoso, il Mazzini, dando mano a una radicale opera di rinnovamento. Contro i violenti di Ancona Mazzini inviava commissario straordinario Felice Orsini, con l'incarico di "restituire Ancona alla repubblica. L'assassinio non è repubblica". E le sue istruzioni interpretava con severità inesorabile il futuro attentatore, mentre il Daverio doveva rinunciare per volontà di Mazzini ai provvedimenti, giacobinamente ammonitori, divisati alla vigilia dell'intervento straniero.
Ordine, moralità, temperanza, proclamava il Mazzini; ma l'annuncio dell'imminente crociata di quattro potenze cattoliche contro Roma ribelle al capo della cattolicità, eccitava paurosamente gli animi.
Reso impossibile l'intervento piemontese dalla rotta di Novara Austria, Spagna, Francia e Napoli avevano risposto all'appello pontificio. La Francia s'era mostrata disposta fino dall'indomani dell'assassinio del Rossi ad accogliere il papa sul proprio territorio; il governo spagnolo - in contrasto con la tesi del governo di Torino d'un intervento soltanto italiano - aveva sostenuto la necessità di un intervento internazionale. Il nuovo presidente della repubblica francese Luigi Napoleone, desideroso dell'appoggio dei conservatori cattolici e preoccupato d'impedire ogni rafforzamento austriaco nella penisola, finì con l'assumere la parte principale, dapprima non senza il favore del partito repubblicano, che s'illudeva che un intervento francese potesse impedire il crollo delle superstiti istituzioni liberali in Italia. La nuova occupazione austriaca di Ferrara offriva un opportuno pretesto a riprendere la politica antiaustriaca della monarchia di luglio. Con la legge del 16 aprile 1849 fu deciso l'invio di un corpo di spedizione, che avrebbe dovuto facilitare la riconciliazione tra il papa e i suoi sudditi a torto ritenuti stanchi del regime repubblicano, e di assicurare durevoli riforme.
Male informato sul vero sentimento dei Romani il corpo francese, comandato dall'Oudinot, sbarcò a Civitavecchia il 25 aprile illuso di un prossimo non contrastato ingresso in Roma. Ma l'assemblea commetteva al triumvirato la salvezza della patria e decretava di respingere la forza con la forza. E i Francesi furono respinti sotto le mura di Roma il 30 aprile. Pochi giorni dopo Garibaldi, il protagonista della giornata del 30, batteva i Napoletani, che, non ostacolati, avevano facilmente occupato i Castelli Romani, a Palestrina (9 maggio), e dieci giorni più tardi ne accelerava la ritirata, invano avendoli provocati a battaglia l'impetuosa avanguardia romana, a Velletri.
Ma mentre Garibaldi inseguiva oltre confine i Borbonici, gli Austriaci, ben altrimenti pericolosi, occupavano Bologna (10 maggio), le Legazioni, Ancona e le Marche, e anche gli Spagnoli venivano a fare atto di presenza, pur senza sparare un colpo di fucile. I Francesi avevano concluso nel frattempo un armistizio con il governo romano, preludio alle trattative affidate dalla Costituente francese a F. M. de Lesseps (v.). Ma i conservatori francesi, che dovevano dominare la Legislativa, succeduta alla Costituente, e più Luigi Napoleone, che interpretava l'amor proprio francese colpito dall'insuccesso del 30 aprile, non erano favorevoli a un accordo con i repubblicani romani, accordo naturalmente sgradito a Gaeta, dove si voleva la restaurazione pura e semplice del pontefice senza concessioni compromettenti e pericolose.
Quindi il trattato concluso il 31 maggio fra i triumviri e il De Lesseps non poteva essere vitale. L'Oudinot rifiutava la propria firma al patto, che garantiva l'appoggio e la protezione della Francia alle popolazioni dello stato romano, sconfessava in modo umiliante il De Lesseps, subito richiamato a Parigi, e denunciava il 1° giugno l'armistizio, annunciando per il 4 la ripresa delle operazioni. In realtà, all'alba del 3 giugno l'Oudinot, che aveva ricevuti notevoli rinforzi, assaliva con palese violazione delle promesse fatte le opere esterne di difesa della città.
Cominciava così la gloriosa difesa di Roma. Per tutto il mese di giugno i Francesi attaccarono i bastioni, sui quali un improvvisato esercito di volontarî tenne testa ai soldati del più famoso esercito d'Europa. Il fiore della giovinezza italica versò il proprio sangue durante l'assedio. Al Vascello, a Villa Corsini, a Villa Spada, a Villa Pamphili, luoghi un tempo d'ozî sereni e di delizie cardinalizie e principesche, cadevano Luciano Manara, Ludovico Pietramellara, Enrico Dandolo, il Morosini, il Masina, il Daverio, Giacomo Venezian, Goffredo Mamelî e cento e cento altri accorsi da provincie diverse a confermare con il proprio olocausto il patto d'unione stretto ormai tra gl'Italiani.
La fiera resisienza, della quale Garibaldi, invano invocante dittatura, fu il braccio e Mazzini l'animatore, colpì di stupore e di ammirazione gli stessi nemici. Divenuto ormai impossibile ogni ulteriore tentativo di difesa e respinta la proposta mazziniana di proseguire la lotta in campo aperto, la Costituente si determinava alla resa, invano opponendosi il Mazzini, che fidava ancora sulla possibilità di una disperata azione di popolo.
L'assemblea deliberò di cessare "una resistenza divenuta impossibile" e di restare "al suo posto", commettendo al Mazzini di rimettere tale decreto all'Oudinot. Ma il triumviro protestò di essere stato eletto per difendere, non per fare abdicare la repubblica e si dimise con i suoi colleghi, protestando contro la deliberazione.
Ma non c'era più nulla da fare. La Repubblica Romana era morta e i nuovi triumviri Mariani, Calandrelli, Saliceti erano eletti per pura formalità. Entrarono allora i Francesi nella città duramente contesa (3 luglio), accolti dai fischi e da qualche violenza del popolo, mentre l'assemblea costituente proclamava, ultimo gesto di sfida, la nuova costituzione elaborata in quei mesi. La massa popolare appariva subito mal disposta verso l'antico stato di cose, come riconosceva il principe di Ligne, e pareva dar ragione al Mazzini, che con indomabile fede nell'avvenire, proclamava certa la riscossa.
Garibaldi, a capo di poco più di 3000 volontarî, ai quali aveva offerto fame, sete, pericoli e morte, s'era avviato il 2 luglio fuor delle mura per la sua leggendaria anabasi. Pochi giorni dopo, il 13, Mazzini partiva da Roma per il nuovo esilio, come la maggior parte di quelli che avevano partecipato alle ultime vicende (v. anche risorgimento, p. 444 seg.).
Spianata la via del ritorno dagli stranieri, Pio IX si faceva precedere di molti mesi dal cosiddetto "triumvirato rosso". i cardinali Vannicelli, Della Genga e Altieri, incaricati di ripristinare l'autorità del governo. Ma la Repubblica Romana aveva scosso lo spirito dei Romani assai più di quanto potesse credere il governo restaurato. Mazzini era riuscito a saldare insieme i due termini Roma e Italia. Quello che ai ben pensanti contemporanei era apparso come un inutile sacrificio o una sterile follia aveva come risultato di alienare l'animo dei più tra i Romani dal governo, che da quel momento si reggerà solo per l'appoggio delle baionette straniere.
Bibl.: Per la repubblica del 1799, v.: A. Coppi, Annali d'Italia, Napoli 1832, III, p. 106 segg.; G. A. Sala, Diario romano, Roma 1886, III, passim; A. Dufourcq, Le régime jacobin en Italie, Parigi 1900; E. Gachot, La première campagne d'Italie, ivi 1901; A. Lodolini, La Repubblica romana del 1798 su una collezione di bandi, in Rassegna storica del Risorgimento, anno XVIII (1931), pp. 675-91; M. Rossi, L'occupazione napoletana di Roma (1799-1801), ibid., anno XIX (1932), pp. 693-732. Più ampie indicazioni in G. Mollat, La question romaine, Parigi 1932. - Per la repubblica del 1849: L. C. Farini, Lo stato romano, Firenze 1850; G. Gabussi, Memorie per servire alla storia della rivoluzione degli Stati Romani, Genova 1851-52; G. Spada, La rivoluzione di Roma, Firenze 1869; R. M. Johnston, The roman theocracy and the Republic 1846-49, Londra 1901; E. Bourgeois e C. Clermont, Rome et Napoléon III, Parigi 1907; G. Macaulay Trevelyan, Garibaldi e la difesa della Repubblica romana (con bibl.), trad. it., Bologna 1909; G. Leti, La rivoluzione e la repubblica romana, Milano 1913. Buone indicazioni bibliografiche in G. Mollat, cit.