Sudafricana, Repubblica
Nella R. S. (proclamata il 31 maggio 1961), più che in altri Paesi del continente, la nascita e lo sviluppo del cinema sono stati legati alla situazione politica e al duro regime di apartheid instaurato dalla minoranza bianca al potere. Le leggi razziali e la repressione, prima degli inglesi e poi dei boeri, contro la maggioranza nera hanno anche impedito, per quasi un secolo e salvo i casi di contro-informazione militante, il diffondersi di una cinematografia non inglese o afrikaaner (afrikaander): il cinema sudafricano è vissuto in questo paradosso dagli anni Dieci agli anni Ottanta del Novecento.
Le prime proiezioni pionieristiche si devono a Thomas A. Edison e William Paul a Johannesburg nel 1895-96, seguite dai cinegiornali della guerra anglo-boera (1889-1902). Nel 1910 la riconciliazione tra inglesi e boeri permise la creazione dell'Unione Sudafricana, dominio britannico dotato di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva interamente nelle mani della minoranza dei bianchi. In quello stesso anno venne prodotto dalla Springboks Films il primo film a soggetto, The Kimberley diamond robbery, mentre nel 1913 nacque l'attualità cinematografica con African mirror, serie di cinegiornali settimanali realizzati fino al 1984, nei quali si rintracciano costantemente precise tracce della politica di discriminazione razziale. Ugualmente, in quello che viene considerato il primo lungometraggio della storia della cinematografia sudafricana, De Voortrekkers ‒ Winning a continent (1916), realizzato da Harold Shaw e dalla African Film Limited, il contenuto coloniale è evidente fin dal titolo. La African Film Productions (AFP) fu l'unica casa di produzione attiva dal 1916 al 1933, periodo nel quale il cinema del Sudafrica consolidò la propria presenza con una serie di titoli di finzione in lingua inglese (fanno eccezione De Voortrekkers, in afrikaans e inglese; Sarie Marais, e Moedertjie, entrambi del 1931 e di Joseph Albrecht, e 'n dogter van die veld, 1933, Una figlia del veld, di regista sconosciuto, in afrikaans). Tra i registi più prolifici, oltre a Shaw e ad Albrecht, si contano Lorrimer Johnston, B.F. Clinton, Dick Cruikshanks, Lisle Lucogue (autore degli avventurosi King Solomon's mines, 1918, e Allan Quatermaine, 1919). L'italiano Attilio Gatti, in occasione di una spedizione nelle terre degli Zulu, girò il film antropologico Siliva zulu (1927). Negli anni Trenta e Quaranta la produzione si ridusse drasticamente e terminò il monopolio della AFP; altre case di produzione si affacciarono sul mercato e la lingua afrikaans prese il sopravvento su quella inglese. J. Albrecht girò Die bou van 'n nasie (1939, Essi costruiscono una nazione). Pierre de Wet e Arthur Bennet furono tra i cineasti che diressero film con maggiore continuità. Alla fine degli anni Quaranta l'esordio del regista e produttore Donald Swanson nel cinema costituì una tappa fondamentale: il suo Jim comes to Jo'burg (1949), storia di un uomo che lascia la campagna per tentare la fortuna a Johannesburg e viene introdotto da un amico nell'ambiente dei locali notturni, è un'opera dove la musica riveste un ruolo essenziale ed è il primo film interamente interpretato da attori neri. La musica è ancora protagonista in The magic garden (girato nel 1950, ma proiettato nella R. S. solo nel 1961): Swanson realizzò un film corale in cui l'elemento che unisce le varie storie è il denaro che passa da un personaggio all'altro. Anche la AFP produsse un importante film musicale, Zonk (1950) di Hyman Kirstein, performances di musicisti neri che, grazie al jazz, combattono la povertà e il degrado della vita quotidiana nelle townships.
Nonostante il regime della segregazione razziale imponesse leggi ancora più restrittive per gli artisti neri, favorendo con il sistema dei sussidi sugli incassi l'incremento di film in afrikaans, gli anni Cinquanta furono molto significativi per il cinema sudafricano. Nel 1951 esordì nella regia Jamie (propr. Johannes Jacobus) Uys con il film amatoriale Daar doer in die Bosveld (Lontano nel veld). Regista e produttore, autore indipendente che però non disdegnò i sussidi governativi, Uys fondò nel 1954 la Jamie Uys Film Company e divenne il primo regista a contrastare il monopolio della major sudafricana, realizzando soprattutto commedie popolari per raccontare, con sguardo ambiguo e spesso razzista, i contrasti sociali nel suo Paese in lavori come Fifty Vyftig (1953), Lord omm Piet (1962, Lord zio Pete) o nel dittico comico The gods must be crazy (Ma che siamo tutti matti?) e The gods must be crazy II (Lassù qualcuno è impazzito), rispettivamente del 1980 e del 1989, distribuito anche in Italia durante l'embargo alla R. S. perché la produzione risultò del Botswana. Tra gli altri film di Uys, va ricordato anche Dingaka (1964; Il gigante della roccia del falco), in cui si esaminano le differenze tra la giustizia bianca e quella nera. Emil Nofal descrisse in Song of Africa (1951) la passione di un giovane zulu per il jazz e il successo da lui ottenuto con la sua band. Due registi stranieri firmarono altrettanti lungometraggi che divennero veri e propri 'film sudafricani': il primo, Cry, the beloved country (1952) di Zoltan Korda narra le vicende di un sacerdote nero a Johannesburg (dove questi scopre come la vita di città abbia corrotto i suoi familiari) e annovera fra gli attori il pioniere del cinema sudafricano nero Lionel N'Gakane; il secondo, Come back, Africa! (1959; Africa in crisi), capolavoro di Lionel Rogosin girato clandestinamente, descrive tra documentario e finzione i conflitti e le lotte di classe dei neri seguendo la drammatica storia di un uomo che cerca lavoro a Johannesburg.
Solo a partire dagli anni Sessanta, con fatica e spesso ricorrendo all'esilio, i cineasti neri iniziarono a realizzare film; tra questi, L. N'Gakane, autore di straordinaria intensità visiva e apolide per necessità, testimoniò, con una filmografia costituita di pochi cortometraggi, la difficoltà di fare cinema durante l'apartheid. I suoi due lavori più noti sono Wukani awake (1964), prima opera contro l'apartheid di un regista nero e Jemina and Johnny (1965), senza dialoghi, ambientato in un quartiere di Londra dove, sfidando i pregiudizi razziali, si incontrano e fanno amicizia un bambino bianco e una ragazzina nera. Gli altri suoi film, documentari esemplari di una tenace militanza, sono Struggle of a free Zimbabwe (1972), Once upon the time (1975) e Nelson Mandela: the struggle is my life (1985). Simon Sabela, vicino alle posizioni del regime, noto soprattutto per la sua carriera d'attore, fu per lungo tempo il solo nero a poter lavorare come regista e riuscì a realizzare, grazie a fondi governativi, U Deliwe (1975), uno dei primi film parlati in lingua zulu (il capostipite è Nogomopho, 1974, di Tonie van der Merwe). Risale al 1976 il censurato How long (Must we suffer...?) realizzato da Gibsen Kente, sulla rivolta di Soweto di quello stesso anno. Come N'Gakane, Nana Mahomo condivise l'esperienza dell'esilio e insieme ad altri militanti del Pan African Congress (PAC) girò in clandestinità a Soweto Phela ndada (1970, La fine del dialogo) e successivamente Last grave at Dimbaza (1973), per documentare la condizione di schiavitù degli africani nelle miniere.Alla fine degli anni Sessanta e durante tutto il decennio successivo, accanto a opere di brutale propaganda come per es. Kaptein Caprivi (1972, Capitan Caprivi) di Albie Venter, vennero realizzati anche lavori di registi bianchi dallo sguardo meno dogmatico. Al cinema d'impegno sociale aderì Jans Rautenbach con Die wilde seisoen (1967, La stagione selvaggia, diretto insieme a Emil Nofal), Die kandidaat (1968) incentrato sulla nuova borghesia afrikaaner minacciata dall'intrusione inglese, e infine Katrina (1969, codiretto con E. Nofal) storia dell'amicizia amorosa tra un pastore protestante bianco e una donna nera. Negli stessi anni il drammaturgo Athol Fugard e il cineasta Ross Devenish affrontavano con approccio neorealista la questione razziale in Boesman and Lena (1973) e Marigolds in August (1979). Tra i documentari di denuncia dell'apartheid sono da ricordare Land apart (1974) del danese Sven Persson e South Afriva ‒ The laager (1977) dell'inglese Peter Davis.
In My country, my hat (1983), rifiutato dalle sale cinematografiche riservate ai bianchi, David Bensusan ha denunciato il sistema di controllo del pass che, fino al 1986, restringeva ulteriormente la libertà di spostamento dei Sudafricani neri. Per molti cineasti filmare significava compiere un atto di denuncia politica, attorno alla quale sorgevano associazioni e distribuzioni alternative. Tra le opere di contro-informazione (talvolta in super 8 o in video) che hanno costituito sempre più una sorta di filmografia parallela a quella ufficiale, va ricordato Fruits of defiance (1990), mediometraggio collettivo che documenta, con riprese effettuate senza autorizzazione, una campagna di protesta a Città del Capo per ottenere la liberazione di dirigenti politici. Anche la prima opera di finzione di Oliver Schmitz Mapantsula (1988; Afrikander), storia di un ladruncolo nero che, dopo la morte di un suo compagno durante una manifestazione, si unisce alla lotta politica, è stata girata nella quasi totale clandestinità. O. Schmitz è uno dei nomi più interessanti tra i registi del nuovo cinema sudafricano bianco e impegnato, insieme a Chris Austin (autore di numerosi documentari e della docufiction di riflessioni sull'esilio House of hunger, 1983), Manie van Rensburg (approdato al lungometraggio nel 1991 con Taxi to Soweto, una storia d'amore raccontata con umorismo tra una borghese bianca e un tassista nero), Michael Hammon (Wheels and deals, 1991, thriller politico in cui un sindacalista viene coinvolto in un traffico di automobili rubate; Hillbrow kids, 1999, coregia di Jacqueline Gorgen, ritratto senza patetismi dei ragazzi di strada di Johannesburg). Nel 2000 Schmitz si è confermato autore solido per struttura narrativa e visiva con il gangster film Hijack stories. Nel cinema di genere si inseriscono le filmografie di Darrell James Roodt (Place of weeping, 1986, thriller contro la segregazione razziale; l'anti-militarista The stick, 1988, Stick, plotoni d'assalto, che è stato censurato in patria; Sarafina!, 1992, Sarafina! ‒ Il profumo della libertà, ambientato a Soweto nel 1976; Cry, the beloved country, 1995, remake del film di Z. Korda) ed Elaine Proctor (Friends, 1993, commedia sull'amicizia fra una donna nera, un'inglese e un'afrikaaner).
Gli anni Novanta hanno visto la nascita, a tutti gli effetti, di un cinema sudafricano nero nel quale il discorso politico scaturisce da una profonda riflessione estetica. Fools (1997) di Ramadan Suleman (primo lungometraggio di finzione realizzato da un cineasta sudafricano nero e indipendente nella sua terra d'origine) racconta il conflitto tra un giovane intellettuale e un professore di mezza età. Zola Maseko ha diretto il cortometraggio di finzione The foreigner (1997), nel quale ha analizzato il fenomeno della xenofobia sudafricana verso gli immigrati da altri Paese del continente, e il mediometraggio documentario The life and times of Sara Baartman, the hottentot Venus (1998), ricostruzione della vita di una donna condotta come schiava in Europa all'inizio dell'Ottocento ed esibita come fenomeno da baraccone. Taboho Mahlatsi si è affermato come un cineasta dallo sguardo visionario con il suo cortometraggio d'esordio Portrait of a young man drowning (1999), ambientato in una periferia urbana abitata da personaggi lacerati da un dolore infinito. Ntshaveni Wa Luruli ha scelto la commedia drammatica a sfondo sociale per Chikin biznisthe whole story (1998), in cui un agente di borsa si inventa una nuova professione, mentre per The wooden camera (2003) ha guardato alla favola, con tutti gli stereotipi del caso, nel descrivere l'amicizia tra un ragazzino nero che filma ogni cosa con una videocamera e una coetanea bianca di alta estrazione sociale. Sono da menzionare anche altri film, quali Promised land (2002) di Jason Xenopoulos, thriller politico su una comunità afrikaaner, violenta e decisa a difendere la propria tradizione con ogni mezzo, e Soldiers of the rock (2003) di Norman Maake, opera dal forte impatto visivo sulla vita di un gruppo di minatori e sul loro profondo contatto con la terra.Due voci originali e fuori dal coro sono quelle di William Kentridge e di Aryan Kaganof (conosciuto anche come Ian Kerkhof), cineasti e artisti sperimentali e militanti. Kentridge ha portato nel cinema (interpretato da attori o di animazione) la densità di tutta la sua sperimentazione visiva (teatro, installazioni, pittura) e ha realizzato lavori nei quali le cose e i personaggi sono soggetti a continue mutazioni. Questo percorso è evidente sia in opere singole sia nella serie animata Soho Eckstein films (1989-1999), saga in bianco e nero incentrata su due personaggi e canto di dolore per riflettere sulla storia della R. S. durante l'apartheid: otto episodi che compongono idealmente un unico piano-sequenza e hanno per protagonisti l'imprenditore Soho Eckstein e l'artista Felix Teitlebaum. Quello di Kaganof è stato invece un lavoro sia sul corpo (in The Mozart bird, 1993, rapporto di coppia filmato con stile freddo; Ten monologues from the lives of the serial killers, 1994, indagine sui serial killer con inserti amatoriali e pornografici; e Shabondama elegy, 1999, vertiginosa esplosione di sesso e violenza nella relazione di una coppia), sia sulla memoria (in Western 4.33, 2002, ipnotico film d'avanguardia realizzato per rievocare il genocidio compiuto dai tedeschi in Namibia all'inizio del Novecento).
Le cinéma sud-africain est-il tombé sur la tête?, éd. K. Tomaselli, in "CinémAction", 39, 1986; G. Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Torino 1998, pp. 167-85; L'association des trois mondes, Les cinémas d'Afrique. Dictionnaire, Paris 2000, passim.