repubblica
Si cercherebbe invano una definizione delle parole repubblica e libertà (→) nelle opere di Machiavelli. La loro rilevanza si misura però chiaramente se si considerano le aspre battaglie politiche condotte per il destino di Firenze e dell’Italia dal 1494 al 1530. M. non applica mai, per es., la parola libertà a un principato, neanche al «principato civile», anzi la distingue esplicitamente sia dal principato sia dalla licenza (Principe ix). A questa opposizione radicale fra i termini (cfr. anche l’esordio del Principe) portava certo la vicenda storica, dalla cacciata di Piero de’ Medici in poi. D’altra parte, la libertà non si riduce alla semplice assenza di un principe. L’uso di due parole complementari, ma distinte, libertà e r., pone in rilievo quanto per M. la libertà fosse l’effetto di una complessa costruzione storica. In altri termini, la libertà, per una r., non è mai data per scontata, e la libertà repubblicana, di cui M. può essere considerato l’apologeta, non equivale a una qualsiasi forma di repubblica. Al riguardo è rivelatore il confronto con il complesso dibattito istituzionale fiorentino che si protrasse fino alla fine degli anni Venti del Cinquecento, di fronte ai vari tentativi dei «grandi» per ridurre la «larghezza» del governo popolare.
Cogliamo qui un riferimento decisivo per capire, per contrasto, il repubblicanesimo machiavelliano: la forza del paradigma ottimatizio, in una condizione dei tempi che sembrava dar ragione ai sostenitori di un regime «stretto», con la prudenza, la perizia e l’efficienza come qualità politiche supreme. Questo paradigma, imperniato sulla supremazia dei Consigli più potenti e più «stretti» della r., come il Consiglio dei Dieci, poggiava su una concezione della r. che aveva trionfato sotto il reggimento degli Albizzi (1393-1434), senza aver soffocato però l’antico discorso egualitario del comune. Per M., in un contesto di minacce esterne così pericolose, nel complesso intreccio di conflitti che si usa chiamare guerre d’Italia, la scelta di un governo d’ottimati appariva del tutto inconseguente: una r. veramente potente non poteva privarsi della forza del popolo, e degli infiniti benefici di libertà che ne derivavano. Oltretutto, la convinzione di M. che le vie di mezzo sono sempre infelici lo condusse a un’altra certezza: che bisognava sapere riordinare lo Stato o come principato o come r., soprattutto nella situazione di emergenza in cui si trovava Firenze a quei tempi. Non bastava dunque, in quegli anni inquieti, propugnare la bontà del regime repubblicano, ma era altrettanto cruciale aver ben chiaro in mente quale tipo di r. si potesse ordinare e difendere.
Se pensiero della r. e repubblicanesimo sono strettamente legati in M., alcuni suoi interpreti contemporanei hanno creduto opportuno leggervi un sistema operativo per pensare il repubblicanesimo moderno. Una parte rilevante della critica, sulla scia di una complessa tradizione storiografica che risale al romanticismo sismondiano e trova in Hans Baron il suo maggiore esponente nel secolo scorso, vede nell’esaltazione della virtù il segno più sicuro dell’appartenenza di M. a una tradizione repubblicana ‘moderna’ (umanistica e neoaristotelica, per John Pocock →, o preumanistica, ciceroniana e stoica, per Quentin Skinner →). Anche la lettura di Leo Strauss (→), opposta all’idea che la virtù machiavelliana fosse l’erede delle qualità morali al fondamento delle pòleis greche, considera il repubblicanesimo machiavelliano a pieno partecipe di una modernità drammaticamente remota dagli antichi. Accanto a queste letture morali della libertà, tra grandezza antica e corruzione moderna, altri interpreti hanno evidenziato la portata istituzionale dell’esperienza fiorentina della ‘libertà’, i complessi giochi del meccanismo elettorale e decisionale fiorentino, il sottile equilibrio tra poteri e contrappesi, messi in luce da Nicolai Rubinstein nel suo studio delle manipolazioni medicee. In questo caso, M. rappresenterebbe un altro aspetto della modernità politica, un costituzionalismo equilibrato.
Ma l’interrogativo circa la modernità di M. non ci consente di percepire la tensione storica che anima la sua ricerca. Il suo pensiero si dispiega in un’amplissima visione delle forze morali delle r. e delle loro espressioni istituzionali, e del loro modo di esistere, di crescere e rovinare, nel movimento tumultuoso della storia; centrale è inoltre la consapevolezza dei mutamenti brutali e imprevedibili, che porta a riconoscere la necessità di impiegare, foss’anche con poca speranza, mezzi «straordinari», distinti dai precetti della morale e del diritto, e persino anche mezzi non repubblicani. M. non ignora, infatti, le debolezze della Repubblica fiorentina e delle r. passate. Non ignora neppure la fragilità estrema degli Stati italiani nella temperie contemporanea. Anzi, più lucidamente si descrivono i germi di corruzione, più chiaramente appaiono i fermenti di rinnovamento. Nonostante la minaccia sempre incombente della «rovina», M. non rinuncia a scovare, dove più profondamente si nascondano, i motivi di speranza, facendo emergere questa certezza: la sicurezza, la stabilità, la forza non possono provenire che dall’espressione di tutti gli «umori», seppur dissonanti, della società, e dalla concessione del massimo spazio al popolo. Il repubblicanesimo machiavelliano è talora tanto apologetico quanto polemico: intende afferrare l’opportu nità di trionfo che era offerta all’espressione del popolo nella sua accezione «larga», dalla creazione del Consiglio maggiore in poi, pur nella coscienza che un’espressione politica doveva rimanere aperta anche ai suoi nemici, ai «grandi» – soprattutto in una fase di profondi sconvolgimenti come quella in cui M. rifletteva e operava.
L’attenzione dedicata da M. alla questione della r. e della libertà è strettamente legata alla storia di Firenze tra il 14° e il 16° sec., e alla certezza che le istituzioni repubblicane erano le più adatte alla città. Così, la parola repubblica, che comportava in latino e in volgare la stessa polisemia del greco politèia (poteva riferirsi o a un’organizzazione politica in senso generico, o a un tipo specifico di regime antitetico alla monarchia), assume per lo più nella sua opera un senso specifico, indicando una città dotata di strutture politiche collettive che esprimono i desideri delle varie parti della popolazione, senza che l’una possa dominare e tiranneggiare le altre, garantendo dunque la «libertà».
Nell’analisi quotidiana che M. svolgeva della politica contemporanea, durante i suoi anni di servizio presso la cancelleria, le parole «republica» e «libertà» testimoniano forse la componente inconscia e intima del repubblicanesimo fiorentino. La r. è onnipresente come la depositaria delle obbligazioni morali e civili che si devono a un’autorità sovrana. La «republica» indica spesso Firenze stessa, quasi come sinonimo di «patria», come oggetto di «affezione» e di «reverenzia» (M. a Lorenzo Spinelli, 22 ag. 1498, LCSG, 1° t., p. 35), oppure di «fede» (M. al conte Rinuccio da Marciano, 4 ag. 1498, LCSG, 1° t., p. 27) o di «amore». La parola appare in chiara distinzione con altri tipi di regimi, in particolare con la «signoria» (M. ad Andrea de’ Pazzi, commissario a Forlì, 14 ott. 1498, LCSG, 1° t., pp. 96-97). Infatti, la «nostra republica», con l’uso quasi sistematico del possessivo, esprime orgogliosamente la dimensione collettiva dell’organizzazione politica fiorentina, esplicitamente riferita all’autorità del popolo, e della sua dimensione «pubblica», in opposizione con la dimensione singolare e privata (M. a Luca degli Albizzi, commissario nel Casentino, 18 dic. 1498, LCSG, 1° t., p. 173).
La libertà, qualità intrinseca della r., si oppone diametralmente al regime mediceo (cfr. la lettera della Signoria a M., durante la sua prima legazione in Francia, 21 ott. 1500, LCSG, 1° t., p. 498). In realtà, il rapporto tra r. e libertà non va da sé. L’autorità che la r. esercita fuori delle sue mura rivela la natura e i limiti del soggetto ‘noi’. Se la r. non è altro che il popolo fiorentino come autorità pubblica, su un piano più concreto essa è pur sempre una città. La «nostra città» è talvolta usata al posto di «nostra repubblica», in modo intercambiabile, oppure per designare due realtà diverse in un rapporto speculare, come, per es., la Repubblica fiorentina e la Repubblica di Lucca (M. agli Anziani di Lucca, 5 giugno 1500, LCSG, 1° t., p. 367). Di conseguenza, i territori sottoposti alla r. sono menzionati come elementi esterni alla città, ma appartenenti a essa. Il possessivo, in questo caso, non rinvia più a un’identità collettiva, ma a un territorio o una popolazione sotto il controllo di Firenze: «il dominio nostro» (M. a nome dei Signori, a Pellegrino Lorini e Amerigo degli Antinori, 29 maggio 1501, LCSG, 2° t., p. 105), «cotesti nostri sudditi» (M. a Gaspare Sanseverino e a Paolo Vitelli, 20 genn. 1499, LCSG, 1° t., p. 192). In quest’uso del possessivo, la r. rivela non solo il suo potere sui propri cittadini, ma anche quello che esercita sui propri sudditi. La r. è indissociabile dai due tipi di incorporazione che sempre presuppone: il dominio (la sudditanza) e la libertà.
Nella travagliata esperienza politica del tempo, emerge la certezza che la libertà degli uni significa molto spesso la sudditanza degli altri, che la «nostra repubblica» corrisponde altrettanto all’essere quanto all’avere. Rilevante è il caso di Pisa, acquistata dai fiorentini nel 1406, e perduta nel 1494. Durante le trattative svolte per recuperarla con l’aiuto della Francia, M. avvertiva i Signori che la collera del re di Francia tendeva a vanificare la speranza di riconquistare Pisa:
Se le Signorie vostre non rimediono, le si troveranno, e presto, in tale condizione con questo Re, che le aranno più a pensare di guardare e difendere le cose tenete e la libertà propria che di pensare alla recuperazione delle cose perdute (M. ai Signori, 3 sett. 1500, LCSG, 1° t., p. 451).
L’esperienza diplomatica di M. rivela un fatto storico-politico di assoluta importanza: non solo la r. comporta in sé stessa libertà e servitù, ma è tanto più libera se asservisce altre libertà.
Nel momento riflessivo del suo pensiero politico, M. ha dato un forte significato a questo plurale. Di rado la parola è applicata, al singolare, all’intero spazio politico e geografico della cattolicità, secondo il sintagma storico di res publica christiana (cfr. Discorsi I xii 12: «la repubblica cristiana»). Più comunemente, evoca città, antiche o moderne, governate da istituzioni collettive: Atene, Sparta, Roma, Firenze, Venezia, Genova, le r. tedesche e le città-Stato della Svizzera. L’osservazione degli sconvolgimenti contemporanei ha reso M. attento a due parametri: la capacità militare delle r. e la loro dinamica sociale interna. Nei Discorsi, la sua analisi verte principalmente sul nesso tra questi due parametri, sull’interdipendenza tra i «buoni ordini» e le «buone armi». Così, sebbene il divario tra le «repubbliche antiche» (Discorsi I proemio B 1) e le r. «presenti» (II xxx 30) e «moderne» (I xxi 2) sia incolmabile, in quanto la perfezione raggiunta dalla Repubblica romana è ormai inaccessibile, M. stabilisce costanti e complessi raffronti tra questi due tipi di r. fino a creare vere e proprie tipologie trasversali: in maniera radicale, e soprattutto indipendentemente dall’antichità o modernità, M. oppone le r. deboli (I vi 26, I xxxviii 1, III xxvii 11), o «inresolute» (I xxxviii 20), alle r. forti (III xxxi 1), potenti (I lii 1), ambiziose (II xx 14); le r. «bene ordinate» (I xxiv 1, I xxxv 11, I xxxvii 8, III xxviii 13), «non corrotte» (I xxix 19) a quelle corrotte (I lii 4, II xxii 3), o «effeminate» (III x 10). La r. è, con la milizia e in stretta associazione con essa, il banco di prova del comparatismo spazio-temporale, cuore del metodo di Machiavelli.
Alla varietà delle strutture sociali, M. aggiunge un altro complesso di variabili: il fatto che ogni Stato sia parte di un movimento storico, se non inesorabile, almeno difficilmente modificabile. Si tratta di un’inerzia temporale, legata sia alle stesse modalità di fondazione di una città (I i), sia alla natura delle sue leggi fondamentali (I ii), che determinano uno specifico processo storico-politico, sia infine all’inclinazione universale al mutamento cui sono sotto-poste tutte le organizzazioni politiche (l’anakỳklosis polibiana, I ii 14-25). Per via di questa natura particolarmente instabile e volatile della materia politica, solo una costituzione mista appare in grado di contrastare la variabilità altrimenti travolgente degli Stati. Ma «simili constituzioni» (I ii 28), al plurale, sono storicizzate, di modo che diventa impossibile definire le modalità di un equilibrio repubblicano valido per tutti i tempi: gli stessi ordini romani non deviarono dalla via della perfezione anche grazie a eventi casuali, in cui gli «accidenti» e la «fortuna» ebbero una parte significativa.
Chi volesse capire come funziona veramente una r., dovrebbe fare astrazione da ogni modello. Un ideale di r., come ripete M. più volte, non esiste (Principe xv 4, Istorie fiorentine VII xxix 12). Vi sono solo r. effettive, forti della loro concretezza storica, le cui qualità possono essere utilizzate, a patto di evitare le «vie di mezzo». Una r. può sperare di gettare fondamenta nuove, solo se è capace di analizzare le sue divisioni interne e il suo modo di guerreggiare. La virtù di tutte le r. contemplate da M. si misura sul modo in cui queste città sono riuscite a risolvere o a superare il contrasto fra gli umori del popolo e dei nobili: Sparta, che, a differenza di Atene, è riuscita a impedire sia la licenza popolare sia l’insolenza dei grandi (Discorsi I ii 28-29); Roma, dove il conflitto tra nobiltà e popolo ha impedito che una parte tiranneggiasse l’altra (I iv); le città tedesche, che «non sopportano che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo» (I lv 17); Venezia, perché «i gentiluomini in quella republica sono più in nome che in fatto» (I lv 32). Se le città toscane possono ancora essere riordinate, lo si deve al livello di uguaglianza di cui possono tuttora giovarsi, che rende plausibile l’ipotesi di introdurvi «uno vivere civile» (I lv 25). La conclusione del capitolo lv identifica nei nobili i principali ostacoli allo stabilimento di una r.: «Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne tutti» (I lv 27).
Per molti aspetti, il repubblicanesimo dei Discorsi può essere considerato un prodotto della tradizione umanistica, ma un prodotto molto critico rispetto alla visione non sufficientemente precisa dell’ordinamento politico romano posseduta dagli umanisti. M. voleva rispondere a quel versante dell’Umanesimo politico che aveva dato uno spazio eccessivo alla virtù degli uomini illustri, e che tanto l’oligarchia albizzesca quanto la signoria medicea avevano saputo sfruttare. Ai tempi di M., i difensori di un governo «stretto» avevano argomenti seri: la necessità di prendere decisioni rapide, efficaci, sapienti, e perciò di riservare la deliberazione a un gruppo ristretto di esperti, depositari dell’indispensabile «discrezione». Gli umanisti del secolo precedente, in particolare Leonardo Bruni, avevano inciso su marmo la necessità che gli ottimati si assumessero tale dovere nei confronti della collettività, costituendo una milizia aristocratica necessaria al buon funzionamento della città. M. si era mosso in senso opposto: aveva certo espresso, come gli umanisti, fiducia nelle armi proprie, ma la sua «ordinanza» non era reclutata tra i nobili bensì tra le popolazioni del contado. Nei Discorsi, la rilettura del modello romano significava dunque per M. confrontarsi con il repubblicanesimo fiorentino di stampo ottimatizio. E da questo punto di vista, il distacco appare molto profondo fin dai suoi risoluti primi capitoli: Roma è certo la r. perfetta, la più potente che sia mai esistita, ma la sua potenza non è da attribuire alla sola virtù di alcuni grandi uomini, patrizi o plebei, particolarmente eccellenti, ma a due fattori storici, ai quali corrispondono due «ordini buoni»: il primo è «la disunione della plebe e del Senato», in quanto da essa nacquero «le leggi in favore della libertà»; il secondo (ma connesso al primo) è il fatto che il popolo sia stato armato. Per raggiungere la sua inaudita grandezza, la Repubblica romana si era dovuta dotare d’istituzioni che consentissero al popolo di resistere alla nobiltà.
Dal punto di vista della politica estera, occorreva anche fare i conti, in quest’analisi delle r., con l’idea che – secondo i termini della vecchia propaganda cancelleresca – la r. trasmetteva la libertà alle città che le erano sottoposte. Per M., invece, libertà ed espansione imperiale sono strettamente legate (II ii 12: «La ragione è facile a intendere, perché non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa grandi le città»), e la libertà non si può propagare nei territori assoggettati. Nel mondo moderno l’amore della libertà è quasi scomparso, non solo a causa degli effetti della religione cristiana sull’educazione, ma anche perché «lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti e viveri civili» (II ii 38). L’impero repubblicano, quello di una città libera che grazie alla bontà delle sue leggi e delle sue armi felicemente si espande, è durissimo:
E di tutte le servitù dure quella è durissima che ti sottomette a una repubblica: l’una, perché la è più durabile e manco si può sperare d’uscirne; l’altra, perché il fine della republica è enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi (II ii 49).
Infatti, la necessità induce spesso le r., anche quando vogliano mantenersi all’interno dei loro limiti, ad «ampliare» (I vi 34), ma la conquista pura e semplice è sempre una fonte di difficoltà, come fu per Roma (II xix 22-41). Due strategie sembrano allora virtuose: o il soffocamento progressivo di alleati inferiori, per «inganno» (ed è, secondo M., il modello migliore, II iv 20), o la costituzione di una lega tra r. press’a poco uguali (il modello degli Etoli e degli Svizzeri, II iv 23). La «virtù» di un popolo libero, anche per quanto riguarda Roma, non basta, ma richiede un’analisi accurata dell’ambiente politico-militare circostante, con i conseguenti rapporti di forza.
Neanche all’interno delle città la libertà poteva beneficiare di una pacifica fiducia nelle proprie forze. Nelle r. moderne, una libertà riconquistata si fa «partigiani nimici» e non «partigiani amici», sicché un piccolo gruppo di uomini può facilmente estinguere una fragile libertà, mentre la maggioranza non si cura di dover difendere attivamente la stessa condizione della sua felicità. Una r. deve sapere «ammazzare i figliuoli di Bruto» (I xvi 11 e III iii 1), cioè uccidere i nemici della libertà. Per una r. corrotta, il problema è più difficile e può diventare necessaria l’instaurazione di uno «stato regio» con lo scopo prioritario di «assicurarsi» dei pochi che desiderano la libertà per comandare, o «con levargli via» o «con fare loro parte di tanti onori che secondo le condizioni loro e’ si abbino in buona parte a contentare» (I xvi 24). Indubitabilmente, come dimostra l’esplicito riferimento in III iii 6-13, M. ha voluto qui tirar le somme dello scacco della politica soderiniana nei confronti dei «grandi», e farsi sostenitore della più grande fermezza di fronte alle aspirazioni dei nobili, che creano «disordini». In primo luogo, il fondamento di ogni Stato essendo la «buona milizia» (III xxxi 22), le «buone legge e buone arme» (Principe xii 3), il popolo deve essere la base di ogni esercito, repubblicano o principesco, veramente potente, giacché è necessario «armarsi de’ sudditi suoi» (Discorsi I xliii 7).
D’altra parte, anche se il popolo, in una r., è responsabile dell’insorgere di una tirannide tanto quanto i nobili (lo dimostra la lettura del decemvirato in I xl 27), non esiste possibilità di distruggere il popolo in quanto umore, perché la libertà di una r. è fondata su di esso. Il «desiderio di non essere oppressi» è uno degli elementi costitutivi del vivere civile, a tal punto che la «guardia della libertà» deve essere affidata al popolo (I v). Al contrario, la «grandezza» dei cittadini deve essere attentamente sorvegliata e combattuta (I xlvi). Per la stessa antecedenza fondamentale del popolo, nessun rimedio, se non «grandissimi straordinari», può ricondurre un popolo corrotto sulla strada della libertà (I xvii 16).
Attraverso questa disamina esauriente dei vari esperimenti politici svolti nella storia, M. ‘decostruisce’ pazientemente, ma risolutamente il modello aristocratico e reinterpreta il valore riformatore dell’esempio romano: la storia della Repubblica romana prova che la libertà e la potenza esigono sia dato un ruolo preponderante al popolo.
Difendere la r. significava ripensarla fino alla radice, e portare a termine, fino al precipitato, l’impresa di dissoluzione di tutte le certezze. Nei Discorsi, M. inserisce così una provocazione particolarmente pungente:
Firenze [...], per avere avuto il principio suo sottoposto allo imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d’altrui, stette un tempo abietta e sanza pensare a se medesima; dipoi, venuta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così è ita maneggiandosi per dugento anni, che si ha di vera memoria, sanza avere mai avuto stato per il quale la possa veramente essere chiamata republica (I xlix 7).
A rigor di termini, Firenze non è mai stata, e non può ora essere considerata, una vera r., perché la libertà vi è mista a servitù. La libertà fiorentina, emblema del comune medievale poi simbolo dello Stato regionale quattrocentesco, non è l’erede della libertà romana, ma ne rappresenta una forma molto imperfetta. La sua difformità è riconducibile a un male radicale, insito nello stesso principio vitale della città. Certo, le divisioni fiorentine sono quelle che esistono in tutte le r.:
Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i nobili, causate da il volere questi comandare e quelli non ubidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città perché da questa diversità di umori tutte le altre cose che perturbano le republiche prendano il nutrimento loro (Istorie fiorentine III i 1).
E difatti questo difetto, il «troppo desiderio del popolo d’essere libero» e il «troppo desiderio de’ nobili di comandare», colpisce anche Roma (Discorsi I xl 27). Ma Firenze soffre di una patologia particolare, per la quale il processo di divisione in due sembra replicarsi all’infinito (Istorie fiorentine proemio 8). Da questo disordine quasi mostruoso, scaturiscono infiniti mali, tra i quali uno sfinimento generalizzato delle forze vitali, un’estenuazione della «virtù delle armi e generosità di animo» (Istorie fiorentine III i 7), di modo che, nonostante i suoi sforzi per mantenere la propria libertà, Firenze si allontana inesorabilmente dall’ordinamento di una r. vera e propria.
Nell’ultimo decennio della sua vita, M. espresse diverse volte l’idea che Firenze non era mai stata né una r. né un principato. Quest’osservazione traduceva una volontà di rinnovamento profondo, con una radicalità che non manca di ricordare l’appello alla riforma che lanciava Savonarola, per difendere l’instaurazione di un Consiglio maggiore, sicché si possa «cantare al signore un cantico nuovo». Nel Discursus florentinarum rerum (→) e nelle Istorie fiorentine, M. offriva ragioni storiche e teoriche per spiegare l’inesistenza, nella storia fiorentina, di una forma istituzionale soddisfacente. Nondimeno, più M. insiste sull’inesistenza della r., più esprime l’aspirazione a una vera riforma, tesa a stabilire una r. del tutto nuova. La r. degli Albizzi, fondata sul governo di uomini privati, non aveva potuto mantenersi a lungo. Lo Stato di Cosimo il Vecchio non fu un vero principato, giacché le decisioni del capo della famiglia dei Medici dovevano essere accettate da molte persone prima di essere applicate. La r. del Consiglio maggiore non aveva saputo difendersi contro gli umori che le erano avversi. In coerenza con quanto aveva affermato nei Discorsi e nel Principe, M. proponeva di creare o una r. vera e propria o un principato vero e proprio, in modo da riordinare efficacemente la città. Ma in virtù dell’uguaglianza che regnava ancora a Firenze, la soluzione repubblicana appariva come la scelta più consona alla realtà e alla storia. La proposta istituzionale espressa nel Discursus sembra nondimeno alquanto singolare. M. consigliava di abolire la Signoria e di creare tre gradi di Consigli, uno di 65 membri, uno di 200 e uno di 1000 o di 600. Questa volontà di rispettare la gerarchia sociale può essere vista come una concessione, intesa a convincere Giulio de’ Medici, il destinatario del Discursus, ad accettare una soluzione istituzionale chiaramente repubblicana. Può anche essere letta come una volontà di sradicare il male fondamentale della società fiorentina, la propensione a generare disuguaglianze e divisioni. Il fatto di proporre tre Consigli paralleli di dimensioni relativamente larghe mostra bene che M. rimaneva attento al pericolo costituito dai ‘pochi’ e rivela la sua fiducia nella deliberazione collettiva capace di neutralizzare la possibilità di una parte di impadronirsi del potere. Anche in questo testo, dove è in ombra la dimensione militare della r. (che rimane tuttavia al centro dell’analisi della debolezza fiorentina e italiana nell’Arte della guerra e nelle Istorie), M. continua a difendere la superiorità di istituzioni il cui centro di gravità è l’espressione politica del popolo.
Per M., autore repubblicano, l’apologia della r. implicava una profonda decostruzione dei modelli, e soprattutto della r. aristocratica. L’apologia machiavelliana si oppone all’opinione comune, e in questo appare paradossale. M. si era spinto a sostenere che i principati non sono più efficienti delle r., perché queste potevano compiere «in brevissimo tempo augumenti eccessivi» (Discorsi I lix), «progressi grandissimi» (Principe xii), uguali a quelli dei principi, se non maggiori. Se i progressi della moltitudine potevano essere più veloci di quelli compiuti da un principe, l’argomento della rapidità di decisione in una situazione d’urgenza non era più valido per screditare il regime popolare, e non poteva più essere usato per denunciarlo. Se la sapienza del principe non era più decisiva, la prudenza dei pochi era men che mai necessaria.
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