Abstract
Viene qui esaminata l’azione di rescissione del contratto iniquo a causa dell’esistenza di uno stato di bisogno del trattante del quale l’altra parte ha approfittato; e di quello la cui iniquità è dipesa dallo stato di pericolo di una delle due parti, condizione conosciuta dall’altra. È esaminata la disciplina codicistica della materia, con specifica attenzione a quella contenuta nel Titolo II del Libro IV.
Il Codice civile del 1942 ha raggruppato sotto la rubrica del Capo XVII del Titolo II del Libro VI Delle obbligazioni le ipotesi di rescissione del contratto concluso in stato di pericolo e di quello concluso in stato di bisogno, disciplinate negli artt. 1447, 1448, 1449, 1450, 1451 e 1452. Nonostante le fonti storiche delle due fattispecie non convergano in alcun modo verso una radice comune delle due ipotesi, appare fondata la tesi secondo cui, oggi, l’azione di rescissione è una sola, perché il fondamento della rescindibilità del contratto è, in entrambe le ipotesi, l’iniquità del suo contenuto contrattuale, prodotta, quella, dal fatto che il trattante – ovviamente, capace di intendere e di volere - si sia trovato in condizioni tali – note alla controparte che si avvantaggia – da fargli preferire la conclusione di un contratto iniquo all’assoggettamento al danno minacciato. In entrambi i casi, dunque, il contratto, l’accordo, è visto come lo strumento di superamento di quelle condizioni. Il pericolo di un danno grave alla persona e il più indeterminato «bisogno» sono le condizioni senza le quali, nel disegno legislativo, non si sarebbe realizzata l’iniquità dello scambio, dal punto di vista economico. Ed è la maggior importanza del bene minacciato nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1447 a giustificare la concessione all’autorità giudiziaria di un più ampio potere di valutazione dell’iniquità delle condizioni contrattuali, iniquità che non è stretta nella morsa aritmetica della metà del valore della prestazione, così come lo è invece nel caso del contratto concluso in stato di bisogno.
Illustreremo in questa sede solo l’azione generale di rescissione disciplinata negli artt. 1447-1455 c.c., mentre non ci occuperemo di quell’impugnativa per lesione della divisione ereditaria (art. 763) e di «ogni altro atto che abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari» (art. 764, co. 1), avendo essa ragion d’essere e giustificazione nel diritto successorio e non in quello dei contratti.
I costituenti della fattispecie del contratto rescindibile perché concluso in stato di bisogno sono, come emerge con chiarezza già da una prima lettura dell’art. 1448: i) lo stato di bisogno; ii)la sproporzione tra il valore della prestazione promessa o resa dal bisognoso e il valore della stessa (cd. ‘lesione’); iii)l’approfittamento. I tre elementi hanno pari dignità nella costruzione della fattispecie, per quanto sia la lesione, dei tre, quello storicamente prevalente. Per il codice attuale, la rescissione del contratto per lesione è, dunque, quella particolare forma di impugnazione dei contratti a prestazioni corrispettive – con l’esclusione di quelli aleatori (art. 1448, co. 4, c.c.), della transazione (art. 1970 c.c.) e della vendita forzata (art. 2922 c.c.) – concessa a chi, trovandosi in una condizione («stato») di bisogno di denaro (che è l’ipotesi più ricorrente di bisogno, ma non più, come un tempo, l’unica a consentire la rescissione), di un bene o di una prestazione, abbia concluso un contratto in forza del quale, a causa della propria condizione e dell’approfittamento della stessa fatto dall’altra parte per avvantaggiarsi, abbia ricevuto o abbia diritto di ricevere ciò di cui abbisognava dando in cambio beni o servizi di valore superiore al doppio di quello di quanto ricevuto. A essere confrontati – perché si possa esprimere il giudizio di equilibrio – saranno i valori economici delle prestazioni scambiate, non già il regolamento complessivo dei diritti e degli obblighi delle parti: l’eventuale squilibrio di quel tipo di rapporto potrà essere preso in considerazione ai sensi degli artt. 33 ss. del d.lgs. 6.9.2005, n. 206 (Codice del consumo) se il soggetto leso sia un consumatore.
Lo stato di bisogno è quella condizione di mancanza o d’insufficienza di beni o servizi che spinge una persona a concludere un contratto per rimuovere, grazie a quello, immediatamente o per il tramite di altra operazione contrattuale; completamente o solo parzialmente; effettivamente o solo nelle aspettative, quella sua condizione. Si è detto che esso è uno «stato di cose», una «situazione del mondo esterno» (Gatti, S., L’adeguatezza tra le prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, 428), effettiva e oggettiva, considerata dal Legislatore come la causa, o la concausa, della scelta del bisognoso di accettare un assetto economico del contratto iniquo. Lo stato di bisogno è «stato di cose» e non «situazione psicologica», ma è discusso se sia necessario anche un effettivo turbamento psicologico del bisognoso e, di conseguenza, se sia richiesta la prova in giudizio dell’esistenza di tale condizione.
Nell’opera di ricerca del significato più preciso dell’espressione «stato di bisogno», la dottrina più moderna non contrappone più quello stato alla condizione di necessità ex art. 1447, vedendoli, invece, rispettivamente come il genus (il bisogno ex art. 1448, da intendersi come il bisogno di aiuto, di soldi ecc. per evitare a sé stessi un danno) e la species (la necessità ex art. 1447, ossia lo specifico bisogno di aiuto per evitare a sé stessi o ad altri un danno grave alla persona, ipotesi regolata in modo particolare per la sua maggior gravità) (così Sacco, R., in Sacco, R. - De Nova, G., Il Contratto, I, III ed., in Tratt. dir. civ. Sacco, Torino, 2004, 602, si v. anche De Poli, M., La rescissione del contratto, in Tratt. diritto civile, diretto da Perlingieri, Napoli, 2011, 153, nt. 160).
Dottrina e giurisprudenza sono concordi sul fatto che lo stato di bisogno non deve essere necessariamente integrato da condizioni tanto gravi quanto rare, quali la povertà, l’assoluta indigenza, la miseria, lo stento (il bisonium di un tempo), potendosi aprire, invece, a ipotesi di difficoltà contingenti, non necessariamente irreversibili né assolute, meramente relative, ossia correlate alle esigenze specifiche da soddisfare (in giurisprudenza, il punto è fermo da Cass., 25.7.1951, n. 2147 e fino a Cass., 27.2.1979, n. 1286), purché siano in rapporto di causa a effetto con la determinazione a contrarre e costituiscano la ragione dell’accettazione dello squilibrio (sul citato rapporto di causa a effetto, da ultimo, Cass., 6.3.2007, n. 5133).
Una volta aver visto cosa lo stato di bisogno non è (almeno necessariamente), ossia la povertà, spetta vedere cos’è o in cosa consiste. Caratteristiche certe sono le seguenti: i) uno stato di privazione di un bene, totale o parziale, non limitata al denaro (si v. una serie di esempi di casi di bisogno, distinti per l’oggetto dello stesso, in De Poli, M., La rescissione, cit., 64); ii) quale sia l’utilità (denaro, bene, prestazione ecc.) mancante al bisognoso, quando questa gli serva per salvare sé stesso o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona il contratto iniquo concluso per procacciarsela sarà rescindibile ai sensi dell’art. 1447 e non dell’art. 1448; iii) appare irrilevante l’eventualità che lo stato di bisogno sia stato determinato dallo stesso soggetto che ora le patisce.
Altre caratteristiche sono invece controverse. Lo sono, anzitutto, i) l’intensità minima richiesta per attribuire rilevanza giuridica a quell’obiettiva condizione di mancanza – insufficienza (infra, a breve), intensità che si tende ad identificare con la «necessità» (così già Messineo, F., Lo ‘stato di bisogno’ del contraente nella lesione enorme, in Foro it., 1950, IV, 194; contra: Mirabelli, G., La rescissione del contratto, II ed., Napoli, 1962, 251); ancora ii) l’esigenza di un’«oggettività», o, comunque, di un’«apprezzabilità sociale» del bisogno, o – per contro – la sufficienza di una sua mera «soggettività». Prevale la tesi della necessità di un apprezzamento oggettivo di quella condizione, sussistente quando «qualsiasi altro soggetto, nella medesima situazione, si sarebbe comportato allo stesso modo» (Così, Carpino, B., La rescissione del contratto, Artt. 1447-1452, inComm. c.c. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2000, 35, rifacendosi a Cass., 20.11.1990. V. anche Carresi, F., voce Rescissione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1, 4); quasi di riflesso si tende a negare la rilevanza di uno stato di bisogno inesistente ma che è avvertito come tale dal trattante e che produce ugualmente un turbamento della libertà di scelta (cd. stato di bisogno putativo). Negano l’ammissibilità Cass., 9.8.1960, n. 2352 e Cass., 5.7.1960, n. 1847, al massimo ammettendosi la rilevanza di uno stato di bisogno virtuale, purché sia posto in relazione di causa ad effetto rispetto alla determinazione a contrarre (Cass., 2.11.1953, n. 3574); in dottrina Marini, G., voce Rescissione (dir. vigente), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 974; contra, da ultimo, De Poli, M., La rescissione, cit., che l’ammette; iii) la necessità che il bisogno sia attuale, ossia presente al momento della conclusione del contratto, da taluni affermata (Carresi, F., Il contratto, in Tratt. Cicu-Messineo, I, Milano, 1987, 168), da altri negata (Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 227). Si suole affermare che la giurisprudenza sia invece più indulgente, ammettendo che la mancanza di un bene necessario possa non essere attuale, ma il punto è controverso perché le decisioni che sono generalmente citate per sostenere questa convinzione non paiono, ad un’attenta analisi, pertinenti.
L’approfittamento dello stato di bisogno altrui è comportamento che per taluni, la minoranza degli studiosi, consiste in una speculazione attiva – dunque nello svolgimento di un’attività, di un lavorio – sullo stato di bisogno (in questo senso Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 92 ss., correttamente, a nostro avviso, avendo richiesto il legislatore una fattispecie “ricca”, concetto su cui v. De Poli, M., Servono ancora i «raggiri» per annullare il contratto per dolo? Note critiche sul concetto di reticenza invalidante, in Riv. dir. civ., 2004, II, 926). Prevalgono, invece, le opinioni secondo le quali l’approfittamento è sufficientemente integrato dallo stato intellettivo di conoscenza dello stato di bisogno determinante l’azione, o di quello unito alla conoscenza della lesione (Corsaro, L., L’abuso del contraente nella formazione del contratto, in Pubbl. Fac. Giurisprudenza di Perugia, 1979, 65; Carpino, B., La rescissione del contratto, cit., 40. Per una variante a questa tesi v. Sacco, R.,op. cit., 602; Minervini, E., La rescissione, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999, 1440; Scarso, A., Il contraente debole, Torino, 2006, 86). Quanto alla giurisprudenza, essa ha dichiarato apertamente che è sufficiente aderire a un’offerta inizialmente iniqua, senza che altro venga fatto, perché la fattispecie venga integrata (Cass., 24.02.1979, n. 1227; v. anche Cass., 28.05.2003, n. 8519, e Cass., 9.01.2007, n. 140).
Il terzo e ultimo elemento della fattispecie della rescissione per lesione consiste nella sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra di misura tale da eccedere la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte bisognosa aveva al tempo del contratto. Il «valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto» è quello che ordinariamente si definisce «valore di mercato» o «valore venale», individuabile mediante una stima. Questa andrà fatta tenendo presenti tutte le particolari circostanze (oggettive) del caso ma senza tenere conto del valore d’affezione. Ai sensi dell’art. 1448, co. 3, la lesione deve sussistere non solo al momento della conclusione del contratto ma anche a quello della proposizione della domanda giudiziaria, pena l’inammissibilità dell’azione. Essa deve «perdurare» fino a quell’ultimo momento, ma si tende a ritenere sufficiente che essa «riviva» al momento della proposizione della domanda. Per taluni l’azione non è più esercitabile se la lesione sussiste ancora ma è scesa al di sotto della soglia della metà, perdendo così la caratteristica di lesione notevole (così Vitucci, P., La rescissione, in Tratt. Roppo, IV, Milano, 2006, 465. In passato, già Messineo, F., Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, 457), ma pare preferibile la tesi secondo cui l’azione non sia più proponibile solo quando il passaggio del tempo abbia completamente eliminato la lesione, muovendo dalla considerazione che il fine dell’azione di rescissione è proprio quello di eliminarla; fine che può dirsi raggiunto in modo alternativo solo a patto che la lesione sia stata totalmente rimossa (così Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 220 ss.; Carpino, B., La rescissione del contratto, cit., 66; Corsaro, L. Rescissione, in Dig. priv., XVI, Torino 1997, 642, nt. 121).
L’art. 1447, co. 1, dispone che «Il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può essere rescisso sulla domanda della parte che si è obbligata». Le radici storiche dell’istituto risalgono alla disciplina degli ‘accordi di salvataggio marittimo’; forti, oggi, sono i punti di contatto con l’art. 2045 c.c. (Stato di necessità) e con l’art. 54 c.p. (Stato di necessità).
La struttura di questa disposizione è simile a quella dell’art. 1448, incentrandosi su di un elemento oggettivo, l’iniquità delle condizioni contrattuali, determinata da una situazione – il pericolo attuale, in capo al contraente o a uno o più terzi, di subire un danno grave alla persona – che abbia posto il contraente in una condizione di minorata, se non inesistente, libertà di scelta, costringendolo ad accettare qualsiasi condizione richiestagli pur di ottenere la prestazione necessaria per evitare, ridurre, rinviare quel pericolo; situazione, quella ora citata, che dovrà essere conosciuta da chi contrae con il soggetto in stato di pericolo perché l’azione venga accolta. Verificatosi il fatto previsto dalla fattispecie di questa disposizione, ne consegue la possibilità, posta in capo «alla parte che si è obbligata» – ossia quella che «ha assunto obbligazioni inique» – di domandare la rescissione del contratto. Tratto differenziale tra le due ipotesi è che, qui, «Il giudice, nel pronunciare la rescissione, può, secondo le circostanze, assegnare un equo compenso all’altra parte per l’opera prestata».
Anche se il richiamo all’«opera prestata» sembrerebbe confinare la fattispecie ai casi di prestazione d’opera, anche intellettuale, remunerata iniquamente, quel richiamo testuale non sembra in grado di escludere dall’ambito della rescindibilità i contratti che producono il salvataggio del soggetto in stato di pericolo attraverso la dazione di una cosa, come, ad esempio, la vendita del carburante con il quale far ripartire l’imbarcazione per poi ritornare a riva(a favore di un allargamento, ex multis, Corsaro, L., L’abuso del contraente nella formazione del contratto, cit., 119. Contra, tra i vari, Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 262). Ciò che caratterizza il trattamento della vicenda non è, a nostro avviso, la natura della prestazione ma l’interesse che col contratto si punta a realizzare, che è quello di evitare un danno grave alla persona, facendo cadere dentro la fattispecieogni attività umana diretta a tal fine, quale sia il suo contenuto.
L’evento dannoso previsto dall’art. 1447 c.c. deve avere le seguenti caratteristiche: i) attualità, non potendo, dunque, essere così avanti nel tempo da consentire al contraente di trovare un’altra controparte; ii) incidenza sulla persona, ossia sulla vita, sulla libertà personale, l’integrità fisica, la salute (per un caso di lesione all’onorabilità di una persona v. App.Torino, 25.11.1955, in Giust. civ. rep., 1955, voce Obbligazioni e contratti, n. 448); iii) gravità, da rapportarsi all’età, al sesso, alla condizione della persona che si trovi in condizione di dover decidere tra subire il danno (o farlo subire ad altri) o accettare le condizioni inique. Nell’evidente considerazione della maggior gravità della condizione di pericolo di danno grave alla persona rispetto a quella di bisogno teso a evitare danni diversi da quello alla persona, il Legislatore non ha chiesto un approfittamento della controparte ritenendo sufficiente la conoscenza – non la mera conoscibilità – della condizione nella quale si trova il soggetto bisognoso di aiuto. Noto dovrà essere lo stato di pericolo e non il vizio della volizione.
Quanto all’iniquità delle condizioni assunte per la necessità del salvataggio, esse andranno rapportate alla prestazione di salvataggio o al bene fornito. Rescisso il contratto, il giudice dovrà, valutate le circostanze che hanno contraddistinto la vicenda, assegnare un equo compenso al prestatore dell’opera, a ricompensa dell’opera prestata, e questo compenso dovrà essere pecuniario. L’effetto tipico della rescissione, ossia la restitutio in integrum di entrambe le prestazioni, si attuerà solo nel caso di salvataggio mediante dazione di un bene (il carburante, ad esempio) contro un corrispettivo diverso dal denaro (come, per esempio, il trasferimento di un bene): in questo caso, la sentenza che rescinderà il contratto condannerà alle reciproche restituzioni, salvo sempre il diritto dell’autore del salvataggio ad ottenere un’equa remunerazione per l’uso concesso del bene.
Non ci sembra dubbio che il prestatore d’opera abbia diritto di vedersi rimborsate le spese sostenute per l’esecuzione dell’opera. Al contratto concluso in stato di pericolo si applicheranno pacificamente gli artt. 1449 (Prescrizione), 1451 (Inammissibilità della convalida) e 1452 (Effetti della rescissione verso i terzi) c.c.. Più problematica è, invece. la questione della possibilità di applicazione dell’art. 1450 c.c. (la ritiene ammissibile Carpino, B., La rescissione del contratto, cit., 29. Contrari, invece, tra gli altri, Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 158 ss.; Corsaro, L., L’abuso del contraente nella formazione del contratto, cit., 112) che, comunque, sarebbe possibile nei soli casi di salvataggio mediante trasferimento della proprietà di una cosa, non in quelli di prestazione di un servizio.
Secondo quanto dispone in modo netto l’art. 1451 c.c., il contratto rescindibile «non può essere convalidato». La ratio di questa scelta non è chiara, ma è possibile che sia collegata alla brevità del termine di prescrizione e alla correlata temporaneità dell’eccezione di rescissione. Per contro, non pare seriamente discutibile che l’azione di rescissione sia transigibile. Ciò è riconosciuto sia in dottrina (a favore, tra i molti si veda Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 335; Stolfi, G., Transazione ed azione di rescissione, in Foro Pad., 1959, I, 1085 ss.) sia in giurisprudenza (Cass., 12.4.1945, n. 244; Cass., 30.6.1951, n. 1747; Cass., 15.4.1959, n. 1110.L’unico precedente in senso contrario noto è Trib. Napoli, 16.2.1948, in Dir. giur., 1949, 53 ss.). L’argomento spendibile a favore dell’inammissibilità sta nel preteso carattere indisponibile del diritto di rescissione così come risulterebbe dal divieto di convalida del contratto, ragion per cui a nulla varrebbe opporre l’autonomia della transazione dal contratto rescindibile perché, ex art. 1966 c.c., i diritti indisponibili non potrebbero essere fatti oggetto di transazione: in questo modo, ad avviso dei più, si accomunano in modo non ammissibile transazione e rinuncia al diritto (la diversità, in chiave effettuale, tra transazione e rinuncia, è stata affermata anche da Cass. S.U. 30.6.1959, n. 1747 secondo la quale «l’impossibilità della convalida del contratto rescindibile non importa l’impossibilità di transigere in ordine al contratto stesso»).
L’art. 1449 c.c. prevede che «l’azione di rescissione si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto; ma se il fatto costituisce reato, si applica l’ultimo comma dell’art. 2947»; al co. 2 dello stesso articolo si dispone che «la rescindibilità del contratto non può essere opposta in via di eccezione quando l’azione è prescritta», diversamente da quanto previsto in materia di azione di annullamento (art. 1442, co. 4). Il rigore della disciplina va, però, letto alla luce della previsione secondo cui, se la fattispecie costituisce reato (e il legislatore ha certamente supposto che il contratto concluso in stato di bisogno costituisca un’ipotesi di delitto di usura), si allunga sia il termine di prescrizione dell’azione sia quello dell’eccezione di rescissione, termini che possono perfino diventare più lunghi di quelli dell’azione di annullamento.
In dottrina si ritiene che la brevità del termine di prescrizione risenta della «resistenza del sistema verso forme di rimedi equitativi che, seppure entro un ambito molto modesto, mettono in discussione l’assunto dell’accordo come intangibile criterio di composizione degli interessi delle parti» (Bianca, C.M., Diritto Civile, III, Il Contratto, Milano, 2000, 691); altri hanno sostenuto che questa scelta appare come l’espressione dell’irrisolto conflitto del Legislatore, stretto tra spinte egualitarie e sociali in direzione della protezione dei soggetti lesi e preoccupazioni liberali di non aprire un varco nella libertà dei privati di determinare in autonomia l’assetto economico dei propri interessi, rilevando che la rescissione è «disciplina di mediazione tra opposte esigenze, e come tale sconta i forti limiti più volte segnalati» (De Poli, M., La rescissione del contratto, cit., 259).
Il dies a quo coincide con la data di conclusione del contratto. Se il contratto lesivo è stato sottoposto a una condizione sospensiva, per taluno il termine per proporre l’azione di rescissione decorrerà dalla data in cui si sarà verificata la condizione stessa (Cass., 13.3.1992, n. 3055. In senso contrario, però, in precedenza, Cass., 20.6.1958, n. 2152), ma la soluzione, basata sia sulla distinzione tra vincolatività (presente anche nel contratto sottoposto a condizione) ed efficacia (mancante) sia sulla portata generale dell’art. 2935 c.c., lascia perplessi perché da un lato il disposto normativo è chiarissimo nel riferirsi alla conclusione e non alla produzione degli effetti del contratto; dall’altro perché il diritto d’impugnativa ben puòessere esercitato già dal momento della conclusione del contratto, sicché il riferimento all’art. 2935 non pare corretto.
Infine, secondo quanto dispone l’art. 1450 c.c., l’apertura del giudizio di rescissione rende possibile al convenuto, oltre alla difesa tecnica e alla mera proposizione della domanda di rigetto dell’azione, nel merito o anche in rito, anche l’esercizio del potere di offerta di una «modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità», con l’effetto, quanto all’ipotesi di vedere rescisso il contratto, di «evitarla».
Dall’art. 1450 si ricava che l’azione di rescissione può essere evitata con la reductio fin dal momento di instaurazione della lite e che l’offerta va proposta prima che si sia formato il giudicato. Se la reductio è in grado di produrre il rigetto della domanda di rescissione, essa deve essere fatta di fronte al giudice competente a decidere su tale domanda e non produrrà i suoi effetti se svolta in via stragiudiziale. Ciò non toglie che il soggetto avvantaggiatosi iniquamente dal contratto rescindibile possa, prima dell’inizio della lite, offrire al soggetto leso una modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo ad equità: in tale ipotesi, però, tale offerta richiederà l’accettazione del suo destinatario, traducendosi solo a quel punto in una modifica – questa volta: di fonte contrattuale – dell’originario rapporto. Fortemente dibattuta è la questione della natura giuridica dell’offerta di riconduzione ad equità. Le tesi fronteggiatesi, specie un tempo, sono due: una, che le attribuisce carattere sostanziale di proposta contrattuale formulata all’interno del processo; un’altra, che ne afferma il carattere di atto processuale. Per un periodo di tempo, è parsa dominare la tesi secondo cui, considerato che il potere di evitare la rescissione offrendo di riportare ad equità il contratto è un potere che si esercita nel processo, «l’esercizio del potere si traduce, allora, in proposizione di una domanda giudiziale: negozio processuale e con effetti processuali» (Cass., 18.9.1972, n. 2748). Questa tesi ha incontrato immediatamente i favori di parte della dottrina (Gabrielli, E., Poteri del giudice ed equità del contratto, in Contr. impr., 1991, 494 – 495) ed è stata seguita da altre decisioni della stessa Suprema Corte (Cass., 24.3.1976, n. 1067; Cass., 22.11.1978, n. 5458). Oggi sembrano però prevalere le decisioni che affermano la natura sostanziale dell’offerta (Cass., 6.12.1988, n. 6630 e, già prima, Cass., 22.11.1978, n. 5458), seppure negandosi che l’offerta sia una proposta. L’offerta di modificazione del contratto deve essere, dispone l’art. 1450, «sufficiente per ricondurlo ad equità». Solo in tal caso la rescissione potrà essere evitata.
Si è discusso se l’offerta di riduzione debba essere idonea a eliminare totalmente la lesione oppure se sia sufficiente che la lesione sia ridotta infra dimidium. Dottrina (Mirabelli, G., La rescissione del contratto, cit., 230-231; Bianca, C.M., Diritto Civile, cit., 694; Sacco, R., op. cit., 563; Roppo, V., op. cit., 895; Carpino, B., La rescissione del contratto, cit., 104, tra i vari) e giurisprudenza (Cass., 22.11.1978, n. 5458; Cass., 8.2.1983, n. 1046) propendono in grande maggioranza per la prima soluzione: per evitare la rescissione del contratto, è necessario che la lesione venga rimossa completamente. La soluzione si fa preferire anche in forza del buon senso: esercitare un’azione di rescissione con il rischio di vedersela bloccare da un’offerta calibrata matematicamente per far scendere la lesione dal 50,1 al 49,9 per cento del valore della prestazione resa o promessa sterilizzerebbe la pratica efficacia, anche di deterrenza, del rimedio; facendo crescere enormemente la probabilità di esercizio della reductio (molto meno onerosa), il rimedio perderebbe gran parte della sua logica indennitaria e della sua preferibilità ad una normale azione di danni ex art. 1337 c.c., rendendo molto più conveniente la proposizione di un’azione di risarcimento danni per responsabilità precontrattuale.
Artt. 1447-1452 c.c.
Bianca, C.M., Diritto Civile, III, Il Contratto, II ed., Milano, 2000, 691; Carpino, B., La rescissione del contratto, Artt. 1447-1452, inComm. Schlesinger, Milano, 2000; Carresi, F., Il contratto, in Tratt. Cicu–Messineo, I, Milano, 1987, 168; Carresi, F., Rescissione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1-4; Corsaro, L. Rescissione, in Dig. civ., XVI, Torino 1997, 642; Corsaro, L., L’abuso del contraente nella formazione del contratto, in Pubbl. Fac. Giurisprudenza di Perugia, 1979, 117-118; De Poli, M., La rescissione del contratto, in Tratt. Perlingieri, Napoli, 2011; De Poli, M., Servono ancora i «raggiri» per annullare il contratto per dolo? Note critiche sul concetto di reticenza invalidante, in Riv. dir. civ., 2004, II, 926; Gatti, S., L’adeguatezza tra le prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, 428; Marini, G., Rescissione (dir. vigente), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 974; Messineo, F., Lo «stato di bisogno» del contraente nella lesione enorme, in Foro it., 1950, IV, 194; Minervini, E., La rescissione, in Gabrielli, E., a cura di, I contratti in generale, Torino, 1999, 1440; Mirabelli, G., La rescissione del contratto, II ed., Napoli, 1962; Panuccio Dattola, F., L’offerta di riduzione ad equità, Milano, 1990; Prosperetti, M., Sulla riduzione ad equità del contratto rescindibile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1966, 1227; Rizzo, A., Sulla nozione di «stato di bisogno» nella rescissione per lesione, in Rass. dir. civ., 1980, 175; Sacco, R. - De Nova, G., Il Contratto, I, III ed., in Tratt. Sacco, Torino 2004, 602; Scarso, A., Il contraente debole, Torino, 2006, 8; Scognamiglio, R., Contratti in generale,in Vallardi, a cura di, Trattato di Diritto Civile, IV, 269; Sesta, M., La rescissione del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 1991, II, 78; Stolfi, G., Transazione ed azione di rescissione, in Foro Pad., 1959, I, 1085 ss.; Terruggia, I., La rescissione del contratto nella giurisprudenza, Milano 1994, 16 ss..; Vitucci, P., La rescissione, in Trattato Roppo, IV, Milano 2006, 465.