RESIDENZA
. Il diritto civile italiano distingue il domicilio dalla residenza e l'uno e l'altra dalla dimora. Questa è il rapporto più tenue e di mero fatto, che una persona abbia con un determinato luogo. È il luogo dove attualmente abita, senza una precisa intenzione di trattenervisi a lungo. Alla nozione di dimora, pertanto, sono annessi i soli requisiti dell'attualità e dell'abitazione, e non quello della permanenza. Quando la dimora in un determinato luogo diventa abituale, cioè acquista il requisito della permanenza, allora si trasforma in residenza (art. 16 capov. cod. civ.). Il domicilio, infine, non è soltanto, come la residenza e la dimora, una relazione di fatto ma una relazione di diritto di una persona con un determinato luogo; è il luogo in cui una persona ha la sede principale dei suoi affari e interessi (art. 16 cod. civ.). La distinzione suddetta importa che una persona può avere il domicilio in un luogo, la residenza in un altro, e la dimora in un altro ancora.
Il concetto di residenza in alcuni codici moderni assorbe quello di domicilio: così nel cod. civ. spagnolo (art. 40), nel cod. civile germanico (art. 7), nel cod. civ. svizzero (art. 23). La legge italiana determina gli effetti giuridici derivanti dalla semplice dimora, o dalla residenza, o dal domicilio, caso per caso (tutela, successione, adozione, matrimonio, assenza, cittadinanza, pagamento delle obbligazioni, notificazioni, competenza territoriale, contributi fiscali, leve, pubblica beneficenza, iscrizione nelle liste elettorali, ecc.).
Rilevanti sono gli effetti giuridici della residenza. Spesso la legge equipara la residenza al domicilio, non perché confonda l'una con l'altro, ma perché li prende in considerazione alternativamente, per gli atti che si debbono compiere in un determinato luogo, o per gli effetti giuridici che si connettono a determinati atti e fatti (per es.: art. 20 e 23 cod. civ. per la presunzione e dichiarazione di assenza; art. 93 cod. civ. per la celebrazione del matrimonio; articoli 90 e 107 cod. proc. civ. per la determinazione della competenza territoriale nei giudizî). In alcuni casi, invece, la residenza è dalla legge presa in considerazione con prevalenza sul domicilio (per es.: nell'art. 71 cod. civ. per le pubblicazioni matrimoniali; nell'art. 200 cod. civ. per la legittimazione dei figli naturali; nell'art. 139 cod. proc. civ. per la notificazione dell'atto di citazione).
La residenza, infine, ha importanza sotto un altro aspetto; essa costituisce un obbligo per le persone che esercitano un determinato ufficio o professione, per modo che le persone medesime non solo debbono risiedere nelle località nelle quali esercitano l'ufficio o la professione, ma non se ne possono allontanare senza uno speciale permesso e senza l'osservanza di speciali norme, la cui violazione importa l'applicazione di determinate sanzioni disciplinari. Le norme, che disciplinano l'obbligo della residenza, sono contenute nelle leggi che disciplinano l'esercizio delle funzioni e degli impieghi pubblici e delle singole professioni; in particolar modo, nella legge sullo stato giuridico degl'impiegati delle amministrazioni dello stato (articoli 95, 105, 106 legge 30 dicembre 1923, n. 2960) e nel testo unico delle disposizioni sull'ordinamento degli uffici giudiziarî e del personale della magistratura (art. 14 del testo unico approvato con il r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2786).
Bibl.: Oltre ai trattati generali, richiamati in R. de Ruggiero, Istituzioni di dir. civile, 7ª ed., Messina 1934, I, p. 372, cfr. F. Carnelutti, Note critiche intorno ai concetti di domicilio, residenza e dimora, in Arch. giurid., 1905, p. 393 segg. (ora in Studi di dir. civile, Roma 1916, p. 3 segg.); G. Brunetti, Domicilio civile, residenza e dimora, in Filangieri, 1912, p. 482; M. Battista, Del domicilio e della residenza, in Trattato del dir. civ. it., diretto da P. Fiore, Napoli 1914; C. L. Bähr, Wohnsitzrecht und Heimatsrecht, in Jhering's Jarhbücher f. d. Dogm., XXI, p. 343 segg.
Diritto canonico. - Ogni beneficiato ecclesiastico è tenuto a risiedere abitualmente nel luogo del beneficio, perché deve personalmente disimpegnare gli obblighi del suo carico, essendo stato scelto a quel posto per le sue qualità personali. L'obbligo di residenza riguarda soprattutto i benefizi curati, cioè con cura di anime; per i benefizî semplici è meno rigoroso, potendo il titolare farsi sostituire da altri, se una legge particolare o le tavole di fondazione non dispongano diversamente.
Di quest'obbligo si fa già menzione nel concilio di Nicea; esso fu in tutti i tempi ripetutamente inculcato dai concilî e dai papi; non mancarono però gravi negligenze, dovute soprattutto alla cumulazione dei benefici e alla dimora dei vescovi nelle corti reali. L'odierna legge ecclesiastica obbliga i vescovi a risiedere nel territorio della loro diocesi, e in alcuni tempi dell'anno vicino alla cattedrale; e permette loro un'assenza annua non superiore a tre mesi. I parroci devono abitare nella parrocchia e possibilmente in una casa vicina alla chiesa parrocchiale. È loro concessa un'assenza di due mesi; ma per ogni assenza superiore a una settimana devono ottenere il consenso del vescovo e lasciare in loro luogo un vicario. L'assenza illegittima priva il beneficiato del diritto pro rata parte ai redditi del benefizio; in caso di recidiva egli può essere privato dello stesso officio.