RESISTENZA
. L'accezione specifica del termine si ricollega comunemente ai clandestini Cahiers de la résistance, ma in realtà ha precedenti sia in francese, sia in italiano. Con esso s'intendono tutti quei movimenti di opposizione, attiva o passiva, armata o non, sorti e sviluppatisi durante la seconda Guerra mondiale nei paesi occupati dai Tedeschi e loro alleati, contro gli occupanti stessi e contro quella parte dei poteri politici del paese, che accettò di collaborare con essi. Fatto non nuovo nella storia delle guerre e delle oppressioni, ma che trae la sua inconfondibile novità dal carattere proprio della seconda Guerra mondiale, che fu non solamente conflitto di stati per opposizione d'interessi politici ed economici, ma anche conflitto ideologico in difesa della libertà e di alcuni diritti fondamentali della personalità umana, di convinzioni morali, politiche, sociali; conflitto tanto più grave in quanto operante non solo fra gli stati contendenti ma nel seno di alcuni fra quegli stessi popoli clhe pure si trovarono a combattere in opposte trincee. Si aggiunga la mai prima sperimentata violenza brutale dei mezzi tecnici di guerra messi in campo; la totalità spaziale e "intensiva" del conflitto stesso, che, in un modo o in un altro, coinvolse tutta la popolazione civile; alcune sue caratteristiche tattico-strategiche, anche in relazione ai nuovi mezzi di guerra.
Guerra e guerriglia nella seconda Guerra mondiale. - La guerriglia, concepita come azione di volontarî che alle spalle del nemico ne disturbano le comunicazioni, con continue sorprese contro presidî isolati ne rendono difficile la vita, in vario modo forniscono informazioni alle forze regolari, ebbe un'impreveduta applicazione durante la seconda Guerra mondiale.
Furono i Tedeschi, con il perfetto impiego delle loro "quinte colonne" accuratamente preparate all'azione fin dal tempo di pace, con l'uso di speciali reparti dell'esercito regolare aviolanciati alle spalle del nemico, a fornire per primi l'esempio dei metodi di una moderna guerriglia, non lasciata all'iniziativa di singoli "patrioti", ma accuratamente predisposta e diretta dal comando centrale. D'altra parte la condotta eminentemente offensiva della guerra sul piano strategico, impose sul piano tattico un atteggiamento difensivo. Le conquiste dei Tedeschi in Europa, dei Giapponesi in Asia furono così vaste e rapide da rendere impossibile l'occupazione "totale" di un territorio, limitandosi spesso l'occupazione, specie in Russia, in Iugoslavia, in Asia, ai punti-chiave. Questo creò il presupposto materiale dello sviluppo della guerriglia.
La Resistenza. - Ma a considerare da vicino lo sviluppo preso nei varî paesi dai movimenti di Resistenza, appare chiaramente che essi sono profondamente diversi tra loro, se non del tutto sul piano tecnico militare, per quel che riguarda i motivi che li determinarono, e che vanno ricollegati appunto all'essenza ideologica della guerra, in quanto la guerriglia tanto più assume forme e sostanza di "resistenza" quanto più è presente, nei singoli paesi, un elemento interno di divisione sul piano ideologico.
Non esiste paese occupato durante la guerra nel quale la Resistenza non sia stata in qualche modo attuata (vedi belgio; cecoslovacchia; danimarca; francia; grecia; iugoslavia; norvegia; olanda; polonia, in questa Appendice). Ma, in alcuni casi, essa non si discostò dal piano di una patriottica rivolta di popolo contro lo straniero prepotente invasore ("la résistance, c'est le sursaut de tout un peuple qui s'est réfugié dans le maquis du refus d'obéissance à Hitler", ha scritto uno storico comunisteggiante della Resistenza belga), rivolta che, quando le circostanze soprattutto ambientali lo permisero, si trasferì sul terreno di una vera e propria guerriglia (e questo è il caso delle bande abissine operanti con l'appoggio inglese ai danni delle forze italiane di occupazione in A. O. nel 1940-41); in altri essa assunse, in relazione alla situazione interna del paese, l'aspetto e l'asprezza della guerra civile.
Russia. - In Russia la Resistenza fu attuata soprattutto come opposizione armata a un esercito straniero - nella coscienza popolare particolarmente odiato più che per ragioni ideologiche per la brutalità stessa da esso spiegata (si pensi al ben diverso atteggiamento dei Russi verso i Tedeschi e verso gl'Italiani) - in difesa della patria russa invasa. Essa quindi non si discosta essenzialmente dal piano della guerriglia tradizionale se non per l'entità dei mezzi di guerra impiegati, per la "tattica" stessa con cui fu attuata, in relazione con i piani militari di guerra propriamente detti. In Russia infatti il sistema della "terra bruciata" messo in atto rigorosamente nelle cose e negli uomini, non rendeva necessaria, e forse nemmeno possibile, un'attività di sabotaggio come quella dei gappisti italiani. D'altra parte, la stessa condotta strategica tedesca della guerra rese possibile ai Russi di condurre alle spalle dei Tedeschi una vera e propria "guerra", fondata più che sull'azione spicciola di piccoli reparti, sull'azione di vaste e ben organizzate formazioni di guerriglieri, perfettamente collegate con i comandi centrali.
Olanda. - Un carattere tutto particolare assunse la Resistenza in Olanda dove, se l'opposizione ai Tedeschi fu, come in Russia, condotta sul piano esclusivamente patriottico di reazione all'invasore, le stesse condizioni ambientali (terreno piatto, pressoché privo di boschi, densamente abitato e con numerosissimi centri urbani) resero praticamente impossibile la guerriglia ma, per l'alta coscienza civile e patriottica olandese, diedero vita, soprattutto per opera di Johan Aalderich Stijkel (fucilato dai Tedeschi nel giugno 1943) e di Koos Vorrink, ad una vastissima attività di sabotaggio, di spionaggio a favore degl'Inglesi, di assistenza agli Ebrei, di scioperi; soprattutto ad una disperata resistenza passiva.
Francia. - Della Resistenza francese si parla alla voce francia (in questa App., I, pp. 981-982). Ma va rilevato che essa si esprime soprattutto nell'insurrezione militare degaullista, al di fuori della Francia; mentre all'interno un insieme di cause e un complesso d'interessi abbastanza bene identificabili (v. luogo citato, p. 979) e soprattutto la maggior distinzione, rispetto, per es., all'Italia, delle varie classi sociali, se impedirono da una parte un chiaro punto d'intesa nella lotta contro l'invasore, favorirono dall'altra, anche per la mancanza di una diretta esperienza del fatto "fascismo" (il che favoriva il mito di un governo autoritario che avrebbe potuto "accomodar tutto"), l'indubbio orientamento di una larga parte dell'opinione pubblica francese in senso favorevole, se non all'occupazione tedesca, alla collaborazione e al governo di Vichy. Mancò in altri termini tra i fautori di questo e i "dissidenti" (ché di "dissidenza" è meglio parlare, più che di "resistenza", almeno fino a tutto il 1941) quel profondo contrasto ideologico e morale che, polarizzando le posizioni in antitesi irreducibile, è alla base della Resistenza italiana. Per conseguenza anche quando, dopo la relève voluta da Laval nel 1942, le sparse forze interne della resistenza francese (FFI = Forces Françaises de l'Intérieur) trovarono una ragione di unione (realizzata solo nel marzo del 1943), la lotta non assume mai l'asprezza e l'intensità di una guerra civile. Anche dal punto di vista tecnico-militare, le forze dei maquis non si presentarono che come piccoli gruppi (più vicini ai GAP che alle brigate partigiane italiane), leggeri nei movimenti, di persone normalmente intente alle loro abituali occupazioni, pronti ad entrare in azione solo in concomitanza dei previsti sbarchi militari alleati. Ma non si ebbe il proposito di un'azione militare continua, condotta da formazioni notevoli, attrezzate e organizzate come un esercito in guerra. Ciò non vuol naturalmente dire che nella storia della Resistenza francese manchino pagine gloriose.
Iugoslavia. - Ben diversa la situazione in Iugoslavia, dove l'intensità della lotta (v. iugoslavia, in questa App., II, pp. 129-130) deve essere messa in relazione, da un punto di vista militare, alle particolarissime circostanze in cui avvenne il crollo, che lasciò pressoché intatto nelle mani del popolo l'armamento dell'esercito regio; alla configurazione geografica del paese, singolarmente adatto alla guerriglia; alle caratteristiche dell'occupazione militare tedesca e italiana, limitata ai centri principali e alle vie di comunicazione. D'altra parte, quell'intensità va spiegata anche coi repressi secolari odî di nazionalità e di religione (Croati cattolici contro Serbi ortodossi) lotta civile cui si aggiunse, meglio, in un certo senso, s'intersecò, cronologicamente accompagnandolo, un altro contrasto meno "nazionale" ma più squisitamente "politico" e sociale, fra i cetnici di Mihajlovič, portato a vedere i fini della Resistenza come restaurazione della monarchia dei Karagjorgjevič, in una Iugoslavia molto simile all'antica, e i partigiani di Tito che investivano con la loro critica tutta la struttura sociale e amministrativa del vecchio stato. Proprio su questo terreno di un contrasto politico e sociale finisce per polarizzarsi la lotta intestina, con fatali alleanze fra "conservatori" e occupanti, logicamente uniti contro un unico più temuto nemico. La Resistenza però, dalla costituzione (26 novembre 1942) a Bihač (Bosnia) dell'AVNOJ (Anti-Fasisticko Vece Narodnog Oslobodjenia Jugoslavije), con programma "progressista" ma non comunista, alla proclamazione (29 novembre 1945) della Repubblica federale popolare iugoslava, riuscì a raggiungere tutti i suoi obiettivi politici e sociali. Questo fondersi, nella Resistenza iugoslava, di motivi patriottici e nazionali e di profonde istanze di rinnovamento sociale, dà la caratteristica al movimento: è ciò che avvicina - pur con notevolissime differenze date dall'unità etnica italiana di fronte al contrasto di nazionalità in Iugoslavia - la Resistenza iugoslava a quella italiana.
La Resistenza italiana. - Guerra e Resistenza. - Mentre negli altri paesi lo scoppio delle ostilità provocò un istintivo moto di unione che portò i cittadini a far corpo, al di sopra di ogni possibile dissenso, nel sentimento di un pericolo e di un dovere comune, in Italia l'inizio della guerra - date le condizioni in cui esso avvenne - determinò in molti una spontanea reazione negativa che divise, fin dal 10 giugno 1940, il corpo del popolo italiano.
Reazione che fu in un primo tempo rivolta morale di coloro che consideravano il fatto più che come imperdonabile errore politico e militare, come ingiustificata aggressione e quindi violazione brutale di elementari leggi umane e spirituali. Ma che non poteva tardare ad essere anche rivolta più specificamente "politica" e tradursi quindi in azione concreta, sia perché quella guerra costringeva - a giudizio di Giaime Pintor - a prender atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciavano ogni vita individuale, e doveva mostrare come non ci fosse più possibilità di salvezza nell'isolamento; sia perché questa reazione doveva per forza di cose avvicinare coloro che sentivano questo problema come problema morale ai rappresentanti dell'antifascismo militante.
"Al principio - ha scritto B. Croce - che quando si ode il primo colpo di cannone, un popolo deve far tacere tutti i suoi contrasti e fondersi in un'unica volontà per la difesa e la vittoria della patria... noi riluttavamo ad obbedire e la riluttanza era di una voce interiore, di un senso li verità che ci faceva avvertire che l'osservanza dell'antica massima sarebbe stata, questa volta, un impossibile sforzo, una brutta ipocrisia... la guerra non era una guerra tra popoli, ma una guerra civile... una guerra di religione, e per la nostra religione, che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo al penoso distacco dalla brama di una vittoria italiana". Fu, prima, una resistenza passiva: quella di chi spera contro speranza per un proprio sentimento di giustizia più forte di ogni evidenza.
Unità d'azione politica. - Ma molti passarono presto alla pratica azione. E fu la guerra stessa che, rivelando ben presto il suo vero volto ai più, le creò contro il fronte comune di tutti. Mentre l'estendersi del disagio a tutte le classi provocava un diffuso senso di ribellione nei civili e gl'insuccessi a catena avevano tolta ogni fiducia, in chi l'avesse avuta, nella vittoria; mentre i soldati "subivano più direttamente il deprimente spettacolo della nostra impreparazione, attraverso il continuo, doloroso confronto degli alleati e dei nemici" (R. Cadorna), i partiti politici, specialmente il partito comunista, che nel corso del ventennio non aveva mai sospesa una attività sia pure clandestina e limitata, non potevano non guardare alla possibilità che la guerra potesse trasformarsi in una via alla realizzazione del loro programma. La guerra di Spagna - anche in questa "prova generale" della seconda Guerra mondiale - aveva data la possibilità, attraverso un conflitto armato in cui si traduceva per la prima volta il contrasto ideologico, di affrontare finalmente a viso aperto l'avversario. Soprattutto era stata la convalida - nonostante la riluttanza delle forze cattoliche ad un'alleanza col comunismo - della opportunità di unione fra tutti i partiti antifascisti nell'azione contro il comune nemico. D'altra parte le nuove forze politiche espresse dai gruppi di Giustizia e Libertà, dalle correnti liberalsocialiste, che dovevano poi dare vita al Partito d'azione, avevano avuto il merito di rompere la passività di gran parte del mondo culturale italiano, di spezzare il diaframma che divideva la borghesia dalla classe operaia, di far superare a quella, sul terreno della lotta, le sue pregiudiziali anticomuniste.
Già nell'ottobre 1941 si costituì a Tolosa fra rappresentanti comunisti, socialisti, G. L., un "Comitato d'azione per l'unione del popolo italiano" che formulò un "appello" agl'Italiani impostato su questi punti: "denuncia del patto di alleanza con la Germania; pace separata immediata con i paesi attaccati dal fascismo; ritiro delle truppe italiane di combattimento e di occupazione; libertà di stampa, di associazione, di parola; restituzione al popolo italiano della sovrana prerogativa di darsi il governo che risponda alla sua volontà e ai suoi interessi". Nell'ottobre-novembre 1942 si costituiva a Torino un primo "Comitato di fronte nazionale", nel quale per la prima volta, accanto ai rappresentanti dei partiti suddetti, sedettero i rappresentanti democristiani. Anche se in questa e in altre iniziative del genere che andavano sorgendo in Italia all'unità formale non corrispondeva sempre una reale unità d'intenti e di programmi, la guerra aveva finalmente alleate le correnti cattoliche e marxiste sullo stesso piano di lotta contro il fascismo.
Il primo atto di resistenza attiva doveva venire dagli operai. Il 20 febbraio 1943 il Partito comunista disponeva che l'operaio Leo Lanfranco (che poi Badoglio fece arrestare in agosto e i Tedeschi fucilarono nel 1945 come comandante di una divisione partigiana "Garibaldi") organizzasse lo sciopero nello stabilimento della Fiat-Mirafiori a Torino. Il movimento s'iniziò il 15 marzo e si diffuse ben prosto a Milano e in tutti i centri principali del Piemonte, della Lombardia, dell'Emilia, della Liguria, del Veneto. Quale che sia stata l'entità del movimento, è certo che esso - primo del genere nell'Europa oppressa dal nazismo - fu anche il primo colpo collettivo inferto all'organizzazione statale fascista dopo 20 anni di predominante conformismo ed acquiescenza. È impossibile infatti - e non solo per la precisa volontà degli organizzatori - negare il suo carattere anche politico, pur se fu accettato e seguito per un'evidente complessità di motivi.
L'8 settembre 1943. - Ma più che all'indomani del 25 luglio, il quale fu, nel pensiero di P. Calamandrei, "tipicamente, nel suo visibile procedimento costituzionale, un tentativo di colpo di stato a scopo di restaurazione dinastica", mentre da alcuni si è in esso voluto vedere il proposito della monarchia di togliere all'iniziativa dei partiti politici di sinistra l'ulteriore determinarsi della situazione (una "controrivoluzione preventiva", scrive M. Delle Piane), la Resistenza nacque l'8 settembre, come spontaneo moto di popolo, senza distinzione di classi sociali, di partiti politici.
Caratteristica non di minor rilievo del fascismo, come di ogni regime totalitario, è stata quella - di carattere non strettamente e direttamente politico, ma soprattutto morale - di aver tolto, o preteso di togliere all'uomo, in quanto essere libero, il senso della sua individuale responsabilità nel giudizio e nell'azione; non lasciando alcuna possibilità ai migliori di contribuire con la propria azione individuale al bene proprio e di tutti. Si aggiungano la passività alla quale erano state educate le alte gerarchie dell'esercito, la loro disabitudine a fronteggiare responsabilmente gli avvenimenti; lo sbandamento seguìto all'abbandono della capitale da parte del re e delle alte cariche militari. Di fronte alla calcolata, metodica, perfettamente studiata e meglio attuata reazione tedesca, mancata l'ispirazione, il suggerimento che venisse dall'alto, "tutta la vita, amministrativa, politica, militare del paese immediatamente si afflosciò e precipitò a terra" (C. Barbagallo). Il popolo italiano si sentì solo nel vuoto categorico di ogni ordinamento, di ogni legge che non fosse la brutale prepotenza di un esercito invasore. E la legge di cui sentiva l'esigenza, il popolo italiano si diede attraverso la Resistenza, che fu la grande forza morale cui esso attinse i mezzi di una lotta senza quartiere, condotta in disciplinata consapevolezza d'azione; attraverso sofferenze mai prima sperimentate nella sua storia, esso pose nuovamente sé stesso, individualmente e collettivamente, come elemento determinante del proprio destino.
L'abbandono della capitale pose il presupposto morale della Resistenza. Grande errore commisero d'altra parte i Tedeschi promovendo la costituzione della Repubblica sociale fascista, con ciò acuendo fino all'esasperazione gli elementi di contrasto interno già presenti nell'anima italiana fin dallo scoppio della guerra, in una antitesi inconciliabile che doveva dare alla Resistenza le forme, le asprezze, le crudeltà della guerra civile.
Aspetto nazionale e popolare della Resistenza. - La Resistenza, come fatto, nacque a Roma fra il 9 e il 10 settembre.
Mentre gli ultimi reparti dell'esercito regolare, dopo essersi eroicamente battuti col vuoto alle spalle di un'autorità, che anziché coordinarne l'azione ne trattava la resa, si ritiravano nella città dalla via Ostiense, a Porta San Paolo un nucleo di popolani, affiancati da elementi della borghesia intellettuale, compiva un estremo generoso tentativo di difesa della città, altrettanto inefficiente militarmente quanto moralmente significativo. Il 10 settembre, combattendo contro i Tedeschi, presso la piramide di Caio Cestio, cadde, prima vittima della Resistenza e prima medaglia d'oro della guerra di liberazione, Raffaele Persichetti (P. d'A.), professore in un liceo di Roma. Due settimane dopo, alle ore 14 del 28 settembre, Napoli - disarmata, affamata, dopo mesi di privazioni e disagi inauditi, dopo circa 120 bombardamenti angloamericani, uno dei quali dopo la firma dell'armistizio - soprattutto in risposta al bando di reclutamento per il lavoro obbligatorio (150 presentati su 30.000 precettati), insorse contro i Tedeschi per moto spontaneo di popolo, armato in maniera "davvero avventurosa", senza alcun premeditato e coordinato piano d'azione, dando vita, durante 4 giorni di lotta, a un episodio fra "i più degni di ricordo della nostra storia nazionale, che merita di essere posto a fianco delle giornate milanesi del marzo 1848 con le quali ha analogia impressionante" (C. Barbagallo). Poco più che un migliaio di combattenti (che ebbero circa 300 morti) appartenenti a tutte le classi sociali, "politicamente indifferenziati" (L. Longo), affiancati da buon numero di militari (quasi tutti ufficiali inferiori), in concordia di metodi e di manifestazioni, riuscirono a imporre la capitolazione al presidio tedesco: primo caso di capitolazione dell'esercito più rigidamente militarista del mondo di fronte a combattenti civili. Quando alle ore 11 del 1° ottobre entrarono a Napoli i primi reparti alleati, trovarono la città completamente liberata; e se ciò disse a tutti gli Italiani che l'esempio di Napoli poteva e doveva essere, come sarà, imitato, disse ai Tedeschi che oramai l'Italia era per loro terra nemica, disposta a contrapporre violenza a violenza, ad accettare la guerra e a farla. Lo stesso Churchill, parlando alla Camera dei Comuni il 21 settembre 1943, sottolineava il contegno "avverso e apertamente ostile" ai Tedeschi della popolazione italiana e affermava come "i combattimenti che in più luoghi erano scoppiati tra Italiani e Tedeschi invasori, non lasciavano assolutamente dubbio da che parte fossero le simpatie e le speranze e gli sforzi della nazione italiana". La dichiarazione formale di guerra alla Germania (13 ottobre) non fu nulla più che una sanzione giuridica di una lotta che già il popolo aveva intrapreso senza attendere l'ordine.
Con ciò la Resistenza si presentò fin dal primo nascere come un moto a carattere propriamente nazionale, in quanto trovò alimento in un comune sentimento antitedesco che si riallacciava alle tradizioni del Risorgimento e della prima Guerra mondiale; popolare, in quanto essa reclutò o coinvolse ogni categoria di cittadini - dal clero all'esercito, dalla borghesia alla nobiltà, dal proletariato cittadino a quello di campagna - con notevolissimo intervento proprio di quelle categorie operaie, che venivano così per la prima volta a partecipare in misura larga ed organica alla storia nazionale.
A questo proposito hanno particolare interesse e importanza indicativa (pur nella loro limitazione), e meritano pertanto di esser qui riferiti per inciso, i dati parziali riferiti da R. Battaglia a conclusione di una sua indagine sulla composizione percentuale, per categoria sociale e per età, degli aderenti "attivisti" (i partigiani) alla Resistenza in Piemonte. Essi si concretano nelle seguenti cifre: benestanti, 5,60%; ceti medî, 29,89%; contadini, 20,39%; artigiani 13,62%; operai 30,50%. Quanto all'età, gli appartenenti alle classi 1920-25 (soggetti quindi ad obblighi di leva) furono il 46,3%; quelli delle classi 1910-19 e 1926-27 (richiamati per il servizio del lavoro) il 40,8%; quelli di altre classi, il 12,9%.
Infine, la Resistenza nasceva unitaria, attraverso quel moto lento di avvicinamento, cui si è già accennato, delle varie correnti politiche se non altro sul terreno di una azione comune; aveva carattere d'illegalità non tanto e non solamente perché si svolgeva e si attuava in territorio controllato dai Tedeschi, contro di essi e i quisling fascisti, ma soprattutto perché - per molti riguardi -essa era nata, se non contro, almeno al di fuori degli stessi organi rappresentativi dello stato legale. Essa infine non può essere limitata e ristretta a quella che pure ne rappresentò sicuramente l'aspetto più concreto e determinante - la guerra partigiana e l'attività politica dei CLN - ma si estende a tutta quella parte della nazione italiana, ed è stata la stragrande maggioranza, che, parteggiando, ha resistito.
Così l'umile popolo dei pastori e dei contadini italiani che, non tanto per considerazioni politiche ma per il suo "grande indifferenziato senso omerico del sacro diritto dell'ospite, che ha le cose contro di sé e che deve essere protetto.... ha dato allora al mondo" accogliendo e aiutando centinaia di prigionieri alleati evasi dopo l'8 settembre "una prova di civiltà che non dovrebbe essere dimenticata" (G. Calogero); così i quasi due milioni di Romani che, affamati dai Tedeschi e dall'assedio aereo angloamericano, hanno dato esempio forse unico di consapevole composta Resistenza passiva (quando non fu attiva) in uno slancio fervido di soccorso (oltre 200.000 persone, tra patrioti, ex-prigionieri di guerra, rifugiati politici e disertori dall'esercito fascista furono nascosti e aiutati dalla popolazione romana). E come a Roma, in ogni grande città, in un flusso generoso di iniziative in cui ognuno si diede o accettò un compito, dal più umile all'altissimo, ognuno si sentì vincolato agli altri in un sentimento di responsabile solidarietà. Le donne d'Italia: partigiane, staffette, sappiste e gappiste; arrestate, torturate, condannate dai tribunali fascisti; deportate in Germania, fucilate o cadute in combattimento, organizzate nei "Gruppi di difesa". Talvolta e per molti "resistere" era solamente la forza e la volontà di "saper sopportare" una vita ansiosa e logorante, di contare i giorni, di trovare qualche mezzo di vita, per sé e per gli altri, a prezzo dei più incredibili sotterfugi, sfidando rischi inadeguati all'umana miseria di una così universale necessità. Resistente il clero, sia i vescovi instancabili nel soccorrere i perseguitati, sia l'umile basso clero delle campagne, i curati dei paesi, gli eroici cappellani delle formazioni partigiane, frati e preti delle città.
E la Resistenza, nei suoi valori umani e nazionali, ha unito in un vincolo stretto gl'Italiani a quelli che la guerra aveva trascinato fuori dei confini: accanto ai partigiani combattenti nelle brigate garibaldine di Tito (v. iugoslavia), resistenti furono i 300.000 operai italiani che lavoravano in Germania e che invano, dal 25 luglio, chiedevano di poter tornare in patria ed erano trattenuti in ostaggio. E, più, i 640.000 militari italiani caduti in mano tedesca dopo l'8 settembre e internati nei campi di concentramento: isolati in zone che vietavano ogni possibilità di fuga, in condizioni di vita inenarrabili, nemmeno protetti dalle leggi internazionali che regolano la prigionia di guerra, sottoposti ad angherie di ogni genere, al freddo, alla fame, alle malattie (35.000 morti): seppero resistere alle minacce e alle lusinghe, all'allettante prospettiva di un ritorno in patria, alla famiglia, ad una vita comunque civile pur di non dar credito - attraverso un atto di adesione che, anche quando ci fu, fu assai spesso solo formale - al regime neofascista.
Solo l'1,03% degli internati (nemmeno 10.000 uomini) accettò di firmare l'impegno di fedeltà "all'idea repubblicana dell'Italia repubblicana fascista". Solo 32.000 uomini (appena il 5%) aderirono all'invito per il lavoro volontario. E quando furono costretti al lavoro obbligatorio, ben 160.000 di essi si opposero anche a questo. Nel motivare il suo rifiuto a nome di tutti gli ufficiali del campo, il colonnello Guzzinati, ufficiale anziano del campo di Fallingbostel, il 21 febbraio 1945, faceva presente per iscritto al comandante tedesco del campo che era irrilevante l'invito rivolto da Mussolini agl'internati, invito "che non riguarda e non può riguardare gli ufficiali italiani del campo, in quanto che detti ufficiali si trovano nel campo di concentramento perché non hanno riconosciuto, non possono e non vogliono riconoscere il governo di Mussolini"; e ricordava "che il codice penale militare italiano prevede come reato, punibile anche con la pena di morte, qualsiasi collaborazione col nemico".
Aspetti politici della Resistenza. - La Resistenza può essere vista "su un piano autobiografico, o locale o didascalico" come "una serie di fatti già immobili nel tempo", con l'ovvia conseguenza di dare di essa una rappresentazione non troppo dissimile da quelle tradizionali e scolastiche del nostro Risorgimento, o, al più, definita come "una bella pagina morale e militare della nostra storia", oppure, con riferimento a più intime e profonde esigenze, all'ambiente "nazionale e internazionale in cui si è mossa", prospettata "come un intreccio di processi storici le cui conclusioni sono ben lontane dall'essere definite". Vale a dire che tra i resistenti c'erano coloro che vedevano il fascismo come un male contingente, un fatto incidentale, inseritosi a forza, per determinate circostanze, nella vita politica italiana e che una volta estirpato come un "bubbone" maligno, "non tornerà mai più" (B. Croce); e dall'altra coloro che lo consideravano come "il portato naturale del modo stesso con cui si è costituita la nostra nazione, delle insufficienze non solo momentanee dell'altro dopoguerra, ma delle insufficienze storiche del suo regime" (R. Battaglia), come una inidoneità, affermata caratteristica della classe politica italiana prefascista, "ad accogliere l'aspirazione di una nuova e maggiore giustizia e il diritto di ceti più vasti e popolari a partecipare alla cosa pubblica" (M. Delle Piane). Ma tra questi ultimi, mentre gli uni volevano fare tabula rasa del passato, gli altri volevano ricollegarvisi "inserendovi, sulla base dell'idea cristiana dall'antico liberalismo osteggiata o trascurata, un nuovo lievito di vita". Su questo contrasto, in sostanza, s'intesse e si esprime la storia degli organismi politici espressi dalla Resistenza e che di essa ebbero la guida, in Italia, in tutte le sue forme: i Comitati di liberazione nazionale. Senza ripetere ciò che è detto altrove (v. comitato di liberazione nazionale, in questa App., I, pp. 652-653), si ricorda qui che essi trovarono il loro fondamento su un comune programma di lotta al fascismo e ai Tedeschi ma anche "di rinnovamento profondo della struttura politica, amministrativa, economica, sociale della nazione"; che si posero come organismi "voluti vitali, oltre il momento della lotta, nuclei antifascisti e generatori di una nuova cosntuzione statale". Nel citato articolo si accenna al fatto che i CLN, partiti con un programma rivoluzionario, soprattutto per l'impulso dei partiti di sinistra (e, si precisa qui, in primo luogo del Partito d'azione e del Partito comunista) ripiegarono poi sopra una soluzione di compromesso; come, infine, quando, con l'elezione dell'Assemblea costituente, essi si sciolsero, "erano già morti nella realtà politica". Si cercherà di specificare qui alcune delle situazioni che sembrano potersi identificare come causa di questo processo storico.
La guerra partigiana nacque, fin dai suoi primi atti, come l'incontro degli antifascisti che avevano osteggiato la guerra, in consapevolezza di azione politica, e i rappresentanti dell'esercito che la guerra fascista, nella grande maggioranza dei casi, avevano combattuta e combattuta bene, in relazione ai mezzi a disposizione, e che erano tuttora animati - trovavano anzi in questo la spinta ideale all'azione, veduta e sentita su base esclusivamente nazionalpatriottica - da un profondo sentimento di fedeltà al giuramento da essi prestato al re. Questi era tuttora per essi espressione dello stato, dell'unico stato legale anzi, di cui si consideravano, in certo modo, i rappresentanti nel territorio occupato dallo straniero invasore e dai "traditori fascisti", che disubbidivano al governo legittimo.
D'altra parte, gli elementi che all'inizio affluirono "in montagna" erano eterogenei. Accanto a una minoranza animata da un sincero ideale, che spesso non era peraltro che entusiastica reazione morale alla prepotenza del tradizionale nemico tedesco, erano elementi privi di una chiara, e persino di qualsiasi posizione politica: soldati sbandati che, non potendo raggiungere le loro case, si davano alla macchia con un sentimento che spesso non andava oltre la violenta reazione verso i capi militari, da cui si ritenevano "traditi"; giovani animati, di fronte ai fatti del settembre, dalla sensazione di un mondo in rovina "che bisogna far crollare fino in fondo per riemergere alla vita"; altri andati in montagna solo per sfuggire ai Tedeschi e ai fascisti, cioè per salvarsi da un pericolo momentaneo nella speranza di una rapida fine della guerra; elementi che calcolatamente giudicavano l'azione partigiana come premessa e titolo indispensabile a posizioni future. Ma questa stessa eterogeneità qualitativa e complessità di motivi diedero la possibilità ai partiti di sinistra d'iniziare, proprio sul terreno politico, una vasta azione di persuasione, per aiutare gli sbandati a riscoprire quelli che essi consideravano come i fondamenti ideali della lotta, dare al movimento un lievito morale e spirituale conforme ai propri ideali con chiari intendimenti politici e sociali nel senso propugnato da essi e che si compendiavano in due parole: "rivoluzione democratica". Opportunità e attività, queste, che si fecero più vive e intense quando, per gli sviluppi della situazione - soprattutto all'inizio dell'estate 1944 - affluirono in montagna i rappresentanti di categorie sempre più differenziate e socialmente identificabili e coscienti: operai minacciati dalla deportazione in Germania o rimasti disoccupati per i bombardamenti e la chiusura di alcune fabbriche; contadini indotti a questo passo dalla leva fascista o dalle rappresaglie per l'accusa di mancato conferimento dei prodotti agricoli agli ammassi; impiegati e rappresentanti della piccola borghesia che intendevano così sottrarsi all'obbligo di servire la repubblica di Salò. Davano inoltre senso e fondamento all'attività politica delle bande la stessa crudeltà delle repressioni nazifasciste, e il fatto che, quando la guerra partigiana consentì alla Resistenza il controllo d'intere e vaste zone, con tutti i loro centri abitati, la popolazione stessa fu chiamata a partecipare all'attività politica, attraverso istituti, forme di vita e di organizzazione democratica che, fatti cadere in disuso dal fascismo, erano praticamente sconosciuti alla grande maggioranza del popolo italiano.
Sono eloquente testimonianza di questa attività della Resistenza i documenti sulla Costituzione ed attività degli organi del potere democratico nelle zone liberate pubblicati (Roma 1946) dall'Ufficio storico della Presidenza del Consiglio per la guerra di liberazione; documenti della propaganda intesa a dare una più sentita coscienza politica ai combattenti partigiani, innumerevoli articoli pubblicati nei giornali delle formazioni (uno fra i molti quello dal titolo Guerra di rivoluzione, in Giustizia e Libertà. Notiziario dei patrioti delle Alpi Cozie, anno I, n. 13, settembre 1944).
In una circolare (fine marzo 1944) del commissario politico G. L. del 2° settore del Cuneese era detto: "fissare bene in testa ai partigiani: 1) che essi sono soldati di un esercito nuovo e rivoluzionario.... che non si identifica..... al vecchio esercito regio; 2) che..... il CLN è il vero ed autentico governo nazionale dell'Italia invasa e solo da questo governo e non dal governo Badoglio le formazioni partigiane possono ricevere ordini e direttive; 3) che i soldati di questo esercito non sono solamente i campioni di un generico patriottismo, che mirano semplicemente a "cacciare lo straniero dal sacro suolo della patria", quanto piuttosto il braccio armato e l'avanguardia risoluta di un moto di rinnovamento, di un processo rivoluzionario, che investe tutta la struttura politica e sociale del paese".
Di fronte a questa impostazione politica, in senso rivoluzionario, della guerra partigiana, e a quella, pure politica, ma in senso solamente riformista, della Democrazia cristiana - pur partecipante attivamente al moto di liberazione -, v'era una impostazione puramente "militare", che trova la sua espressione non tanto nelle varie formazioni autonome e apolitiche del Nord - se non per il rifiuto, di queste, di porsi come "politiche" - quanto nell'attività dei comandi militari rimasti a contatto con lo stato maggiore di Brindisi e che, per riflettere interessi e direttive altrettanto nette, era essa stessa l'espressione di una posizione "politica", non fosse altro perché mirava a neutralizzare, se non ad eliminare, l'azione politica dei partiti di sinistra (cfr. la circolare del comando supremo n. 3333/op. del 10 dicembre 1943).
In questo quadro va posto il fallimento di un tentativo patrocinato a Napoli (settembre-ottobre 1943) da Benedetto Croce e dal generale Giuseppe Pavone, con il consenso delle autorità alleate tramite il generale americano Donovan, di organizzare un corpo di volontarî; fallimento attribuito dal Croce (lettera a W. Lippmann del 18 novembre 1943) all'attività palese e alle "manovre insidiose" del sovrano. In questo quadro va posta la missione al Nord del generale R. Cadorna (generale dell'esercito regolare, cioè regio, e insieme deciso e convinto antifascista e antinazista), comandante designato del Corpo volontarî della libertà. Il Cadorna si trovò in duro contrasto con gli esponenti del CLNAI sulla definizione delle sue attribuzioni, e soprattutto sulla natura da dare all'azione. Partito dall'Italia "liberata" l'11 agosto I944, solo il 28 febbraio 1945 poté raggiungere un accordo coi rappresentanti del CLNAI, attraverso discussioni e polemiche spesso aspre. Il Comitato tentava di svalutare l'investitura del governo Bonomi e di riservare al CLNAI la direzione politica e organizzativa dei Volontarî della libertà; il Cadorna si richiamava energicamente alle "chiare istruzioni verbali da parte del governo italiano, scritte da parte degli alleati, tendenti a militarizzare il movimento partigiano e a evitare che interferenze politiche nuocessero allo sviluppo della guerra partigiana". Si giunse, ciò nonostante, all'unificazione delle forze partigiane nel Corpo volontarî della libertà; si era alla vigilia dell'insurrezione, mentre sedeva a Roma, coi giorni contati, il secondo governo del Bonomi. E l'unificazione, seppure inefficiente realmente nell'ambito delle formazioni partigiane, ebbe importanza politica: "rappresentò il volto ufficiale della concordia" ha scritto un partigiano G. L. (G. Bocca), di una concordia che s'inscriveva in senso negativo alle affermate aspirazioni rivoluzionarie del CLNAI.
L'episodio Cadorna non va quindi separato dall'atteggiamento, nei riguardi della Resistenza, assunto dagli Alleati, dagli Inglesi soprattutto. Riferisce Ferruccio Parri: "il nostro movimento partigiano aveva preso sin dall'inizio un indirizzo che non era quello che gli Alleati desideravano. Essi richiedevano piuttosto la costituzione di nuclei di sabotatori specializzati", ma a parte il fatto, puramente tecnico, che "una guerriglia organizzata per il sabotaggio è la più difficile tecnicamente da mettere in piedi: è un punto di arrivo, non di partenza"; a prescindere dalla necessità, da parte della Resistenza, "di organizzare militarmente nuclei e masse crescenti di sbandati e di rivoltosi", la "difficoltà d'intonazione e d'intesa con gli alleati" stava nel fatto che "un grande e preminente scopo politico ci dominava: impiantare e avviare una guerra di liberazione e di riscatto, sorta dal popolo ed alimentata dal sangue del popolo: volevamo l'insurrezione". Proprio quell'insurrezione che gli alleati non volevano. Significativo, in questo senso, l'accordo firmato il 7 dicembre 1944 fra il generale Maitland Wilson, comandante supremo alleato, e i rappresentanti del CLNAI recatisi nell'Italia "liberata". L'accordo (vedi tavola) stabiliva:
1) Il comandante supremo alleato desidera che la più completa cooperazione militare sia stabilita e mantenuta fra gli elementi che svolgono attività nel movimento di Resistenza. Il CLNAI stabilirà e manterrà tale cooperazione in modo da riunire tutti gli elementi che svolgono attività nel movimento della Resistenza, sia che essi appartengano ai partiti antifascisti del CLNAI o ad altre organizzazioni antifasciste.
2) Durante il periodo di occupazione nemica il Comando generale dei volontarî della libertà (e cioè il comando militare del CLNAI) eseguirà per conto del CLNAI tutte le istruzioni date dal comandante in capo AAI, il quale agisce in nome del comandante supremo alleato. Il comandante supremo alleato desidera, in linea generale, che particolare cura sia dedicata a salvaguardare le risorse economiche del territorio contro i sabotaggi, le demolizioni e consimili depredazioni del nemico.
3) Il capo militare del comando generale dei Volontari della libertà (e cioè il comando militare del CLNAI) deve essere un ufficiale accetto al comandante in capo AAI, il quale agisce per conto del comandante supremo alleato.
4) Quando il nemico si ritirerà dal territorio da esso occupato, il CLNAI farà il massimo sforzo per mantenere la legge e l'ordine e per continuare a salvaguardare le risorse economiche del paese in attesa che venga istituito un Governo Militare Alleato. Subito, all'atto della creazione del Governo Militare Alleato, il CLNAI riconoscerà il Governo Militare Alleato e farà cessione a tale governo di ogni autorità e di tutti i poteri del governo locale e di amministrazione precedentemente assunti. Con la ritirata del nemico, tutti i componenti del comando generale dei Volontari della libertà nel territorio liberato passeranno alle dipendenze dirette del comandante in capo AAI ed eseguiranno qualunque ordine dato da lui o dal Governo Militare Alleato in suo nome, compresi gli ordini di scioglimento e di consegna delle armi, quando ciò venisse richiesto".
Questo accordo fu definito dall'esecutivo del Partito socialista del CLNAI, che per ragioni logistiche non aveva potuto inviare un suo rappresentante, "un accordo capestro" in quanto poneva ogni iniziativa del CLNAI e gli stessi sviluppi politici della Resistenza sotto il controllo del comando alleato e del Governo Militare Alleato (quando fosse stato stabilito nelle zone liberate), agente in base alla rigida osservanza delle clausole armistiziali sottoscritte, si noti, dal governo regio. Ma, osserva R. Cadorna: "a Roma non vi era altra alternativa e fu giuocoforza firmare".
Gli Alleati non si ritennero sicuri neanche dell'accordo firmato: gli avvenimenti di Atene del dicembre 1944, con l'insurrezione dell'EAM (v. grecia, in questa App., I, p. 1082) fecero loro temere un parallelo sviluppo della situazione politica nell'Italia Settentrionale. Certo è che, come afferma un Report on anti-scorch in Northern Italy 1944-45 della N. 1 Special Force britannica (l'organismo militare incaricato dei collegamenti con le forze della Resistenza), in data 4 febbraio 1945 le missioni britanniche di collegamento con le forze della Resistenza ebbero disposizioni di "scoraggiare l'indiscriminata espansione dell'armamento dei partigiani".
Si è giunti a spiegare con motivi politici, almeno con un'interferenza di questi su situazioni più strettamente strategiche, l'arresto dell'offensiva inglese sulla linea gotica; indubbio è che l'atteggiamento degli Alleati - fermi in un'incerta posizione di ostilità al re "fascista" (di cui vollero l'abdicazione), ma al tempo stesso legati a quel governo che appariva ad essi l'unico legale, come quello che aveva accettato la resa incondizionata ed era verso di essi garante dell'osservanza delle clausole armistiziali (discorso di Churchill ai Comuni, del 22 febbraio 1944) - ebbe la sua influenza nel determinare il mancato sviluppo del programma politico della Resistenza, quale era propugnato dai tre partiti di sinistra. E insieme con questo, il fatto che, sulle orme degli eserciti alleati, quella che fu definita "l'Italia del re" era proceduta passo a passo verso il Nord; riceveva così nuova forza la vecchia struttura legale dello stato che poteva sempre contare sull'appoggio di molta parte della stessa popolazione, sia di coloro che vedevano un motivo di ordine e di pace nella restaurazione dei tradizionali istituti parlamentari e amministrativi, sia di coloro che agognavano, dopo tanti disagi, ad una tranquilla vita pacifica, tutelata dalle autorità.
D'altra parte, proprio sul terreno del rinnovamento della struttura stessa dello stato, della sostituzione di una nuova classe politica dirigente ad una vecchia compromessa e giudicata corresponsabile della rovina d' Italia, i partiti politici antifascisti agenti al di là del Volturno, con la tregua istituzionale e la costituzione (17 aprile 1944) del terzo gabinetto Badoglio posero i presupposti di uno spirito di collaborazionismo e di patteggiamento che doveva tradursi in pratica nella premessa alla sconfitta del programma politico delle correnti di sinistra della Resistenza. Si rafforzavano le basi di quella continuità legale degl'istituti giuridici che pure da taluni si affermava di voler scalzare; si polarizzava il conflitto nel contrasto istituzionale monarchia-repubblica; si preparava l'evoluzione in senso riformista.
Le cose non mutarono con la liberazione di Roma e la costituzione dei due successivi ministeri CLN: di fronte ai quali, il CLNAI, mentre cercava di consolidare e rendere accettabili le nuove strutture democratiche dei CLN, per immetterle al momento della liberazione nel vecchio stato, svolgeva un'azione diplomatica (culminante nel riconoscimento del CLNAI quale rappresentante del governo nell'Italia occupata), che era per forza di cose un'attività di compromesso.
La polemica sull'"attendismo", svoltasi nell'ambiente del CLNAI, rivelava del resto - al di sopra delle considerazioni di opportunità politica, militare ed umana da cui si diceva ispirata l'idea di una guerra partigiana condotta "col rallentatore" - una rete di contrasti sotto ai quali c'era - elemento di crisi, più grave di ogni altro - la mancanza di vera unità d'intenti sul piano sostanziale. Ciò è mostrato dal dibattito fra i varî partiti del CLNAI (novembre 1944-febbraio 1945) aperto da una lettera del Partito d'azione, mirante a superare la struttura paritetica dei CLN, a sottolineare la linea di divisione fra "chi crede nella democrazia progressiva e chi si prepara all'arrembaggio del vecchio stato autoritario", a gettare, attraverso l'accoglimento nel CLNAI delle organizzazioni di massa, le basi di un "governo straordinario segreto" che rifiutasse la vecchia struttura dello stato italiano. Prevalsero invece nel CLNAI forze che, pur onestamente desiderose di progresso e di riforme, vedevano nella "temporanea conservazione delle vecchie strutture questo di ottimo, che avrebbe permesso al paese di esprimere legalmente ed effettivamente il proprio effettivo parere".
La guerra partigiana. - Non è possibile tracciare una storia sufficientemente compiuta, e in una visione unitaria, della guerra partigiana in Italia, non tanto per la sussistente deficienza di documentazione precisa, per la difficoltà di vagliare documenti di diverso valore e spesso "tendenziosi", quanto per le caratteristiche stesse che la guerra ebbe, frazionata come fu in un grandissimo numero di episodî che solo in qualche caso, e soprattutto sul finire della campagna, assunsero il carattere e l'ampiezza di vere azioni di guerra. Si cercherà di dare qualche notizia di carattere più generale seguendo, nel richiamarsi alle persone e ai fatti della Resistenza, un criterio necessariamente esemplificativo.
Con riferimento soprattutto alla situazione determinatasi nell'Italia settentrionale si possono distinguere, genericamente, le seguenti fasi nella storia organizzativa del movimento: i primi sbandati (ribelli" o "patrioti": l'espressione "partigiano" sarà usata in seguito; quella "volontario della libertà" si può dire mai, se non negli atti ufficiali del CVL) si raccolsero da principio nelle montagne in piccoli gruppi autonomi, che solo più tardi - a partire dal gennaio 1944 - dopo i primi rastrellamenti, cominciarono a darsi una certa organizzazione in "bande", che successivamente si raggrupparono in brigate e divisioni in vista delle operazioni, che si ritenevano decisive e definitive, dell'estate 1944. A Roma funzionava dall'ottobre 1943 un Centro militare, organizzato dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo (v. in questa App.), in diretto contatto con lo stato maggiore dell'esercito e dal quale dipendevano le migliori (salvo errore le uniche) formazioni che fossero diretta espressione dell'esercito: il Raggruppamento bande partigiane Italia Centrale, che comprendeva Lazio, Abruzzi, Umbria, parte della Toscana e delle Marche; comandante il colonnello Ezio De Michelis. Un tentativo simile era in realtà stato fatto anche in Piemonte per opera del generale Operti ma era presto fallito. Nello stesso periodo era sorto a Milano un Comitato Militare Alta Italia CMAI, che stabilì il collegamento con i comandanti militari del Piemonte, Liguria, Veneto, Nord e Sud Emilia e che, il 9 giugno 1944 si trasformerà in Comando generale per l'Italia occupata del Corpo Volontarî della Libertà. Questo si propose di coordinare "al vertice l'attività del movimento partigiano, risolvendo così il problema che si era imposto fin dall'inizio della Resistenza... e di non facile soluzione per i forti dissensi di materia politica" (M. Argenton). Dal comando generale e in collegamento con questo dipendevano comandi regionali e da questi comandi di zona, provinciali, di piazza. Il CMAI era organizzato in quattro sezioni: operazioni (diretta da F. Parri e L. Longo); sabotaggi; mobilitazioni; servizî. Nell'autunno 1944 si maturò l'unificazione delle formazioni differenziate nel CVL" (Atti Com. gen. CVL, n. 138), che fu raggiunta solo il 28 febbraio 1945; il testo di unificazione fu stabilito il 29 marzo 1945 e fu divulgato ai reparti completo del regolamento e delle norme esecutive alla vigilia dell'insurrezione, il 18 aprile 1945 (Atti Com. gen. CVL, n. 166). In quest'ultima fase (febbraio-aprile 1945), il Comando generale del CVL fu costituito in questo modo: comandante generale R. Cadorna ("Valenti") assistito da due vice-comandanti: Luigi Longo ("Italo") e Ferruccio Parri ("Maurizio"); capo di S. M.: G. B. Stucchi ("Noris") assistito da due vice-capi: Enrico Mattei ("Este") e Mario Argenton ("Zoppi"). Dal Comando generale dipesero nove comandi regionali. I dati di forza del CVL quali risultarono alla fine di marzo 1945 al Comando generale comprendevano 43 zone, 104 divisioni, 52 brigate autonome di montagna e circa 10.000 uomini inquadrati nelle unità di pianura e delle città.
Le formazioni partigiane di montagna ebbero carattere in parte politico in parte autonomo. Fra le prime, maggiore importanza ebbero le brigate "Garibaldi" (prima a costituirsi la brigata "Friuli" nel Veneto) alle dipendenze del Partito comunista e comandate da L. Longo, ma con effettivi e spesso anche elementi dirigenti di ogni pensiero politico o apolitici e provenienti dal servizio militare attivo. Con le brigate Garibaldi, quelle "Giustizia e Libertà" del Partito d'azione, che facevano capo a F. Parri, e che erano sorte, fin dal settembre 1943, in Piemonte (valli del Cuneense) per opera di Duccio Galimberti (v. in questa Appendice) e di G. Agosti. Le formazioni "Matteotti" del Partito socialista, organizzate da C. Bonfantini, sorte in un secondo momento, non erano numerose. Più tardi sorsero formazioni democristiane per opera di Enrico Mattei, sia con la riorganizzazione, sotto insegne D. C., di vecchie formazioni autonome (per esempio le Fiamme Verdi, inizialmente costituite dai resti delle divisioni alpine che nel settembre 1943 si trovavano nelle zone di confine) sia con nuove formazioni (divisioni partigiane Alfredo Di Dio). Le brigate "Mazzini" del Partito repubblicano agirono solo in pochi luoghi.
Fra le numerose formazioni autonome, apolitiche: la banda costituita già nel settembre 1943 da Filippo Beltrami (poi morto in combattimento il 13 febbraio 1944); quella costituita a S. Giacomo di Boves, il 15 settembre 1943 sotto la guida di Ignazio Vian (impiccato dai Tedeschi a Torino, il 22 luglio 1944); principali fra tutte le formazioni alpine organizzate (settembre 1943) dal maggiore Enrico Martini "Mauri" in Piemonte (Boves e Val Casotto) e che costituirono in seguito il 1° gruppo divisioni alpine "Mauri". Un cenno a parte merita l'Organizzazione "Franchi", di Edgardo Sogno, che svolse intensa attività di sabotaggio, rifornimento, trasporto, portando a termine imprese delle più ardite. Carattere particolare ebbero infine le tre formazioni: "Maiella" (costituita dall'avv. Luigi Troilo), "Ravenna" (comandata da Arrigo Boldrini "Bulow"), "Modena" (costituita da Mario Ricci "Armando"), che dopo aver svolta grande attività di guerriglia, si unirono alle armate alleate continuando la guerra al loro fianco.
Accanto alle formazioni combattenti, i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) che ebbero il massimo sviluppo nella lotta di liberazione. L'azione dei GAP, che s'iniziò in Italia ad opera dei comunisti fin dal novembre 1943 a Roma e a Milano, aveva carattere terroristico, medianti attentati contro comandi o singoli esponenti politici e militari del nemico, o anche mediante il sabotaggio a vie di comunicazioni, depositi, centrali elettriche, ecc. I GAP intervennero inoltre in appoggio a manifestazioni di protesta, con compiti di difesa. Le SAP (Squadre di Azione Patriottica) sorsero per la prima volta nelle campagne emiliane nell'estate del 1944, poi si diffusero largamente in tutta l'Italia settentrionale. Avevano il compito di mobilitare all'insurrezione strati sempre più larghi della popolazione e in particolare i contadini. La loro azione era prevalentemente difensiva: contro la repressione, i richiami, le razzie, gli ammassi. Furono, sul finire della campagna, organizzate in squadre e brigate.
In base all'articolo 9 del decr. 21 agosto 1945, n. 518, che definisce come "patrioti combattenti" (ossia partigiani) "gli organizzatori e i componenti stabili od attivi di bande le quali abbiano effettivamente partecipato ad azioni di combattimento e di sabotaggio; coloro che abbiano compiuto in qualunque modo atti di eccezionale ardimento durante la guerra di liberazione" e come "patrioti" "coloro che hanno collaborato o contribuito attivamente alla lotta di liberazione, sia militando nelle formazioni partigiane per un periodo minore di quello previsto (3 mesi al sud della linea gotica; 6 mesi al nord), sia prestando costante e notevole aiuto alle formazioni partigiane", le apposite commissioni per l'accertamento dei titoli, su 630.018 domande presentate, ne hanno respinte 159.795; le domande accolte sono così suddivise: partigiani combattenti 232.841; caduti per la lotta di liberazione, compresi i civili, 72.500; mutilati e invalidi, compresi i civili, 39.167; patrioti, 125.715. Secondo dati della Special Force britannica, il totale delle forze partigiane combattenti al 1° aprile 1945 nelle regioni a nord della linea gotica ammontava ad 89.492 uomini così distribuiti: Emilia-Romagna, 13.670; Liguria, 15.400; Piemonte, 34.812; Lombardia, 13.012; Veneto, 12.598. La stessa fonte inglese indica, per gli 89.492, la seguente percentuale in base all'appartenenza dichiarata ai varî partiti politici: comunisti, 35,25%; apolitici, 27,75%; imprecisati, 14,00%; Partito d'azione, 11,50%; Democrazia cristiana, 10%; socialisti, 1,50%.
Accanto agl'Italiani, presero le armi numerosi prigionieri evasi dai campi di concentramento dopo l'8 settembre. Alla guerra partigiana parteciparono inoltre rappresentanti delle forze armate regolari americane e inglesi rispettivamente rappresentanti dell'Office of Strategic Service (OSS) e della n. 1 Special Force: essi avevano il compito di organizzare e dirigere la guerra alle spalle del nemico, a mezzo di speciali "missioni", che avevano compiti d'informazione (in collegamento col servizio informazioni, radio e spionaggio del comando CVL); di collegamento con i comandi e le formazioni partigiane, di direzione del lavoro di sabotaggio e contro l'eventuale sabotaggio tedesco (anti-scorch). Era cura delle due organizzazioni alimentare la guerriglia con l'invio di fondi (a seguito dell'accordo Wilson-CLNAI, 160 milioni mensili da distribuire 20 alla Liguria, 60 al Piemonte, 25 alla Lombardia, 20 all'Emilia, 35 al Veneto) e di materiale di ogni genere mediante aviolanci. Durante il periodo gennaio-aprile 1945 furono aviolanciate dall'organizzazione britannica nel corso di 856 voli (dei quali solo 551 con esito favorevole) 1228,74 gross-tons inglesi di materiali, dei quali 666,32 da guerra, 290,57 per sabotaggio e demolizioni, 271,85 non di guerra. Il rapporto, da cui sono desunte queste notizie, conclude affermando che tutte le spese sostenute, in qualsiasi modo, dalla Special Force "per tutta intera la campagna d'Italia, non rappresentano se non una frazione delle spese giornaliere di tutta la macchina di guerra alleata in Italia".
La guerra partigiana ebbe fasi alterne, anche in relazione alla campagna alleata in Italia. I primi gruppi di sbandati iniziarono un'attività sporadica di colpi di mano a presidî o a veicoli tedeschi isolati, attività spesso intesa a dare ai patrioti l'armamento di cui difettavano e i mezzi di sussistenza. Nel corso della campagna alleata del 1944 ebbero notevole importanza l'attività delle bande dell'Italia centrale che sfruttarono al massimo la necessità imposta ai Tedeschi di far affluire un'enorme quantità di mezzi attraverso le lunghe e vulnerabili vie di comunicazione che percorrevano longitudinalmente la penisola. I partigiani toscani conclusero la loro intensa attività con la partecipazione attiva alla liberazione di Firenze (3 agosto-1° settembre 1944): alla testa della divisione garibaldina "Arno" cadde Aligi Barducci "Potente".
Più complessa, più varia e intensa, anche in relazione al maggior periodo della campagna, la guerra partigiana nell'Italia a nord dell'Appennino tosco-emiliano. All'iniziale attività dei primi gruppi, "progredita soprattutto in Piemonte, ove diversi fattori di carattere geografico, ambientale e contingente sembravano aver favorito lo sviluppo del ribellismo" (R. Cadorna), seguirono (novembre 1943-gennaio 1944) i primi rastrellamenti che posero in grave crisi, con l'inverno sopravveniente, le bande di montagna. Grande aiuto alle forze della Resistenza venne dalle stesse leve bandite dalla Repubblica sociale nella primavera del 1944; in alcuni punti la renitenza fu quasi totale, e questo fatto, se impose vasti problemi organizzativi, di rifornimenti - più grave quello attinente alla "qualità" degli elementi affluiti in montagna - ebbe l'effetto di legare definitivamente alle forze partigiane la simpatia della maggioranza delle popolazioni rurali. Anche in relazione al favorevole andamento delle operazioni alleate, fu messo definitivamente al bando "il concetto di formare solo piccoli gruppi di terroristi e di sabotatori; si puntava diritto alla graduale mobilitazione delle popolazioni con un crescendo di atti di violenza fino a sboccare nell'insurrezione generale il giorno che la situazione della guerra lo avesse consentito" (Cadorna). Il massimo di attività, collegato alla certezza di una rapida soluzione della campagna alleata in Italia, dopo la presa di Roma e di Firenze, agli sbarchi in Francia, si ebbe nell'estate 1944. Vaste zone delle Alpi e degli Appennini, in Piemonte, nella Liguria, nel Veneto, in Emilia, vennero totalmente liberate da Tedeschi e fascisti: è il periodo delle cosiddette " repubbliche piemontesi" (Valli di Lanzo, Maira e Varaita), stabilite con azioni di forza e vere battaglie campali, a partire dalla tarda primavera del 1944; è il periodo della repubblica della valle d'Ossola costituitasi, dopo un'azione in grande stile, con la resa (9 settembre) delle forze nazifasciste accerchiate in Domodossola e la costituzione di una regolare giunta di governo, che tenne contatti col governo di Roma tramite la legazione d'Italia a Berna. È il periodo della liberazione della zona di Montefiorino (Modena), dell'alta valle di Ceno (Parma), di tutta la vasta zona fra Genova-Piacenza e l'Oltre-Po pavese, della zona del Monferrato e Astigiano, delle Langhe; dell'Ampezzano (41 comuni liberati e organizzati) nel Friuli.
Contemporanea, condotta con larghissimo impiego di mezzi, la reazione che, mai cessata totalmente (durissimi i rastrellamenti del marzo-aprile 1944 in Piemonte), si fece più aspra dopo che il decreto 19 aprile 1944 (pubblicato il 25) della Repubblica sociale ebbe comminata la pena di morte ai componenti delle bande, a chiunque esplicasse un'azione diretta ad agevolare l'opera delle bande stesse, a chiunque desse rifugio, vitto o assistenza ai partigiani e stabilì un "periodo di franchigia" di 30 giorni per costituirsi volontariamente. Il governo e la stampa fascista misero in atto in quei trenta giorni ogni accorgimento propagandistico, dalla minaccia alla blandizia per indurre gli "sbandati" a presentarsi (i renitenti che si presentarono sarebbero stati - secondo il comunicato 30 maggio della R.S. - 44.145); ma in ultima analisi la parola fu lasciata alla forza. Ecco il testo delle disposizioni di Kesselring per la lotta contro i " banditi e i sabotatori" (Corriere della sera, 12 agosto 1944): "1) Iniziare nella forma più energica azioni contro le bande armate dei ribelli, contro i sabotatori che con la loro opera intralciano la condotta della guerra; 2) Costituire una percentuale di ostaggi in quelle località dove risultano esistere bande armate e passare per le armi detti ostaggi tutte le volte che nelle località stesse si verificassero atti di sabotaggio; 3) Compiere atti di rappresaglia fino a bruciare le abitazioni poste nelle zone da dove siano stati sparati colpi di arma da fuoco contro reparti o singoli militari germanici; 4) Impiccare nelle pubbliche piazze quegli elementi riconosciuti responsabili di omicidi e capi di bande armate; 5) Rendere responsabili gli abitanti di quei paesi dove si verificassero interruzioni di linee, interruzioni stradali, danneggiamenti di ponti, ecc.".
E dal mese di agosto i rastrellamenti si rinnovarono in tutte le regioni. Lo sforzo maggiore del nemico - scrive F. Parri - si concentrò sia nell'Emilia, poiché le vie di comunicazione traverso l'Appennino erano divenute vitali per l'alimentazione della linea gotica, sia nel Veneto, per mantenere libere le vie transalpine e indisturbati i febbrili apprestamenti che il comando germanico vi conduceva per allestire nuove linee di resistenza e bloccare le vie alpine di accesso alla Germania. Colonne concentriche di varie divisioni investirono il piacentino, il modenese, la regione degli Altipiani veneti, il Grappa, la Carnia e l'alto Friuli. Due divisioni attaccarono il settore di Montefiorino (3 luglio-3 agosto). La stessa zona ossolana, attaccata da 12.000 uomini (9-14 ottobre), fu rioccupata.
Ma anche questa attività antipartigiana - che i Tedeschi stessi considerarono vera e propria attività di guerra (cfr. i bollettini tedeschi del 2 settembre, 11 settembre, 2 ottobre, 12 dicembre 1944) - ebbe un'importanza notevolissima nel quadro della guerra e del contributo dato dai partigiani alla vittoria, per l'enorme impiego di forze che essa impose al nemico, costretto così a distrarle da altri impieghi di più immediata utilità ai fini bellici: il fronte italiano era per i Tedeschi "a due dimensioni", potrebbe dirsi; "Mauri" afferma che nella primavera 1944 il Piemonte da solo ha assorbito 100.000 Tedeschi, tutta la Muti, la X Mas, e più tardi ben 3 delle quattro divisioni repubblicane addestrate in Germania.
Ma non solo a questo si è limitato il contributo militare della guerra partigiana, che anzi ha avuto il suo aspetto più notevole nell'attività di sabotaggio, intesa a ritardare ed intralciare i movimenti operativi del nemico, interrompendo strade ferrate ed attaccando il traffico stradale; anche con colpi di mano e veri e proprî combattimenti. Di questa attività condotta ininterrottamente durante 20 mesi su tutte le principali vie di comunicazione, non è possibile dare che qualche esempio. Il Raggruppamento bande partigiane Italia centrale, durante i pochi mesi della sua attività, portò a termine ben 1033 azioni d'interruzioni stradali e ferroviarie; nel solo mese di dicembre 1943 due convogli ferroviarî tedeschi furono distrutti, con tutto il materiale trasportato, sulla Roma-Cassino. Una delle più importanti strade di arroccamento dell'Italia centrale, quella della Vamerina (Tolentino-Terni), restò totalmente e per sempre interrotta al traffico tedesco per l'attività della brigata garibaldina "Spartaco" comandata dal vissano Pietro Capuzi (poi fucilato dai Tedeschi ad Ussita l'8 maggio 1944). Nel solo mese di settembre 1944 in Emilia i bollettini del Comando unificato registrano 18 linee ferroviarie interrotte con il deragliamento di 7 treni e la distruzione di 5 locomotori e 38 vagoni; 8 strade interrotte, 27 ponti fatti saltare. La brigata garibaldina "Nannetti", agente nelle zone delle comunicazioni dirette, attraverso il Cadore, al passo di Dobbiaco, e lungo il Fadalto e la valle del Piave e verso il passo di Tarvisio, riuscì a provocare 91 interruzioni ferroviarie con 97 giorni di sospensione totale del traffico, 18 interruzioni stradali con 141 giorni di sospensione del traffico. Importantissima dal punto di vista militare l'azione di sabotaggio esplicata dai partigiani della Valle d'Aosta in relazione allo sbarco alleato in Provenza (14 agosto 1944) e alla contemporanea azione del maquis francese. A seguito degli accordi intercorsi fra questo e la Resistenza italiana negl'incontri al Colle del Sautron (Val Maira) dell'11 maggio 1944, di Saretto (30 maggio), di Cerlogne del 20 giugno e del Colle della Lex Blanche del luglio, fu convenuto che non appena gli Alleati fossero sbarcati sulle coste meridionali della Francia, i partigiani avrebbero impedito che i Tedeschi della Val Padana potessero affluire per le valli alpine. L'attività di sabotaggio dei patrioti s'inserì mirabilmente nel quadro strategico delle operazioni alleate e tenne fede agl'impegni assunti: 3 agosto, interruzione del traffico ferroviario fra Ivrea e Aosta; 6-7 agosto, interruzione della strada nazionale del S. Bernardo a Montjovet (40 metri di strada sprofondarono nella valle); 9,10,12, 15,17,19,21 agosto, interruzioni della ferrovia; 24 agosto distruzione del cavalcavia di St. Marcel; 26 agosto, del ponte di Equiliva sulla Aosta-Pré Saint-Didier: le possibilità operative e la rete di comunicazioni tedesche furono completamente paralizzate dall'attività partigiana.
Accanto a questo tipo di sabotaggio, quello mirante a intralciare lo sfruttamento delle risorse belliche esistenti nel territorio occupato: azione tenace e rischiosa svolta dai GAP cittadini, dai CLN aziendali; con gli scioperi del marzo 1944 di Torino e di Milano. La produzione media mensile di lingotti di acciaio nelle acciaierie Falk (ha affermato lo stesso Enrico Falk), che nel periodo 1° gennaio 1940-8 settembre 1943 era stata di 21.770 t. mensili, si ridusse nel periodo 1° gennaio-1° maggio 1945 al quantitativo minimo record di 2400 t. mensili; a Dongo, dove si dovevano fabbricare granate, neppure una ne uscì dallo stabilimento. Sabotaggio attivo e controsabotaggio, cioè attività mirante ad impedire le distruzioni, da parte dei Tedeschi, d'impianti industriali e attinenti alla vita civile delle popolazioni. Ha affermato il Parri che se a questo proposito ebbero notevole valore le trattative svolte in Svizzera fra gli Alleati e il capo delle SS in Italia generale Wolff, "se si tien conto del frazionamento e dell'autonomia dei comandanti tedeschi, del loro dispregio per ogni impegno e dello stato d'animo verso l'Italia, il fattore primo del salvataggio deve ricercarsi nella presenza delle forze insurrezionali che bloccarono ogni velleità tedesca di vendetta". Più esplicitamente e con maggior cognizione di causa il già citato rapporto della Special Force britannica afferma: "I risultati ottenuti dai partigiani nelle colline e quelli dei gruppi clandestini GAP e SAP nelle città e nelle pianure, hanno fatto sì che l'industria italiana si è salvata quasi completamente e che i servizî pubblici e gli uffici statali hanno potuto continuare a funzionare senza interruzione. Il contributo partigiano alla salvezza della struttura economica del proprio paese può considerarsi come l'aspetto più importante della parte che essi hanno avuta in tutta la campagna d'Italia".
Intensa l'attività dei patrioti "propagandisti, specie donne e sacerdoti" (afferma R. Graziani), rivolta a disorganizzare i reparti dell'esercito regolare della R.S.; "negli ultimi tempi i casi di diserzione degli appartenenti alle nuove forze armate dell'esercito italiano hanno preso proporzioni insopportabili" affermava il 12 febbraio 1944 il maresciallo tedesco Kesselring in una lettera indirizzata al maresciallo Graziani.
Così la Resistenza, in tutti i campi, con tutte le armi, continuava la sua guerra. Per un momento in crisi dopo i rastrellamenti dell'estate-autunno 1944, per la mancata offensiva alleata; incurante del famoso invito del maresciallo Alexander prima (fine novembre 1944) poi del generale Mc Clark (23 gennaio 1945) a sospendere l'attività; sorda ai numerosi frequenti allettamenti da parte tedesca di giungere ad un compromesso in vista del momento della resa, durante l'inverno 1944-45 ritemprò le sue forze per l'insurrezione finale che, alla fine di aprile 1945, doveva coronarne l'azione. Impossibile qui un'esposizione dettagliata della parte presa dalle formazioni partigiane alla fase finale della guerra in Italia, quale appare illustrata dal già citato Report on n. 1 Special Force activities during april 1945: il rapporto è un pieno, leale, esplicito riconoscimento dell'apporto decisivo dato dai partigiani alla lotta: tutte le principali città dell'Italia settentrionale furono occupate dai patrioti; in moltissime località - afferma sempre il rapporto - "le armate alleate non avevano più nulla da fare se non muoversi nelle città già liberate e aiutare i partigiani a snidare definitivamente guarnigioni isolate"; tutte le vie di ritirata verso l'Austria tagliate. E in un sol sintetico giudizio, il rapporto conclude: "il contributo partigiano alla vittoria alleata in Italia fu assai notevole tanto da superare di molto le più fiduciose aspettative. Con la forza delle armi i partigiani aiutarono a stroncare la potenza e il morale di un nemico molto superiore a loro per numero; senza queste vittorie dei partigiani non ci sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, così a buon mercato".
Nel quadro della campagna partigiana finale va posto il fatto che è merito esclusivo delle forze italiane della Resistenza se fu fatto fallire sul nascere "il tentativo francese (29-30 aprile 1945) di mettere gli Alleati e l'opinione pubblica italiana di fronte al fatto compiuto di una totale occupazione militare francese della valle d'Aosta e di una consultazione popolare frettolosamente e artificiosamente preparata" (cfr. la relazione su Il contributo della Valle d'Aosta alla guerra di liberazione, Roma 1946, pag. 92-94).
Il prezzo di sangue pagato dagli Italiani nella loro guerra di liberazione è stato quanto mai alto: le già ricordate commissioni per l'accertamento del titolo di partigiano hanno accertato la cifra di 72.500 caduti per la lotta di liberazione (compresi i civili), di 39.167 mutilati e invalidi. I dati pubblicati dal Ministero degli esteri italiano dànno (dati "numerici provvisorî in corso di accertamento alla data di pubblicazione" ottobre 1945) le seguenti cifre: "perdite subìte dalle organizzazioni partigiane permanenti: 27.000 morti e 17.000 feriti in combattimento, 20.000 morti e 986 feriti in azioni di rappresaglia"; vittime di "crimini conseguenti ad atrocità ed azioni di rappresaglia nazi-fascista": 19.204 (709 impiccati, 506 arsi vivi) più 33 gruppi di persone massacrate. Un totale di 66.204 morti.
Bibl.: Una buona bibliografia (alla quale pertanto si rinvia per brevità) è quella in appendice a L. Longo, Un popolo alla macchia, Milano 1947; delle opere citate da Longo meritano particolare segnalazione le pubblicazioni dell'Ufficio storico per la guerra di liberazione presso la Presidenza del Consiglio. Posteriori o non citate dal volume di Longo: B. Croce, Per la nuova vita dell'Italia, Napoli 1944; CNL Bassano, Dal Brenta al Piave 1943-45, Bassano 1946; B. Croce, Quando l'Italia era tagliata in due (settembre 1943-giugno 1944), in Quaderni della Critica, n. 6, novembre 1946, p. 108 segg.; M. Delle Piane, Funzione storica dei Comitati di Liberazione nazionale, Firenze 1946; B. Barclay Carter, Italy speaks, Londra 1947; CVL, La Resistenza italiana, Milano 1947; A. Malgeri, L'occupazione di Milano, Milano 1947; Il Ponte, III (1947), novembre-dicembre (fascicolo speciale su La crisi della Resistenza con articoli di P. Calamandrei, A. C. Jemolo, R. Levi, R. Battaglia, D. L. Bianco, C. Galante Garrone, P. Basile, V. Foà, D. R. Peretti-Griva, R. Ravagli, M. Bracci); A. Trabucchi, I vinti hanno sempre torto, Torino 1947; P. Alatri, Triangoli della morte, Roma 1948; ANPI, Centro dei centomila, Roma 1948; R. Battaglia, Il problema storico della Resistenza, in Società, IV, 1948, pp. 64-87; R. Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla liberazione, Milano 1948; E. Scala, La riscossa dell'esercito, Roma 1948.