Resistenza
Il termine resistenza indica in senso generico l'azione e il fatto di resistere mediante una qualunque forma di opposizione attiva o passiva. In biologia e in batteriologia si parla di resistenza ai farmaci a proposito della capacità di alcune specie o ceppi di batteri di non risentire dell'azione battericida di determinati antibiotici. In medicina, e più in particolare in medicina dello sport, la resistenza muscolare è la capacità di protrarre nel tempo un particolare esercizio fisico; si tratta dunque di resistenza alla fatica. Il termine è utilizzato anche in psicoanalisi, ove definisce ogni forma di opposizione da parte del paziente alla libera manifestazione di sé; quindi, per estensione, resistenza alla psicoanalisi è ogni ostacolo posto in atto dal paziente nel trattamento psicoanalitico come difesa contro l'emergere di contenuti inconsci vissuti come angosciosi o inaccettabili.
di Wildor Hollmann
La resistenza muscolare si può distinguere in locale, se il gruppo muscolare impegnato è inferiore a 1/7-1/6 della muscolatura scheletrica totale, e in generale, quando viene interessata una massa muscolare superiore. La resistenza muscolare locale è determinata unicamente dagli elementi dei distretti muscolari regionali, mentre per quella generale i fattori implicati sono rappresentati dall'efficienza cardiaca, dalla circolazione, dalla respirazione e dal metabolismo. La resistenza muscolare può essere poi distinta in resistenza aerobica e resistenza anaerobica.
1.
In condizioni normali di trasporto dell'ossigeno, la resistenza locale dinamica aerobica è determinata dalla disponibilità di ossigeno intracellulare nell'unità di tempo, dalla capacità del metabolismo aerobico, dalla quantità dei carboidrati di riserva in loco, dalla qualità dei processi metabolici e dalla coordinazione durante lo sforzo prolungato. Oltre che nella medicina sportiva, la resistenza locale dinamica aerobica risulta di fondamentale importanza nella medicina preventiva, nella chinesiterapia e nella riabilitazione. I processi metabolici e circolatori avvengono infatti a questo livello e i sistemi respiratorio e cardiovascolare sono solamente al loro servizio. La periferia del corpo agisce come regolatore primario e la funzione della regolazione centrale è quella di soddisfare le necessità della periferia nel modo più economico possibile. L'allenamento della resistenza aerobica migliora l'efficienza metabolica ed emodinamica, inducendo l'aumento della capillarizzazione e della vascolarizzazione e, quindi, della distribuzione del sangue nei muscoli in attività. Il termine capillarizzazione si riferisce, oltre che alla formazione di nuovi capillari, all'apertura dei capillari non pervi e all'ampliamento e allungamento di quelli esistenti. In tal modo è possibile raggiungere il livello massimo di afflusso di sangue, che comporta pure un migliore apporto di ossigeno alla muscolatura in attività. L'allenamento provoca anche altri adattamenti: aumento della dimensione e del numero di mitocondri; incremento dell'attività di alcuni enzimi sia aerobici sia anaerobici, della quantità di mioglobina e della quantità di glicogeno intramuscolare; infine, alterazioni qualitative dei processi metabolici. L'aumento del volume mitocondriale potenzia la capacità aerobica del muscolo.
Parallelamente si verifica anche l'incremento dell'attività degli enzimi ossidativi e della quantità di mioglobina, la molecola responsabile del trasporto dell'ossigeno dalla membrana cellulare ai mitocondri, dove hanno luogo le reazioni del metabolismo aerobico. Il conseguente migliorato livello di ossidazione intramuscolare accresce la differenza di concentrazione tra sangue venoso e sangue arterioso (differenza arterovenosa di ossigeno), cosicché l'ossigeno disponibile viene utilizzato più efficacemente. Questo fenomeno svolge un ruolo decisivo quando l'efficienza muscolare raggiunge le sue condizioni limite. Nel caso in cui la durata del lavoro muscolare sia compresa tra 30 e 60 min, il fattore limitante principale risulta costituito dalla quantità di glicogeno presente nei muscoli. Un aumento del tasso di glicogeno intramuscolare, che è ottenuto attraverso l'allenamento della resistenza, consente quindi di poter protrarre nel tempo un carico di lavoro intenso. Allo stesso modo l'allenamento è in grado di provocare delle modificazioni nei processi metabolici e induce i muscoli a bruciare più acidi grassi che carboidrati, conservando così le preziose riserve di questi a scapito dei grassi che sono presenti in quantità superiore rispetto al necessario anche negli individui magri. Le prestazioni che implicano la resistenza locale dinamica aerobica sono quelle più influenzabili dall'allenamento; in persone sedentarie l'allenamento può portare a un miglioramento significativo della resistenza da alcune centinaia a parecchie migliaia di punti percentuali. L'allenamento della muscolatura interessata allevia in modo considerevole il lavoro del cuore e del sistema respiratorio e, grazie a un maggiore apporto di ossigeno nonché alla maggiore ricchezza di ossigeno del tessuto muscolare, diminuisce pure il carico della stimolazione periferica esercitato sul cuore. Un esperimento condotto su un cicloergometro utilizzando una sola gamba per volta ha dimostrato che, eseguendo la prova con la gamba allenata per tre volte alla settimana per circa 30 min, la frequenza cardiaca diminuisce di 20 battiti/min dopo 4-6 settimane. Utilizzando l'altra gamba invece non si osservano modificazioni nella frequenza cardiaca legate all'esercizio. Anche la respirazione può ridursi di 30-40 atti/min. Sottostante a questo tipo di reazione è la riduzione degli impulsi del sistema nervoso simpatico dovuta al diminuito tasso di acido lattico.
2.
a) Resistenza generale dinamica aerobica. Comprende le prestazioni ottenute in condizioni aerobiche mediante un lavoro di tipo dinamico che coinvolge più di 1/6 dell'intera muscolatura scheletrica. La resistenza è determinata soprattutto dalla capacità dei sistemi cardiovascolare, respiratorio e circolatorio e dalla qualità delle contrazioni specifiche per un dato movimento. Non devono inoltre essere ignorati gli aspetti psicologici, quale per es. la motivazione. La resistenza generale dinamica aerobica può essere suddivisa in tre gruppi: resistenza di breve, media e lunga durata; quella di breve durata riguarda un esercizio per il quale si impiegano da 3 a 10 min (per es. la corsa su 3000 m); per quella di media durata il tempo impiegato è compreso tra 11 e 30 min (la corsa su 10.000 m), mentre in quella di lunga durata lo sforzo deve essere protratto per più di 30 min continuativi (per es. la maratona). Nei primi due casi i principali fattori limitanti sono rappresentati dalle capacità cardiaca, circolatoria, respiratoria e metabolica. Nella resistenza di lunga durata, a questi va aggiunta la quantità di carboidrati di riserva presenti nei muscoli, fattore che acquista importanza man mano che aumenta la durata della prova. Il cosiddetto criterio empirico di efficienza organica, cioè la capacità massima del cuore, della circolazione e della respirazione, equivale al massimo consumo di ossigeno, indicato anche come capacità aerobica, che rappresenta la massima quantità di ossigeno che può essere utilizzata durante un carico massimale di lavoro dinamico prodotto dal gruppo muscolare più esteso possibile. Il massimo consumo di ossigeno può essere espresso come valore assoluto, che indica soltanto il massimo consumo di ossigeno/min, e come valore relativo, che esprime il massimo consumo di ossigeno al minuto riferito a ciascun chilogrammo di peso corporeo. Nella maggior parte delle discipline sportive sono più indicativi i valori relativi. Un lottatore che pesa 100 kg, per es., può mostrare un massimo consumo di ossigeno insolitamente alto perché esiste un elevato grado di correlazione tra il peso corporeo e il massimo consumo di ossigeno. Da un punto di vista assoluto inoltre questo stesso individuo possiede una capacità cardiaca e vascolare al di sopra della media, ma il tasso di massimo consumo di ossigeno al minuto per ogni chilogrammo di peso corporeo risulterebbe molto basso proprio a causa dell'elevato peso corporeo. Infatti, se questo individuo partecipasse a una gara di resistenza avrebbe delle prestazioni alquanto scarse. Le donne raggiungono il valore massimo nel consumo di ossigeno all'età di 15 anni, gli uomini a 19. I valori rimangono costanti fino a circa 30 anni, quando inizia il declino causato dai processi di invecchiamento. Il massimo consumo di ossigeno per un trentenne maschio non allenato è di circa 3300 ml/min, mentre per le donne è intorno a 2200 ml/min. Atleti di valore mondiale che praticano sport di resistenza possono superare questi valori anche del 100%: tale considerazione è valida sia per le donne sia per gli uomini. Valori compresi tra 6,5 e 7 l/min per gli uomini e circa 5 l/min per le donne rappresentano il limite biologico dell'efficienza. Il massimo consumo di ossigeno medio per ciascun chilogrammo di peso corporeo è compreso tra 40 e 55 ml/min/kg negli uomini e tra 32 e 38 ml/min/kg nelle donne. Prendendo in considerazione soltanto la massa magra, non considerando cioè la componente adiposa, la differenza tra i sessi risulta minore: 46-49 ml per gli uomini e 44-48 ml per le donne. L'entità del massimo consumo di ossigeno dipende da fattori interni ed esterni. I primi sono: la ventilazione, cioè lo scambio gassoso che avviene con l'esterno attraverso il naso, la bocca e gli alveoli polmonari; la capacità di diffusione nei polmoni, cioè la quantità di ossigeno che passa dagli alveoli ai capillari nell'unità di tempo; la gettata cardiaca, che risulta dal prodotto della frequenza cardiaca per la gettata sistolica; la differenza arterovenosa di ossigeno, che indica l'utilizzazione di ossigeno nei distretti periferici del corpo; il volume del sangue; la quantità totale di emoglobina; l'efficienza dinamica dei muscoli interessati; le condizioni nutrizionali. Tra i secondi si trovano: il tipo di lavoro richiesto; le dimensioni e il tipo della muscolatura interessata; la posizione del corpo; la pressione parziale dell'ossigeno nell'aria inalata; il clima (temperatura e umidità). In un individuo sano, sia esso un atleta perfettamente allenato o una persona sedentaria, si osserva una reazione armoniosa allo sforzo. Per questo motivo, durante un esercizio massimale praticamente tutti i fattori limitanti entrano in gioco quasi contemporaneamente. In individui malati o anziani invece uno specifico fattore che influisca pesantemente sulle prestazioni può diventare l'anello debole della catena, limitando così l'intera prestazione. La ventilazione non riveste un ruolo importante nel determinare il livello della prestazione in un individuo sano, anche durante un carico massimale di lavoro. Un individuo medio presenta una ventilazione polmonare (ossia la quantità di aria che entra o esce dall'apparato respiratorio in 1 min) massimale di 100-120 l/min, mentre un atleta di livello mondiale può arrivare a 250 l. Raramente la frequenza massimale supera i 60 atti respiratori/min. In soggetti non allenati la maggiore efficienza nell'utilizzazione dell'ossigeno presente nell'aria si ottiene in corrispondenza del 50% circa della massima capacità aerobica, ossia quando la frequenza cardiaca è di circa 130 battiti/min sia per gli uomini sia per le donne in età compresa tra i 20 e i 30 anni. Questo è definito il punto ottimale di efficienza respiratoria, in cui sono necessari solo 25 ml di aria ventilata per ogni millilitro di ossigeno consumato. In condizioni intermedie di efficienza, questo valore si riduce a 30-40 ml di aria ventilata per ciascun millilitro di ossigeno consumato. Questi principi valgono anche per gli atleti di altissimo livello, ma i valori risultano decisamente più elevati. La capacità di diffusione dell'ossigeno nei polmoni rappresenta uno dei principali fattori che limitano l'efficienza fisica. Il valore medio per un individuo di circa 30 anni di età in condizioni di riposo è di 40-50 ml/min/mmHg, e aumenta fino a 50-70 ml/min/mmHg in individui con un moderato allenamento della resistenza. Per raggiungere un massimo consumo di ossigeno di 6 l/min, per es., un atleta deve raggiungere una capacità massimale di diffusione pari almeno a 100 ml/min/mmHg. La gettata cardiaca può senza dubbio essere considerata il principale fattore di limitazione del massimo consumo di ossigeno. La frequenza cardiaca, anche negli atleti di livello mondiale che praticano sport di resistenza, non raggiunge valori massimali più elevati di quelli di persone non allenate: anzi, a causa della maggiore dimensione del cuore, la frequenza cardiaca massima di un atleta può essere addirittura più bassa. Per uomini e donne al trentesimo anno di età si può assumere per la frequenza cardiaca massima un valore di 195+10 battiti/min. La gettata sistolica aumenta parallelamente alla frequenza cardiaca fino a che quest'ultima non raggiunge i 110-120 battiti/min, valore oltre il quale si mantiene costante. I valori della gettata sistolica, che dipendono sostanzialmente dalle dimensioni del cuore, possono crescere del 50% quando si passa da una condizione di riposo a una di lavoro. La correlazione matematica più stretta è quella esistente tra la gettata cardiaca, il volume del cuore e il massimo consumo di ossigeno. In una donna non allenata il cuore ha un volume medio che va da 570 a 630 ml, mentre in un uomo raggiunge i 750-800 ml. Un cuore con un volume superiore a 900 ml può già essere considerato un cuore da atleta. Non è raro tra gli atleti che praticano sport di resistenza trovare volumi cardiaci che superano i 1000 ml; le maggiori dimensioni del cuore mai misurate sono 1700 ml per gli uomini e 1150 ml per le donne, quindi con un aumento del 100% circa.
Ormai è stato scientificamente provato che l'aumento della massa cardiaca negli atleti costituisce un adattamento a prestazioni elevate; garantisce, infatti, migliori prestazioni rispetto a un cuore di normali dimensioni e non presenta alcun rischio. L'efficienza cardiaca è un fattore importante in molte discipline sportive, tra le quali il ciclismo su strada, il canottaggio, le corse e lo sci di fondo, il kayak, il nuoto, ma anche il calcio, l'hockey e la pallacanestro. L'ipertrofia della muscolatura cardiaca si presenta in modo armonioso, poiché le fibre muscolari esistenti si accrescono sia in lunghezza sia in larghezza. Il cuore da atleta non supera comunque il cosiddetto peso critico del cuore, valore oltre il quale l'apporto di ossigeno a ciascuna fibra muscolare non risulta completo. La causa dell'ipertrofia risiede nell'accresciuta domanda meccanica, e quindi metabolica, durante la fase di contrazione (sistolica): tale stimolo provoca un aumento della sintesi delle proteine miofibrillari. Questo processo probabilmente presenta delle analogie con quello che porta all'ipertrofia della muscolatura scheletrica. Un cuore con un volume di 1500 ml è in grado di fornire una gettata sistolica di 220 ml, raggiungendo quindi una gettata cardiaca pari a 40 l/min. In media la gettata cardiaca di individui non allenati di sesso maschile può arrivare a 20 l/min, nelle donne soltanto di 13 l/min. Anche in un individuo sano, un cuore ipertrofico presenta una serie di anomalie che nel passato venivano interpretate come segnali di possibile pericolo per la salute o di danni già esistenti. Tra queste si registrano un rumore anormale in fase sistolica, brachicardia in condizioni di riposo (30 battiti/min invece dei normali 60-70), irregolarità del battito cardiaco e varie altre anomalie riscontrabili solo mediante l'elettrocardiogramma. Tutte queste manifestazioni sono ormai perfettamente comprese e non presentano alcun aspetto negativo per la salute. Dopo la cessazione dell'attività sportiva, le dimensioni del cuore diminuiscono senza però tornare ai valori originari. Nella maggior parte dei casi il cuore, per ragioni non ancora chiarite, rimane più grande del normale del 10-15%. L'aumento della massa cardiaca, come conseguenza dell'allenamento della resistenza, comporta l'aumento del volume totale di sangue. In casi estremi di adattamento fisiologico il volume di sangue può arrivare a 8 l contro i normali valori di 5-6 l per gli uomini e 4 l per le donne. Questo contribuisce in parte all'aumento della capacità aerobica. Durante uno sforzo che richiede resistenza generale dinamica aerobica si osserva una modificazione della distribuzione sanguigna. Infatti all'aumentare dell'intensità del carico di lavoro diminuisce l'afflusso di sangue al fegato e ai reni. Negli individui che presentano una minore capacità aerobica l'afflusso di sangue a questi organi si riduce in misura maggiore rispetto a coloro che hanno un massimo consumo di ossigeno più elevato. Questa ridistribuzione del flusso ematico determina lo spostamento di grandi quantità di ossigeno verso la muscolatura in attività, senza rendere necessario un ulteriore aumento della gettata cardiaca. La stretta correlazione esistente tra la gettata cardiaca e il volume sanguigno interessa anche il contenuto totale di emoglobina che, con l'allenamento della resistenza, è suscettibile di un aumento che può giungere al 50% o più. Risulta quindi superiore la capacità di legare l'ossigeno che viene trasportato alla muscolatura attiva in quantità più elevata. Tra i fattori esterni che risultano avere influenza sul consumo di ossigeno, come si è detto, si possono ricordare il carico di lavoro, la pressione parziale dell'ossigeno e il clima. Per quanto riguarda il carico di lavoro è interessante notare che in uno stesso individuo il più alto valore del massimo consumo di ossigeno viene raggiunto durante una corsa in salita, con valori che superano anche del 10% quelli registrati durante una corsa in piano. Questo dato risulta ancora più elevato se contemporaneamente vengono effettuati anche movimenti con le braccia, come avviene, per es., nello sci di fondo. Di particolare importanza, soprattutto ad altitudini elevate, è la pressione parziale dell'ossigeno nell'aria inalata. Quanto maggiore è l'altezza sul livello del mare alla quale viene svolta un'attività sportiva, tanto minore sarà il consumo massimo di ossigeno: a un'altitudine di 2000 m esso risulterà ridotto del 10% circa. Una temperatura elevata costituisce un ostacolo per gli sforzi che necessitano di resistenza.
Le stesse considerazioni sono valide per l'umidità relativa. A causa di questi fattori una maggiore quantità di sangue deve circolare a livello cutaneo allo scopo di consentire la termoregolazione, riducendo l'afflusso di sangue ai muscoli in attività. Il miglioramento della resistenza generale aerobica si consegue principalmente attraverso l'allenamento aerobico. Il termine aerobico si riferisce all'intensità del carico di lavoro che si può raggiungere senza che il livello di acido lattico aumenti più di 2-4 mmol/l. Tale condizione si realizza, in individui sani tra i 20 e i 40 anni di età, a una frequenza cardiaca compresa tra i 130 e i 170 battiti/min. Questo tipo di allenamento provoca non soltanto i cambiamenti già descritti nel cuore, nel sangue, nella respirazione e nel metabolismo, ma influisce pure su organi quali fegato, milza e polmoni, che come conseguenza subiscono un aumento di peso. Tra i metodi di allenamento che promuovono la resistenza generale dinamica aerobica, i principali sono rappresentati dal carico di lavoro continuo e dal carico intervallato, detto anche interval training. Il primo è di gran lunga il più importante non solo nello sport agonistico, ma pure nell'ambito della medicina come prevenzione dell'infarto, delle malattie vascolari e metaboliche e del calo di prestazioni legate all'età. Da un punto di vista strutturale, biochimico e biofisico, gli individui di età compresa tra i 60 e gli 80 anni sono in grado di sopportare l'allenamento come un individuo giovane, purché abbiano la forza sufficiente.
b) Resistenza generale dinamica anaerobica. È definita anche resistenza alla velocità. Questo tipo di sforzo si verifica quando un ampio gruppo di muscoli è impegnato in un lavoro dinamico e di tipo principalmente anaerobico per una durata compresa tra 20 e 120 s. Tra gli sport in cui è necessaria una resistenza dinamica generale anaerobica vi sono nell'atletica leggera le discipline della corsa tra i 200 e i 1000 m e nel pattinaggio le distanze tra 500 e 1500 m. La resistenza generale dinamica anaerobica si basa sui seguenti fattori: la forza dinamica della muscolatura utilizzata, la coordinazione, la velocità di contrazione, la viscosità, alcune caratteristiche antropometriche, la flessibilità, la capacità di mantenere un elevato livello di prestazione in condizioni di deficienza di ossigeno e di alto tasso di acido lattico. La composizione della muscolatura, relativamente alla quantità di fibre muscolari lente e veloci, è di notevole importanza nel determinare la velocità massimale nei velocisti e negli atleti impegnati in sforzi che richiedono resistenza anaerobica. Quante più fibre muscolari veloci sono presenti nella muscolatura impegnata nella corsa su breve distanza, tanto maggiore sarà la velocità massimale. Sulla distanza di 300 m la correlazione tra la velocità massimale e la percentuale di fibre muscolari veloci è meno significativa rispetto alla corsa sulla distanza di 40 m. Nelle prove di resistenza, come per es. la corsa su 2000 m, gli individui con una maggiore percentuale di fibre muscolari veloci conseguono i risultati peggiori. Ciò si spiega con il fatto che l'energia necessaria per correre 40 m viene fornita quasi esclusivamente dai composti fosforilati ad alto contenuto energetico, l'adenosintrifosfato (ATP) e la creatinfosfatasi (CP), mentre nel caso dei 300 m l'energia si ottiene dal metabolismo anaerobico sia lattacido sia alattacido. Nei 2000 m invece lo sforzo richiede una resistenza generale di tipo aerobico, in cui il fattore limitante di prestazione è il tasso di ossidazione. Le fibre muscolari veloci giocano dunque un importante ruolo nell'ambito del lavoro di tipo anaerobico. La richiesta massimale di resistenza dinamica anaerobica in individui allenati alla resistenza provoca la formazione di acido lattico in concentrazioni pari a 0,6 g/l o più, fino a valori massimi di circa 2,3 g/l. Nei 400 m la produzione di acido lattico nella muscolatura in attività raggiunge il suo massimo valore assoluto. Al termine dello sforzo la quantità di acido lattico ammonta a 30 ml/l e il valore di pH del sangue arterioso scende dal normale 7,4 a 6,85. Ciò dipende dalla velocità massima di glicolisi, in corrispondenza della quale il pH intracellulare può scendere fino a 6,2. La concentrazione dell'acido lattico determina anche la velocità di recupero. L'esercizio massimale anaerobico viene anche chiamato esercizio sopramassimale. Il suo fattore limitante consiste nella capacità di convertire l'energia chimica ottenuta per via anaerobica in energia meccanica. La resistenza generale dinamica anaerobica può migliorare mediante un allenamento aerobico di lunga durata come lavoro di base, unito alla corsa della massima intensità possibile per un periodo tra 20 e 120 s. Anche l'interval training può essere utilizzato come allenamento anaerobico. Nel corso della vita la capacità massima delle prestazioni dinamiche di tipo anaerobico si raggiunge intorno al venticinquesimo anno di età sia negli uomini sia nelle donne e inizia a declinare a circa 40 anni.
di Gian Giacomo Rovera
1.
Nei vari modelli psicopatologici e psicoterapeutici la nozione di resistenza è ricca di significati e di metafore ed è in genere ascritta a un soggetto in cerca di cure per le sue sofferenze psichiche e/o psicosomatiche, il quale stabilisce con il terapeuta una relazione d'aiuto. In senso stretto le resistenze in psicoterapia possono essere considerate come una sorta di opposizione, di riluttanza del paziente ad abbandonare vecchi e stabilizzati stili di tipo difensivo che gli conferiscono una pseudosicurezza. In ciò si può ravvisare un tentativo conscio e inconscio di evitare l'ansia provocata da vissuti psicologicamente penosi, in special modo durante l'interpretazione del transfert, cioè dell'atteggiamento emozionale del paziente verso l'analista (Thomä-Kächele 1985). In senso più esteso le resistenze fanno parte di tutte le relazioni psicoterapeutiche: in un'accezione ancora più generale esse ineriscono agli interventi sulle varianti abnormi dell'essere psichico, alle malattie mentali e anche ai problemi psichici che risultano correlati con la medicina somatica (Rovera-Fassino 1991). Originariamente il termine resistenza è stato coniato per descrivere taluni fenomeni riferibili al transfert che disturbano lo sviluppo del lavoro analitico. Mentre il paziente cerca prioritariamente un aiuto per superare le sue sofferenze, fenomeni di resistenza appaiono secondariamente contro la paura del cambiamento, che è peraltro desiderato (Freud 1904). In questa situazione il soggetto si trova a dover superare, da un lato, l'equilibrio, mantenuto per pseudosicurezza, onde fronteggiare il disturbo stesso e, da un altro lato, la tendenza al cambiamento, necessario per raggiungere mete più soddisfacenti. Per il modello psicoanalitico freudiano vi sono cinque tipi di resistenza. I primi tre, riferibili alla teoria delle pulsioni, provengono dall'Io: resistenze di rimozione, resistenze di transfert (positivo o negativo), resistenze legate al vantaggio secondario della malattia. Gli ultimi due si rifanno alla teoria strutturale e provengono sia dall'Es (necessità di rielaborazione), sia dal Super-Io (sentimento di colpa e bisogno coatto di punizione). Queste acquisizioni sono state poi oggetto di continue rielaborazioni. Da un concetto di transfert considerato come ripetizione, nell'ambito del contesto psichico terapeutico, di un conflitto interiorizzato con altre figure significative (per es. i genitori) si è passati a ritenere che il rapporto tra analista e paziente, basato sull'interpretazione, sia permeato da processi inconsci che 'apprezzano e riapprezzano' di continuo le interazioni con il mondo interno, relazionale ed esterno. Nella 'psicologia individuale' di A. Adler, la resistenza è un concetto operativo. Essa sarebbe l'insieme di quelle forze e di quei dinamismi, prevalentemente inconsci, che inducono il paziente ad assumere atteggiamenti di difesa contro la cura (Ansbacher-Ansbacher 1956). Tali atteggiamenti difenderebbero una stabile situazione di disagio psichico, a prescindere dai desideri consci di cambiamento. In particolare, la resistenza, come difesa diretta contro il cambiamento, e talora contro lo stesso processo terapeutico, esprimerebbe gli atteggiamenti di rassicurazione e di autoprotezione che, pure in altri ambiti, sono a disposizione del paziente; nella situazione terapeutica essa verrebbe a essere pertanto una variante specifica di un fenomeno ubiquitario. In genere, per tutte le correnti della psicologia dinamica, molti aspetti della vita psichica possono essere tanto al servizio di una tendenza ipercompensatoria alla rassicurazione, quanto essere considerati sotto l'aspetto di una resistenza inseribile nel rapporto terapeutico. Le resistenze (particolare forma del complesso fenomeno transferale) e anche le controresistenze (espressioni difensive da parte del terapeuta) possono essere esercitate nella relazione terapeutica, in seguito ad arcaici atteggiamenti di difesa e di rassicurazione. Le strette connessioni tra transfert, controtransfert e resistenza danno luogo a una resistenza transferale, da taluni considerata il nucleo stesso dell'analisi e del lavoro terapeutico. Altre concezioni della resistenza in psicoterapia sono, per es., quelle delle teorie postmoderniste che allargando tale nozione trovano correlazioni negli approcci costruttivisti, sistemici, multiculturali e nei paradigmi narrativi (Lyddon-Schreiner 1998).
2.
Il filo comune sotteso alle teorie e alle pratiche psicoterapeutiche più accreditate sarebbe caratterizzato dal passaggio da un''archeologia della psiche' a un''architettura del paesaggio culturale', sicché le resistenze nel corso degli interventi dovrebbero essere inserite, esplorate e trattate nella rete degli spazi intrapsichici, psicosomatici, interpersonali e culturali. Tale base comune comporta un modello relazionale in cui l'intreccio del rapporto tra paziente e terapeuta può essere suddiviso in tre livelli di interazione: 1) la relazione transferale; 2) l'alleanza terapeutica; 3) il rapporto con il reale. Nel primo livello, il paziente dovrebbe ripetere in analisi le sue pregresse vicende conflittuali. Il transfert dovrebbe essere portato fino a raggiungere la cosiddetta nevrosi di transfert. Nel secondo livello, inteso come rapporto in cui si esprimono nei confronti dell'analista gli atteggiamenti relativamente non conflittualizzati, si dovrebbe giungere a stadi di comprensione ed elaborazione in vista di una meta comune (Greenson 1960). In un terzo livello si stabilirebbe un rapporto in cui si immettono anche fattori legati alla 'realtà', per es. a situazioni esistenziali connesse alla somministrazione di psicofarmaci ecc. Mentre nella relazione transferale il terapeuta, mantenendo distanza e neutralità, si offre come specchio evocativo sul quale il paziente proietta il proprio transfert, nell'alleanza terapeutica dovrebbe tendere verso un rapporto di cooperazione (Krüttke-Rüping 1990). All'ultimo livello si dovrebbe dare maggiore spazio solo nella fase finale del trattamento, o in situazioni cliniche in cui la relazione con il paziente è caratterizzata da evenienze morbose gravi, sia psicopatologiche sia psicosomatiche, oppure in malattie medico-chirurgiche. L'immissione del farmaco nella relazione terapeutica è un evento suppletivo circa la resistenza. Utilizzando il modello biopsicosociale della psichiatria psicodinamica (Gabbard 1994), il campo della resistenza si connette ai processi psichici derivanti dalla medicina somatica. Giacché psiche e soma, in ogni singolo processo, costituiscono un'unità indissolubile, l'interesse viene focalizzato non solo sul medico come persona, che di per sé costituisce già un fattore terapeutico, ma sugli psicofarmaci e sui farmaci in generale e anche sul significato degli interventi nell'ambito di una 'psichiatria di liaison' (Lipsitt 1996). L'individuo ancor oggi attribuisce al farmaco un potere di guarigione, ma anche una forza di distruzione, qual è, per es., quella delle droghe, e se ne tiene a una distanza ambivalente nell'attesa degli effetti auspicati e in quella degli effetti temuti. Sicché il medicamento appare uno strumento in cui emergono problemi relazionali ed entrano in gioco dinamiche fisiologiche, psicologiche e culturali. L'effetto 'placebo' e quello 'nocebo' caratterizzano, per es., quei fattori che, in eccesso o in difetto, si aggiungono o si sottraggono alla specifica azione farmacologica del farmaco, sino a realizzare particolari forme di resistenza (farmacoresistenze non farmacologiche). Altri aspetti dell'interazione assistito/medico/farmaco passano attraverso i fenomeni della compliance, cioè di quelle modalità che il paziente adotta nell'aderire alla prescrizione farmacologica: in caso positivo la segue scrupolosamente, in caso di resistenza aumenta o riduce le dosi prescritte oppure, spesso, dà interpretazioni distorte riguardo tanto agli effetti quanto alla posologia.
Nell'ambito di una dinamica terapeutica, il rapporto è considerato prioritario sia nel caso ci si avvalga di interventi psicologici sia di presidi farmacologici o della loro combinazione. I fenomeni relazionali non si attivano soltanto nella misura in cui il terapeuta ne avverte l'esistenza, giacché si può ritenere che esistano sempre e comunque: gli effetti di resistenza possono essere tanto più consistenti quanto più essi agiscono al di fuori della consapevolezza del terapeuta stesso (Rovera-Fassino 1991). In effetti le resistenze accompagnano il trattamento a ogni passo, difendendo la malattia del paziente (Gabbard 1994), sia essa prevalentemente psichica, psicosomatica o somatopsichica. La struttura, spesso ambigua, della sintomatologia può segnalare un conflitto e, di conseguenza, l'inadeguatezza del paziente a risolverlo; ma può anche essere un'espressione creativa ed esprimere sia il bisogno di avanzare sia quello di retrocedere o di consolidarsi. Come resistenza difensiva la sintomatologia può costituire un baluardo offerto all'attenzione dei familiari e del curante, non solo perché lo si abbatta, ma anche perché lo si sostenga oppure lo si legittimi. Ogni manovra terapeutica può minacciare la rottura dell'equilibrio instabile che il quadro clinico rappresenta. Di qui nascono le resistenze al cambiamento e all'abbandono dei sintomi, e di qui nascono anche le resistenze al transfert, alla psicoterapia e ai farmaci, quale azione di fattori oppositivi al processo di guarigione. Il terapeuta a orientamento dinamico si aspetta di trovare delle resistenze al trattamento ed è preparato a considerare questo fenomeno come facente parte del processo terapeutico a diversi livelli di significato, i quali attengono peraltro al complesso fenomeno biopsicosociale di resistenza. Nelle situazioni medico-chirurgiche le resistenze, il transfert e il controtransfert possono rientrare in una concezione psicoterapeutica complessiva molto più ampia. Il transfert, quale atteggiamento del paziente verso il curante, non comprende solo le difese nevrotiche conflittuali, ma pure "tutto ciò che il soggetto vive e associa alla persona del terapeuta, anche se deriva dall'esperienza di una precedente relazione oggettuale"; inteso in senso ancora più ampio, il transfert entrerebbe a far parte di "tutti i fenomeni che costituiscono la relazione del paziente con il terapeuta" (Laplanche-Pontalis 1967, trad. it., p. 507). Analogamente anche il controtransfert può venire inteso, in un senso complessivo, come un controatteggiamento interattivo a tutta la relazione emozionale del terapeuta nei confronti del paziente durante il trattamento. L'utilizzazione terapeutica del controatteggiamento sarebbe una chiave per la migliore comprensione dell'individuo. Nel momento in cui il terapeuta non si pone più come guardalinee al di fuori del 'campo' del paziente ma si espone alle sue forze e se ne lascia coinvolgere con una funzione interattiva, le resistenze non sono più unicamente dovute al transfert (nell'accezione più ristretta), ma sono situabili nell'intera area terapeutica.
3.
I diversi modelli concettuali portano a valutazioni differenti circa le funzioni e le forme cliniche della resistenza. Da una parte, alle resistenze in corso di trattamento si può attribuire funzione pseudostabilizzatrice atta a mantenere un certo livello di equilibrio raggiunto con la terapia, per quanto l'evenienza morbosa possa ancora avere in atto considerevoli nuclei patologici: i diversi aspetti della resistenza sono da considerare come parte correlata al cambiamento (desiderato e temuto), elemento del processo terapeutico e dell'interazione terapeuta/paziente, in special modo nelle vicissitudini della relazione di transfert ecc. Dall'altra, le resistenze che fanno parte del percorso terapeutico, quando diventano troppo intense, interferiscono negativamente sulla stessa cura. Si possono rilevare forme di resistenza evidenti, mascherate o complessive. Le prime consistono in ritardi, assenze dalle sedute, mutismo o iperloquacità, fraintendimento persistente delle ipotesi interpretative, distrazioni, svenimenti, interruzione della terapia ecc., e, ancora, in farmacoresistenza non farmacologica, non corretta compliance, effetti nocebo ecc. Le seconde si manifestano in reticenza al dialogo, mascherato conflitto di potere, insistenti perplessità alle interpretazioni psicologiche, critiche alle prescrizioni farmacologiche, mutamenti di sintomo. Le terze si esplicano sia rispetto al lavoro analitico, attraverso la resistenza al transfert, sia con un rinforzo dei sintomi, sia attraverso il 'gergo degli organi'. Entro tali forme cliniche esiste una vasta gamma di sfumature e possibilità di variazione che implicitamente o esplicitamente attengono alle varie funzioni della resistenza sia nel concetto tradizionale, restrittivo, endopsichico, sia nel concetto di tipo relazionale, sia in quello allargato alla comprensione empatica e interattiva, specie quando si parla dell''attenzione continuativa sul controtransfert' come strumento per la comprensione delle difese e, di qui, dello stile di vita del paziente. In riferimento costante alla tipologia delle resistenze che possono emergere nel corso del trattamento, il recupero del loro significato attraverso la psicoterapia spesso è veicolato dal transfert; senza questo non vi potrebbe essere nevrosi di transfert (e quindi mobilitazione di resistenza), senza analisi di tale resistenza non vi sarebbe guarigione (Krüttke-Rüping 1990).
4.
Numerose questioni riguardano il trattamento delle resistenze. Le modalità di affrontarle nel corso di una terapia (e specie di un'analisi) dipendono da una serie di fattori, tra i quali il modello di riferimento generale e la teoria della tecnica. Questi fattori devono essere posti in relazione alla struttura dinamica del soggetto, alla diagnosi clinica, alle finalità e agli obiettivi della psicoterapia, alla tipologia delle resistenze. Giacché la resistenza è un regolatore della relazione terapeutica, l'intervento su di essa coinvolge non soltanto l'analisi del transfert/controtransfert, ma costituisce pure un aspetto protettivo sia per il paziente sia per l'intera relazione terapeutica. Attraverso l'uso della metafora la resistenza connette dinamicamente esperienze passate, presenti e prospettiche. Il suo smascheramento attraverso l'interpretazione metaforica offre quindi la possibilità di affrontare le resistenze psicologiche, comportamentali e anche psicosomatiche. La realtà individuale viene infatti strutturata metaforicamente (Kopp 1995). A livello clinico si devono ricercare soluzioni che tengano conto sia della comprensione, del lavoro disvelante e cognitivo dell'interpretazione, sia dell'esperienza emotiva correttiva, dell'incoraggiamento guidato e delle interazioni relazionali. Da un lato, metaforicamente, il trattamento delle resistenze è relativo a un approccio che propugna il principio dell'astensione, dall'altro lato è relativo a un approccio che riguarda un 'difetto strutturale' e una mancanza di esperienza originaria. Queste posizioni sulla modalità di affrontare le resistenze devono essere articolate tra loro in modo interattivo e dinamico, lungo un continuum che prenda in considerazione l'evento psicologico e terapeutico, senza che sia possibile fornire una risposta rigida definitiva. La terapia è infatti pur sempre un'interazione tra paziente e terapeuta, che deve tenere conto della diagnosi, delle strategie proposte e degli obiettivi, e che deve collocarsi nelle diverse fasi e livelli del processo terapeutico nell'ambito di un equilibrio psicologico, somatico e culturale. La metodica terapeutica nell'affrontare le resistenze dovrà quindi variare da paziente a paziente, a seconda del quadro clinico, della personalità, del modo di vivere il proprio corpo, delle esigenze specifiche, in altre parole, dello stile di vita del paziente stesso.
bibliografia
h.l. ansbacher, r.r. ansbacher, The individual psychology of Alfred Adler, New York, Basic Books, 1956 (trad. it. Firenze, Martinelli, 1997).
s. freud, Die Freudische psychoanalytische Methode, in l. löwenfeld, Die psychischen Zwangserscheinungen, Wiesbaden, Bergmann, 1904 (trad. it. in s. freud, Opere, 4° vol., Torino, Boringhieri, 1979, pp. 409-10).
id., Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, Leipzig-Wien-Zürich, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, 1933 (trad. it. in id., Opere, 11° vol., Torino, Boringhieri, 1979, pp. 121-285).
g.o. gabbard, Psychodynamic psychiatry in clinical practice, in american psychiatric association, Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-IV), Washington, APA Press, 19944 (trad. it. Milano, Masson, 1995).
r.r. greenson, Empathy and its vicissitudes, "International Journal of Psychoanalysis", 1960, 41, pp. 418-24.
w. hollmann, th. hettinger, Sportmedizin Arbeits und Trainingsgrundlagen, Stuttgart, Schattauer, 19903.
r.r. kopp, Metaphor therapy, New York, Brunner Mazel, 1995 (trad. it. Trento, Erikson, 1998).
m. krüttke-rüping, Transfert, controtransfert e resistenza, in Aspetti generali del processo analitico, Torino, Saiga, 1990, pp. 78-100.
j. laplanche, j.b. pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, Paris, PUF, 1967 (trad. it. Bari, Laterza, 1968).
d.r. lipsitt, Psychotherapy, in Textbook of consultation-liaison psychiatry, ed. J.R. Rundell, M.G. Wise, Washington, APA Press, 1996, pp. 1052-80.
w. lyddon, g. schreiner, Postmodernism and psychotherapy, "Complexity and Change", 1998, 7, p. 25.
g.g. rovera, s. fassino, Farmacoresistenza da fattori non farmacologici e relazione terapeutica, in Psicopatologia e farmaci, a cura di G.G. Rovera, Torino, CSE, 1991, pp. 81-94.
Textbook of consultation-liaison psychiatry, ed. J.R. Rundell, M.G. Wise, Washington, APA Press, 1996 (trad. it. La psichiatria nella pratica medica, Torino, CSE, 1999).
h. thomä, h. kächele, Lehrbuch der Psychoanalytischen Therapie, 1° vol., Grundlagen, Berlin, Springer, 1985 (trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1990).