Abstract
Il dipendente delle pubbliche amministrazioni che causa ad esse un danno incorre in responsabilità amministrativa, oggetto di possibili sanzioni disciplinari e di giudizio da parte della Corte dei conti.
Con la locuzione responsabilità amministrativa si fa riferimento alle conseguenze dannose subite dalle pubbliche amministrazioni per il comportamento dei propri dipendenti. In un’interpretazione più ristretta, tale responsabilità è stata limitata a quei comportamenti sanzionati da autorità amministrative (Alessi, G., Responsabilità amministrativa patrimoniale, in N.ssmo Dig. It., XV, Torino, 1957), ma invero, in un’accezione più ampia e diffusa, essa attiene anche a comportamenti oggetto di accertamento giudiziale da parte di un giudice speciale come la Corte dei conti.
Essa trova una lontana origine nella legge sulla contabilità di Stato (R.d. 18.11.1923, n. 2440), secondo la quale «l’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo» (art. 82) e nel Testo unico sulla Corte dei Conti (R.d. 12.7.1934, n. 1214), secondo il quale rispondono per comportamenti che cagionano danni «i funzionari, impiegati ed agenti, civili e militari, compresi quelli dell’ordine giudiziario e quelli retribuiti da amministrazioni, aziende e gestioni statali ad ordinamento autonomo, che nell’esercizio delle loro funzioni, per azione od omissione imputabili anche a sola colpa o negligenza, cagionino danno allo Stato o ad altra amministrazione dalla quale dipendono».
La responsabilità amministrativa trova successivamente fondamento costituzionale. L’art. 28 della Costituzione affianca tale responsabilità a quella civile e penale dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, mentre l’art. 103 individua nella Corte dei conti il giudice di tale responsabilità (v. Corte dei conti [dir. amm.]).
Invero, la disciplina costituzionale non definisce il contenuto della responsabilità amministrativa ed i comportamenti che la determinano. Permane, perciò, come chiave interpretativa della responsabilità amministrativa il contenuto delle norme antecedenti alla Costituzione, cosicché essa continua a configurarsi come un danno procurato dai dipendenti alle amministrazioni di appartenenza, con conseguenti sanzioni applicate dalla stessa amministrazione o dalla Corte dei conti.
Gli artt. 18 e 19 del Testo unico sugli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10.1.1957, n. 3) confermano che la responsabilità amministrativa è conseguenza della violazione di obblighi di servizio.
La disciplina più significativa arriva con la l. 14.1.1994, n. 20, che definisce in tutti i suoi contorni la responsabilità amministrativa e quella contabile. La responsabilità è conseguente a fatti od omissioni commessi con dolo o colpa grave, anche quando il danno sia stato subito da amministrazione diversa da quella di appartenenza. Su questa normativa si tornerà più avanti, per adesso è sufficiente notare che essa consente di delineare i tratti tipici della responsabilità amministrativa, definendone la natura giuridica. Si noti inoltre che il contenuto sostanziale della responsabilità amministrativa viene definito in una legge sulla giurisdizione della Corte dei conti, come dire che la situazione sostanziale sussiste in quanto garantita da una tutela giurisdizionale.
Ulteriore conferma si ha ora con il recente d.lgs. 26.8.2016, n. 174, che, nell’ambito della più generale riforma della pubblica amministrazione, detta una disciplina totalmente nuova del giudizio innanzi alla Corte dei conti (v. infra, § 10).
Sulla natura giuridica della responsabilità amministrativa si sono confrontate una visione pubblicistica ed una privatistica, come peraltro è avvenuto per l’intero spettro della responsabilità delle pubbliche amministrazioni. La tesi privatistica configura una natura di peculiare responsabilità civile per danno, mentre la tesi pubblicistica rileva la difformità dal modello privatistico (D’Alberti, M., Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, 363), identificando nella responsabilità amministrativa un potere sanzionatorio tipico solo delle pubbliche amministrazioni (Lillo, F., Danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., I, Torino, 2008; Mercati, L., Responsabilità amministrativa e principio di efficienza, Torino, 2002; Police, A., Il principio di responsabilità, in Renna, M.-Saitta, F., a cura di, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano 2012, 195 ss.; Id., La giurisdizione della Corte dei conti: evoluzione e limiti di una giurisdizione di diritto oggettivo, in Scoca, F.G.-Di Sciascio, A., a cura di, Le linee evolutive della responsabilità amministrativa e del suo processo, Napoli, 2014, 25 ss.).
L’orientamento privatistico si fonda sulla natura risarcitoria dell’azione proposta davanti alla Corte dei conti per il danno erariale. Nella declinazione extracontrattuale si fa riferimento al principio generale del neminem laedere, che trova riscontro già nella legge sulla contabilità di Stato del 1923 e successiva conferma nell’estensione della responsabilità amministrativa al danno patrimoniale ad ente diverso da quello a cui appartiene chi ha commesso il fatto lesivo (art. 1, co. 4, l. 20/1994). La natura contrattuale è stata, invece, sostenuta da chi ritiene che la responsabilità amministrativa trovi fondamento nel contratto di lavoro del dipendente delle amministrazioni pubbliche, pur se con alcune peculiarità (Schiavello, L., La nuova conformazione della responsabilità amministrativa, Milano, 2001).
La tesi della natura pubblicistica si fonda sulla funzione sanzionatoria della responsabilità per la natura dell’azione della procura della Corte dei conti e soprattutto per il potere riduttivo dell’addebito nel giudizio di responsabilità (Tenore, V., La responsabilità amministrativo-contabile: profili sostanziali, in Tenore, V., a cura di, La nuova Corte dei Conti: responsabilità, pensioni, controlli, Milano, 2004; Maddalena, P., La sistemazione dogmatica della responsabilità amministrativa nella evoluzione attuale del diritto amministrativo, in Cons. St. 2001, II, 1559).
Tale questione può trovare spiegazione ove si comprenda la poliedricità della responsabilità amministrativa, che ha indotto gli interpreti ad attribuire ad essa plurime funzioni, tutte inscritte dentro il paradigma del buon andamento. Alla più evidente funzione sanzionatoria sono state spesso accostate ed aggiunte funzioni riparatorie e di prevenzione e deterrenza nei confronti dei dipendenti pubblici.
Una risposta al dilemma della natura giuridica è rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale, secondo cui (C. cost., 11-20.11.1998, n. 371) la responsabilità amministrativa ha una funzione restitutoria rispetto al danno economico subito dall’amministrazione, ma anche una funzione di prevenzione per evitare analoghi danni. La contemporanea presenza di queste due funzioni autorizza a propendere per la natura pubblicistica della responsabilità amministrativa, volta a finalità ultronee rispetto al fine civilistico restitutorio (D’Alberti, M., op. cit.). Se, infatti, la funzione restitutoria ben può inserirsi nel tradizionale effetto privatistico del risarcimento del danno, più difficile è ricondurre in questo alveo la funzione di prevenzione e deterrenza. Sebbene anche una parte della dottrina privatistica abbia attribuito al risarcimento del danno effetti di deterrenza rispetto a futuri analoghi comportamenti, l’effetto propriamente sanzionatorio a fini di prevenzione, nel caso della responsabilità amministrativa, è strettamente connesso con uno specifico potere sanzionatorio della pubblica amministrazione.
Questa opinione trova conferma nella l. n. 20/1994, che ribadisce il potere riduttivo e la competenza della procura della Corte dei conti, rafforzando il potere sanzionatorio e repressivo dell’azione conseguente alla responsabilità amministrativa.
Prevale così la natura pubblicistica, definita sempre in stretta connessione con il giudizio innanzi alla Corte dei conti, nella convinzione che un diritto trovi fondamento nella sua possibile tutela giurisdizionale.
È fondamentale rilevare come la responsabilità amministrativa risulti differenziata, per la sua intrinseca specialità, rispetto al modello di diritto comune: una connotazione frutto della compresenza di istanze di natura sostanziale e processuale che delineano un nesso che concorre alla determinazione della natura dell’istituto in oggetto.
Innanzitutto, occorre riflettere sul presupposto essenziale sul quale la responsabilità amministrativa si sviluppa, vale a dire i soggetti che possono incorrere in tale responsabilità. Così, mentre è possibile definire la figura dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, attingendo all’art. 52, R.d. 12.7.1934, n. 1214 ed all’art. 2, l. 8.10.1984, n. 658 (richiamato dall’art. 1 della l. 14.1.1994, n. 19), lo stesso non pare potersi affermare in merito al rapporto di servizio.
Il ricorso a siffatto elemento, infatti, ha costituito un grimaldello per consentire l’estensione applicativa della responsabilità amministrativa e, pertanto, della giurisdizione contabile; ciò ha dato luogo ad un processo volto a far ricadere in siffatto alveo semantico qualsivoglia relazione tra una persona fisica o giuridica che, a qualsiasi titolo (volontario, coattivo, onorario ecc.), venga inserita nell’organizzazione di un ente pubblico per il perseguimento delle finalità istituzionali di quest’ultimo. Un’interpretazione avversata da parte della dottrina (Scoca, F.G., Fondamento storico ed ordinamento generale della giurisdizione della Corte dei conti, in Atti del LI Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Varenna Villa Monastero, 15-17 settembre 2005, Milano, 2006), stante il rischio sotteso all’indeterminatezza di tale concetto, che potrebbe consentire di estendere in modo spropositato il perimetro di siffatta responsabilità.
A conforto di ciò si rammentino gli orientamenti della Cassazione in tema di determinazione della giurisdizione della Corte dei conti sul danno erariale, alla luce della tendenza dell’amministrazione volta a far ricorso a soggetti non riconducibili all’organizzazione amministrativa tradizionale (si pensi ai rapporti di natura concessoria), con la conseguente individuazione di fattispecie reali operanti in ambiti non ricadenti nel regolamento di contabilità di Stato, nonché in virtù del sovente ricorso agli schemi di diritto comune.
Tali fattori hanno comportato una rideterminazione dei criteri sottesi al riparto di giurisdizione ed in particolare, in sede di identificazione delle ipotesi soggette al vaglio del giudice contabile, hanno fatto spostare l’attenzione da un criterio eminentemente soggettivo, improntato sulla condizione giuridica dell’agente autore della condotta, ad uno sostanzialistico, incentrato sull’ontologica natura delle funzioni espletate nonché sulle risorse finanziarie utilizzate (Cass., S.U., 1.3.2006, n. 4511). Uno scenario in cui la qualificazione dell’attività amministrativa, concepita in termini puramente finalistici, prescinde in modo tranchant dal modello normativo di riferimento diritto pubblico/diritto privato.
Per di più, così facendo, l’interesse sotteso al rapporto di servizio si è spostato verso le crescenti ipotesi di soggetto extraneus all’amministrazione e pur tuttavia preposto ad un’attività di rilievo pubblicistico. Una situazione che comporta l’irrilevanza tanto della natura giuridica dell’atto di investitura (provvedimento, convenzione o contratto) quanto dei soggetti, che ben potrebbero essere persona giuridica o fisica, pubblica o privata (cfr. Cass., S.U., 3.7.2009, n. 15599; Cass., S.U., 31.1.2008, n. 2289; Cass., S.U., 22.2.2007, n. 4112). L’area della responsabilità viene così ampliata anche quando sussista un rapporto di servizio inteso, in senso lato, come compartecipazione all’attività amministrativa, cosicché, ad esempio, si ammette la responsabilità del direttore dei lavori e del collaudatore di un appalto, pur se essi siano soggetti esterni alla pubblica amministrazione (Cass., 25.3.2016, n. 6022).
Un’impostazione che si estende alle evenienze in cui l’estraneo venga investito – ancorché ex facto – di una attività svolta in favore dell’amministrazione (Cass., S.U., 9.9.2008, n. 22652), ovvero laddove tale attività non debba rispondere ad una gestione finanziaria secondo moduli contabili di matrice pubblicistica ovvero di rendicontazione propri della giurisdizione contabile (Cass., S.U., 12.10.2004, n. 20132).
Tale prospettiva ha consentito il proliferare di una casistica variegata alla quale è possibile ricondurre, oltre alle ovvie ipotesi di estensione dell’assoggettabilità alla responsabilità amministrativa dei dipendenti di enti pubblici economici (Cass., S.U., 22.12.2003, n. 19667), altresì quelle – più sdrucciolevoli – di danno erariale cagionato all’ente locale da società affidatarie di un pubblico servizio. Uno scenario in cui l’elemento finalistico, rappresentato dalla cura concreta degli interessi della collettività, offusca qualsivoglia riflessione in merito alla natura privatistica dell’ente affidatario e/o allo strumento contrattuale utilizzato per la creazione del rapporto con la pubblica amministrazione (Cass., 22.1.2002, ord. n. 715).
Quanto sin qui rilevato deve essere letto, altresì, alla luce degli interventi normativi che hanno interessato la materia. Pertanto, nonostante le deroghe legislative in tema di responsabilità degli amministratori e dei dipendenti di società per azioni aventi una quotazione su mercati regolamentati, ancorché partecipate in misura inferiore al 50% (art. 16 bis, d.l. 31.12.2007, n. 248), permangono soggetti (Enel, Eni ecc.) potenzialmente incisi dalla giurisdizione della Corte dei conti.
L’estensione del giudizio amministrativo-contabile risulta anche dalla previsione dell’art. 7 della l. 27.3.2001, n. 97, che ha sancito, in relazione al rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare nelle pubbliche amministrazioni, l’obbligo dell’amministrazione di comunicare al procuratore regionale della Corte dei conti la sentenza definitiva pronunciata nei confronti dei propri dipendenti per i delitti contro la pubblica amministrazione (previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale), affinché questi possa promuovere il procedimento per danno erariale avverso il condannato. Una disposizione il cui rilievo si palesa dall’analisi in combinato con l’art. 3 della medesima legge che, nell’estendere l’applicazione della suddetta disciplina nei confronti dei dipendenti di enti a prevalente partecipazione pubblica, opera nel senso di un’ineluttabile estensione dell’alveo applicativo del giudizio amministrativo-contabile.
Queste considerazioni devono essere rilette alla luce dei recentissimi orientamenti legislativi in materia di società a partecipazione pubblica introdotti dal d.lgs. 19.8.2016, n. 175.
L’art. 12 di tale decreto, rubricato “Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate”, ha sancito che i componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società partecipate siano sottoposti alle azioni civili di responsabilità previste per le società di capitali, fatta salva la giurisdizione contabile per danno erariale causato da amministratori ovvero da dipendenti delle società in house. Peraltro, la giurisprudenza aveva già affermato la responsabilità dei dirigenti di una società in house, che avevano ceduto senza corrispettivo un terreno pertinenziale sul presupposto che non fosse stato valorizzato in catasto (C. conti, Toscana, 29.9.2016, n. 258).
Al contempo, in modo più incisivo, la stessa disposizione ha stabilito la devoluzione alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, della giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti o comunque dei titolari di poteri decisori che, nell’esercizio dei propri diritti sociali, abbiano, con dolo o colpa grave, pregiudicato il valore della partecipazione.
L’interpretazione di tale nuova disposizione dovrà tener conto delle decisioni giurisprudenziali che diversificavano la giurisdizione, distinguendo se il danno fosse stato cagionato alla società o all’ente pubblico titolare della partecipazione azionaria.
Tale differenza appare tutt’altro che banale posto che, facendo richiamo agli orientamenti della Cassazione (ex multis Cass., 12.10.2011, ord. n. 20941), in caso di danni ad una società di diritto privato a partecipazione pubblica, il pregiudizio appare riconducibile al patrimonio sociale e non anche all’ente pubblico, non direttamente inciso dal comportamento dannoso, con la conseguente applicazione delle regole di diritto comune. Tale connotazione, al di fuori dei casi di società ad intero capitale pubblico, fa scemare la possibilità di ascrivere dette situazioni nel novero della fattispecie del danno erariale.
Pertanto, al di fuori delle ipotesi derogatorie previste dalla legge soggette alla giurisdizione ordinaria, il pregiudizio diretto al patrimonio dell’ente pubblico, pur in forma societaria, è oggetto della giurisdizione contabile, come nel caso di danno all’immagine arrecato all’ente pubblico a seguito di atti illegittimi degli organi della società partecipata (Cass., S.U., 20.6.2007, n. 14297).
Tale costruzione appare rispondente all’impostazione della Riforma Madia che codifica l’esigenza di perseguire le condotte illecite, fonte di danno erariale, subito dagli enti partecipanti.
La responsabilità amministrativa si caratterizza, oltre che per il rapporto di impiego o di servizio con l’amministrazione, per i tradizionali elementi di ogni tipo di responsabilità, cioè la condotta, l’elemento psicologico (dolo o colpa), il danno ed il nesso di causalità.
L’oggetto che sta alla base della responsabilità amministrativa va identificato nella condotta illecita, commissiva od omissiva, posta in essere dall’agente, costituente violazione dei doveri di ufficio ovvero inadempimento di obblighi di gestione. In buona sostanza, tale elemento sarebbe riconducibile ad un fatto giuridico generatore ovvero propedeutico alla determinazione di un danno erariale.
Uno scenario in cui il giudizio contabile mantiene la propria linea di demarcazione rispetto a quello dinanzi al giudice amministrativo, considerata la centralità riservata al modulo liceità/illiceità, in luogo dello schema legittimità/l’illegittimità dell’atto. In siffatta prospettiva, i profili patologici della illegittimità e della illiceità di una condotta non sono sottoposti ad un vincolo di consequenzialità logica. Sicché, dinanzi ad ipotesi di atti connotati per la deviazione dalle regole di legittimità, stante la preclusione al giudice contabile del potere di annullamento, questi assumono la valenza di mero indice sintomatico volto a consentire una piena cognizione sulla condotta dannosa.
Si realizza così l’autonomia del giudizio contabile rispetto agli altri tipi di giurisdizione. Innanzitutto, per l’indipendenza di giudizio delle valutazioni della Corte dei conti, totalmente slegate da condizionamenti rispetto al giudizio in cui l’atto sia stato impugnato principaliter, sia esso un giudizio dinanzi al giudice ordinario o amministrativo; in secondo luogo, per l’esigenza di garantire la separazione dei poteri, che ha spinto a suggellare il principio di insindacabilità delle scelte discrezionali, di cui al vigente art. 1, co. 1, l. 14.1.1994, n. 20. È in forza di tale ultimo principio che, ad esempio, non incorre in responsabilità il dirigente del servizio urbanistico che decide di non annullare d’ufficio una concessione edilizia in sanatoria di opere abusive sul presupposto che l’autotutela comporta valutazioni discrezionali (C. conti, Lazio, 30.6.2016, n. 214).
Certo non è facile individuare in concreto se vi sia potere discrezionale, cosicché la giurisdizione della Corte dei conti tende ad espandersi, ove si affermi che l’insindacabilità delle scelte effettuate dal funzionario non escluda la possibilità di accertare la conformità alla legge dell’attività amministrativa, anche in ordine alla congruità dei singoli atti compiuti rispetto al fine imposto dal legislatore. Rimane, perciò, oggetto del giudizio, anche in caso di scelte discrezionali, la ragionevole proporzionalità tra costi e benefici, considerata principio fondamentale dell’attività amministrativa, previsto dall’art. 1 della legge sul procedimento.
L’ampiezza delle condotte punibili si ravvisa in un ampio catalogo di casi. La responsabilità amministrativa si configura quando, nonostante il divieto normativo, si eroghino al personale somme sostitutive di ferie (C. cost., 6.5.2016, n. 95) oppure quando il dirigente non abbia impedito il pagamento delle utenze gravanti su un bene immobile mai entrato in possesso dell’ente (C. conti, Lazio, 8.2.2016, n. 54) oppure ancora nel caso di mancato introito da parte di un’azienda sanitaria dei ticket per le prestazioni di pronto soccorso (C. conti, Calabria, 26.1.2016, n. 1); oppure quando vengano attribuite mansioni superiori a un dipendente di un’azienda sanitaria (C. conti, Lazio, 14.6.2016, n. 193). Incorre altresì in responsabilità amministrativa il vice comandante della polizia municipale che ha ricevuto un’indennità di turnazione non prevista dalle disposizioni contrattuali (C. conti, Marche, 19.5.2016, n. 25); il Sindaco di un ente locale socio unico di società in house che ha causato una perdita di valore in un’operazione di ricapitalizzazione, senza aver vigilato o esercitato l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società (C. conti, Lazio, 10.5.2016, n. 158); i funzionari di un’azienda territoriale per l’edilizia residenziale che non abbiano tempestivamente stipulato contratti di locazione per immobili sfitti (C. conti, Veneto, 12.1.2016, n. 5); il responsabile di un ospedale religioso ed il funzionario dell’Azienda sanitaria locale addetto ai controlli che hanno consentito pagamenti di prestazioni odontoiatriche a soggetto non accreditato (C. conti, Lazio, 24.11.2015, n. 461); i consiglieri regionali per l’approvazione del rendiconto dei gruppi consiliari (C. cost., 19.11.2015, n. 235); il dirigente che abbia rinnovato contratti di lavoro a tempo determinato a soggetti che hanno poi ottenuto la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno per l’illecita apposizione del termine al contratto di lavoro (C. conti, Valle d’Aosta, 16.11.2015, n. 14).
L’ulteriore elemento della responsabilità amministrativa è la colpevolezza che, attraverso l’indagine sul livello di diligenza, consente di determinare il limite entro il quale le condotte degli agenti pubblici possono spingersi senza incorrere in responsabilità. In proposito, l’art. 1, co. 1 della l. 20/1994 nel testo attuale ha sancito che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti è limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, come ora confermato dall’art. 12, co. 2 del d.lgs. n. 175/2016.
Sul primo versante, quello del dolo, è consolidata l’opinione che tale elemento, in ossequio all’impostazione penalistica, comporti la rappresentazione del fatto da parte di una volontà cosciente diretta a provocare l’evento dannoso quale conseguenza della propria azione (C. conti, 1.7.2002, n. 228; C. conti, 3.6.2003, n. 244).
Sul fronte della colpa, si rileva che il dipendente non solo è chiamato al perseguimento dei fini stabiliti dalla legge ma, al contempo, a rispettare norme procedurali e deontologiche necessarie per lo svolgimento della sua attività e la cui violazione ingenera profili di responsabilità.
A tale proposito, è noto che la l. 20/1994 aveva scelto di applicare il regime della colpa tout court. Un’impostazione ben presto rivisitata con l’avvento della l. 20.12.1996, n. 639, che ha introdotto il regime della colpa qualificata. Questa scelta, se per un verso rimarca la specialità di siffatta responsabilità rispetto a quella civilistica, per altro risponde ad istanze squisitamente operative, volte ad evitare la trasformazione dell’istituto in commento in un disincentivo per i pubblici dipendenti a svolgere la dovuta attività amministrativa.
Per di più la qualificazione dell’elemento psicologico in termini di colpa grave risponde all’evoluzione della complessità che investe il nostro ordinamento ed al consequenziale incremento dei doveri a carico dei pubblici dipendenti e delle relative responsabilità, cosicché il legislatore tende a salvaguardare questi ultimi da possibili accanimenti ad opera della magistratura contabile e ad evitare il dilagare di un eccessivo timore, potenzialmente fonte di mummificazione dell’attività. Invero, la Consulta ha in più occasioni ribadito la conformità di questa soluzione rispetto alla Carta (C. cost., 11.11.1998, n. 371; 30.12.1998, n. 453). L’effetto preventivo della sanzione, volto a dissuadere da comportamenti illeciti, non deve infatti ingenerare eccessivi timori, poiché ciò finirebbe con il paralizzare l’attività delle amministrazioni, producendo un effetto contrario rispetto al fine auspicato, cioè al buon andamento. Anche in questo senso vanno interpretate le sentenze che ammettono il pagamento da parte dell’amministrazione delle spese legali sostenute dal funzionario per il giudizio in cui è stata riconosciuta la legittimità del suo operato (TAR Piemonte, Torino, 17.6.2016, n. 846. In tal senso già: TAR Sicilia, Catania, 13.6.2011, n. 1485; TAR Friuli Venezia Giulia, 10.6.2011, n. 291).
La giurisprudenza è giunta così ad individuare la colpa grave nel caso di «mancanza di diligenza, violazione delle disposizioni di legge, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, che si traduce, in estrema sintesi, in una situazione di macroscopica contraddizione tra la condotta tenuta nello specifico dal pubblico dipendente ed il minimum di diligenza imposto dal rapporto di servizio, in relazione alle mansioni, agli obblighi ed ai doveri di servizio» (C. conti, 14.7.2005, n. 1010).
Pertanto, in sede di identificazione della soglia di gravità di siffatto elemento soggettivo, non rileverebbe la mera violazione di regole di condotta, bensì sarebbe necessaria la sussistenza di comportamenti connotati da inescusabile negligenza o dalla previsione dell’evento dannoso (C. conti, 5.10.2015, n. 477). La natura essenzialmente normativa del giudizio in ordine alla sussistenza della colpa grave impone al giudice di effettuare una doppia valutazione (cd. doppia misura della colpa). Da un lato, deve essere individuato il fondamento normativo della regola che il legislatore ha posto in via precauzionale per evitare il rischio del danno; dall’altro, deve essere accertato in concreto se vi fossero, nel caso in specie, le condizioni concrete per esigere quella condotta normativamente prevista (C. conti, 23.9.2015, n. 637).
Tale giudizio necessita, perciò, di vari fattori: l’evento dannoso deve essere oggettivamente prevedibile dall’agente ex ante in virtù di una violazione dei doveri d’ufficio, attraverso la violazione di precetti chiari in conseguenza di un errore professionale inescusabile (C. conti, 26.3.2007, n. 801); l’inosservanza della diligenza minima richiesta rispetto alla fattispecie concreta, come nel caso di violazione di elementari regole di comportamento ovvero di inescusabile approssimazione nella tutela degli interessi pubblici (C. conti, 29.6.2000, n. 51), e pur tuttavia non ci si trovi in presenza di circostanze oggettive ed eccezionali che incidano, in senso impeditivo, sull’esercizio dei compiti scaturenti dal rapporto di servizio.
L’esimente della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo, rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa solo quando sussistano elementi positivi, idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, di talché nessun rimprovero possa essergli mosso. In tal senso, l’art. 17, co. 30 quater, d.l. 78/2009 ha integrato l’art. 1, co. 1, della l. n. 20/1994, esimendo l’agente dal giudizio di colpevolezza laddove il fatto dannoso tragga origine da un atto sottoposto a visto e registrazione in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili di pertinenza del controllo.
L’elemento fondamentale del danno consiste nel depauperamento del patrimonio che l’Erario – inteso come Stato comunità – subisce in ragione della condotta illecita del pubblico agente. Un tipo di danno, frutto di ipotesi atipiche scaturenti da condotte a forma libera, in cui la dimensione complessiva della lesione economico-patrimoniale che il comportamento del responsabile produce comprende tanto il danno emergente (inteso come deterioramento o perdita di beni o denaro) quanto il lucro cessante (mancata acquisizione di aumenti patrimoniali che l’amministrazione, in caso di condotta diligente del dipendente, avrebbe potuto realizzare).
La maggiore criticità, rispetto a siffatta tipologia di danno, attiene alla tradizionale tendenza di considerare dannoso solo il pregiudizio suscettibile di valutazione economica. Una impostazione che, grazie al processo di depatrimonializzazione della responsabilità (Rodriquez, S., Tangenti e danno all’immagine: un altro intervento del giudice contabile, nota a C. conti, 7.12.2007 n. 502, in Resp. civ. prev., 2008), ha portato – già a partire dagli anni Settanta (C. conti, 15.5.1973, n. 39) – all’individuazione di una più ampia e pervasiva nozione di danno pubblico alla collettività, comprensiva oltre che dell’elemento patrimoniale, altresì di quegli interessi di carattere generale del corpo sociale o connessi con l’interesse pubblico all’equilibrio economico e finanziario, riferibili allo Stato-comunità.
Un’evoluzione che, consentendo di enucleare un’autonoma categoria del danno all’immagine ed al prestigio della pubblica amministrazione, ha spinto la Corte dei conti, in una emblematica sentenza, a riconoscere il danno patrimoniale indiretto al discredito subito dall’ente pubblico in ragione delle conseguenze mediatiche di una vicenda in cui l’amministratore di un consorzio di Comuni, percependo illecitamente una somma di denaro in concorso con un consigliere regionale, aveva agevolato un imprenditore a nocumento dell’immagine dell’ente (C. conti, Lombardia, 24.3.1994, n. 31).
Un’impostazione ripresa nel giro di poco tempo dalla Cassazione che, con una pronuncia storica (Cass. S.U., 25.6.1997, n. 5668), pur avendo escluso la competenza del giudice contabile in tema di danno morale, ha riconosciuto alla Corte dei conti il potere di giudicare sul «danno conseguente alla grave perdita di prestigio e grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica dello Stato». Una scelta, quella del cd. caso Poggiolini, improntata a ribadire la “sostanziale patrimonialità” del danno la cui consistenza, ancorché scorporata dalla diminuzione patrimoniale diretta, poteva essere determinata per la valutabilità patrimoniale del bene giuridico leso, coincidente con le spese sostenute per il ripristino di un’immagine danneggiata. Uno scenario contrassegnato più che dalla necessità di rimarcare una competenza in tema di danno non patrimoniale, dalla determinazione dell’an e del quantum di un danno – ancorché indiretto – concepito sempre nell’alveo della sfera patrimoniale. Successivamente non sono mancate decisioni che, introducendo la categoria del danno-conseguenza, valutano il risarcimento al di fuori delle spese per il ripristino del decoro leso (C. conti, 2.7.2008, n. 283).
La Corte costituzionale (sent. 15.12.2010, n. 355) riconosce che il danno all’immagine possa essere ricondotto alla violazione dell’art. 2043 c.c. o dell’art. 2059 c.c., ma soprattutto – per quanto qui interessa – afferma che «è indubbio che la responsabilità amministrativa, in generale, presenti una peculiare connotazione, rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall’ordinamento, che deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998)». Per questo, spesso, la giurisprudenza ha preferito ricorrere a criteri di equità ex art. 1226 c.c., parametrando il risarcimento alla gravità dei fatti ed all’arbitrarietà della condotta illecita.
Numerosi sono gli esempi di fattispecie di responsabilità amministrativa per danno erariale che sono state oggetto di produzione pretoria e che – in talune circostanze – hanno trovato collocazione in seno all’alveo normativo. Si pensi al cd. danno patrimoniale da tangente (ex multis, C. conti, 18.2.1995, n. 136) ovvero al danno da disservizio (C. conti, 23.1.2008, n. 109).
In conclusione su questo profilo, appare interessante rilevare, in punto di principi generali, come il processo di depatrimonializzazione della responsabilità abbia trovato formale riconoscimento nella legislazione vigente, visto che il co. 2 del citato art. 12 del recente d.lgs. 175/2016 sulle società partecipate identifica il danno erariale tanto in termini patrimoniali che non patrimoniali.
Da ultimo, è elemento costitutivo della responsabilità amministrativa il nesso eziologico che deve sussistere tra la condotta antigiuridica dell’agente e l’evento lesivo (C. conti, 5.3.1993, n. 848). Si tratta dell’elemento in forza del quale la responsabilità amministrativa è da ritenersi sussistente laddove vi sia un rapporto di causa-effetto tra la trasgressione posta in essere dal dipendente pubblico e l’evento, che determina l’inverarsi del danno erariale. E’ un elemento nodale la cui consistenza concettuale è stata, sul precipuo versante giuscontabilistico, determinata grazie al ricorso alla fattispecie penalistica di cui agli artt. 41 e 42 c.p., in parte integrata dalla lettura dell’art. 1223 c.c..
Così, si ritiene responsabile il dipendente ove vi sia una causalità reale e dimostrabile, con la conseguenza che «mancando la prova che il comportamento omissivo abbia avuto incidenza causale sull’evento di danno, deve procedersi all’assoluzione dei convenuti» (C. conti, 19.9.1990, n. 682/A).
La lettura corrispondente al giudizio penale ha portato la Corte dei conti ad attingere all’evoluzione della giurisdizione della Cassazione in materia, muovendo da una prospettiva condizionalistica (C. conti, 1.12.1993, n. 298), passando poi ad una configurazione di causalità adeguata, in base all’id quod plerumque accidit (C. conti, 26.8.1999, n. 1007) e ad un giudizio a priori sulla idoneità della causa ad ingenerare l’effetto (C. conti, 20.2.1991, n. 11).
In relazione a ciò si deve, inoltre, osservare come il nesso eziologico possa sussistere sia nelle ipotesi di danno diretto, nelle quali cioè la conseguenza negativa della condotta ricade ab origine sulla pubblica amministrazione (ad esempio, danneggiamento di beni pubblici) ovvero in quelle di danno indiretto in cui l’evento dannoso produce effetti nella sfera giuridica di terzi – attraverso la lesione di posizioni giuridiche – per le quali venga a radicarsi in capo all’amministrazione, in virtù di un accordo transattivo o di sentenza di condanna, l’obbligo di risarcimento in ossequio al principio di solidarietà passiva tra i soggetti legati da rapporto organico di cui all’art. 28 Cost.
Le recenti riforme normative in atto stanno interessando la responsabilità amministrativa, determinando una codificazione che, dal versante sostanzialistico, si è progressivamente estesa al fronte processuale.
Merita almeno un accenno il d.lgs 26.10.2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile) che, per la prima volta, specifica le previsioni costituzionali in merito al giudizio della Corte dei conti, modificando le relative regole processuali. In questa sede è sufficiente rammentare che l’art. 1 del Codice ha sancito in modo definitivo e puntuale che la Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all’erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica.
A fronte della portata innovativa del Codice, restano aperte una serie di questioni sostanziali e processuali tra le quali emerge la difficoltà di coordinare il giudizio dinanzi alla Corte con le altre tipologie rimediali previste dall’ordinamento, quando attengano ad una medesima fattispecie.
Un esempio è rappresentato dal rapporto tra azione di danno e costituzione di parte civile della pubblica amministrazione in sede penale, posta la non estendibilità dell’art. 75 c.p.p. al processo contabile. Su questo punto, il Codice si limita a prevedere, all’art. 106, la sospensione del giudizio. In proposito, la Consulta aveva già tentato di operare un raccordo, facendo leva sull’applicazione dell’art. 538, co. 2 c.p.p., che preclude al giudice penale di operare la condanna risarcitoria nel caso in cui sia prevista la spettanza di altro giudice. La Cassazione ha riconosciuto che l’azione di responsabilità amministrativa per danno erariale, esperibile dal Procuratore generale della Corte, non possa essere sottoposta a preclusione a seguito della condanna generica al risarcimento in sede penale ovvero in sede civile (Cass., S.U., 6 .7.2011, n. 1483; Cass., S.U., 7.1.2014, n. 63). Un’impostazione che, però, non pare sia stata recepita dalla giurisprudenza penale che, partendo dal principio di separazione dei due giudizi e di autodeterminazione delle giurisdizioni, è monolitica nel ritenere che il giudice penale in sede di determinazione del danno erariale all’immagine non sia vincolato all’applicazione dei criteri di origine giuscontabilistica (Cass., 29.1.2016, n. 6659). In siffatto variegato scenario appare evidente una frattura insita nel sistema che, stante la non applicabilità della regola del ne bis in idem, presenta la possibilità di una stratificazione di due processi – caratterizzati dalla finalità risarcitoria – con il rischio di contrastanti giudizi per la medesima condotta.
È questo solo un esempio per dimostrare come la responsabilità amministrativa sia ancora oggi, a maggior ragione dopo la recente emanazione del Codice della giustizia contabile, una fattispecie complessa e cangiante.
Art. 2043 c.c.; l. 14 gennaio 1994 n. 19 ss.mm.; l. 14 gennaio 1994 n. 20 ss.mm.; d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174 (“Codice di giustizia contabile”)
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