Responsabilita civile. La responsabilita sanitaria
Il tema della responsabilità sanitaria nel 2011 ha fatto registrare una importantissima presa di posizione della Corte di cassazione, la quale ha escluso che sull’accertamento della responsabilità del sanitario possano incidere, determinando una riduzione equitativa di essa, le pregresse condizioni di salute del paziente. Il ferimento o l’uccisione di un paziente già malato è circostanza che può incidere non sulla misura della responsabilità (che sarà sempre del 100% anche se il medico ha contribuito all’evento di danno solo nella misura dell’1%), ma soltanto sulla misura del risarcimento dovuto.
Nel 2011 si sono registrate due importanti novità in materia di responsabilità medica: l’una di fonte giurisprudenziale, l’altra legislativa.
1.1 Il nesso di causalità
La novità più importante è stata senz’altro quella di matrice giurisprudenziale, rappresentata dalla sentenza 21.7.2011, n. 15991 della Corte di cassazione. Con questa sentenza è stato risolto un importante problema in tema di nesso di causalità, e cioè se il concorso di cause umane e cause naturali alla produzione dell’evento possa giustificare una riduzione percentuale del grado di colpa del danneggiante e, di conseguenza, della misura del risarcimento. La vicenda esaminata dalla Corte di cassazione aveva ad oggetto una domanda di risarcimento del danno proposta dai genitori di un bimbo nato con gravi problemi neurologici. Secondo la prospettazione degli attori, la causa di questi problemi era stata l’ipossia cerebrale a sua volta causata dalla ritardata esecuzione di un parto cesareo; al contrario i sanitari convenuti replicavano che la causa dell’ipossia era avvenuta ante partum, e che di conseguenza la propria condotta non era stata la causa del danno. In subordine, avevano chiesto che la propria responsabilità fosse ridotta proporzionalmente, perché anche la condizione di salute del feto – e quindi un fatto naturale – aveva contribuito con la condotta dei sanitari alla produzione dell’evento. Nel dare soluzione al problema del concorso della causa umana con la causa naturale, la sentenza del 2011 ha escluso qualsiasi graduabilità della responsabilità del medico in funzione delle pregresse condizioni di salute del paziente. Per stabilire invece in che modo queste ultime possano incidere sulla misura del risarcimento occorre tenere distinti due diversi nessi di causalità: quello tra la condotta illecita e la concreta lesione dell’interesse (cd. causalità materiale, disciplinata dall’art. 40 c.p.), e quello tra quest’ultima ed i danni che ne sono derivati (cd. causalità giuridica, disciplinata dall’art. 1223 c.c.). Secondo questa impostazione, nel caso di responsabilità per danno biologico derivante da colpa del medico, occorre in primo luogo stabilire se dall’azione od omissione del medico sia derivata una lesione della salute; quindi – in caso affermativo – accertare quali conseguenze dannose (in termini di sofferenza, compromissione della validità psicofisica, pregiudizi patrimoniali) ne siano derivate. L’obbligo risarcitorio sorge dunque allorché siano positivamente accertati tre fatti giuridici (condotta, lesione e danno), legati da due nessi causali (causalità materiale tra la condotta e la lesione, causalità giuridica tra quest’ultima ed il danno). La circostanza che un paziente, prima dell’intervento rivelatosi infausto, fosse portatore di patologie pregresse non può mai comportare – ha stabilito Cass. n. 15991/2011 – il «frazionamento» del nesso di causalità tra condotta e danno. Tale nesso o c’è o manca, senza che sia possibile alcuna graduazione percentuale. Pertanto, quand’anche il medico abbia con la propria azione od omissione fornito un contributo causale solo dell’1% alla produzione del danno, il quale è dovuto per il resto al concorso di cause naturali, egli dovrà comunque risponderne per intero. Le pregresse condizioni di salute del paziente, e più in generale il concorso di concause naturali alla produzione del danno, vengono invece in rilievo nel momento della liquidazione del danno: più esattamente, nella selezione, tra tutte le conseguenze provocate dall’errore medico, delle sole che siano giuridicamente risarcibili, quali conseguenze immediate e dirette dell’illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c. Sotto questo profilo, la sentenza n. 15991/2011 si spinge a suggerire una autentica tassonomia dei casi più frequentemente ricorrenti: a) se il paziente era già malato od invalido, e l’atto medico aggrava le sue condizioni di salute, il danno va liquidato considerando quale sarebbe stata la condizione del paziente se non ci fosse stato l’errore medico; b) se il paziente era già «affetto da patologie prive di effetti invalidanti», e l’atto medico gli causa un danno alla salute, il danno va liquidato senza tenere conto dello stato pregresso del paziente; c) se il paziente era affetto da una patologia non letale, e l’errore del medico ne causa la morte, lo stato di salute pregresso: c1) è irrilevante ai fini della liquidazione del danno patito iure proprio dai familiari della vittima; c2) può giustificare la riduzione del risarcimento dell’eventuale danno alla salute patito dalla vittima primaria e trasmesso iure successionis agli eredi; d) se il paziente era già affetto da una malattia letale, ma l’errore del medico ne accelera la morte, le sue pregresse condizioni di salute possono giustificare una riduzione del risarcimento spettante iure proprio ai familiari, in proporzione dello scarto temporale tra la durata della vita effettivamente vissuta e quella che la vittima, in assenza dell’errore medico, avrebbe verosimilmente potuto sperare.
1.2 La direttiva sulle cure transfrontaliere
La seconda principale novità del 2011 in tema di responsabilità sanitaria è di natura normativa, ed è rappresentata dall’approvazione della direttiva UE del Parlamento e del Consiglio del 9.3.2011, n. 24, concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera. In questa direttiva il legislatore comunitario, volendo conseguire l’obiettivo di favorire la circolazione dei cittadini dall’uno all’altro dei Paesi dell’Unione per finalità di cura, ha rilevato (cfr. il XXIII ed il XXIV Considerando) che la mancanza di fiducia dei cittadini di uno Stato nei meccanismi di risarcimento del danno da attività sanitaria previsti da un altro Stato membro costituisce un ostacolo al ricorso all’assistenza sanitaria transfrontaliera. Per ovviare a tale inconveniente, il già ricordato Considerando XXIV della direttiva prevede che ciascuno Stato membro dovrebbe «garantire che sussistano meccanismi di tutela dei pazienti e di risarcimento dei danni per l’assistenza sanitaria prestata sul loro territorio e che tali meccanismi siano appropriati alla natura o alla portata del rischio. La determinazione della natura e delle modalità di tali meccanismi dovrebbe tuttavia spettare allo Stato membro». La direttiva ha poi previsto l’obbligo per ciascuno Stato membro di informare in modo compiuto ed organico i propri cittadini circa la possibilità di ricevere assistenza sanitaria in un altro Stato membro, e di ottenere dallo Stato di appartenenza il rimborso o l’anticipazione dei relativi costi. Stabilisce, in particolare, l’art. 6, co. 3, della direttiva, che ciascuno Stato ha l’obbligo di istituire «punti di contatto», in grado di fornire ai pazienti le informazioni sui diritti dei pazienti, sulle procedure di denuncia e sui meccanismi di tutela, come pure sulle possibilità giuridiche ed amministrative disponibili per risolvere le controversie, anche in caso di danni derivanti dall’assistenza sanitaria transfrontaliera.
Si è visto in precedenza (supra, § 1.1) come la Corte di cassazione abbia affermato nel 2011 che non è concepibile alcuna riduzione della responsabilità dell’autore del fatto illecito nel caso in cui con la sua condotta abbia concorso a produrre l’evento anche un fatto naturale. Con questa decisione la Corte di legittimità è tornata all’antico. Infatti per lunghi anni la Corte di cassazione aveva costantemente affermato che se alla produzione dell’evento di danno concorrono la condotta dell’uomo e cause naturali, il responsabile non può invocare alcuna riduzione della propria responsabilità, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (così, ex plurimis, Cass., sez. II, 28.3.2007, n. 7577; Cass., sez. lav., 9.4.2003, n. 5539). Poi, nel 2009, la Corte di legittimità aveva sorprendentemente mutato avviso proprio nel decidere un caso di colpa medica, con la sentenza pronunciata da Cass., sez. III, 16.1.2009, n. 975. Il caso oggetto di quest’ultima decisione riguardava la vicenda di un paziente, già infartuato, al quale i chirurghi nel corso di un intervento procuravano un’emorragia in conseguenza della lesione accidentale di un vaso sanguigno. Dopo l’emorragia il paziente pativa un secondo infarto che lo conduceva a morte: sicché era sorto il problema di stabilire se la morte fosse stata causata dall’emorragia, ovvero se il secondo infarto fosse sopravvenuto per un fattore autonomo, quale naturale sviluppo dello stato di salute in cui il paziente si trovava al momento del ricovero. La Corte nel decidere questa vicenda, dopo avere ribadito il tradizionale principio secondo cui il nesso di causalità tra la condotta e l’illecito sussiste, ai sensi dell’art. 40 c.p., a condizione che senza la prima il secondo non si sarebbe mai potuto verificare, ha sentito il bisogno di aggiungere, a mo’ di obiter dictum, che in ogni caso il giudice di merito, cui sarebbe stata rinviata la causa, nella liquidazione del danno avrebbe dovuto tenere conto delle gravi condizioni di salute del paziente, preesistenti all’intervento. In particolare, ove avesse accertato che la morte del paziente fu determinata da un concorso di causa (la condotta imperita dei sanitari e le pregresse condizioni di salute), secondo la S.C. il giudice di merito avrebbe dovuto «procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno o all’altra, eventualmente con criterio equitativo». Anche nel caso di incertezza sulle cause dell’illecito dovrebbe infatti trovare applicazione l’art. 1226 c.c., per evitare di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso. Questa conclusione venne corroborata poi da due rilievi: sia l’art. 2055 c.c., in tema di regresso fra condebitori solidali; sia l’art. 1227 c.c., in tema di concorso colposo della vittima nella produzione del danno, prevedono che la misura del regresso e – rispettivamente – la riduzione del risarcimento siano determinate in funzione delle conseguenze derivate dalla condotta del condebitore o della vittima, in tal modo ammettendo che il nesso di causalità possa essere concettualmente frazionato. L’effetto di questa sentenza, di fatto, fu quello di circoscrivere l’area della responsabilità medica. Infatti, quando il paziente avesse invocato la responsabilità del sanitario che l’aveva avuto in cura, ma fosse emerso che comunque alla produzione del danno alla persona del paziente aveva concorso non solo l’opera del medico, ma anche le pregresse condizioni di salute del paziente stesso, si consentiva al giudice di ridurre in via equitativa – ai sensi dell’art. 1226 c.c. – l’ammontare del risarcimento. Oggi la sentenza n. 15991/2011, cit. ha ritenuto non condivisibile l’orientamento più recente, ma va detto che ha anche reso più lineare la ricostruzione del quadro dogmatico in tema di causalità. Essa infatti ha dettato alcuni princìpi chiari e coerenti così riassumibili: a) il nesso di causalità in responsabilità civile deve essere accertato con criteri diversi dal nesso di causalità in ambito penale; b) l’art. 1226 c.c. consente la liquidazione equitativa del danno, non l’accertamento equitativo della responsabilità; c) il concorso del fatto umano col fatto naturale nella produzione dell’evento di danno è irrilevante; d) le pregresse condizioni di salute del paziente possono giustificare un abbattimento del risarcimento del danno. In questo modo la Corte di cassazione, come accennato, è tornata all’antico nel ritenere irrilevante, ai fini dell’accertamento della responsabilità aquiliana, il concorso del fatto dell’uomo con le cause naturali. Se, pertanto, il danno alla salute od alla vita di un paziente dovesse risultare ascrivibile per l’1% alla condotta di un medico, e per il 99% a cause naturali, il medico risponderà del danno per intero. Tra le «cause naturali» che possono contribuire alla produzione dell’evento rientrano anche le condizioni di salute pregresse del paziente: in questo caso, la circostanza che prima del fatto illecito la vittima fosse già malata non esclude né riduce il nesso di causalità tra la condotta illecito ed il danno, ma incide soltanto sulla misura del risarcimento. Così, ove un medico dovesse per errore uccidere un paziente già malato e votato a morte certa, questa circostanza non varrà ad escludere la responsabilità del medico, ma potrà valere a ridurre il risarcimento da questi dovuto.
Come appena visto, secondo l’orientamento più recente della S.C. se un medico dovesse per errore uccidere un paziente già malato e votato a morte certa, questa circostanza non varrà ad escludere la responsabilità del medico, ma potrà valere a ridurre il risarcimento da questi dovuto. Tuttavia, se quest’ultima conclusione appare inappuntabile, maggiori perplessità suscita la soluzione suggerita dalla Corte per l’ipotesi in cui l’errore del medico dovesse determinare non la morte, ma un danno alla salute del paziente. In quest’ultimo caso secondo la Corte, come accennato, bisognerebbe distinguere il caso del paziente malato che si aggrava per colpa del medico, da quello malato che subisce un danno il quale non costituisca aggravamento della patologia preesistente (la Corte parla al riguardo, forse non del tutto esattamente dal punto di vista medico legale, di paziente già «affetto da patologie prive di effetti invalidanti»). Nella prima ipotesi il risarcimento dovrà essere ridotto, nel secondo caso no. Tuttavia questa affermazione si pone in contrasto con i risultati cui era pervenuta la medicina legale nell’ipotesi di lesioni policrone, cioè sopravvenute a distanza di tempo le une dalle altre. È noto infatti come, secondo la scienza medico legale, per valutare l’incidenza di lesioni o malattie pregresse sul grado di invalidità permanente causato dal fatto illecito occorre distinguere a seconda che le lesioni preesistenti: a) interessino il medesimo organo oppure organi funzionalmente integrati (lesioni concorrenti: ad esempio, frattura di gamba in soggetto con osteoporosi agli arti inferiori), ovvero b) colpiscano organi diversi e non funzionalmente integrati (lesioni coesistenti: ad esempio, frattura mandibolare in soggetto affetto da zoppia). Nel primo caso, al grado di invalidità permanente risultante dall’impiego degli ordinari criteri valutativi va applicato un coefficiente di maggiorazione, in quanto il concorso di lesioni policrone amplifica il danno disfunzionale causato dall’atto illecito. Nel secondo caso, invece, al grado di invalidità permanente, per così dire, «ordinario», va applicato un coefficiente di riduzione, in quanto il danno ha colpito un individuo non perfettamente sano, la cui malattia preesistente non è stata però aggravata dall’evento dannoso. Autorevole dottrina1 ha espresso questo coefficiente con la formula D = (100 ‒ E) /100 dove D rappresenta il quantum del danno biologico, ed E il valore percentuale dello stato di salute preesistente. Di conseguenza, quando la minorazione conseguente al fatto illecito e quella preesistente sono in coesistenza, quando cioè le due minorazioni interessano organi o sistemi diversi senza interferenze reciproche, si verifica semplicemente un pregiudizio ad un individuo che ha già ridotta la sua validità. In questa ipotesi il suddetto coefficiente dovrebbe ridurre il grado di invalidità permanente, previa applicazione della formula I = D ‒ D (100 ‒ E)/100 dove I rappresenta il grado di invalidità da risarcire. Nel caso invece di lesioni policrone concorrenti va applicato il suddetto coefficiente in maggiorazione, e quindi la formula I = D + D (100 ‒ E)/100 Altri criteri, pure largamente diffusi, per tenere conto delle lesioni policrone, sono rappresentati dalla formula di Balthazard e dalla formula di Gabrielli. La «formula di Balthazard» (o metodo scalare) viene solitamente adottata per tenere conto delle lesioni policrone coesistenti (cioè non interferenti le une con le altre). Essa si fonda sul principio secondo cui la validità di una persona già menomata non può essere pari a «100», e quindi i postumi della nuova lesione devono essere rapportati alla validità residua. Così, ad esempio, se una persona che ha già avuto un danno biologico del 20% (e quindi ha una validità residua dell’80%) patisce un secondo danno che normalmente ridurrebbe del 30% la complessiva validità, il grado effettivo di invalidità permanente va determinato secondo la proporzione D2 : 100 = x : CR Dove D2 è il grado di i.p. che normalmente residua alla seconda lesione; x è il grado di invalidità permanente che vogliamo determinare, CR è la validità antesinistro. Nell’esempio che precede il grado di i.p. (x) sarà dunque determinabile in base alla proporzione 30 : 100 = x : 80 e quindi x = (30 × 80) : 100 ovvero 24%. Il danno effettivo secondo la formula di Balthazard è dunque pari al 24%, mentre la medesima lesione se avesse colpito un individuo sano sarebbe stata valutata nella misura del 30%. La «formula di Gabrielli», invece, è per lo più adottata al fine di tenere conto di lesioni policrone concorrenti, ed è rappresentata dall’equazione: D = (Cp ‒ Cr)/Cp dove D è il grado di invalidità da determinare, Cp è la capacità preesistente al sinistro, Cr è la capacità residuata al sinistro. Così, nell’esempio fatto poco innanzi (una persona invalida al 20% che patisce una lesione quantificabile in astratto nella misura del 30%), il danno effettivo sarà pari a (80 ‒ 50)/80 e quindi al 38%. Da quanto esposto appare dunque palese come non sia affatto condivisibile l’affermazione della S.C., sopra trascritta, secondo cui se il paziente era già «affetto da patologie prive di effetti invalidanti », e l’atto medico gli causa un danno alla salute, il danno va liquidato senza tenere conto dello stato pregresso del paziente. Secondo la medicina legale, infatti, lo stato di salute pregresso della vittima deve sempre essere tenuto in considerazione nella determinazione del grado di invalidità permanente, quand’anche si tratti di lesioni policrone coesistenti.
1 È il criterio suggerito da Chini, Semeiotica medico-legale, Roma, 1988, 368-371.